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Autore: DonnaEliza    12/08/2015    2 recensioni
"La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo."
"Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare."
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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Quando ho incontrato La Santa erano quasi gli anni Sessanta. Dopo il disorientamento iniziale, avevo imparato a gestire la mia condizione convertendola in un’esistenza moderatamente soddisfacente, come  un naufrago abbastanza sveglio su un’isoletta prodiga di risorse naturali. Vivevo in piccoli centri poco distanti l’uno dall’altro, frequentandone due o tre per volta: in un paese lavoravo, dimoravo in un altro, mi recavo in un terzo per gli acquisti. Avevo imparato quali lavori potevo svolgere senza attirare troppa attenzione, e quanto a lungo mantenerli. Avevo  capito come porre rimedio al fastidio della luce intensa (bastava, in effetti, un paio di occhiali da sole; gli anni Trenta furono provvidenziali, per me) e in quali giornate potevo uscire prima di buio senza sentirmi così insopportabilmente frastornato. Sapevo dov’era meglio affittare una stanza per alloggiare e mi spostavo da un posto all’altro secondo un raffinato percorso che bilanciava perfettamente la distanza di spazio e di tempo tra un soggiorno e l’altro. Riuscivo ad avere dei negozi preferiti senza essere mai il cliente abituale di nessuno. Cosa non mi riusciva affatto, invece, era riconoscere un altro come me.
Dovevano essercene per forza: io non potevo essere un caso isolato, era un’ipotesi matematicamente impossibile. In decenni di letture, però, non mi ero mai imbattuto nemmeno in un racconto di fantasia il cui “mostro” rispecchiasse le mie caratteristiche, il che provava che l’esistenza di esemplari del mio genere non solo era ignota alla scienza, ma non aveva neanche mai toccato la fantasia dell’uomo come idea astratta. Pure, non mi rassegnavo all’idea di essere l’unico: nelle mie notti mondane non posavo lo sguardo su nessuno senza passarlo al setaccio in cerca di segnali: il respiro era naturale o artefatto?  Quando aveva battuto le palpebre l’ultima volta? Il drink in quel bicchiere, da quanto non veniva sorseggiato? Spesso mi sceglievo un “sospettato” e lo tenevo d’occhio per tutta la sera; in qualche occasione ho anche seguito il malcapitato di turno al locale successivo, per non interrompere la sorveglianza.
Non approdavo mai a niente: inevitabilmente, tutti prima o poi mangiavano, o bevevano qualche bicchiere, oppure sbadigliavano. E comunque, ne avessi anche trovato uno promettente, non avrei saputo come attaccare bottone. Mi ero dipinto la scena in mente decine, centinaia di volte, e non mi veniva in mente alcuna battuta che non sembrasse cavata da un romanzetto scadente:

“Tu non mi conosci, ma io so che cosa sei: sei un morto vivente, come me.”
“Ti ho osservato tutta la sera. Non hai bisogno di fingere, con me, ho riconosciuto subito che sei anche tu un vampiro.”
“So che sei un non morto. Non preoccuparti, il tuo segreto è al sicuro: sono un vampiro anch’io.”


Ve lo figurate? Pietoso. Fortunatamente, non ebbi bisogno di una battuta di apertura, quando incontrai La Santa. Mi piombò letteralmente addosso, una confusione di braccia, capelli e singhiozzi asciutti, tirandosi addosso una pioggia di terriccio, come riso lanciato ad un matrimonio.
Veniva giù dal versante di una collina, lungo il cui sentiero stavo passeggiando un venerdì sera. Era primavera inoltrata e faceva buio verso le sette; la mole della collina schermava prematuramente la luce di taglio del tramonto, così potevo permettermi di fare a meno degli occhiali da sole. Passeggiare è sempre stato un passatempo che amo praticare, probabilmente come retaggio della mia epoca: si passeggiava da soli per godere del panorama, prima che il cinema ci viziasse con scenari sempre più vari e spettacolari e si passeggiava in compagnia perché era la cosa più decente ed economica da fare. Io camminavo e mi guardavo intorno pigramente, senza pensieri particolari in mente: si perde l’urgenza di fare piani, quando si ha tutto il tempo del mondo. Le chiacchiere di esseri immortali su come i decenni passino in un soffio, che cinema e letteratura sembrano sentire l’obbligo di propinarci, sono chiaramente opera di chi non ha idea di cosa sia l’eternità. Il tempo scorre per noi esattamente alla velocità solita, anzi ci pare più lento: un nastro di Mobius dilatato dall’assenza degli stimoli corporali e dalla perdita di significato del giorno rispetto alla notte. Non aneliamo la nascita di un figlio, non ci preoccupiamo di portare il pane in tavola, non abbiamo da soddisfare che capricci passeggeri. Non siamo più in ritardo su alcuna scadenza. Una noia immortale.
