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Autore: TimeFlies    15/08/2015    8 recensioni
Scarlett, diciassette anni appena compiuti e un segreto piuttosto scomodo da nascondere, non potrebbe essere più felice di stare nella sua adorata ombra, lontana da sguardi indiscreti e da problemi presenti e passati che non vuole affrontare.
Adam, riflessivo eppure anche avventato, ha sempre avuto un'innata curiosità e una gran voglia di sapere.
Quando vede Scarlett per la prima volta non riesce a fare a meno di sentirsi attratto dall'aura di mistero che la circonda. Vuole conoscerla, svelare ciò che si nasconde dietro quella facciata di acidità e vecchi rancori.
Tutti i tentativi della ragazza di allontanarlo da sé finiranno per avvicinarli ancora di più portandoli dritti ad un preannunciato disastro. O forse no, perché nei momenti di difficoltà possono nascere le alleanze più impensate, soprannaturale e umano possono trovare un punto d'incontro.
E quando il pericolo si avvicina, l'unica cosa che vuoi è avere qualcuno al tuo fianco. Poco importa se solo poco prima eravate perfetti sconosciuti, se lui è entrato nella tua vita con la grazia di un uragano, se non volevi niente del genere.
A volte, un diciassettenne un po' troppo insistente è tutto ciò che hai, è la tua unica speranza. E tu la sua.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Under a Paper Moon- capitolo 5



                                         
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5. Scarlett



Che diavolo mi era saltato in mente?! Perché ero stata così scorbutica e rabbiosa? Dannazione, mi stavo rovinando con le mie stesse mani. E non potevo assolutamente permettermi di farlo.
L’avevo riconosciuto subito, appena aveva alzato lo sguardo dopo avermi quasi investita: era il ragazzo che avevo visto a scuola con Beth proprio quel giorno, lo stesso ragazzo che la mia migliore amica era determinata a conquistare.
Si era mostrato preoccupato e anche un po’ confuso, ma, d’altra parte, come dargli torto visto che mi ero comportata come una psicopatica?
Visto da vicino era ancora più carino: capelli castani arruffati, probabilmente perché ci passava troppo spesso le mani, labbra chiare e quasi sempre leggermente schiuse, mascella un po’ squadrata ma non troppo. E poi c’erano gli occhi, di un colore indefinito tra il blu e il grigio uguale a quello che ha il cielo poco prima che si scateni un temporale.
Indossava dei jeans scuri, una maglietta grigia e una felpa nera. Non sembrava uno di quei ragazzi fissati con l’aspetto fisico, non era uno di quelli per cui prima viene l’apparire poi l’essere. E questo era decisamente un punto a suo favore. Casomai avessi deciso che poteva interessarmi. Però, anche se avessi preso seriamente in considerazione l’idea di provarci con lui -possibilità molto, molto remota-, non avrei potuto farlo: primo perché piaceva a Beth e quindi non potevo mettermi in mezzo visto che lei era arrivata prima; secondo mi ero comportata da pazza lunatica e per questo probabilmente mi aveva fatto perdere un sacco di punti in partenza. Ero abbastanza certa che lui mi considerasse una schizzata fuggita da un ospedale psichiatrico. E come dargli torto visto il mio comportamento più che bizzarro?
Quando aveva accostato davanti a casa mia ero rimasta per un intero minuto a fissarmi le gambe giocherellando con un buco nella manica del cardigan come avevo fatto praticamente per tutto il viaggio. Non l’avevo guardato neanche quando mi aveva chiesto a che numero abitassi, mi ero limitata a rispondere automaticamente senza nemmeno pensarci. Solo quando lui si era schiarito la gola mi ero decisa ad alzare lo sguardo e avevo incrociato i suoi occhi grigio-blu che mi studiavano.
«Siamo arrivati.» Aveva detto prima di mordicchiarsi il labbro.
