Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Segui la storia  |       
Autore: DonnaEliza    16/08/2015    3 recensioni
"La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo."
"Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare."
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Doris mi ascoltò parlare e se mi trovò ridicolo non lo dimostrò neanche col sorriso più piccolo. Quando finalmente mi trovai a corto di parole alzò un dito come si fa a scuola per chiedere la parola e chiese timidamente:
“Ma cosa potrei mettermi per uscire di qui?”
Questo era un gran bel punto: i suoi abiti erano sia laceri che lordi di sangue e non solo non erano da prendere in considerazione, ma costituivano anche un bell’impiccio dal momento che non era il caso di disfarsene sul posto; avremmo dovuto portarceli dietro per un po’ e anche pulire scrupolosamente il bagno, nel caso avessero macchiato il pavimento.
Impensabile farle indossare qualcosa di mio: le donne in pantaloni erano ormai diffusissime, certo, ma Doris sarebbe sembrata un clown, con addosso la mia roba. Non sono un pezzo d’uomo, ma una mia camicia le arrivava comunque alle ginocchia, e delle scarpe non c’era neanche da parlare. Mi ridussi a raggiungere, all’ora dell’apertura mattutina, una boutique di abiti pronti da indossare, con in tasca un foglietto su cui erano riportate le misure e il numero di scarpe di Doris. Inventai una frottola circa un regalo di compleanno e probabilmente suonai abbastanza imbarazzato da essere creduto. Comprai un vestito a maniche corte color fiordaliso, con un minuscolo motivo di fiori celesti. La commessa del negozio, bene addestrata nel suo lavoro, mi propose anche calze, scarpe, guanti e una borsetta, e io accettai tutto. Quindi, tentò il colpo grosso mostrandomi anche un corto bolero color panna e un cappellino in tinta che aggiunsi agli acquisti senza battere ciglio. La cosa la sconcertò talmente che, al momento di presentarmi il conto, sembrava più a disagio di me. Non lo era, invece: avevo sperato che mi suggerisse anche l’acquisto di biancheria intima, cavandomi dall’imbarazzo di doverla chiedere; purtroppo non mi sventolò sotto il naso neanche una sottoveste e io non riuscii a vincermi. Tornai alla pensione con un vestito completo di accessori, ma senza nemmeno un paio di mutandine. Doris restò scandalizzata. In mia assenza aveva fatto le mie valigie e pulito puntigliosamente ogni centimetro della stanza e soprattutto del bagno; aveva anche fatto un fagotto molto stretto dei suoi vestiti e l’aveva cacciato in fondo al bagaglio, e non aveva la minima intenzione di rimettersi la lingerie sporca. Quando tornai con il voluminoso pacco della boutique, mi aspettava seduta sul letto avvolta nell’asciugamani dell’albergo: aveva fatto un altro bagno ed era riuscita ad acconciarsi i capelli in un semplice chignon usando le poche forcine che le erano rimaste addosso quando l’avevo trovata. Era pronta a vestirsi, e quando scoprì di dover indossare l’abito senza niente sotto mi guardò come se l’avessi invitata a fare un giro su una bici senza manubrio. La sentii emettere un vasto campionario di espressioni di lesa dignità dal bagno in cui si stava vestendo, e mentre camminavamo verso la stazione delle corriere non riusciva a smettere di passare le mani lungo tutto il vestito come se dovesse volarle via di dosso da un momento all’altro, in assenza di un bustino che lo persuadesse a restare.

Raggiungemmo la stazione delle corriere a piedi. Avevo dato un paio dei miei occhiali da sole a Doris, anche se le stavano grandi, perché tollerasse la luce del giorno. Benché fossero d’aiuto, lei continuava a sbandare e io la guidavo con un braccio intorno alle spalle. Nella giornata grigia di pioggia, con la valigia in mano e gli occhiali scuri, sembravamo probabilmente una coppia clandestina in fuga d’amore. La borsetta di Doris era vuota. Non riuscivo a smettere di pensare a quella borsetta vuota, a quanto fosse solo parte di un costume, come le giacche che indossavamo, inutili contro un freddo che non sentivamo. L’unica cosa utile che portavamo erano gli occhiali da sole, ed erano l’elemento più stonato di tutto l’ ensemble.