E’ probabile che, quel pomeriggio, io mi stessi concentrando sul nuovo paio di scarpe che calzavo: dal momento che non avvertivo più dolore era necessario che prestassi grande attenzione a come sentivo il piede al loro interno, per evitare di camminarci sedici ore filate e poi scoprire, una volta sfilatemele, che mi avevano causato abrasioni quasi impossibili da guarire. Pertanto, quando La Santa mi cadde addosso ero alquanto sovrappensiero: anche se era stata preceduta da un gran chiasso di fronde smosse e rametti spezzati io ero troppo preso dal delicato compito di collaudare la vestibilità delle mie calzature. La sentii solo all’ultimo momento, un frastuono secco che si precipitava verso il mio orecchio destro forzando l’ovattata calma dei miei pensieri, come una pallottola che buchi una bolla di sapone molto spessa. Mi girai su me stesso, appena in tempo per vedere la sua sagoma spettinata, bianca, verde e sporca, appena in tempo per allargare le braccia e frenare la sua caduta, parandola come un portiere di calcio. Sputavo terriccio e scuotevo la testa per togliermelo dagli occhi, con le braccia occupate da quel corpo convulso che sembrava indeciso tra cadere in terra e continuare a correre; sembravamo la peggior coppia di ballerini del mondo mentre cercavo di bloccarle i gomiti contro il corpo e convincerla ad alzare la testa. Aveva uno di quei vestiti con la gonna a ruota e la finta abbottonatura sul davanti, in grosgrain bianco con un motivo di foglie verde menta; questo, oltre ai resti sconvolti della sua acconciatura a crocchia, era tutto ciò che riuscivo a vedere di lei. Alla fine mi risolsi a prenderla per le spalle e darle una scrollata per costringerla a calmarsi e guardarmi in faccia. A posteriori, vorrei aver speso qualche altro minuto a mormorarle di stare tranquilla.
La sua testa volò all’indietro sulla spinta dello scrollone; il collo si piegò tanto che lessi chiaramente il rilievo della trachea sotto la pelle della gola, e una nauseante sinfonia di scrocchi accompagnò tutto il movimento, finché si raddrizzò a guardarmi. I suoi occhi erano così sbarrati che avrebbero potuto rotolare fuori dalle orbite e guizzavano incessantemente mentre si spostavano sul mio volto, le pupille grandi come monetine. Apriva e chiudeva la bocca in un parossismo di suoni strozzati e schiocchi della mandibola. Dal naso al mento e giù lungo il collo, il suo volto era un impiastro di sangue e fango. Si era chiaramente fregata più volte con le mani sporche di terra che tremavano incontrollabilmente, bloccate tra di noi dalla stretta delle mie braccia sui gomiti di lei. Quando la scostai da me vidi lo stesso orrore sanguinolento anche sul vestito. Così mi dovetti accorgere del freddo fermo della sua pelle; poi del fatto che non prendeva fiato per gridare; poi dell’odore di carne rancida della sua bocca; poi dei brandelli di carne tra i denti.
Sono sempre stato grato di non avere avuto modo di specchiarmi, appena ucciso il mio primo uomo. Vederlo fu di lei fu appena sopportabile: mi guardava, vedeva l’espressione sul mio viso, poi si guardava le mani e me le mostrava, scuotendole. E gridava, gridava con quella voce strozzata e àtona, come una sordomuta, rincretinita fino alla bestialità dallo shock. Le era successa una cosa orribile, il suo aspetto era spaventoso, aveva commesso un’azione atroce e ricordava tutto. Mille diavoli dell’inferno le tiravano i capelli e la spintonavano, le strisciavano nelle orecchie e promettevano il peggio. Io non riuscivo a smettere di guardarla, ipnotizzato da quella bocca da maschera greca, dai convulsi che le squassavano il corpo come se venisse percossa continuamente; le dita erano così rigide che avrei potuto spezzarne una piegandola, come un rametto secco. Aveva perduto le scarpe, e dalle calze strappate le dita dei piedi artigliavano il suolo. Passavo in rassegna un particolare dopo l’altro, incredulo. Un’altra come me. Ma in che condizioni! Da quanto era in quello stato? Quanto avrebbe potuto reggere ancora, prima di spezzarsi? E se fosse diventata ormai irrevocabilmente demente? Aveva le unghie spezzate, era ferita?