Lo faceva spesso, quasi fosse stato un tic nervoso, un’abitudine, un modo per sfogare la tensione. Involontariamente mi ero ritrovata a farlo anch’io. Grazie al cielo me n’ero accorta dopo un secondo e avevo smesso di farlo. Avevo lanciato un’occhiata fuori dal finestrino e avevo constatato che sì, in effetti eravamo di fronte alla piccola, o meglio minuscola, villetta -anche se definirla così mi sembrava un’esagerazione- dove vivevo.
Mi ero voltata verso di lui ed ero finita di nuovo per perdermi nel cielo tempestoso che erano le sue iridi. «Uhm… Sì… G-grazie.»
Aveva annuito appena e mi aveva fatto un piccolo sorriso incentro. «Figurati.»
“Ora dovresti scendere, per salvare almeno le ultime apparenze”, mi aveva suggerito una vocina nella mia mente. L’avevo assecondata subito, anche se, purtroppo, non avevo il pieno controllo dei miei movimenti: avevo aperto la portiera con mani tremanti e non ero riuscita a trattenermi dal lanciargli un’ultima occhiata di sottecchi prima di scendere. Inevitabilmente i suoi dannatissimi occhi color tempesta mi avevano beccata e aveva inibito ancora di più le mie già scarse facoltà mentali.
Ero riuscita a scendere dall’auto per puro miracolo reggendomi a stento sulle gambe. Avevo chiuso la portiera cercando di abbozzare un sorriso e sapevo, nel momento esatto in cui ordinavo alle labbra di incurvarsi, che sarebbe stato un disastro. Lui però l’aveva ricambiato lo stesso infondendo qualcosa di dolce in quel gesto tanto semplice. Una parte di me definì quel qualcosa pietà, e dovetti ammettere che c’erano buone possibilità che fosse vero.
Se n’era andato lasciandomi confusa e piena di dubbi sul marciapiede. “E ora che faccio?”, avevo pensato scoraggiata. Ero stata ad un passo dal farmi scoprire per ciò che ero realmente. E con chi, se non con il ragazzo che piaceva alla mia migliore amica? Cominciavo a chiedermi se ci fosse una qualche divinità che ce l’aveva con me perché l’avevo insultata un po’ troppe volte dandole la colpa delle mie piccole, e molto numerose, disgrazie quotidiane.
Quel pomeriggio avevo deciso di uscire per cercare un posto dove passare la notte del plenilunio: lo facevo tutte le volte, provavo a non andare nella stessa zona per evitare di far nascere sospetti e per cercare di non distruggere troppi alberi. Perché sì, ogni tanto mi capitava di perdere il controllo e fare concorrenza ai produttori di segatura. Per questo dovevo ringraziare i miei bellissimi, quanto difficili da nascondere, artigli.
Purtroppo mi ero trattenuta un po’ troppo ad osservare il sole che calava lento sull’orizzonte quindi avevo dovuto recuperare il tempo perso correndo. E quasi finendo sotto l’auto di Adam. Da quel momento era andato tutto degenerando: la paura di essere scoperta mi aveva resa scontrosa e lunatica e le sue continue insistenze non avevano aiutato. Anche se, tutto ciò che aveva fatto lui era in buona fede e mirato ad aiutarmi.
In qualche modo ero riuscita ad aprire la porta, facendo cadere le chiavi come minimo una decina di volte, ed ora mi ritrovavo in mezzo al salotto con le mani nei capelli e un senso d’angoscia incredibilmente soffocante nel petto: c’era mancato un soffio perché Adam capisse cos’ero. C’era mancato un soffio perché la mia intera vita venisse irrimediabilmente rovinata. C’era mancato un soffio perché tutti i miei sforzi venissero annullati.
“Sei irresponsabile”, mi rimproverò una vocina nella mia mente. Dovetti ammettere che aveva ragione. Molta, troppa ragione.
«Non posso andare alla festa… Non posso proprio…» Mi dissi.
Guardai il cellulare, che avevo buttato sul divano, combattuta: non mi andava di dare buca a Beth, ma non potevo neanche permettermi di rischiare tanto passando la notte prima della luna piena in mezzo a così tante persone.
