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Autore: Virgyl Item    14/08/2015    4 recensioni
Gerard Way ha sedici anni, qualche problema di troppo, e una disarmante voglia di vivere.
Le sue giornate passano velocemente, alternandosi fra lezioni private, sedute psicologiche ed inutili litigi con i genitori.
Ma quando inizierà a frequentare la Redflame, rinomata scuola superiore di New York, Gerard dovrà vedersela con un nuovo mondo, e con una diversa realtà.
Un insolito incontro con un ragazzo renderà la sua vita una scoperta ai confini dell’esistenza, una lotta fra razionalità e sentimento, un’ incredibile avventura che vedrà come protagonista l’indistruttibile forza dell’amicizia e dell’amore.
E soltanto allora, i colori riusciranno a vincere.
 
“Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.
Il mio nome è Gerard Way, e sono un ragazzo indaco.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                          Streets
                             Of
                        November
                            ***
Canzone: I will follow you into the Dark- Death cab for cutie (canzone che con molta gentilezza mi ha fatto scoprire Coffee_Time, persona bugiarda, incoerente, decisamente antipatica ed insopportabile, ma pur sempre la mia beta) (<3).
Inizialmente avevo pensato a “What is love?”, dei Nevershounever, che sicuramente sarebbe stata molto più adeguata, ma per oscuri motivi ho scelto l’altra. Quindi, vi consiglio di ascoltarle entrambe.
Ci vediamo sotto J
 
***
 
Capitolo settimo- What is love?
 
 
“Gerard! Muoviti, è arrivato!”, urla mia mamma dalla stanza accanto.
Mi infilo velocemente una felpa, e goffamente scendo le scale, fino a ritrovarmi all’ingresso.
“Cerca di essere cortese”, mi raccomanda nonna spuntando alle mie spalle.
Annuisco frettolosamente.
“Quanti anni ha?”, si intromette poi Michael, materializzandosi alla mia destra.
“Cosa?”, gli domando confuso, senza essere realmente interessato alla sua richiesta.
“Vuole sapere quanti anni ha”, gli fa da eco Elena.
Li ignoro, scuotendo la testa, e camminando nervosamente verso la porta.
Sento i loro passi che mi seguono.
“Ti sei lavato i denti?”, inizia la nonna.
“I tuoi capelli non sembrano essere apposto”, aggiunge mio fratello.
Grugnisco.
“Ha ragione, fanno schifo”, enfatizza lei.
“Avresti dovuto prepararti meglio”, mi rimprovera lui.
Continuo ad andare avanti, pronto ad accogliere l’ospite.
“Gerard! Non hai indossato la cintura adatta! E poi quella felpa, è orribile!”, è la voce di mamma, che mi fa improvvisamente voltare.
Anche lei si aggiunge alla comitiva dietro di me.
Sbuffo rumorosamente, ritornando a guardare la direzione giusta.
“Sarà un saluto di benvenuto spregevole”, commenta nonna con riluttanza.
Deludente”, puntualizza  Michael.
Raccapricciante!”, conclude mamma, senza smettere di seguirmi.
A quel punto mi blocco.
E lentamente, mi volto.
Loro mi imitano.
Mio fratello sussulta.
I miei occhi li fissano, pungenti come schegge.
 
“Smettetela”, ringhio, scandendo bene le lettere.
 
Il tempo di ricominciare a camminare, e il campanello suona.
Deglutisco.
Soltanto adesso inizio a realizzare.
 
 
Lentamente, poggio una mano sulla maniglia.
E sembra tutto diverso.
E inizio a guardare la situazione da un altro punto di vista.
Perché sta succedendo?
Succedendo.
Adesso.
Ora.
Ci troviamo il linea diretta con il nemico.
Davanti al più temibile degli incubi.
Faccia a faccia con il pericolo.
Con il peso che più ci opprime.
Il presente.
 
La serratura scatta non appena imprimo maggiore forza.
E l'esterno mi si mostra con un'opaca luce.
La stessa che i suoi occhi emanano, quando mi ritrovo a guardarli.
 
“Ciao”, saluto, improvvisando un mezzo sorriso.
Frank mi imita.
“Ehi”, mormora in risposta.
Deglutisco.
Mia mamma ha davvero avuto l'incredibile idea di invitarlo a passare le vacanze di Natale insieme a noi.
Ha detto che sarebbe stato il minimo per ringraziarlo per ciò che ha fatto.
E magicamente Frank ha accettato.
Come se fosse tutto uno scherzo.
Come se ci stessimo contendendo un match di un qualche assurdo gioco.
Io.
Frank.
Ed in palio tutto il resto.
Frank, io e poi tutto il resto.
Tutto il resto e poi io, Frank e tutto il resto del tutto che è rimasto.
Un fottuto inutile circolo vizioso.
Invito il ragazzo ad entrare, catturando immediatamente lo sguardo di mamma e Michael, che curiosi osservano i movimenti dell'ospite.
Sbuffo, cercando di rimanere indifferente.
Frank ha con sé un trolley ed uno zaino.
Probabilmente dovrei aiutarlo a portare i bagagli al piano di sopra, ma non lo trovo giusto nei miei confronti.
Nessuno ha aiutato me, per quale motivo io dovrei aiutare qualcuno che ha già avuto la sua occasione per farsi aiutare?
Ma un'occhiata di nonna Helena mi fa cambiare idea.
 
