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Autore: Holly Rosebane    09/08/2015    1 recensioni
«Okay. Non lo fare».
«Dire a mia madre che le volevo bene?» Domandò, divertito.
«No, stupido. Saltare giù».
«Perché dovrei darti retta? Dammi un solo motivo valido», rispose, gelido. Mi stupii con quale rapidità il suo tono di voce era mutato, passando dall’affabile e anche ingenuo al freddo e tagliente. Mi passai una mano fra i capelli, cercando di radunare le idee.
«Perché… perché voglio conoscerti» buttai lì, senza avere realmente coscienza di ciò che stessi dicendo, aggrappandomi alla prima stupida trovata che mi passasse per la mente.
«Vuoi conoscermi?» Ripeté, quasi divertito.
«Sì. Voglio… voglio farti delle domande. E tu dovrai rispondermi. Se saltassi, non potresti rispondermi» spiegai, cercando di dar forza alla mia intonazione vocale, per sembrare convincente. Passarono alcuni istanti di silenzio, in cui temetti che lui non avesse colto il mio tentativo.
«Come in una specie di gioco» commentò. «Chiamiamolo “Asking Alexandria”», scherzò.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 I.

Question?





“Non sono mai stato così a pezzi in tutta la mia vita,

avrei dovuto aspettarmelo…
Non mi sono mai sentito così senza speranza come in questa notte,
non voglio più andare avanti”.

(Asking AlexandriaMoving On)
 
 
 
 
 
 
 