Mi mordicchiai il labbro maledicendomi per la mia poca attenzione e per la facilità con cui mi facevo distrarre da cose banali come i tramonti. Non ero neanche una tipa romantica, quindi non mi spiegavo perché mi ero persa dietro al ciclo del sole. Feci un respiro profondo e cercai di fare il punto della situazione. E qual è il modo migliore per farlo? Parlare ad alta voce, ovviamente.
«Se sabato vado a quella stupida festa rischio di ammazzare qualcuno, se non ci vado Beth mi uccide, quindi, che diavolo devo fare?» Chiesi ad un immaginario interlocutore. Da una parte avevo voglia di uscire e rilassarmi un po’ anche se sapevo che sarebbe stato pericoloso, dall’altra il mio buon senso mi urlava di non essere egoista e di pensare a tutte le persone che sarebbero state con me quel giorno.
«Uh… Ma sì, in fondo non farò male a nessuno, la paura è tutta nella mia testa. Io a quella dannata festa ci vado.» Decisi annuendo soddisfatta.
“Pessima idea”, commentò una parte di me. In fondo sapevo che aveva ragione, se non completamente quasi, ma non potevo farmi condizionare così tanto dal mio essere lupo. Suonava un po’ irresponsabile alle mie stesse orecchie, ma, ehi, avevo solo diciassette anni, non potevo pretendere di essere matura e giudiziosa… Giusto?

Alla fine i pantaloni di pelle non si erano rivelati essere così male. Mi mettevano ancora un po’ a disagio, però avevo deciso di mettere da parte le mie insicurezze per provare a distrarmi almeno per una sera. E magari per trovare un ragazzo.
Avevo scelto di indossare gli anfibi sia perché non avevo scarpe col tacco sia perché non avrei saputo come camminarci. La canottiera di Beth aggiungeva un tocco femminile e sofisticato, credo, al tutto e devo ammettere che mi sentivo abbastanza attraente.
Avevo raccolto i capelli in uno chignon alto e fermato le ciocche ribelli con una notevole quantità di forcine. Riguardo al trucco ero stata più in difficoltà: non mi piaceva né mi riusciva usarlo, però volevo rendermi carina e presentabile quindi dovevo fare uno sforzo e cercare di non sembrare un panda.
Dopo qualcosa come un centinaio di tentativi, e altrettanti dischetti di cotone imbrattati, ero finalmente riuscita a disegnare una linea di eyeliner decente sulla palpebra. Mi metteva in risalto gli occhi, cosa che non credevo possibile, a dirla tutta, visto che erano di un comunissimo marrone. Aggiunsi un po’ di mascara per dare un tocco in più e coprii qualche imperfezione della pelle con del fondotinta.
«Non sembro nemmeno io…» Commentai guardandomi allo specchio.
Mi mordicchiai il labbro osservando il mio riflesso: forse non sarebbe andata così male, insomma, potevo controllarmi e riuscire a passare una bella serata. Se ci fossi riuscita sarebbe stata la prova del fatto che potevo vivere la mia vita e gestire il mio essere lupo. Questo poteva darmi una possibilità di crearmi un futuro degno di questo nome, magari andare al college, viaggiare… Fare qualcosa di completamente mio.
Qualcuno suonò il campanello con un po’ troppa insistenza, quasi gli si fosse incollato il dito al pulsante. Scossi la testa riconoscendo il modo di fare di Beth. Infilai il cellulare nella tasca dei pantaloni insieme alle chiavi di casa e scesi al piano di sotto.
Quando aprii la porta mi ritrovai davanti una ragazza incredibilmente sorridente: Elisabeth era semplicemente perfetta nel suo vestito di raso nero e i tacchi le facevano delle gambe da urlo. Aveva lasciato i capelli sciolti sulle spalle in modo che le incorniciassero il viso e mettessero in risalto il piercing al sopracciglio. Il trucco era davvero ben fatto: ombretto blu notte sfumato sulle palpebre, mascara blu elettrico e rossetto rosa scuro. Sembrava una modella appena uscita da una sfilata.