Un colpo di vento mi riscosse; una di quelle raffiche vigorose, fredde, che se ne infischiano della stagione. Sollevò pezzetti di corteccia, strappò piccole foglie dagli alberi e si servì della mia sciarpa per schiaffeggiare la spalla di lei. Guardando la pelle che non reagiva con la pelle d’oca, mi riscossi. Ero allo scoperto, a venti minuti a piedi dalla pensione in cui alloggiavo, con una donna imbrattata di sangue che urlava in piena isteria. Contemporaneamente, mi resi conto che me ne ero stato a guardarla senza aprire bocca per tutto il tempo, come  un entomologo che osserva imperturbabile un raro insetto che si agita nella morsa delle sue pinzette. Maledicendomi, cambiai la mia stretta in un abbraccio e la condussi verso il ciglio del sentiero; riuscii a farla sedere sulla china erbosa e mi accosciai di fronte a lei. Aveva le gambe rigide come una bambola, e le braccia erano ancora piegate come le avevo lasciate, ma le grida si smorzarono e lentamente concentrò lo sguardo su di me. Le presi il viso fra le mani.
-Calmati, smetti di gridare, ascoltami. Ce la fai? Sei al sicuro adesso. So che lo dicono tutti, ma è vero, non puoi immaginare quanto è vero. Ci penserò io a te, va bene? Puoi fidarti di me. Mi credi?- attesi che annuisse, prima di continuare. - Se riesci a smettere di gridare e a camminare da sola, ti porterò in un posto tranquillo e potrai riposarti. Passerà, te lo garantisco. Starai bene.- Le strinsi le mani incrostate di sangue e terra, e le massaggiai finché lentamente non si distesero, senza smettere di ripeterle che sarebbe stata bene, fino a che riuscì a chiudere la bocca. Aveva ancora gli occhi fuori dalle orbite, ma il tremito si era attenuato e quando la aiutai ad alzarsi rimase dritta senza aiuto, con le braccia discoste dal corpo, il capo leggermente chino, come una ballerina a molla in attesa della carica.
Considerai la situazione: la sera avanzava sul tramonto e ciò giocava a nostro favore. Inoltre l’ora della cena si avvicinava, ed era improbabile che incontrassimo passanti per la strada, ma passare inosservati sarebbe stato più che difficile. Le feci indossare la mia giacca: le maniche lunghe coprivano le mani sudicie, e una volta abbottonata nascondeva facilmente il vestito. L’acconciatura era irrecuperabile, perciò le sfilai le forcine dai capelli e feci del mio meglio per aggiustarli e spazzolare via il terriccio e i fili d’erba che erano rimasti impigliati tra le ciocche. Dopo aver cercato a lungo un’alternativa, mi rassegnai a leccare il mio fazzoletto e pulirle alla meglio il viso. Lei mi lasciò fare: la crisi che l’aveva attanagliata per chissà quanto aveva ceduto il passo ad un’estenuazione simile alla catatonia. In piedi, con le braccia ancora lievemente divaricate nelle maniche della mia giacca, si fece strofinare la faccia e sistemare i capelli attorno al viso per nasconderlo almeno parzialmente. Le guidai anche una mano sul revère, per tenerlo sollevato e chiuso attorno al viso il più possibile. Non c’era invece nessun modo di rimediare all’assenza di scarpe: potevamo solo sperare di camminare abbastanza di buon passo e non attirare l’attenzione di nessuno. Finalmente la presi sottobraccio e partimmo verso la pensione presso cui alloggiavo. Non demmo nell’occhio lungo la strada, quasi deserta salvo un paio di ritardatari che si affrettavano verso casa per la cena. Contratti nella nostra andatura precipitosa saremmo sembrati della stessa risma, una coppia sposata, magari, con lui che aveva dovuto prestare la giacca alla moglie infreddolita e che ora teneva il broncio perché la cavalleria l’obbligava a patire il freddo. Un’immagine così domestica, così semplice.

