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Autore: Leonhard    12/08/2015    3 recensioni
"Il Lifestream circola all'interno del Pianeta: vedilo come un corso d'acqua all'interno di un percorso circolare".
"Allora, se io ad un certo punto getto un ramo all'interno del Lifestream, dopo qualche tempo lo vedrò passare nuovamente dal punto in cui l'ho buttato?". Cloud si prese il suo tempo per rispondere.
"Spero di no..." rispose, ma la faccia era seria, preoccupata. Aveva probabilmente colto nel segno.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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  1. Servizio Consegne Strife

Tifa fu svegliata dallo squillo del cellulare. Con un grugnito scocciato si girò dall’altra parte, ma servì a poco: quella suoneria, con il suo incessante, fastidioso suono digitale continuava a penetrarle nel cervello. Scostò bruscamente le coperte e si alzò, senza dare troppo peso al fatto di essere in intimo.

Aveva preso l’abitudine a dormire in reggiseno e mutande e le piaceva. Le piaceva il senso di fresca libertà che le dava dormire con poco più di due tracci a coprirle quelle parti del corpo che un tempo aveva ritenuto troppo femminili per una donna che in certe situazioni faceva parlare i pugni. Non era più riuscita a non vedersi come una donna, una bella donna formosa per di più, quindi si era chiesta se non fosse un delitto coprirsi anche quando si trattava di dormire.

Aveva riconosciuto immediatamente la suoneria del telefono di Cloud. Aveva smesso di ignorare l’apparecchio ma anche lui aveva preso un’abitudine, ed era quella di lasciarlo in giro. Perché diavolo doveva tenersi un telefono se fino all’anno scorso non rispondeva e adesso lo lasciava in giro?

“Pronto, Servizio Consegne Strife” disse, cercando di dare alla sua voce un tono meno ringhioso di quello che aveva quando, pochi secondi prima, aveva mandato a quel paese un assente Cloud. Poteva almeno cambiare quella dannata suoneria, così anonima e comune e DANNATAMENTE fastidiosa. Ecco, si era svegliata di malumore: mondo stai attento, che oggi marca male.

“Buongiorno” salutò la voce dall’altra parte; era pacata, tranquilla, professionale. “Avrei bisogno di parlare con il signor Strife”. La ragazza si grattò la natica destra e sbadigliò, in tutta la sua straripante femminilità, prima di rispondere.

“Non è disponibile in questo momento” disse.

“Ho chiamato un cellulare” fece notare l’individuo dall’altra parte. “E si tratta di una cosa urgente”.

“Mi dispiace” disse lei. “Non appena sarà reperibile, posso farla richiamare…”.

“Se mi apre il bar, posso ordinare la colazione durante l’attesa”.

Il potenziale cliente insoddisfatto, pochi minuti dopo, sedeva tranquillamente al bancone del Seventh Heaven, con una tazza di caffè forte tra le mani. Tifa si era vestita a tempo di record ed aveva aperto il bar: in quel momento, erano solo loro due nella sala e l’aria era satura dell’odore gradevole della bevanda.

“Capita spesso che il signor Strife esca senza portarsi dietro il telefono?” chiese improvvisamente la figura. Era un uomo basso e grassoccio, sulla quarantina, con corti capelli neri ed occhi marroncini. Vestiva con un camice bianco ed un paio di pantaloni color kaki. Tifa sfoderò il suo proverbiale sorriso di circostanza.

“Non lo fa quasi mai, effettivamente” disse, sincera. “Ma ogni tanto succede; una piccola svista capita a tutti”.

“Sicuramente” assentì lui. “Lei è la signora Strife…?”.

“Più o meno…” rispose lei, evasiva. I loro rapporti erano sicuramente migliorati poco dopo la scomparsa del geostigma; per qualche giorno, aveva sospettato che la sua affettuosità malcelata fosse dovuto a qualche effetto collaterale dell’acqua santa di Aerith, a qualche postumo del male che aveva resistito alla cura o addirittura a qualche botta che aveva subito contro Sephiroth, Kadaj o addirittura risalente al suo rocambolesco inseguimento sull’autostrada. Non si era lasciata andare subito: un po’ per vanità femminile ed un po’ come una specie di castigo per averla fatta penare per anni, si era presa un po’ di rivincite finché una notte un Cloud più audacie del solito l’aveva abbracciata e da un abbraccio normale ad un abbraccio da nudi il passo non era stato poi così ampio come avrebbe voluto.

Tra di loro non servivano molte parole: c’era complicità, il sesso non era male da entrambe le parti e c’era affetto, anche se mai una volta si erano detti un ‘ti amo’. Il cliente aggrottò un sopracciglio, ma non indagò oltre.

“Ho letto molto sul signor Strife” disse lui. “L’ho anche visto in azione; non avrei voluto essere quel Bahamuth quando è piombato a terra, ma mi sono accontentato di non essere stato uno che si trovava lì sotto”. Ridacchiò. Il dialogo stava prendendo pieghe talmente banali da essere quasi ridicole: ci mancava solamente che si mettessero a discutere su quanto fosse fastidioso il piovoso autunno di Midgar.