“Dammi la valigia, la porto io”, dico a Frank, controvoglia.
E lui deve aver avvertito la mia controvoglia.
Ma mi cede comunque il bagaglio, perché sa che la controvoglia è soltanto un modo alternativo di Gerard Way per essere cortese.
E io mi ritrovo a dover salire faticosamente le scale, fino ad arrivare davanti alla camera degli ospiti.
Apro impacciatamente la porta, imprecando quando il trolley va a scontrarsi con lo stipite.
“Mi dispiace”, mi scuso.
“Uhm-non penso di essere poi così affezionato a quel trolley”, dice con sarcasmo Frank.
Entro finalmente nella stanza, indicando l'armadio ed il letto al ragazzo.
Lui annuisce, ringraziandomi.
“Come è andato il viaggio da New York?”, domando dopo un po', sedendomi sul bordo del letto.
Frank alza le spalle.
“Bene”, risponde, per poi seguirmi sul materasso.
Lo osservo, mentre si guarda intorno con i suoi misteriosi occhi.
I capelli scuri gli ricadono disordinati sulla fronte, arrivando a coprire un occhio.
La luce dietro di lui, che entra soffusa dalla finestra, lo contorna in modo perfetto, delineandolo con un sottilissimo strato dorato.
Potrebbe essere un momento meraviglioso per scattare una fotografia.
Ma tutti sanno che le fotografie non rispettano mai i canoni reali.
E finiscono puntualmente per alterare ogni singolo particolare della scena.
Le fotografie non sono altro che un modo irreale di catturare la realtà.
Fanno sembrare tutto così impossibile.
 
“Come stai?”, domanda ad un tratto Frank, interrompendo i miei ragionamenti.
“Bene”, rispondo, mimando un sorriso.
Lui mi imita, tornando a fissare un punto indefinito di fronte a noi.
Forse potrei provare con il disegno.
Potrei riportare il suo viso su carta.
Inclino leggermente il collo, assottigliando gli occhi.
Ha un profilo davvero delicato.
Probabilmente un contorno a matita lo accentuerebbe.
“Gerard, dovrei parlarti”.
La pelle rosata contribuirebbe a risaltare il colore delle sue iridi.
E le sue labbra risulterebbero sicuramente più lucide di quanto già non siano.
“Dovrei parlarti dell'oggetto che mi hai regalato”.
Il naso segue una traccia lineare, compatta, che non lascia sfuggire alcun’imperfezione.
Gli zigomi potrebbero benissimo aumentare il volume delle guance, se riempiti con del carboncino.
“Non mi sarei mai aspettato una cosa simile.
È... Strana?”.
Posso notare la sua lingua fare capolino di tanto in tanto, mentre parla, scoprendo parzialmente una dentatura bianca e quasi luminosa.
“Il-il problema è che-
È che gli specchi, bè-ehm, gli specchi non-”
La sua mascella è assolutamente particolare, leggermente sporgente dalla parte sinistra, ma pur sempre in proporzione con il resto del viso.
“Ecco, Gerard, io non-”, Frank si volta verso di me, restando un attimo confuso.
Scuoto immediatamente la testa.
“Gerard?”, domanda accigliato.
“Che?”, esclamo, sgranando leggermente gli occhi.
Frank sbuffa.
“Non mi stai ascoltando”, constata.
Sussulto.
Ma certo.
Stava parlando.
Mi porto una mano a ravviarmi i capelli.
“Scusa”, mormoro, strizzando le palpebre.
Non posso essere così stupido da lasciarmi scoprire mentre osservo qualcuno.
Accidenti.
Il ragazzo non sembra troppo convinto, ma continua comunque il suo discorso.
“Stavo parlando del regalo che mi hai fatto. Dello specchio.”, inizia, torturandosi le mani, l'una nell'altra.
Annuisco.
“Ecco, mi è piaciuto davvero molto”, continua, sorridendo.
Sorridendo in modo triste.
Quasi malinconico.
Cerco ti tendere anch'io le labbra.
Con sollievo, abbasso lo sguardo.
 
“Ma il problema è che...”
Lo sapevo.
Ero sicuro che ci fosse un problema.
C'è sempre un problema.
Ritorno a guardarlo.
Negli occhi.
E sono così belli.
“Vedi, io non-”, Frank si interrompe, socchiudendo le palpebre, e cercando di prendere il respiro.
Sembra essere insicuro di ciò che sta per dirmi.
E a me sembra tutto così fermo, intorno.
Tutto così silenzioso.
Così triste.
Il ragazzo scuote la testa.
Si sta arrendendo, non vuole parlare.
Deglutisco, prima di allungare una mano verso di Lui.
Sfioro lentamente il suo braccio.
Frank se ne accorge, e riapre gli occhi, osservando i miei movimenti.
Poi, alza lo sguardo, incontrando il mio.
Annuisco, per incitarlo a continuare.
Per fargli capire che questa è soltanto una stanza.
Vuota.
Che ci siamo soltanto noi.
Io.
E Lui.
 
“Gerard”, sibila, come per non farsi sentire da nessuno, oltre che da me.
“Io...”, la sua espressione è quasi implorante.
Vuole liberarsi di tutto.
Vuole urlare.
Vuole piangere.
Vuole uscire dal suo guscio.
E vuole farsi aiutare da me.
 
Ma non lo fa.
“Io non penso che sia qualcosa di troppo importante”, conclude, facendo indietreggiare il braccio, sfuggendo al mio tocco.
Faccio la stessa cosa.
 