Fortunatamente avevo l’abitudine di non lasciare le chiavi della mia stanza al bancone del concierge, quindi non dovetti fermarmi a parlare con lui e se anche ci gettò un’occhiata di disapprovazione non lo notai.
La feci entrare nella stanza e lei restò in piedi mentre accendevo la lampada del piccolo scrittoio e tiravo le tende. Si guardava intorno, nell’anonima solitudine di ogni stanza d’albergo: carta da parati con un motivo di fiori stilizzati che somigliavano a fiocchi di neve, pavimento in vinile color ruggine, un letto che poteva, al suo meglio, definirsi “spoglio”. Ho odiato l’arredamento di quel periodo: mi sento un senzatetto se non sono circondato da abbastanza mobilia e soprammobili, ma vivendo da nomade non ho mai potuto mettere insieme abbastanza ricordi da portare in valigia con me. Mi sto rifacendo adesso, e sono la macchietta di tutti gli altri; mi chiamano “la vecchia zia” ogni volta che parto alla volta di una mercato dell’antiquariato.
Insistevo sempre per avere una stanza con bagno privato: risparmiando sul cibo potevo permettermi questi extra; naturalmente non avevo bisogno di usare il gabinetto, ma da quando l’acqua corrente era diventata una dotazione comune di ogni casa mi ero scoperto un fanatico dei lunghi bagni. Inoltre non potevo certo rischiare che qualche pensionante entrasse mentre mi lavavo la faccia, senza il pietoso fazzoletto a proteggermi il collo, oppure spazzolavo i miei denti incorniciati da gengive bluastre. Il bagno della mia stanza era angusto e la vasca da bagno mi costringeva a tenere le ginocchia piegate, ma mi bastava che fosse mio. Feci scorrere l’acqua e tornai dalla ragazza. Pensai di sfuggita che non sapevo ancora il suo nome, ma era una faccenda che poteva aspettare. La toccai leggermente sulla spalla e lei si girò lentamente a guardarmi.
-Allora… - d’un tratto ero impacciato: c’era una donna nella mia camera e stavo per invitarla a fare un bagno. Come non sembrare equivoco? Per quanto le circostanze fossero tutto fuorché ambigue, il bisogno di rispettare un’etichetta mi ossessionava. –Di là c’è il bagno, ho aperto l’acqua. Fai un bagno, stacci quanto vuoi; possiamo parlare quando uscirai.- Le indicai la porta. Lei seguì con la testa il movimento del mio braccio e s’incamminò lentamente. Lasciò la porta aperta. Mi lasciai andare sulla sedia accanto allo scrittoio, chiedendomi di nuovo se lo shock non l’avesse portata alla demenza, e cos’avrei fatto, in quel caso? Vivere da solo era stato difficile, ma accollarmi una compagna incapace di badare a sé stessa era oltre le mie possibilità. Non riuscivo neanche a formulare un’ipotesi sul da farsi. Mentre mi fasciavo il capo anzitempo, la luce della stanza da bagno si spense e il rumore d’acqua corrente s’interruppe. Nel silenzio che riempì la stanza sentii il ronzio dei raggi di una bicicletta giù in strada. Poi il suono della mia giacca che cadeva a terra. Il guizzo veloce di una zip abbassata. Continuai a fissare il rettangolo buio della stanza da bagno finché non sentii lo sciacquio del corpo che entrava nell’acqua della vasca; in qualche modo, sapere che sapeva almeno farsi un bagno mi sollevò. Mi alzai dalla sedia e andai a recuperare la mia valigia dalla cima del piccolo armadio della stanza: abbandonato sul fondo, c’era un pigiama accuratamente piegato. Aveva almeno vent’anni: un bel giorno mi ero reso conto di essere rimasto forse l’ultimo uomo del paese a possedere ancora una camicia da notte. In realtà non usavo praticamente mai neanche quella, dal momento che non dormivo; mi piaceva, però, indossarla per qualche ora dopo aver fatto un bagno, per il gusto di un indumento comodo. Giunto il momento di acquistarne una nuova, mi ero accorto che i pigiami occhieggiavano ovunque e ne avevo comperato uno. Mi aveva lasciato perplesso: mi dava la sgradevole sensazione di stare indossando un finto vestito, e il fatto che avesse dei pantaloni mi spingeva continuamente a cercare tasche che non c’erano, ma ci stavo facendo la mano. Dato che lo indossavo raramente era in buono stato nonostante l’età, e comunque non avevo altro. Badai ad annunciarmi per tempo mentre mi avvicinavo lentamente all’ingresso del bagno:
-Ti lascio un pigiama qui fuori… Non ho niente di meglio, per il momento. Ti andrà un po’ largo -
Lo appoggiai sul pavimento appena fuori dalla linea d’inizio delle piastrelle del bagno, con la stessa cautela che avrei usato nel posare a terra un pezzo di carne per sfamare una tigre nella sua gabbia. Mi stavo rialzando,  quando:
-…Grazie -
Era una parola con un sacco di silenzio a precederla. Una voce minuscola, fioca eppure ferma. Credevo che fosse così lieve a causa dello shock, invece il tempo mi ha contraddetto: la voce della Santa è sempre stata così, grande la metà di lei. Mi prese in contropiede, ormai stavo dando per scontato che non avrebbe mai parlato. Mormorai un “Prego…” che suonava più sbalordito di quanto volessi, e ritornai alla mia sedia, a ritroso.