Cambiammo due corriere, spostandoci verso il centro del paese. Senza pensarci troppo, immaginavo che un’ ipotetica ricerca della donna scomparsa si sarebbe mossa verso zone disabitate: in mancanza di indizi migliori, probabilmente in quel momento Doris figurava come possibile assassina del tuttofare, quindi avrebbero pensato ad una sua fuga dalla giustizia, e una persona che non vuole essere riconosciuta difficilmente cercherebbe rifugio in una località popolosa, dove più gente potrebbe aver fatto caso alla foto sul giornale. Pertanto, ci stavamo dirigendo verso una cittadina di medie dimensioni, distante poco meno di un giorno di viaggio.
Prima di partire comprai il giornale e una rivista per Doris. Volevo controllare se si parlasse della sua scomparsa, ma nella copia di quel giorno non se ne faceva menzione. Doris era morta quasi tre giorni prima; forse i quotidiani avevano già smesso di parlarne. Probabilmente i giornalisti si erano limitati a citarne il nome e accludere una descrizione. In realtà, non ero molto preoccupato che ci trovassero, non so perché. È una tendenza che ho riscontrato in tutti noi: non crediamo realmente che qualcuno ci troverà, una volta morti: vengono rinvenuti i cadaveri e vengono ritrovate le persone smarrite. Noi siamo cadaveri, ma non siamo morti: ci sentiamo sfuggiti all’equazione.

Fu un viaggio noioso: rimanemmo muti per quasi tutto il tempo. Tutto quel che avrei voluto chiederle io avrebbe potuto rivelare la sua identità ad un passeggero per caso in ascolto e tutto quello che avrebbe potuto chiedermi lei avrebbe riguardato la nostra condizione di morti viventi. Entrambe le eventualità avrebbero potuto avere risvolti catastrofici. Dovevamo cambiare due volte per raggiungere la nostra destinazione, e Doris si addormentò nel corso della tratta di mezzo; il sonno la colse pochi minuti dopo la partenza e poco mancò che non si rovesciasse giù dal sedile nel corridoio della corriera. Mi accorsi che stava scivolando appena in tempo per protendermi a sorreggerla, simulando un abbraccio.
Potrei aver dato ad intendere che non abbiamo bisogno di dormire: non è così. Attualmente è dimostrato che il cervello ha bisogno del sonno molto più del corpo, che riesce a ricaricarsi egregiamente con il semplice riposo ed il cibo. Ciò a cui serve il sonno è, in larga misura, la manutenzione e la rigenerazione della corteccia cerebrale, da cui dipendono i processi cognitivi, la memoria e la reazione cosciente agli stimoli; per essere lasciato in pace durante questa manutenzione, il cervello manda in ferie tutto l’organismo, inviando lo stimolo della sonnolenza opzionale, che viene spesso combattuta a suon di tazze di caffè e passeggiatine per sgranchirsi. Se la resistenza al sonno opzionale diventa una vera e propria battaglia, il cervello decide di chiudere i battenti ed entrare nel cosiddetto “sonno nucleare”. A quel punto il malcapitato di turno stramazza, volente o nolente. Quel che voglio dire con questo panegirico è che noi, svincolati dal bisogno di riposo fisico, non avvertiamo la sonnolenza opzionale: siamo dei cervelli con un sistema deambulatorio e, quando la nostra sala macchine chiude per manutenzione ci coglie completamente di botto. Prima di imparare quale fosse la mia soglia di resistenza massima ho passato diversi mesi soccombendo al sonno nei momenti più disparati, spesso nel mezzo di un’azione come allacciarmi le scarpe o voltare una pagina, come se la richiesta di compiere quell’ulteriore sforzo fosse stata la goccia che faceva traboccare il vaso della mia autonomia; per mia fortuna ho vissuto i miei primi anni con estrema cautela, passando la maggior parte del mio tempo chiuso nella mia stanza di pensionante e questo mi ha risparmiato molti incidenti potenzialmente tragici. Oggigiorno sappiamo che il cervello richiede il suo sonno nucleare di sei-otto ore all’incirca un giorno su due, e facciamo in modo di organizzarci di conseguenza. Doris non aveva dormito per più di tre giorni, sostenuta dalla tensione nervosa per quanto le era accaduto. Adesso, cullata dal beccheggio del bus, il suo interruttore era scattato e lei si era immediatamente spenta. Sperando di non essere notato, le tolsi il cappellino che le era scivolato su un orecchio e tenni la sua testa ciondolante al sicuro sulla mia spalla fino alla fine del tragitto.