Ci alziamo dal letto insieme, senza aggiungere alcuna parola.
Scendiamo al piano di sotto, trovandoci davanti mia nonna e gli altri due incuriositi parenti.
“Ehm-Lui è Frank”, lo presento, facendomi da parte, e lasciando che il ragazzo si mostri a loro, che ho già sfacciatamente ignorato quando è arrivato.
“È un piacere conoscerti”, lo accoglie dolcemente la mamma, scompigliandogli i capelli in modo infantile.
Frank si limita a sorridere, confuso e in imbarazzo.
Trattengo una risata.
“Quindi tu sei il famoso Frank”, esclama Michael, stringendogli la mano.
L'ospite ritorna serio, lanciandomi uno sguardo impaurito.
Annuisco, rassicurandolo, e mimando con le labbra
È mio fratello.
Consolato, ricambia la stretta, mormorando un riluttante
“Già”.
Infine, è il turno di mia nonna, che con fare furbo e altezzoso, lo squadra per intero.
Il ragazzo deglutisce, mentre la fissa accigliato.
Sembra tutto così stupido, guardato dal di fuori.
“Io sono Elena, la donna con cui hai parlato pochi giorni fa al telefono. Sono io che ho salvato la vita al tuo amico. Tu hai semplicemente fatto il tuo dovere”, lo avverte rigida lei, tendendo le labbra in un antipatico sorriso.
Frank scuote la testa, sollevando un sopracciglio, e commentando con un sarcastico
“Certo”.
Non sa che rispondendo così rischia di finire in guai seri.
E non perché lei è nonna Elena.
Semplicemente lei è.
E chi sa essere, sa anche farsi capire.
Io ho imparato ad essere, eppure non riesco comunque a farmi capire.
Ma io sono Gerard Way.
E frequento sedute psicologiche.
Non dimentichiamocelo.
 
Finiti i saluti, io e Frank ritorniamo nella sua stanza.
“Non sapevo avessi un fratello”, esclama, mentre saliamo le scale.
“Non sai niente su di me”, puntualizzo, guardandolo dal basso, stando attento a non inciampare sui gradini.
Lui resta in silenzio, finché non arriviamo a destinazione.
Poggia una mano sulla maniglia.
Poi si volta verso di me.
“Attento, c'è un chiodo che sporge qui sulla porta”, mi avvisa.
Deglutisco.
Frank entra nella camera, ed io lo seguo, fissando con insistenza la piccola punta di ferro che sporge dal legno rovinato con gli stessi occhi con cui la preda scruta il suo predatore.
“Ha!”, esclama il ragazzo, non appena sposto lo sguardo su di Lui.
“Hm?”, domando confuso.
“Hai paura delle cose appuntite!”, afferma, soddisfatto, indicando il chiodo.
Apro la bocca per controbattere, ma mi ritrovo a non avere parole con cui farlo.
“Adesso so una cosa in più su di te”, mi fa notare, stendendosi pesantemente sul letto.
Gli lancio un'occhiata sprezzante, per poi seguirlo fino al bordo del materasso.
“Tua nonna è stata gentile ad invitarmi qui”, ridacchia.
“Lo ha fatto per me”, sottolineo.
Frank resta un attimo interdetto.
Infine decide di alzarsi, ritrovandosi seduto al mio fianco.
“E tu sei contento che io sia qui?”, chiede.
Mi volto, fino a far incontrare il suo sguardo curioso con il mio, pensoso e riflessivo.
Eccessivamente pensoso.
E dannatamente riflessivo.
“Sono contento che mia nonna sia felice di averti invitato”, rispondo.
Posso vedere la delusione prendere spazio sul suo viso.
E sulle sue labbra, che immediatamente si piegano verso il basso.
E fra le sue iridi chiare.
E sulle sue braccia che cadono con inerzia insieme al suo corpo, ritornando a stendersi sul letto.
Insomma, si aspetta realmente che io sia felice di averlo intorno a me, in casa mia, durante le vacanze di Natale?
Il ragazzo esplode in una risata strafottente, mentre scuote la testa.
Dico che mi piacerebbe diventare un clown.
Però ripensandoci io sono una persona, non un clown.
I clown mentono per far ridere.
Le persone no.
Loro riescono a far ridere senza ricorrere alle bugie.
È per questo che non capisco.
Non capisco perché esistano i clown.
E non capisco perché le persone li chiamino clown.
E non capisco neanche per quale motivo Frank stia ridendo.
Forse sto diventando anche io un clown.
Ma non mi sembra di aver mentito.
Ho mai mentito a Frank?
“Questa settimana sarà una merda”, esclama l'ospite esausto, singhiozzando divertito.
Lo vedo chiudere gli occhi, mentre si porta entrambe le mani a coprire la faccia.
 
“Ehi, Frank”, lo chiamo.
“Dimmi”, risponde con la voce impastata dal peso delle dita sulle labbra, alternandosi con qualche ultima risata.
“Ti ho mai mentito?”, domando, tranquillo.
Il ragazzo smette improvvisamente di ridere.
Ma non sposta le mani.
Osservo il suo torace alzarsi, per poi abbassarsi, e ritornare al suo normale ritmo.
“Cosa intendi con mentire?”, mormora, quasi impaurito dalla mia richiesta.
Ti ho mai mentito?”, ripeto, scandendo meglio le parole.
Frank sbuffa, mentre ritorna seduto.
Poi mi guarda, assottigliando leggermente gli occhi.
Resto impassibile.
La mia domanda era seria.
Le persone restano impassibili quando le domande sono serie.
Ma io resto impassibile anche per un altro motivo.
Ed il motivo è che l'impassibilità non è soltanto la miglior via d'uscita in ogni situazione.
È anche l'unico modo per poter parlare con Frank.
Frank cede, di fronte all'impassibilità.
Lui cede di fronte alla superiorità.
Al controllo.
Al pieno controllo.
Frank non riesce a controllare niente.
A Frank non riesce niente.
 