Fissai l’ingresso del bagno per tutto il tempo che lei passò dentro. Malgrado cercassi di controllarmi, sentivo nascere dentro di me terrore ed euforia: da quasi cinquant’anni vivevo come unica anomalia in un mondo che, benché in lento e costante cambiamento, tutto sommato conoscevo da sempre. Ora si aggiungeva un nuovo elemento, totalmente sconosciuto: una mia simile. Qualunque cosa io fossi, l’avevo sempre contemplata dall’interno: incarnata in una persona, era come se non la conoscessi affatto. Scalpitavo dall’impazienza, ma mi ripetevo di andarci con i piedi di piombo: la ragazza era in uno stato pietoso e dovevo usare tutta la delicatezza di cui disponevo. Pure, quando un piccolo braccio bianco spuntò nella cornice della porta e trovò a tastoni il pigiama per portarlo all’interno, balzai in piedi involontariamente.
Vorrei poter dire che mi balzò il cuore in gola.
Quando uscì dalla stanza da bagno, qualche minuto dopo, fu con la stessa lentezza con cui vi era entrata. Ma, se l’avevo vista avviarsi come una bambola sonnambula, ora si muoveva come un animale su un territorio sconosciuto: ogni passo veniva articolato con molto studio, il peso del corpo bilanciato con attenzione. Mi aspettavo di vederla ruotare le orecchie per captare meglio i rumori. Si fermò a un paio di metri da me. Ora mi vedeva, per la prima volta da quando c’eravamo scontrati: la vidi misurare la mia altezza; stimare un’età approssimativa; valutare il mio abbigliamento; registrare il colore dei miei occhi. Guardava il mio fazzoletto da collo quando parlò di nuovo:
-Mi chiamo Doris.
-Julian.
Ci stringemmo la mano. Io avevo voglia di sorridere, lei non ne sembrava ancora in grado. Indicai con un gesto la stanza:
-Prego, siediti. Letto o seggiola, per me è uguale.
Andò a sedersi sul letto, ginocchia strette, piedi uniti, mani in grembo. Il pigiama le andava così lungo che l’orlo dei pantaloni le andava ben sotto i talloni, e una volta seduta spuntavano solo le punte degli alluci. La giacca del pigiama si abbottonava davanti, ma anche se era chiusa fino all’ultimo bottone non garantiva certo uno scollo pudico. Lei, però, ne era talmente ignara da annullare ogni aura di seduzione possibile dalla sua persona. Aveva un piccolo neo su una clavicola, lo sterno leggermente in rilievo. Si guardò le mani; sotto le unghie c’era ancora dello sporco. Cominciò a ripulirsele, s’interruppe e mi guardò.