Odiavo rispondere al telefono. Il solo gesto di dover allungare la mano e sollevare la cornetta, mi provocava un moto d’irritazione. Non sapevo il perché di questo mio astio nei confronti di quel semplice apparecchio telematico. Forse perché non mi piaceva il suono che la mia voce aveva, arrivando all’altro capo del filo. Forse perché, chiunque mi chiamasse, mi poneva delle domande, cercando di mettersi in contatto con me. Mi strappava dalla mia dimensione di beata solitudine per proiettarmi in un’altra nella quale le informazioni della mia quotidianità privata venivano condivise con qualcuno di esterno. E io non volevo spartirle con nessuno. Non mi piaceva, dover rispondere alle solite domande di routine che chiunque poneva appositamente per dare inizio ad una conversazione. “Come stai?”, “Come procede la tua vita?”. Ai “come”, poi, si succedevano sempre i “quando”. Non bastava dire semplicemente “bene”, per definire una posizione nello spazio. Esigevano anche quella nel tempo.
Visto, a quanti problemi portava il dover rispondere al telefono? Ecco perché, ogni volta che l’apparecchio di casa squillava, io lo lasciavo urlare a squarciagola, finché non sopraggiungeva il tanto agognato silenzio. Rispondevo solamente alle chiamate che mi arrivavano sul cellulare. Ed esse erano rare e mi permettevano di sapere all’istante chi fosse, facendo in modo di garantirmi una vaga idea di cosa volesse.
Non seppi perché, quel pomeriggio, il mio telefonino cominciò a vibrare. Preludio della canzone degli Scorpions che mi avrebbe avvertito che qualcuno desiderava parlarmi. Lo presi, tendendomi svogliatamente sul tavolo da pranzo, interrompendo la mia sessione di studio delle quattro. Sollevai lo sguardo dai miei appunti di letteratura inglese, di malavoglia, per posarlo sul display dello smartphone.
Numero Sconosciuto. La prassi sarebbe stata ignorare la chiamata. Ed era proprio ciò che avevo in mente di fare, se solo uno strano impulso non avesse spinto il mio pollice a scorrere rapidamente dal tasto verde a quello rosso.
Me ne pentii all’istante. Mi portai il dispositivo all’orecchio, sorpresa di me stessa e pronta a liquidare il malcapitato dall’altro capo del microfono in due parole secche. Pregustavo già gli attimi di beatitudine che la modalità aereo mi avrebbe concesso, dopo che avessi concluso quella conversazione inutile già in partenza.
«Sì?» Dissi, con un tono di voce volutamente svogliato e poco amichevole. Non ottenni alcuna risposta, solo un silenzio ostinato e vuoto. Sospirai.
«C’è qualcuno?» Domandai, più a me stessa che ad un immaginario interlocutore. Ero quasi pronta a riattaccare.
«Tu non sei mia madre», rispose una voce, nell’apparecchio. Era maschile. Giovane, bassa e vibrante. Con un accenno di contrariato stupore. E l’accento tipicamente australiano. Chissà da dove chiamava.
«Dall’ultima volta che ho controllato, non mi risulta di aver partorito nessun figlio. Quindi no, non credo di essere tua madre» commentai, sollevando un sopracciglio. Udii un verso sarcastico, che si sforzava in tutti i modi di sembrare una risata.
«Ma questo è il numero di mia madre», insisté la voce.
«Potresti ripetermelo? Magari c’è stato uno sbaglio», gli suggerii, con non seppi quale pazienza. In altri tempi, avrei attaccato dopo la prima risposta sarcastica e tanti saluti. La voce mi dettò le cifre con sicurezza. Erano identiche a quelle della mia sim. Con una sola differenza.
«L’ultimo, è un tre. Tu mi hai appena detto quattro».
«E allora?»
«Allora devi aver premuto un tasto, scambiandolo per un altro. Chiamando me» spiegai, ancora più costernata. Ottenni un mugugno come replica.
«Magari c’è una spiegazione valida, per tutto questo», commentò la voce. Sbuffai.
«Ne dubito. Il caso agisce secondo leggi proprie, che non hanno nulla a che fare con le vite degli uomini. Ciò che ti ha portato a premere tre al posto di quattro è stato il frutto di un errore di distrazione. Semplice. E ora, se non ti spiace, vorrei tornare ai miei appunti» dissi, liquidandolo.
«Cosa stai studiando?» Chiese invece lui, ignorando apparentemente il mio tentativo di concludere quella conversazione.
«Letteratura inglese. Ma non vedo come…»
«Da università o superiori?»
Attesi qualche istante, prima di rispondergli. Il quantitativo di domande mi stava già innervosendo oltremodo, eppure lo strano impulso che sembrava avermi guidato nel rispondergli, mi suggeriva di continuare quel breve scambio d’informazioni. Come una specie di sesto senso. Sentivo un inspiegabile urgenza di non abbandonare quella voce al suo destino, tagliando l’esile ed invisibile filo della comunicazione che ci aveva momentaneamente legati.
«Università».
«Quanti anni hai?»
«Mi trovo forse nel bel mezzo di un interrogatorio? Non ricordo di aver spacciato droghe, guidato in stato di ebbrezza, ucciso qualcuno o rubato qualcosa», commentai. Ottenni una risata, vera, genuina. Non il verso strozzato di poco prima. Era quasi piacevole da ascoltare.
«Voglio soltanto conoscerti. Ripeto, forse c’è un motivo che ha spinto il mio pollice a premere quel tre» insisté.
«Perché sei così fissato con il destino?» Chiesi, sinceramente interessata.
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda».
Astuto. Niente da obiettare.
«Venti», confessai, svogliata. Perché non avevo attaccato quattro domande fa?
«Hai un anno più di me», constatò la voce. Facendo un rapido calcolo, mi risultò che stavo parlando con un diciannovenne. Bene.
«Buono a sapersi».
«Come ti chiami?»
«Alexandria» concessi, a malincuore. Ormai avevo gettato tutta la mia privacy alle ortiche.
 «Troppo lungo. Ti chiamerò Lexi» decise la voce, con convinzione.
«Se così preferisci…»
«Perché non mi rivolgi nemmeno una domanda?» Riprese.
Ah, certo. Mi aveva rivoltato la questione contro. Mi sfilai gli occhiali da lettura con una mano, abbandonandoli sul tavolo. Poi mi massaggiai la radice del naso con pollice e indice, dove i segni dei naselli solcavano le mie carni arrossate.