L'inguardabile riflesso della salvezza.
 
Frank è la salvezza di se stesso.
Ed io il suo fottutissimo riflesso.
 
“Non ricordo di averti mai sentito dire alcuna bugia”, mormora infine il ragazzo.
Annuisco.
“Se dovessi mai arrivare a farlo...
Tu...
Tu svegliami”, gli dico, con sicurezza.
“Cosa?”, mi domanda, accigliato.
“Accidenti, Frank! Ti sto chiedendo di svegliarmi, se mai ti mentirò!”, enfatizzo, quasi fosse un rimprovero.
Lui indietreggia, deglutendo.
“Non ti seguo”, insiste.
Sbuffo.
“Odio le persone che mentono.
Non potrei sopportare di avere a che fare con un me bugiardo”, spiego.
Noto gli occhi di Frank accendersi con una luce differente.
“Se mi sentirai mai dire una bugia, cerca di svegliarmi. Cerca di ricordarmi chi sono davvero.”, argomento.
Penso di non aver mai avuto una conversazione tanto articolata con qualcuno che non fossi io.
Ma perché lo sto facendo proprio adesso? Perché proprio con Lui?
Dannate parole.
Il ragazzo distoglie lo sguardo dal mio, puntandolo sul pavimento.
Lo faccio anch'io.
So a cosa sta pensando.
Alle bugie.
Alle menzogne.
Posso sentire il suo respiro farsi più pesante e veloce.
Il suo stomaco contorcersi su se stesso.
Ed il suo cuore diventare troppo pesante da poter sorreggere.
 
“Gerard, io non volevo”, mormora ad un tratto, con voce tremante.
“Ma lo hai fatto”, puntualizzo.
“Non mi fidavo ancora di te”, controbatte.
“Perché, adesso ti fidi di me?”, insisto.
“Sì! Cioè-non lo so! Ma soltanto ora inizio a conoscerti!”, balbetta, puntando i suoi occhi sgranati su di me, e alzando le braccia in aria, come per enfatizzare il discorso.
“Perché hai inventato quelle stronzate?”, indago, gli occhi come schegge.
“Non erano stronzate”, ringhia lui, sulla difensiva.
“Ah no? E cosa erano? Verità? Realtà?”, mi prolungo.
“Erano la mia realtà!”, mi aggredisce, alzandosi dal letto, e osservandomi dall'alto, paonazzo.
Mi alzo anch'io.
“Ti sarebbe piaciuto avere genitori diversi da quelli che hai?”.
Frank deglutisce.
“Avresti voluto non avere dei genitori? Avresti voluto essere solo?!”, il tono della mia voce si alza.
“No! Aaagh, è inutile provare a parlare con te!”, strilla.
Ghigno.
“Ti sei reso conto che con me puoi essere soltanto sincero, quindi?”, continuo.
“Mi sono reso conto che la mia vita è una merda! E che tu la stai rendendo ancora più orribile!”, urla, stavolta.
“Smettila di lamentarti della tua vita”, dico con falsa tranquillità, scuotendo la testa.
“E tu smettila di essere così-”
“Così come?”, lo incito.
“Così-”, inizia.
Lo vedo pensarci su, con nervosismo.
Poi si illumina.
“Così maledettamente ipocrita”.
E lo dice puntando un dito dritto contro il mio petto.
Spalanco gli occhi, indietreggiando.
Lui annuisce, con convinzione.
“Sì, Gerard, guarda negli occhi la tua fottutissima realtà. Prima mi aiuti, dopo mi ignori, infine ti fai telefonare mentre rischi di finire morto giù da una finestra. E poi?”, allarga le braccia.
Lo fisso, allibito.
“E poi ti fingi migliore di me”, adesso scuote la testa.
“Migliore di tutti.
E mi chiedi se mi hai mai mentito.
E mi dici di svegliarti.
Svegliati, Gerard”, conclude.
E la mia mano trema, mentre velocemente si va a scontrare col suo viso, provocando un rumore sordo.
Immediatamente, indietreggio.
La mia bocca è aperta, ma non ne esce alcun suono.
Tremo.
Sto tremando.
Ancora.
Il ragazzo non aggiunge altro.
Si limita a rendere il suo volto una maschera bianca.
Neutra.
Ma non impassibile.
Neutra, ma sofferente.
Sofferente.
Con una lacrima che attraversa lentamente la guancia arrossata dal colpo.
“Io ti ho salvato la vita”, riesco a sibilare, prima di ritrovarmi a correre velocemente, diretto nella mia stanza.
Entro, chiudo la porta.
E ci faccio aderire pesantemente la schiena.
E poi esplodo.
Piango.
Urlo, ma in silenzio.
Grido.
Faccio uscire tutto.
Ma sempre in silenzio.
Non avrei dovuto.
Non avrei dovuto colpirlo.
Non avrei dovuto farmi aiutare da lui.
Non avrei dovuto salvarlo dalla sua tanto desiderata morte.
Ma la verità è che Frank ha ragione.
Sono soltanto un ipocrita.
Ho la mia maschera occasionale da mostrare ad ogni singola persona.
Con lui ne ho usate troppe.
E troppo spesso.
E troppo false.
E accidenti, sono troppo orgoglioso per poterlo ammettere anche a me stesso.
Voglio andarmene.
Voglio sparire.
Voglio sparire insieme a me, in uno Spazio popolato esclusivamente da me e me.
E tutto ciò che riguarda me, e tutto quello che io ho tanto desiderato.
Non m'importa di cosa pensano gli altri.
Frank ha ragione.
Devo svegliarmi.
Svegliati, Gerard.
Svegliati.
E in un attimo, mi ritrovo disteso sul mio letto, con il viso umido, e gli occhi chiusi.
E la stanchezza che con ostinazione mi ancora alla realtà.
 