-Ho… Io credo… Di essere. Di avere… - ci metteva moltissimo tempo a scegliere ogni parola, e se ne pentiva appena la pronunciava. Mi resi conto di quanto fosse dilaniante la sua situazione: io non avevo mai dovuto raccontare a nessuno quello che avevo fatto. Nessuno mi aveva mai colto in flagrante, la prima volta come le seguenti. Avevo assorbito lo shock di cos’ero diventato completamente da solo, e avevo avuto tutto il tempo del mondo per riprendermi ed imparare a gestirmi. Ma lei… quello che le era successo non poteva essere capitato da più di un paio di giorni, forse quella mattina stessa. Era in preda al panico e quasi immediatamente incappava in uno sconosciuto che praticamente la portava di peso nella propria stanza. Come fai a raccontare a qualcuno che credi di essere morta e che hai sbranato una persona con le unghie e con i denti? Cercai di tranquillizzarla per portarla a raccontare, senza toglierle le parole di bocca e senza ancora travolgerla con la realtà dei fatti. Trascinai la sedia verso di lei di un paio di passi, ingobbendomi per portare il viso alla sua altezza:
-Ascolta, Doris. Sei sconvolta e io credo di sapere perché, ma credo anche che  raccontare quello che ti è successo potrebbe farti bene. Ti hanno fatto del male, vero?
Le sue spalle si contrassero. Strinse le labbra e annuì. Annuii anch’io, e seguitai:
-E dopo hai fatto qualcosa alla persona che ti ha fatto del male – annuì di nuovo. Stavo per continuare, quando lei si piegò in due, strizzò gli occhi tanto da farli scomparire e latrò:
-L’ho ucciso. Con la bocca. I denti. Come un cane! Ho mangiato la carne! DI UN UOMO!
Saltai giù dalla sedia e la presi di nuovo per le spalle. Lei ammutolì immediatamente e restò a fissarmi, di nuovo con gli occhi sbarrati. Una scena così simile a quella di poco prima… Ero contento che avesse reagito col silenzio, non solo perché urlare certe cose in una stanza d’albergo non è mai una saggia mossa, ma anche perché dimostrava almeno un pizzico di reattività in più rispetto a quando l’avevo incontrata. Volevo aiutarla a sfogarsi, ma avevo anche paura di quei blackout pieni di grida.
-Doris, Doris, guardami. Ascolta. So che cosa ti è capitato. Ora credimi, per favore, lo so che pensi di essere una persona orribile, ma non è così. E’ difficile e me ne rendo conto, ma devi cercare di stare calma e credere a quello che ti dico. - Mentre parlavo continuavo a tenerle le mani sulle spalle e la facevo ondeggiare leggermente, al ritmo delle mie parole, come se la stessi cullando. Speravo che si calmasse, ma si scosse via dalle spalle le mie mani e cominciò a guardarmi come se il pazzo fossi io.
-Io non ti conosco… come fai tu a dirmi che sai cosa mi è successo? E… poi perché sei così calmo? Ti ho detto che ho ucciso un uomo a morsi! Cosa, cosa sei, uno psichiatra? Vieni da un manicomio e cerchi di tenermi calma finché arriverà la polizia? E come hai fatto a trovarmi? Neanch’io so dove sono, sono ore che corro, non era ancora mattina quand’ho cominciato e ora è sera – era di nuovo sull’orlo dell’isteria, le parole le rotolavano fuori dalla bocca come tante palline.
-Doris!- Avevo alzato la voce, e levai anche una mano per risultare più incisivo. Lei si zittì tanto precipitosamente da battere i denti. –Non sono uno psichiatra e non sta arrivando la polizia. Ti ho trovata per pura fortuna e sto cercando di rendere questa cosa meno dolorosa possibile, ma non l’ho mai fatto prima e non so se ci riuscirò. Ora ascoltami: so cosa ti è successo perché è successo anche a me e so che cos’hai fatto perché l’ho fatto anch’io. E non solo, – mi accosciai davanti lei, le presi le mani. Fredde come le mie. Usai il mio tono di voce più dolce – so anche che ti sembra d’impazzire perché senti di essere morta. E’ vero?-
Passò diverso tempo prima che mi rispondesse. Mi fissò per un’eternità. Poi bisbigliò:
-Ed è vero?-

Non ebbe più attacchi isterici. La portata dell’evidenza glieli fece scavalcare e la portò ad approdare ad un dolore asciutto e muto. Le misi la mano sul mio cuore fermo, davanti alle mie narici e le feci posare due dita sulla mia gola. Volevo dimostrarle che non mentivo. Appena le lasciai la mano, lei girò il polso e prese la mia. La posò su di sé, negli stessi punti. Ogni volta mi guardava, con occhi color ostrica, e chiedeva “No?”
No, rispondevo. Mi dispiace, no.
Alla fine rimase ferma, lasciò cadere le mani, tirò le gambe giù dal letto. Neanch’io mi muovevo, in ginocchio contro il letto, timoroso di spezzare, insieme al silenzio, un equilibrio fragile. La mia fronte le arrivava all’altezza del naso; quando parlò, sentii le sue parole nei capelli.