Prendemmo in affitto due stanze ammobiliate in un palazzo di tre piani poco distante dal centro cittadino. Il pianterreno era occupato da un pub, e al primo piano si trovavano degli uffici; i nostri alloggi erano nel sottotetto dell’edificio, dove tradizionalmente si gela d’inverno e si cuoce d’estate e quindi erano economici. Al padrone di casa ci presentammo insieme e sottobraccio; lui diede per scontato che fossimo sposati e noi non lo contraddicemmo. Attraverso un paio di fedi nuziali che nemmeno c’erano ci valutò più di buon occhio, e la trattativa fluì liscia e senza inconvenienti. La verità è che le persone, quando non cercano un contatto umano, non fanno domande: il proprietario dell’emporio da cui andavamo sempre a fare la spesa non ci ha mai chiesto perché comprassimo regolarmente il sapone per i pavimenti, ma mai quello per i piatti e alla farmacia non domandarono mai a Doris come mai acquistasse sempre dentifricio e pastiglie per l’alito, ma mai assorbenti igienici. Una vita, anche una vita lunghissima, può passare bellamente inosservata, purché eseguita ad un volume basso.
Il primo giorno della nostra ufficiale convivenza comprammo tende molto spesse per passare le ore di luce indisturbati e lampadine a basso voltaggio per quando faceva buio. Il secondo giorno, Doris uscì per comprare la biancheria intima che tanto le mancava; rientrò con tre paia di calze, due sottovesti, una gonna, una camicetta, pantofole e un numero imprecisato di articoli di lingerie. Il terzo giorno si guardò allo specchio e si precipitò fuori casa, inorridita, alla volta di una profumeria: al suo ritorno, l’armadietto del bagno si riempì di flaconi, tubetti e pennelli. La sobria saponetta che mi accompagnava ovunque fu scalzata da sali da bagno, bagnoschiuma e creme emollienti, e un infernale asciugacapelli si appollaiò su una mensola di fianco allo specchio. Il giorno successivo, all’imbrunire, andammo insieme a fare la tessera della biblioteca locale. Anche lì, dettero per scontato che fossimo sposati e insistettero perché solo io facessi l’iscrizione, assicurando Doris che avrebbe potuto usare la mia tessera. Mi lanciò uno sguardo poco convinto, ma non disse nulla. Passeggiando, quella stessa sera, scovammo un modesto museo di storia naturale e riuscimmo a visitarlo prima dell’orario di chiusura. Osservammo canguri impagliati prima che io nascessi da qualcuno che non aveva idea di come apparisse un vero canguro, delicati scheletri di uccelli e feti di cane quasi invisibili nella formalina ormai torbida. Doris entrò per prima nella sala degli insetti, dalle pareti interamente rivestite di bacheche punteggiate di mosche e farfalle, protetti da tempo e polvere dagli sportellini di vetro. Le lampadine mandavano un ronzìo sonnolento e i tacchi di Doris risuonavano sul marmo mangiato del pavimento con un rumore pulito. Non c’erano orologi a ticchettare insieme a loro. Avanzò fino alla parete di fondo e rimase ferma, un piede quasi sul punto di lasciare il suolo. Potevo vedere la suola della scarpa ancora nuova, non ancora sporca davvero. Vedevo la coda di cavallo di Doris ondeggiare appena mentre lei muoveva lentamente la testa seguendo il sentiero dei coleotteri infilzati. Quando lei fermava lo sguardo, la coda dondolava ancora un poco, poi si fermava. A quel punto, tutto era immobile: l’aria asciutta della stanza dalle grandi finestre chiuse; le antenne degli insetti sotto vetro; le spalle di Doris, che non dovevano più seguire il ritmo del respiro. E nessun rumore. Se fosse calata una campana di vetro su di lei, nulla sarebbe mutato in quella stanza rispetto a prima del suo ingresso: come prima, avrebbe esposto graziose cose morte. Con una sola, affascinante variazione sul tema: gli insetti sembravano vivi, finché non si faceva caso alla loro immobilità; Doris sembrava perfettamente morta, a patto che non si muovesse.