 
***
 
 
Percepisco un calore poco lontano da me.
Schiudo lentamente gli occhi.
La vista è ancora offuscata dalle lacrime di prima.
Una figura scura mi osserva dal bordo del letto.
Lo riconosco.
E come non riconoscerlo?
 
“Mikey”, sussurro.
Cerco di alzarmi, ma una mano di mio fratello mi spinge bruscamente indietro.
Non sono abbastanza sveglio per poter replicare.
È tutto buio.
Gli scuri delle finestre impediscono alla luce di filtrare nella stanza.
Riesco appena a vederlo.
“Cosa vuoi?”, domando, con voce fioca.
Lui sta zitto.
Ancora non ho messo a fuoco.
So che mi guarda.
Mi sta guardando.
Ed è tutto fottutamente buio.
Tento nuovamente di alzarmi, ma stavolta non trovo nessuna mano a bloccarmi.
Stavolta è il suo corpo che sceglie di gettarsi su di me, seguito da due sottili braccia che mi bloccano al letto, ai due lati del mio viso.
Senza troppo controllo, provo a dileguarmi.
“Lasciami, Michael!”, esclamo.
Ma quando lui si avvicina, mi accorgo che non è mio fratello, quello che mi tiene ancorato al materasso.
Non sono questi i suoi occhi.
Non è questa la sua stretta.
Non è questo il suo odore.
Michael odora di adolescente.
Chi ho adesso davanti profuma di qualcosa di diverso.
 
“Frank?”, sussurro, aumentando la forza nei polsi, che con potenza l’ospite mi sta stringendo.
Ma Lui sembra non voler mollare.
Mi chiedo cosa diavolo stia facendo.
Tento di allontanarlo.
“No!”, esclama però il ragazzo, spingendosi di più verso di me.
Sono confuso.
Vuole uccidermi?
“Sei uno stronzo”, mormora, scuotendo leggermente la testa.
Deglutisco.
“Non avresti dovuto aprire quella porta”, insiste.
Sgrano leggermente gli occhi.
“Avresti dovuto lasciarmi morire”, continua.
“Smettila”, lo interrompo.
Il ragazzo imprime maggiore forza sulle mie braccia, costringendomi a grugnire per il dolore.
“Tu non mi hai salvato la vita”, sottolinea.
“Tu hai aperto quel bagno senza neanche sapere chi fossi!”.
Non commento, stavolta.
“Ma la verità è che sono uno schifoso essere insignificante”, aggiunge.
“E adesso anche tu lo sai”.
“Basta, Frank”, dico.
“È meglio che me ne vada, ti sto soltanto dando noia”, prosegue.
“Basta!”, esclamo, riuscendo finalmente a staccarlo da me.
Ma con uno scatto, mi ritrovo nuovamente inchiodato al letto.
Il ragazzo mi guarda dall'alto.
Di fronte ai mei occhi.
Ed è ancora tutto buio.
Ma noi riusciamo a vederci.
A guardarci.
“Cosa stai dicendo?”,  gli domando, scuotendo la testa.
“Ti ho mentito. Sono io l'ipocrita. Non tu.”, spiega, con voce tremante.
Ma piena di rabbia.
E di paura.
E di fottuta sofferenza.
Mi inumidisco le labbra.
Si sta sbagliando.
Sono io lo schifoso incoerente.
“E il tuo regalo...Quello specchio”, inizia, socchiudendo le palpebre.
Cosa sta cercando di dire?
“Gerard, non avresti dovuto regalarmi uno specchio!”, mi aggredisce.
Penso di poter essere in grado di morire da un momento all'altro.
“Gerard, tu non capisci!”, ringhia, alzando il tono di voce.
Mi chiedo cosa abbia da urlare.
E mi chiedo anche cosa è che non capisco.
“Io-”, si interrompe.
E sento qualcosa inumidirmi il viso.
E poi un'altra.
E un'altra ancora.
Frank sta piangendo.
Improvvisamente, le sue braccia cedono, liberandomi.
E incredibilmente, il suo corpo si getta sul mio, con le mani strette in due pugni, che picchiano delicatamente il mio petto.
Cosa sta succedendo?
Il ragazzo nasconde il viso nell'incavo del mio collo, stringendo con forza la mia maglietta, e facendo silenziosamente uscire copiose lacrime.
Non so cosa sto facendo.
Non so cosa Lui stia facendo.
Lentamente, porto entrambe le mie braccia a cingergli la schiena, senza che lui opponga nessuna resistenza.
Il suo pianto continua, mentre posso sentirlo singhiozzare.
Il suo respiro è irregolare, così come il battito del suo cuore.
 