«Pronta per fare festa?» Chiese con uno scintillio malizioso negli occhi.
«Oh sì, puoi contarci.» Mi stupii della mia stessa sicurezza.
«Sei uno schianto Scarlett.» Commentò studiandomi.
«Non quanto te, ma grazie.» Replicai sorridendo.
Ridacchiò. «Beh, sai, la classe non è acqua.»
Scossi la testa mentre mi chiudevo la porta alle spalle. «Sei sempre la solita.»
«Se intendi sempre la migliore ti do ragione.» Ribatté scendendo elegantemente le scale nonostante quei trampoli che aveva ai piedi.
La sua auto era parcheggiata davanti a casa mia: era un SUV grigio metallizzato un po’ vecchio ma comunque più che funzionante. Beth si sedette al posto di guida, mentre io presi posto accanto a lei.
Lanciai un’occhiata perplessa alle sue scarpe paurosamente alte. «Come fai a guidare con quelle?»
Scrollò le spalle. «Non lo faccio.» E si sfilò i tacchi per poi farmi l’occhiolino. «Noi donne dobbiamo saperci adattare.»

Il locale era piuttosto piccolo, buio e molto affollato. C’era un sacco di gente sia al bar che sulla pista da ballo. Le ragazze indossavano abiti striminziti al limite dell’accettabile e scarpe con tacchi concepiti per sfidare la gravità. Per quanto riguardava i ragazzi c’era chi si era mantenuto sul classico scegliendo jeans con una maglietta o una camicia, e chi aveva decisamente esagerato: sembrava impossibile anche a me, ma avevo visto pantaloni argentati, maglie strappate messe peggio dei miei jeans, e da qualche parte avevo intravisto qualcosa di rosa.
«Non credevo ci fossero così tante persone.» Commentai guardandomi intorno.
«Il gruppo che suona è molto conosciuto. E il cantante è qualcosa di meraviglioso.» Rispose Beth studiando un ragazzo dai capelli rossi poco lontano da noi.
«Uhm…» Mormorai distrattamente: ero troppo impegnata a cercare un’uscita veloce e nascosta. In caso di bisogno, se il mio essere lupo fosse diventato incontrollabile, me ne sarei dovuta andare subito quindi era meglio avere un piano di fuga ben congegnato.
«Vado a cercare il ragazzo del parcheggio. Vuoi unirti?» Mi chiese la mia migliore amica.
«No, credo che andrò a prendere qualcosa da bere.» Replicai.
«Okay. Sta’ attenta, mmh? Non voglio doverti venir a riprendere in casa di chissà chi domattina.» Disse guardandomi con le mani sui fianchi.
Le diedi un colpetto sul braccio. «Beth! Semmai sei tu che devi stare attenta, io sono una brava ragazza.»
Alzò un sopracciglio, scettica, ma non commentò. Si limitò a farmi un sorrisetto malizioso prima di infilarsi tra la massa di corpi vestiti troppo poco che si agitava sulla pista da ballo.
In qualche modo riuscii a raggiungere il bar, facendomi spazio a forza di gomitate, sia ricevute che date. Trovai per miracolo uno sgabello libero e mi ci arrampicai beccandomi un bel po’ di occhiatacce. Provai per diversi minuti ad attirare l’attenzione del barista, inutilmente: va bene che non ero bellissima né formosa, ma poteva considerarmi anche solo per un attimo, no?
«Posso offrirti qualcosa?» Sussultai sentendo una voce sconosciuta e parecchio vicina.
Mi voltai di scatto e accanto a mi trovai davanti un ragazzo dai capelli neri tirati indietro da un’impressionante quantità di gel. Aveva gli occhi marroni e allegri. Indossava una camicia di jeans e dei pantaloni neri. Sbattei le palpebre, quasi stralunata, mentre analizzavo le sue parole: che voleva quello? “Vuole provarci con te, genio”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente.
«Oh… Sì, perché no.» Riuscii a dire.