-Non mi viene da piangere…-
Sospirai. A volte c’è bisogno di sospirare anche se non si respira.
-No, Doris.-
-Oh.-

Più tardi quella notte, quando avevo ripreso possesso della sedia e alla scrivania mi esercitavo a comporre cruciverba, senza preavviso mi raccontò la sua storia.

Aveva ventinove anni, era sposata, era una casalinga. Niente di particolare. Aveva seguito l’istruzione standard fino ai diciannove anni, nel genere di scuola che si proponeva principalmente di sfornare giovani donne in grado di accudire una casa, cucinare abbastanza bene da permettere al proprio marito di invitare a cena il principale e sostenere una conversazione. Conosceva un po’ di francese, era brava a giocare a tennis. A tredici anni si era rotta il polso sinistro cadendo dai pattini. Aveva dato il primo bacio ad un ballo dell’associazione filarmonica. Si era sposata a diciannove anni, con il figlio del proprietario dell’autofficina del paese. Si erano conosciuti ad una festa di capodanno; anche se vivevano a due strade di distanza non si erano mai incontrati prima. Lui aveva aspettato il capodanno successivo per farle la proposta. Avevano avuto un matrimonio felice, finché lei non aveva perso il primo bambino. Successivamente non era più riuscita a rimanere incinta, e il matrimonio si era raffreddato.

“William è buono, non mi ha mai dato colpe. Però… senza bambini, il matrimonio non va molto lontano. Abbiamo smesso di provarci ormai da anni. Stiamo bene insieme, non litighiamo quasi mai… comunque lui lavora tanto e senza figli io non ho molto da fare. E allora…
“E’ colpa mia.
“C’è un uomo che fa il tuttofare, in paese. E’ l’unico in città, lo conoscono tutti, passava sempre anche da noi. L'avrò visto cento volte, ma negli ultimi tempi ho cominciato ad offrirgli il tè quando aveva finito le sue faccende. Rimaneva a chiacchierare per un po’, poi se ne andava. Era piacevole conoscere una persona nuova, e lui era sempre tanto gentile e interessato… ma stavo civettando, lo so. Solo, non lo ammettevo. E un pomeriggio è venuto a vedere il boiler dell’acqua… io gli ho fatto strada in cantina e lui mi ha fatto delle avances, mentre ancora stavo cercando l’interruttore della luce. Gli ho detto di no. Lui si è arrabbiato, ha detto che lo avevo incoraggiato, che lo volevo anch’io, io mi sono spaventata e indietreggiavo e lui mi ha preso la testa per baciarmi. Io mi sono divincolata. Lui mi ha tirata a sé e io ho perso l’equilibrio. Credo che mi abbia baciata, ma ho sentito uno… uno scrocchio, uno schiocco forte. Ho sentito che perdevo una scarpa, sono andata giù. Sai, come tuffarsi di piedi. Poi… mi sono svegliata e lì per lì non capivo dov’ero.
“Avevo addosso un telo, uno di quelli impermeabili. Ho mosso le mani e sotto di me c’era un piano metallico. Per un po’ non ho fatto niente: ho teso l’orecchio, ho annusato l’aria”  si girò a guardarmi, con un aria di scusa.  “L’avevo capito, di essere morta. Ma come fai a crederci? Tu come hai fatto? Quanto ci hai messo ad ammettere di essere morto?”
Le feci un piccolo sorriso.
-Dove ti trovavi, insomma?
-Nel vano del furgone del signor… di quell’uomo. Mi aveva coperta col telone insieme agli attrezzi che ci teneva.
-Perché non vuoi dirmi il suo nome?
Scosse le spalle
-Non servirebbe a molto ora, no? L’ho- io- lui… è morto. Non mi cercherà. Non lo incontrerò per caso, insomma.