“Non mi sono mai guardato allo specchio, Gerard”, mormora poi, con un filo di voce.
Posso sentire il suo fiato caldo sul mio collo.
E in un attimo, è come se avessi capito improvvisamente tutto.
La vicenda del bagno, i segni sul viso, i capelli sempre spettinati.
E la paura di tutto.
E di tutti.
E il bisogno di avere qualcuno.
E il bisogno di restare solo.
“Ho paura di guardarmi. Ho paura di scoprire come mi vedono gli altri”, sussurra, con le lacrime che continuano a bagnarmi la maglietta.
Aumento la stretta, portando le dita ad accarezzargli i capelli.
“Perché hai paura?”, gli domando.
Un nuovo singhiozzo lo fa smuovere.
Poi scuote la testa.
“Non lo so”, risponde.
Poi, alza lo sguardo, incontrando il mio.
I suoi occhi brillano.
“Ho paura di me stesso, Gerard”, sussurra infine, deglutendo.
“È per questo che ti nascondi dietro un'armatura?”, mormoro.
Inizialmente sembra non capire.
Poi afferra il concetto.
E torna ad abbracciarmi.
“Perdonami. Non lasciarmi anche tu.”, riesco a sentirgli dire.
“Non ho mai smesso di perdonarti”, puntualizzo, stringendolo di più a me.
Il ragazzo punta nuovamente le sue iridi chiare su di me.
“E non ti lascerò. Non anche io.”, concludo.
 
***
 
La giornata passa velocemente.
Io e Frank che camminiamo per la casa, mamma e Frank che parlano, Mikey che guarda male Frank, e la nonna che guarda male me.
Tutto normalmente normale.
E magicamente, si è fatta sera.
 
“Ti va di fare un giro?”, propongo a Frank, quando entro nella sua stanza.
“Uhm-certo”, annuisce Lui, tenendo fra le mani un oggetto che conosco fin troppo bene.
Sorrido appena.
Il ragazzo riprende ad osservare lo specchio, tenendolo a distanza di sicurezza.
Sembra essere così insicuro.
Non pensavo che esistessero persone che non si sono mai guardate negli occhi con loro stesse.
Ma Edmund aveva parlato chiaro.
 
Gli specchi sono per i superficiali.
 
Ma né Edmund, né tanto meno Frank, sanno che questo non è un semplice specchio.
Questo mostra il riflesso che tutti cercano, ma che nessuno ha il coraggio di affrontare.
E chi lo ha realizzato ha pensato bene di inciderne il significato sul bordo.
 
Ho deciso di portare Frank in un posto speciale.
Si tratta di un ponte, che attraversa un piccolo fiume qui vicino.
Ho sempre trovato tranquillità, là sopra.
Non c'era mai nessuno.
Ed ero sempre circondato da arbusti verdognoli e spinosi, che mi procuravano puntualmente graffi e sbucciature.
 
“Dove stiamo andando?”, domanda ad un tratto Frank, mentre camminiamo verso la meta.
“Sorpresa”, rispondo.
“Odio le sorprese”, esclama.
“Anch'io”, aggiungo.
Lui mi guarda accigliato.
Ed io lo ignoro.
Il ragazzo scuote la testa, e continua a seguirmi verso il fiume.
 
L'aria fresca dicembrina ci scompiglia i capelli, e lo scorrere dell'acqua ci guida verso il ponte.
Lo stesso ponte che mi ha sentito ridere, urlare, pensare.
Lo stesso ponte che si è bagnato delle mie lacrime.
Ed è tutto così calmo, qui intorno.
Lo indico a Frank.
“Un ponte?”, esclama Lui, confuso.
Annuisco.
Insieme, ci avviciniamo.
“Mi è sempre piaciuto stare qui”, gli spiego.
Poi, poggio entrambe le braccia sulla staccionata di legno che delinea il passaggio sopra il fiume.
Guardo il cielo che inizia ad imbrunirsi.
Frank è al mio fianco, anche lui occupato ad osservare l'ambiente.
C'è un'immensa varietà di colori.
Il verde è sparito, ma al suo posto si sono formate decine di sfumature che vanno dal giallo al marrone, dall'arancione al rosso.
Sembra che ogni cosa, in questo posto, sia parte di una fiaba.
“Sembra che la realtà non esista, qui”, dico, osservando l'acqua scorrere velocemente.
“È un bel problema, allora”, esclama sarcastico Frank.
Ma è un sarcasmo sincero.
“Il problema nasce quando la realtà si confonde con la finzione”, puntualizzo.
Il ragazzo mi guarda.
Lo faccio anch'io.
“E noi cosa stiamo vivendo, adesso? Realtà o finzione?”, domanda, quasi in un sussurro.
Sorrido appena.
“Vivere è un po' come rendere la finzione realtà. Vivi per avverare i tuoi sogni, non per renderli impossibili. 
Quindi, non saprei”, rispondo, alzando le spalle, e allargando tristemente il mio sorriso.
Lui annuisce.
Poi, entrambi ricominciamo a guardare il fiume scorrere verso il nulla.
 