“Se vuole può anticiparmi qualcosa riguardo la consegna che deve fare” disse Tifa, appoggiandosi al bancone. “Capita sovente che lo aiuto quando il lavoro si accumula”. Lo sconosciuto si fece serio.

“È una cosa delicata, molto. La prego di non offendersi se preferirei parlarne direttamente con l’interessato” disse.

(Beh, sì che mi offendo) pensò Tifa, piccata. Si schiarì la voce e continuò.

“Posso almeno sapere dove dobbiamo fare la consegna?” chiese. Per tutta risposta, l’uomo sorseggiò il caffè.

“È molto buono” disse. “Raramente bevo simili prelibatezze”. Tifa strinse convulsamente i bordi del bancone.

(Cloud, torna presto ti prego) pensò: il comportamento evasivo di quell’uomo non giovava al suo umore già guastato in partenza per via del telefono. Quasi come un miracolo, la porta si aprì con un tintinnio.

Fece il suo ingresso un ragazzo dai corti capelli biondi ed occhi talmente verdi da rasentare la fluorescenza. Indossava quella che ad un’attenta analisi era l’uniforme dei SOLDIER 1°Classe, coperta da una lunga giacca nera a colletto alto. Uno spallaccio di rigido cuoio gli copriva la spalla sinistra e pesanti anfibi producevano ritmici suoni secchi ad ogni passo. Per il primo, brevissimo secondo in cui lo vide, il malumore di Tifa scomparve, come sempre felice di vederlo varcare ancora la sua porta, poi si ricordò che era proprio lui il motivo della sua pessima levataccia ed incrociò le braccia.

“Cloud, c’è qui un cliente” disse a mo’ di buongiorno. Il ragazzo si volse verso di lui e dirottò la sua camminata allo sgabello accanto all’uomo.

“Faresti un caffè anche per me Tifa? Per favore?” chiese. Si sedette e scrutò il cliente per qualche secondo, prima di salutarlo con un distaccato buongiorno.

“Signor Strife…” salutò lui.

“Cosa posso fare per lei?” chiese. L’uomo finì il bicchiere di caffè e si passò un tovagliolo sulla bocca.

“Il mio nome è Brandon” disse. “Dottor Brandon. Lavoro alle dipendenze di Rufus Shinra”. Quel tipo già partiva malissimo. “Il mio capo ha bisogno che lei faccia un lavoro per lui”. Cloud si alzò e diede le spalle all’uomo.

“Posso allora sapere perché non è venuto di persona?” chiese, improvvisamente freddo.

“Il mio capo è un uomo impegnato” fu la scusa di turno, prevedibile come il karma. “Ma riconosce il suo valore: ha affermato che lei è l’unico in grado di farlo; ovviamente sarete pagato”.

“Ovviamente…” borbottò lui. “In cosa consisterebbe questo lavoro?”.

“Il mio capo ha bisogno di una cosa da un posto che voi conoscete bene” disse. “Non è una consegna, ma un prelievo: dovete recuperare dal reattore di Nibelheim una parte del corpo di Jenova, le ovaie per la precisione”.

Nel bar piombò il silenzio. Tifa non infranse una tazzina solo perché nella caduta s’infilò nel cestino dei fondi del caffè, mentre il suo cervello si affollava di domande e paure e ricordi. Cloud fu molto più composto: si volse a guardare quell’uomo, senza mostrare alcun tipo di turbamento. Nel suo cervello solo due nomi lampeggiavano in modo preoccupante.

Rufus Shinra e Jenova.

“Non si sa nemmeno se quella cosa ha le ovaie” borbottò il ragazzo. “Ora, se permette, vorrei che lei mi spiegasse il perché di questo compito: se sarà abbastanza convincente, potrei anche decidere di non uccidere lei prima di Rufus”. L’uomo non fece una piega.

“I dettagli purtroppo non li so” disse. “Io sono solo un portavoce e, come si dice, ambasciator non porta pene. Se lei vuole uccidere qualcuno dopo aver estorto qualche tipo di informazione mi spiace dirle che macchierà la sua spada inutilmente: non so dirle di più”.

“Molto bene” replicò Cloud. “In questo caso, mi accompagnerà da Rufus”.

“In questo momento è impegnato”.

“Troverà cinque minuti”.

“Ne dubito”.

“Sarebbe morto da un anno se io allora avessi dato la stessa risposta” fece notare il soldato. “Sono più che sicuro che mi riceverà, volente o nolente”. Fissò con occhi fermi il suo cliente finché lui non si alzò.

“E sia” borbottò infine. “Ma la avverto che potrebbe fare un viaggio a vuoto”.

“Si fidi che non sarà così” replicò Cloud. Si volse poi verso Tifa.

“Mi assento per un po’” disse, come se la cosa non fosse ovvia. La ragazza annuì e gli porse il telefono.

“Almeno portati dietro questo trabiccolo” disse. “E deciditi una buona volta a cambiare quella maledetta suoneria”. Cloud prese l’apparecchio senza trovare la voglia di ridere.