Sorrise, soddisfatto, prima di richiamare il barista, che, contrariamente a come aveva fatto con me, gli prestò subito attenzione. «Due limonate.»
“Accidenti, tu si che sai come divertirti, eh?”, pensai ironica. Mi sforzai comunque di fargli un sorriso il più convincente possibile.
«Non ti ho mai vista qui, è la prima volta che ci vieni?» Domandò osservandomi ed appoggiandosi con il gomito ed il fianco al bancone.
«Uh… Sì. Di solito vado in una discoteca dall’altra parte della città, il Subway, non so se lo conosci.» Spiegai ritrovandomi a gesticolare: lo facevo quasi sempre quando ero nervosa. O in imbarazzo.
Lui annuì. «Oh, sì, ci abbiamo suonato un paio di volte.»
Aggrottai la fronte. «Tu suoni? In un gruppo?»
«Già.» Si indicò sorridendo mestamente. «Ti presento il chitarrista di riserva dei Nevermind.»
«Sul serio? Forte.» Commentai colpita.
«Più o meno: “riserva” vuol dire che non partecipo mai ai concerti.» Ammise.
«Questo è un po’ meno forte…» Mormorai. «Però non è malissimo.»
Ridacchiò. «Dipende dai punti di vista…» Mi tese una mano. «Casomai ti interessasse, io mi chiamo James.»
“Due ragazzi nel giro di due giorni, mica male”, commentai mentalmente ripensando ad Adam. Gli strinsi la mano. «Io Scarlett.»
«Sei la prima ragazza che incontro con questo nome… Però è bello.» Replicò.
Abbassai lo sguardo. «Grazie…»
Il barista mollò sul bancone le nostre ordinazioni. «Ecco qua. Sono sei dollari.»
Spalancai gli occhi: sei dollari? Sul serio? Erano fatte con limoni d’oro per caso? Cercai nelle tasche dei pantaloni i soldi e, dopo qualcosa come cinque minuti dopo riuscii a trovare tre dollari. Quando alzai la testa, però, vidi James che ne dava sei al barista scorbutico.
«Te li rendo…» Sussurrai, ma lui mi fece un cenno vago con la mano.
«Ehi, ho detto che te l’avrei offerta, no? E poi che figura ci faccio se ti lascio pagare?» Spiegò sorridendo.
«Oh… Allora grazie…» Dissi cercando di mostrarmi convinta.
«Di niente.» Prese i bicchieri e me ne porse uno. «Spero sia meglio di quella del Subway.»
Mi lasciai sfuggire una risata. «Lo spero anch’io: quella è imbevibile.»
Si mise a ridere con me mostrando delle adorabili fossette sulle guance. “Se lo vedesse Beth lo vorrebbe tutto per sé…”, pensai, “ma adesso lei non c’è…”

James era abbastanza simpatico e amichevole anche se un po’ timido. Riuscì a distrarmi dal plenilunio e dalla mia paura di combinare guai. Si rivelò essere una compagnia piacevole anche se forse era troppo dolce per essere il mio tipo. Questo non toglieva che potesse diventare un buon amico.
Mi raccontò la storia della formazione dei Nevermind, il gruppo che avrebbe suonato quella sera, e scoprii che era il fratello del cantate. Nonostante questo però aveva solo un ruolo marginale nella band. Suonava la chitarra da quando aveva sei anni: aveva cominciato con quella classica per poi innamorarsi, parole sue, di quella elettrica.
Era interessante starlo a sentire: mentre parlava gli brillavano gli occhi e sembrava davvero molto coinvolto. In più gesticolava esattamente come facevo io, cosa che mi fece sentire meno sola. Mi fece ridere più di una volta guadagnando punti extra per la sua risata tremendamente allegra e contagiosa.
Da una parte, mi sembrava quasi impossibile che stesse parlando proprio con me, soprattutto perché c’erano ragazze che avevano il novanta per cento di pelle scoperta e che sembravano molto più disponibili a divertirsi di me. Però lui era ancora lì, con le sue adorabili fossette e il suo carattere esuberante seppur riservato.