“I miei genitori mi hanno sempre dato tutto”, parla ad un tratto.
Non commento.
È il suo turno, adesso.
“Mio padre è amministratore delegato di un'azienda di elettronica, mia madre è un avvocato”, spiega, mimando una specie di malinconico sorriso.
“E nonostante loro mi dessero tutto...Ogni nuovo giocattolo...Ogni vestito... Io passavo pomeriggi interi a piangere, sdraiato sul mio letto, e fissando il soffitto”, continua.
Una breve pausa fa ritornare il silenzio.
Lo vedo deglutire, e passarsi una mano fra i capelli.
Poi, ricomincia:
“E mi chiedevo perché piangessi!
E guardavo i miei coetanei che avevano i genitori separati, o morti, o poveri!”, la sua voce si alza.
Poi scuote la testa, abbattuto.
“E avrei voluto avere anch'io un vero motivo per cui piangere”, conclude, socchiudendo gli occhi, e prendendo un grande respiro, per poi lasciare andare l'aria lentamente, faticosamente.
Come se fosse qualcosa di cui potrebbe benissimo fare a meno.
“È per questo che ho iniziato a raccontare bugie. Volevo sentirmi diverso. Volevo che la mia vita non fosse così dannatamente semplice.”, dice infine.
Punto i miei occhi su di Lui, che immediatamente ricambia lo guardo.
“Tu sei diverso, Frank”, mormoro.
Ma il ragazzo si limita a ridere.
Ed è una risata forzata, falsa.
“I miei genitori mi hanno dato soltanto tanti beni materiali. Non mi hanno mai saputo dare l'amore. Dimmi come faccio ad essere diverso.”, controbatte.
“Tu sei diverso per me”, esclamo.
Lui non controbatte.
“E hai ancora tutto il tempo per imparare ad amare. E a farti amare”, aggiungo poi, tornando a fissare l'acqua.
 
“E tu? Hai imparato?”, domanda ad un tratto.
Deglutisco.
Ho mai amato qualcuno?
Mi sono mai fatto amare?
Accidenti.
Non so cosa diavolo sia l'amore.
All'inizio pensavo che fosse un gioco.
Poi ho capito che si trattava di un giuramento.
E adesso?
Adesso Frank mi sta chiedendo se sono mai stato innamorato.
 
“No”, scuoto la testa.
Lui mi guarda.
Negli occhi.
“Io penso di aver paura di innamorarmi”, esordisce.
“Te l'ho detto, hai tutto il tempo per innamorarti”, ripeto, accennando un debole sorriso.
Ma il ragazzo scuote la testa.
“No. Non voglio pensarla così.”, dice.
Lo guardo accigliato.
“Sono certo che l'amore sia qualcosa che non arriva col tempo.”, spiega.
“E come, allora?”, indago.
Si inumidisce le labbra.
“Penso che il tempo sia soltanto il peggior nemico dell'amore”, aggiunge.
Deglutisco.
“L'amore accade e basta. È il presente, ciò che porta all'amore”, conclude.
Inizio a non seguirlo.
“Il tempo che passa, o i ricordi che ci seguono... Tutto questo rovina l'amore”, ricomincia.
“Vuoi dire che l'amore funziona soltanto nel presente? Che dura così poco?”, domando, confuso.
Frank si avvicina impercettibilmente.
“Voglio dire che l'amore va vissuto. E non come un passatempo”, risponde.
Poi, si ravvia i capelli come una mano.
“Va vissuto come un'altra opportunità”, adesso mi guarda, di nuovo.
“Come un'altra vita”, dice infine.
Mi ritrovo con la bocca leggermente aperta.
Senza parole, senza alcun suono che ne esce.
Un'altra opportunità.
Un'altra vita.
“Sembra quasi una condanna”, penso.
E poi lo dico.
Frank annuisce.
“Immagino che sia una condanna piacevole”, scherza.
Non saprei come interpretare questa sua teoria.
Non saprei come poter controbattere.
Non saprei.
“L'amore è importante come una vita?”, chiedo.
“La vita non è così importante.”, risponde il ragazzo.
Sbuffo.
“Sei un idiota”, lo accuso.
Frank ridacchia.
“Io ho cinque buoni motivi per amare la mia vita”, dico.
“Beato tu”, esclama sarcastico.
Lo ignoro.
E poi gli elenco tutti i miei buoni motivi.
 
E mentre parlo, lo vedo annuire, riflettere, ascoltare con ammirazione le mie parole.
 
“E il quinto?”, indaga confuso, quando termino di parlare.
Sollevo entrambe le spalle.
“Devo ancora trovarlo. Mi serve soltanto un aiuto. Ma so bene che esiste.”, spiego.
Il ragazzo rimane in silenzio.
Improvvisamente, mi rendo conto che il cielo sopra di noi si è scurito a tal punto da sembrare quasi nero.
A volte ho paura del buio.
A volte invece lo cerco.
Ma se sono in compagnia, allora il buio diventa soltanto un nuovo amico da aggiungere alla comitiva.
 
“Dovremmo tornare a casa”, suggerisco, iniziando ad allontanarmi lentamente dal ponte.
Ma una mano mi trattiene per un braccio.
Non mi volto, so a chi appartengono quelle dita.
“Gerard, ti prego”, lo sento mormorare.
L'osservo con la coda dell'occhio.
Scuote la testa.
“Non andiamocene. Restiamo ancora un po' qui”.
Stavolta mi giro verso di Lui.
“Frank, non possiamo-”, vengo interrotto dal rumore di un singhiozzo.
Resto fermo.
“Ti prego”, mi supplica.
“Voglio aiutarti a trovare il quinto motivo”, conclude.
Vorrei poter tornare indietro, soltanto per ascoltare una seconda volta ciò che ha detto.
Non riesco a parlare, non riesco a dirgli di no.
Così, eccoci qui.
Io.
Frank.
E il buio, che silenziosamente ci segue.
Seduti sul bordo del fiume, a lanciare sassi e guardare il cielo.
A discutere, raccontare, sorridere e pensare.
Come due bambini?
No.
Come le stelle.
Che osservano, brillano.
Ed infine, si spengono.
Insieme.
 