La gente avrebbe cercato lui, però. Quello che aveva ucciso me era un borsaiolo, un criminale da quattro soldi; la città ne era piena e le indagini per omicidio per gente di quella risma, ai miei tempi, erano affrontate alquanto sottogamba. Inoltre, non c’erano prove che avesse ucciso me: a parte il dettaglio non trascurabile che ero rientrato a casa sulle mie gambe e vi avevo trascorso due giorni prima di sparire, mi ero anche ripreso tutti gli effetti personali, quando l’avevo ritrovato. Ma l’assassino di Doris era un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che era stato probabilmente visto entrare in casa sua da qualcuno. Ora lei era scomparsa, e lui sarebbe stato trovato morto, dovunque fosse. Doris era scalza quando l’avevo trovata e probabilmente le sue scarpe si trovavano a metà strada tra il furgone del suo assassino e il punto in cui ci eravamo scontrati. Ci saremmo dovuti spostare, di molto e alla svelta. I tempi erano cambiati. Non avevo il cuore di dirglielo, però. Le chiesi solo di finire il racconto. Non mancava molto.

“Mi sono tirata su di scatto e ho visto che mi trovavo in un bosco. Ora che ci penso,  non eravamo vicini ad una strada o un sentiero. Deve essere stato difficile, guidare fin là.
“Lui, l’ho visto subito: ha detto “Oddio”, quando ha sentito il rumore del telone che veniva scostato. Era senza camicia, aveva una pala in mano e stava scavano una fossa. E quando l’ho visto, in quel secondo…
"Non so spiegarlo: io ho visto dove si trovava. Era l’unica cosa che ho notato, l’unica a cui ho dato attenzione: la sua posizione precisa. Ho visto che era girato verso di me, ma non era ben piantato sui piedi, ho visto che era vicino alla fossa e che teneva la pala con una mano sola e quanto era distante da me e non sentivo niente, non ero nemmeno arrabbiata, ma… ero in me. Vorrei dire il contrario. Invece ero solo… concentrata. Mi sono accorta di avere solo una scarpa, così l’ho sfilata. Poi mi sono tolta di dosso il telone e sono saltata giù dal furgone.
“E lui ha lasciato cadere la vanga e ha cominciato a venire verso di me. Diceva che gli dispiaceva, che mi credeva morta ed era stato preso dal panico, credo. Non ha finito la frase perché… a quel punto, gli sono saltata addosso. Era il momento migliore di farlo. Non so perché lo sapessi. Però non mi sbagliavo, perché non è riuscito a difendersi.
“Dopo, ho corso. Non so dov’eravamo e a pensarci adesso non so neanche se volessi tornare a casa. Volevo solo lasciare quel posto, correvo e mi pulivo la faccia con le mani. Anche quando si è fatto buio, non ho smesso. Neanche quando si è fatto giorno e tutto mi girava intorno… forse ho girato in tondo anch’io, non lo so. E quando mi hai trovato… non riconosco questo posto. Dove siamo?”

Glielo dissi. A voi, invece, non lo dirò: la riservatezza è importante e non avrete da me toponimi, né nomi di valuta o indizi sulla nostra posizione. Vi basteranno i nomi, e vi lascerò a chiedervi se siano quelli veri o no.

Risultò che la sua corsa forsennata aveva portato Doris ad un paio d’ore di macchina dal paese in cui viveva. Era pur sempre un vantaggio sulle investigazioni che forse erano già cominciate, ma occorreva comunque muoversi. Il che significava prendere quella povera creatura incapace di raccapezzarsi, piena di domande da scoppiare, che mi guardava annegata nel mio pigiama e portarla via senza tanti complimenti, ancora col sapore di terra in bocca.
Le promisi che avrei risposto a tutti gli interrogativi di cui conoscevo la risposta; le dissi che avremmo trovato un posto sicuro dove stare; le assicurai che avrebbe avuto una vita serena; le garantii che non le sarebbero mancati cinema, libri o balli; che avrebbe avuto vestiti nuovi, scarpe e cappellini; le giurai che sarei stato accanto a lei per tutto il tempo che lei lo avesse desiderato, preciso al secondo. Nemmeno la mia proposta di matrimonio era stata più accorata. Per la prima volta in quarantacinque anni incontravo qualcuno come me, e la trovavo ancora calda di vita, spaurita e inesperta come un uccellino caduto dal nido. Avrei dato una mano per non spaventarla più di quanto già non fosse, per non farla scappare via da me. Scoprivo che il bozzolo che mi ero filato intorno per tutti quegli anni per proteggermi era a tenuta talmente stagna da allagarsi di solitudine, e ne misuravo il volume proprio ora che il corpo di Doris vi era penetrato, facendola tracimare. Il principio di Archimede sui corpi morti immersi nell’immortalità.
   
 
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