Non so neanche quanto tempo passammo a chiacchierare praticamente di tutto: era piacevole farlo e mi veniva naturale. In più apprezzavo il fatto che non mi facesse domande personali di nessun tipo, stava sulle sue senza sbilanciarsi troppo e già solo per questo si meritava una possibilità.
Per mia grande sfortuna, il mio lupo non era d’accordo con tutta quella tranquillità: si ripresentò con la grazia di un uragano pretendendo di farmi perdere il controllo di fronte ad un possibile fidanzato.
La prima cosa che sentii fu un dolore leggero ma pulsante alla testa. Inizialmente lo presi come una conseguenza della musica martellante e della poca aria che c’era nel locale. Poi però cominciò a farsi più insistente e a scendere verso il basso fino a fermarsi all’altezza dello stomaco.
Lo riconobbi solo in quel momento e bastò a farmi venire l’ansia. Cominciò a trasformarsi, passando dall’essere un dolore alla voglia di ringhiare. Strinsi le labbra sperando che se ne andasse, che mi bastasse concentrarmi per farlo sparire. Purtroppo, fu inutile, era ancora lì, pressante e forte.
Lanciai un’occhiata a James cercando di non farmi vedere: stava parlando di come i Nevermind scrivevano le loro canzoni e di tutte le volte in cui erano stati i suoi testi a risolvere i blocchi creativi di Max, suo fratello.
«Devo… devo andare in bagno, scusa.» Riuscii a balbettare prima di alzarmi ed allontanarmi tentando di non barcollare.
Mi sentivo intontita, a tratti più che lucida e respiravo a fatica. Avevo lasciato James da solo e non avevo neanche idea di quando sarei tornata. Anzi, forse non l’avrei mai fatto: era decisamente più prudente andarmene subito, non aspettare oltre. Neanche un minuto.
Riuscii a scivolare fra tutti i corpi sudati che si muovevano sulla pista da ballo e ad avvicinarmi ad una porta che avevo adocchiato appena ero entrata con Beth. “Giusto, c’è anche lei…”, pensai mentre mi aggrappavo alla maniglia per non cadere.
Aprii la porta il minimo indispensabile che mi serviva per passare e mi infilai in qualunque cosa ci fosse dall’altra parte. Grazie al cielo non c’era nessuno. In effetti, sarebbe stato strano il contrario: era un semplice corridoio spoglio con un tavolo vecchio e traballante addossato al muro di fronte a me e accanto all’uscita di sicurezza alla cui destra c’era una finestra piccola e piena di ragnatele.
Tirai un sospiro di sollievo constatando che potevo andarmene, potevo salvare le apparenze e la mia vita. Ero stata tremendamente irresponsabile ad andare a quella dannata festa e ne stavo pagando le conseguenze, ma almeno l’avrei fatto solo io, gli altri erano salvi.
Feci un passo avanti e portai le mani al viso cercando di fare respiri profondi. Ero riuscita a calmarmi quasi del tutto quando una fitta più forte ed improvvisa mi tolse il fiato. E, nel momento esatto in cui sentii le zanne allungarsi nella mia bocca, qualcuno aprì la porta alle mie spalle.


SPAZIO AUTRICE: Sono tornata finalmente *-*
In questi quindici giorni (?) non sono riuscita a scrivere, ma visto che quasi tutti i capitoli della storia sono già stati scritti, gli aggiornamenti procederanno con regolarità. O almeno cercherò di fare in modo che sia così.
Finalmente Scarlett è andata a quella famosa festa insieme a Beth. Nonostante sapesse che il giorno prima del plenilunio è piuttosto complicato per lei, Scarlett ha comunque deciso di correre il rischio e si è cacciata nei guai. Resta da capire chi è lo sconosciuto che ha aperto la porta e cosa succederà dopo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi rigrazio infinitamente per la pazienza con cui l'avete aspettato.

TimeFlies
  
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