 
Cloud fu in vista di Junon in un tempo relativamente breve. La prima cosa che vide fu la scogliera, poi la sede di quella che una volta era il più grande cannone della storia. Quel cannone era stato distrutto dalle Weapons e ormai giaceva assieme agli altri rottami nei Bassifondi, o perlomeno i pezzi che si erano salvati dai rottamatori. Guidò la sua moto in città e si fermò davanti ad un ristorante: il dottor Brandon gli aveva fissato un appuntamento con l’ex capo di quella che una volta era la più grande e potente società elettrica del mondo.

“Cloud” salutò la voce gelida dell’uomo nell’istante in cui mise piede nel locale. “Ne è passato di tempo”. Il ragazzo si guardò intorno; gli unici tavoli occupati erano quello di Rufus ed il tavolo accanto, in cui riconobbe quattro Turks che mangiavano. Ignorò l’invito dell’uomo a sedersi.

“Cos’è questa storia di Jenova?” chiese. “Ti servono le sue ovaie? Hai finito le donne?”.

“Non finiscono mai le donne, Cloud” fu la risposta.

“Vuoi parlarmi dei tuoi gusti sessuali, Rufus?”.

“È una cosa seria, Cloud. Non avrei chiesto il tuo aiuto in caso contrario”. Quell’ultima frase costrinse il ragazzo a prestare attenzione.

“Non ho accesso alla stanza di Jenova” disse. “I SOLDIER non esistono più”.

“A quanto ne so, non hai mai avuto problemi con le porte chiuse” fu la risposta.

“Mi stai chiedendo una vera e propria irruzione dentro un reattore mako…perché?” chiese Cloud, sempre più sospettoso. Questa volta, Rufus non rispose subito.

“Diciamo che abbiamo un progetto” fu la risposta. “Ma per attuarlo dobbiamo mettere le mani su un pezzo di Jenova”.

“Le ovaie?” commentò il ragazzo. “Che hanno di particolare le ovaie?”.

“Il più alto tasso cellulare del corpo”. La risposta lo lasciò senza parole. “L’incidente alla sede centrale della Shin-ra non ha coinvolto le squadre di ricerca all’interno dei singoli reattori: anche se a rilento, abbiamo continuato gli studi sull’alieno ed abbiamo fatto importanti scoperte. Tuttavia, per adesso rimangono scarabocchi su plichi di carte: abbiamo bisogno delle cellule di Jenova per fare esperimenti”.

“Che genere di esperimenti?”.

“A tempo debito Cloud: una cosa per volta” rispose lui. “Non hai bisogno di sapere tutto e subito”.

“Non credo che tu abbia voluto necessariamente me solo per sfondare una porta blindata” osservò il soldato. “Piuttosto, hai scelto me perché sono l’unico al mondo ad essere ancora legato a Jenova a livello cellulare”. Rufus non si espresse e ciò gli diede tempo di riflettere.

Pensò a Zack, a Genesis, a tutti quelli legati all’alieno che ormai non c’erano più. Pensò a Sephiroth, riflettendo che, caso strano, tutti coloro che avevano avuto a che fare con le cellule Jenova avevano fatto una brutta fine. Tutti. Quello che cambiava erano i modi ed i tempi.

“Non sono ancora morto” borbottò tra sé e sé. Rufus lo sentì, ma fece finta di nulla.

“Naturalmente sarai pagato per il tuo lavoro” disse l’uomo. “L’unica cosa che ti chiedo è di decidere: il tempo vola e potremmo non essere gli unici a volere un pezzo di Jenova”.

“In che senso?” chiese.

“Abbiamo una talpa nel nostro personale di ricerca” informò Rufus. “E sappiamo di un progetto parallelo. Chi ne faccia parte e cosa vogliano fare non lo sappiamo ancora, ma conosciamo il loro nome: si fanno chiamare i Riuniti”. Cloud pensò che fosse un brutto nome: faceva riaffiorare ricordi non proprio piacevoli. “Qualunque cosa vogliano fare, ho deciso di tarpar loro le ali: tu dovrai penetrare nella sala di Jenova, prelevare le ovaie e distruggere il resto del corpo”.

Cloud sospirò, chiedendosi quale fosse la cosa giusta da fare. Non c’era una cosa effettivamente giusta, tutta stava nel suo giudizio: a chi avrebbe dovuto
dare fiducia?

“Vedrò cosa posso fare” borbottò. Senza aspettare una parola in più si volse ed uscì dal ristorante. montò sulla moto e, preso il cellulare, fece una telefonata.

“Tifa?” chiamò quando la telefonata venne presa.

“No, qui Denzel” rispose una voce ingombrata di latte e biscotti dall’altra parte. “Tifa è al bar”.

“Dille che tornerò stasera per cena” disse Cloud. “Ho una consegna da fare”.

“Ok. Buona fortuna” rispose il ragazzo. Chiuse la telefonata e partì sgommando verso il porto.
   
 
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