«Credo nella logica del “non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”. Detesto quando qualcuno mi fa delle domande, costringendomi a parlare della mia vita. Ed ecco perché io, a mia volta, non faccio richieste».
«Ma non sei curiosa di sapere con chi stai parlando?» Insisté, seriamente impressionato. Mi strinsi nelle spalle, anche se non poteva vedermi.
«Sei un ragazzo, di diciannove anni e probabilmente vieni dall’Australia».
«Potrei essere un maniaco serial killer».
«Lo sei?» Chiesi allora, cogliendo la palla al balzo. Attimi di silenzio. Forse avrei dovuto cominciare a preoccuparmi.
«No».
«E cosa sei?»
«Una persona».
«Fin lì ci arrivavo anche io, grazie tante» commentai, con ironia pungente. Riecco il verso sarcastico di prima. Se proprio doveva dimostrarmi che si stesse divertendo, avrei preferito una risata vera.
«Vuoi sapere dove sono, adesso?» Riprese. Non sapevo se la sua risposta mi sarebbe interessata davvero, ma ormai ero in ballo. Lanciai una veloce occhiata al mio quaderno con gli appunti scritti di corsa durante la lezione di due giorni fa. E li salutai mentalmente con la manina, conscia che, per quel pomeriggio, la mia sessione di studio sarebbe andata persa.
«Dove sei?» Chiesi a mia volta, rassegnandomi.
«Sono seduto sul davanzale della mia finestra, con i piedi verso il vuoto. Sotto di me, c’è un viavai continuo di macchine. E di individui che camminano avanti e indietro sul marciapiede».
Quella risposta non mi piacque affatto. La mia attenzione subì un’impennata, risvegliandomi dal molle torpore in cui mi ero abbandonata mentre rispondevo alle domande di quella voce un po’ pedante che io non conoscevo.
«Perché sei lì?»
«Avevo tutta l’intenzione di saltare giù. Sai… schiantarmi contro l’asfalto o sul cofano di un’auto», ammise, con tranquillità.
«Sii serio», lo ammonii.
«Lo sono», affermò. «Ecco perché avrei dovuto chiamare mia madre. Per dirle che le volevo bene», concluse. Scattai in piedi. Magari scherzava. Magari era tutta una presa in giro, un banalissimo prank telefonico. Oppure, quel ragazzo stava veramente tentando il suicidio e in quel momento parlava con me al cellulare.
«Okay. Non lo fare».
«Dire a mia madre che le volevo bene?» Domandò, divertito.
«No, stupido. Saltare giù».
«Perché dovrei darti retta? Dammi un solo motivo valido», rispose, gelido. Mi stupii con quale rapidità il suo tono di voce era mutato, passando dall’affabile e anche ingenuo al freddo e tagliente. Mi passai una mano fra i capelli, cercando di radunare le idee.
«Perché… perché voglio conoscerti» buttai lì, senza avere realmente coscienza di ciò che stessi dicendo, aggrappandomi alla prima stupida trovata che mi passasse per la mente.
«Vuoi conoscermi?» Ripeté, quasi divertito.
«Sì. Voglio… voglio farti delle domande. E tu dovrai rispondermi. Se saltassi, non potresti rispondermi» spiegai, cercando di dar forza alla mia intonazione vocale, per sembrare convincente. Passarono alcuni istanti di silenzio, in cui temetti che lui non avesse colto il mio tentativo.
«Come in una specie di gioco» commentò. «Chiamiamolo “Asking Alexandria”», scherzò. Incredibile come, apparentemente, non riuscisse a mantenere un atteggiamento serio per più di due minuti.
 «Dagli tutti i nomi che ti pare, ma accetterai?»
«E sia», affermò. «Risponderò alle tue domande. Giochiamo».
Sospirai, impercettibilmente. Cominciai a camminare nervosamente per il salotto, mordendomi un’unghia.
«Come ti chiami?»
«Luke Hemmings».
«Il cognome potevi anche tenertelo».
«Cosa mi avrebbe distinto dall’essere uno dei milioni di Luke che abitano il pianeta, sennò?» Disse, con una punta d’amarezza nella voce.
«Il fatto che tu ora stia parlando con me».
«Bel tentativo, Lexi» concesse, e chissà perché, immaginai che stesse sorridendo.
«Come passi le tue giornate?» Ripresi, cercando di appigliarmi a tutti quei convenevoli da conversazione telefonica che io odiavo così tanto. Che ironia.
«A casa. Disteso sul letto. Occasionalmente, passo sul divano».
«Non esci mai?»
«Sono agorafobico».
«E la scuola?»
«Ho studiato in casa fino ai sedici anni».
«Cosa ne è stato dei restanti tre?» Proseguii. Dovetti ammettere che cominciavo ad interessarmi sinceramente alla vita di quel Luke. Che persona particolare.
«Sono rimasto nel mio appartamento, a leggere romanzi e ordinare cibo da asporto e pizza a domicilio».
«Per tre anni?» Chiesi ancora, incredula.
«Sì. Che c’è di male?»
«Non hai amici?»
Attese qualche istante, prima di rispondermi. Lo sentii sospirare, piano.
«No».
«Non ci credo».
«Se ne avessi avuti, non pensi che qualcuno avrebbe cercato d’impedirmi di buttarmi dalla finestra?» Reagì, tagliente. Mi sentii colpita nel profondo, da quella domanda. Nessun amico. Nessuno che avrebbe provato a fermarlo prima di suicidarsi. Forse si trattava di una persona sola, che non aveva alcun rapporto col mondo esterno. Fermarsi a chiacchierare con me in un frangente simile, non poteva essere altro che una disperata richiesta di aiuto. Anche se molto bizzarra e inverosimile. Forse mi stavo lasciando impressionare. Tuttavia, il tono della sua voce sembrava sinceramente ostile, sulla difensiva. In genere, si raggiungeva una sfumatura vocale simile solo quando si cercava di rispondere a qualcosa in grado di ferire. Se nessuno avesse tentato di distoglierlo, ci avrei provato io.
«Dove abiti?»
«A Brooklyn».
«In che punto?»
«Bell Street, dopo la quarantaduesima».
Appena ebbe finito di pronunciare la frase, già seppi quello che avrei dovuto fare in seguito. Agguantai le chiavi della macchina, passando per l’ingresso. Poco mi curai di indossare gli abiti più consunti ed inutili del mio guardaroba, prevedendo una giornata di reclusione forzata in casa. Era una situazione d’emergenza.