 
“Gerard! L'ho vista! Ho visto una stella cadere!”, esclama ad un tratto Lui, esaltato ed allegro, mentre mi scuote una spalla.
“Era un meteorite, non una stella”, lo correggo, sorridendo.
Lui scuote la testa.
“Non importa! È stato bellissimo!”, strilla.
Ricordo che anche io ho avuto la stessa sua reazione, la prima volta che ne ho visto uno solcare il cielo con la sua fiamma lucente.
E ricordo che immediatamente lo comparai alla vita umana.
Un respiro.
Un colpo.
Un lampo.
E puf, scompariamo nel niente.
 
“Accidenti, non ho espresso il desiderio”, si lamenta sconsolato Frank.
Lo guardo, sollevando un sopracciglio.
“Non dirmi che credi a quella roba”, borbotto.
“Certo che sì”, commenta Lui con ovvietà.
Scuoto la testa.
“Dici che sono ancora in tempo per farlo?”, domanda.
“Fare cosa?”.
“Esprimere il desiderio”.
“Si è sempre in tempo per tutto”.
Il ragazzo sorride.
Poi, rivolge uno sguardo al cielo.
“Desidero che Gerard trovi il suo quinto buon motivo per non mettere fine alla sua vita”, esclama.
Poi, scoppia in una risata.
Lo faccio anch'io.
“Guarda che è una cosa seria”, lo rimprovero scherzosamente.
“Anche il mio desiderio lo è!”, controbatte lui, senza smettere di ridere.
Lo osservo, mentre riprende fiato.
È seduto sulle foglie secche che fanno da tappeto alla terra, al mio fianco.
Le sue gambe sono piegate, e le sue braccia poggiano sulle ginocchia.
I capelli si distinguono bene anche nell'oscurità della notte.
E i suoi occhi.
Maledizione.
I suoi occhi non smettono mai di brillare.
 
“Ehi, Frank”, lo chiamo.
Lui si volta.
La luce non serve, quando una persona risplende così.
“Sono contento che tu sia qui”, affermo.
Sorride.
“Ed io sono contento di sapere che tua nonna non è stata l'unica a volermi invitare”, ironizza poi, guardandomi dritto nel profondo.
Ed il cielo, non mi è mai sembrato così insignificante.
 
Ci alziamo insieme.
Ed insieme, ritorniamo verso casa.
E c'è silenzio.
E non ci sono colori, intorno a noi.
Come se tutto stesse appena iniziando.
 
Cinque.
Sprecare la vita è un atto stupido.
La vita non è un gioco da tavolo da finire in compagnia, né un libro di avventura da leggere in poco tempo.
La vita esiste per un motivo in particolare.
La vita è l'opportunità che ci hanno dato per poter imparare ad amare.
 
***
 
Dunque.
Non sono soddisfatta di questo capitolo.
È corto.
È stupido.
Ed è scontato.
Ma è essenziale per il passaggio al prossimo, che, udite udite, sarà importantissimo.
Anyway, siamo arrivati comunque ad un punto in cui iniziano a succedere cose.
Come avrete visto, Gerard ad un certo punto parla dei suoi cinque buoni motivi per non morire.
Se vi ricordate, lui li elenca tutti nel quinto capitolo, mentre i genitori litigano al piano di sotto.
Il problema è che il padre fa irruzione nella sua stanza poco prima che dica il quinto (rileggete quella parte per rinfrescarvi la memoria), che in realtà Gerard non ha ancora trovato (o almeno fino ad ora).
Molti dei discorsi che ho fatto-ehm, che Gerard ha fatto, sono privi di senso, con parole alla rinfusa, e senza troppo significato.
Oh, e il fatto della fotografia di cui parla Gerard:
E’ una cosa che penso realmente. Ma questo non nega il fatto che adori fare fotografie ad ogni cosa che mi appare sotto la giusta luce (è una grande passione che ho fin da piccola).
Quindi, non odiatemi.
Date la colpa a Gerard.
Anche il discorso di Frank sull’amore: non è altro che un modo casuale di scrivere tutto ciò che mi passava per la mente. Ma dentro la mia testa aveva tutto un suo filo logico, lo giuro!
Ho scritto questo capitolo fra ieri notte e stamattina, dopo aver passato ben tre ore della mia vita con lo sguardo rivolto verso il cielo, ad osservare il magico sciame delle Perseidi sorvolare il nostro pianeta.
Ed è stata un’emozione incredibile.
 
Ma lasciando perdere gli inutili fatti personali, vorrei porvi una domanda.
Arrivati a questa parte della storia, come vi sembra il personaggio di Frank? Vi piace questa doppia personalità (da un lato acido e scostante, dall’altro fragile e bisognoso d’affetto)?
E poi…
In generale, come vi sembra l’andamento della vicenda? Noioso? Squallido? Surreale? Assurdo? Fatemelo sapere, perché io sono capace di non riuscire a dormire per notti intere, pensando a questo.
 
A questo punto, mi sembra di aver detto tutto.
A presto,
Virgyl,
 
Ps: L’ottavo capitolo è già pronto per esplodere!
Pps: Ho finalmente attivato il mio account Wattpad. Il nick è lo stesso, la storia è sempre quella. Date un’occhiata se vi va J
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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