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Nota: hello, again! Ho deciso di invadere il fandom una volta per tutte, yes. Spero che per voi non sia un problema (?)! L'idea per questa storia, mi è balzata in mente un pochino di tempo fa, ascoltando le canzoni degli Asking Alexandria (se non li conoscete e apprezzate il post-hardcore o i gruppi alla Pierce The Veil... dategli un'occhiata). E quindi, è precisamente grazie a loro che la vicenda è potuta nascere. Pertanto, ho deciso di impostare tutto sul nome della protagonista e sul suo ruolo. Anche l'idea di un Luke intenzionalmente suicida mi piaceva molto, non ho tanta dimestichezza con questo genere di tematiche ed è sempre stato un mio desiderio approfondirle.
Okay, mi sto dilungando. Questa sarà una two-shots, avrà quindi solo due capitoli. Una cosa breve, per tenersi in allenamento e farmi conoscere un po'! Essendo relativamente nuova di questo fandom, mi farebbe veramente piacere conoscere le vostre opinioni sulla storia! Anche per rendermi conto di come voi recepite i miei scritti, hahahah! Quindi, non siate timidi! See ya al prossimo aggiornamento e... stay tuned!

P.S.: vi lascio il bannerino della mia ultima long sui 5sos e il mio contatto Wattpad! Non siate timidi neanche in queste circostanze, è sempre un piacere scambiare opinioni con voi! 



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