 
____________________________________________________________________ 
 

Sto leggendo il libro che ho comprato oggi pomeriggio, accomodato nel mio posto preferito del salotto: nel cantuccio dei cuscini d’angolo del divano che sta di fronte alla televisione. E’ un divano molto profondo, e la mia posizione mi regala ancora più spazio per le gambe. A un paio di cuscini di distanza da me, seduta sul bordo del divano e curva in avanti per avvicinarsi al basso tavolino da caffè, La Santa sta dipingendo le sue unghie finte. Ha troppa paura di danneggiare le sue unghie naturali per applicarsi lo smalto direttamente, così acquista online degli stock di unghie in resina di varie forme e lunghezze, che poi dipinge e indossa a seconda dell’umore. E’ diventata piuttosto brava in questa singolare branca della pittura miniata, al punto di avere un piccolo negozio online in cui vende le sue creazioni.
E’ un pomeriggio di novembre e il cielo fuori dalle finestre è del blu delle porcellane cinesi. In salotto ci siamo solo noi due: Lola è uscita da un’oretta e Priska è nella sua stanza, dalla quale esce un fiume di musica elettronica dai toni sepolcrali. Stavo per dire che anche Thom è nella sua camera, invece eccolo che scende le scale come Fred Astaire, con un paio di pantaloni di felpa grigia, una maglietta che probabilmente ha rubato a Priska e due pantofole impossibilmente voluminose ai piedi. E’ allegro come un fringuello e, a giudicare da come lo sventola, il cd che ha in mano ne ha il merito. Senza smettere di salterellare raggiunge la nostra oasi di pace domestica, poi si accoscia davanti al televisore e accende il lettore DVD. Dal piano di sopra ci raggiunge la voce di Priska:
-Ha fatto?
-Sì!- Abbaia felice Thomas. –E se non ti sbrighi comincio senza di te!
Vengo colto da un’intuizione.
-Thomas- esordisco cautamente. –È per caso un nuovo film sui vampiri, quello che ti accingi a somministrarci?-
-Non “nuovo”, caro mio. Trattasi di un film molto, molto vecchio: del 1927, per l’esattezza, e anche molto raro. Ci ho messo tre settimane a scaricarlo.
-Ci risiamo- brontola La Santa. Thom si esibisce in un ostentato sospiro di naso, del genere che si fa quando si cerca di mantenere la calma.
-Santa, anima mia, luce dei miei occhi, ortensia del mio davanzale: nessuno ti obbliga alla visione, sai. Puoi raccattare i tuoi artigli da laccare usando i tuoi artigli già laccati e trasferire altrove la tua augusta personcina sputasentenze.
La Santa non risponde, ma fa un sorrisetto; Thom riesce sempre a passarla liscia, con lei, e viceversa. Le loro lingue sono state affilate dallo stesso maestro di spada, e hanno imparato da tempo a non incrociarle più.
Mentre il televisore viene acceso Priska scende dabbasso, armeggiando con il suo cellulare. Scavalca lo schienale del divano e si siede vicino alla Santa.
-Ho scritto a Lola che guarderemo il film senza di lei e ci augura una morte lenta e doloros.- annuncia.
-Certo, è ammirevole la vostra perseveranza- osservo. –Un anno via l’altro, un film di vampiri dopo l’altro, la vostra speranza di trovare un’intuizione geniale sopravvive immutata-
-E dimentichi tutti i romanzi che ci sciroppiamo- mi fa notare Thom.
-Eppure dovrebbe essere palese, oramai: non si parla di noi. Nessun vampiro del mondo fantastico partorito dalla mente dell’uomo ha tratti in comune con noi-
-Duemila anni di evoluzione e nessuno ha creato niente di decente sui vampiri. Che mondo ingrato, vero?-
-È perché noi non siamo vampiri, Thom!- sbuffa Priska –Saranno trent’anni che te lo ripetiamo: non abbiamo i canini affilati, non abbiamo paura dei crocifissi, non andiamo in cenere alla luce del sole…-
-Ehi! La storia del sole è stata inventata da Murnau, non fa parte della tradizione del vampiro.-
-Se è per questo anche i canini sono stati introdotti da Stoker.-
-No, da Rymer. E comunque, questo va a supporto della mia tesi: vampiri si, canini no.-
-Santo Cielo, credevo di poterlo sopportare, ma mi esploderà la testa se sento queste chiacchiere una volta di più- sbotta La Santa. Si alza in piedi e scavalca le mie ginocchia, abbandonando smalti e unghie finte sul tavolino. Ci ingiunge di non toccarle e scompare di sopra.
-Lei potrebbe incenerire, alla luce del sole – sogghigna Thom.

Io non mi stanco mai di ascoltare i dibattiti sulla nostra natura, vampirica o meno, anche se  ormai raramente vi prendo parte. Però posso capire l’insofferenza della Santa: dopotutto, è stata la prima a parteciparvi, con me, e via via che si aggiungevano altri membri al nostro gruppo li ha visti ripetersi ancora, ancora e ancora. In effetti, fu una delle prime conversazioni che avemmo.
Quando la corriera ci portò a destinazione era quasi sera. Riparammo in una pensioncina, non troppo brutta rispetto a quelle cui ero abituato; le stanze non erano state riarredate dagli anni Quaranta e, se da un lato erano decisamente malconce, almeno non mi facevano soffrire di horror vacui. Varcammo stancamente la soglia della nostra camera. Io mi tolsi la giacca e la appesi alla spalliera della sedia; Doris si sfilò il bolero e lo appese nel piccolo armadio, poi sedette sul letto e si tolse le scarpe. Io cominciai a disfare la valigia. Lei andò in bagno; sentii scorrere l’acqua del rubinetto. Mi resi conto che stavamo deliberatamente allungando i tempi delle nostre azioni per rimandare il momento di cominciare a parlare. Non ho mai dovuto fare un discorso sulle api e sui fiori, ma immagino che causi lo stesso imbarazzo che provammo entrambi quella sera. Quando alla fine la mia valigia fu vuota e Doris si fu messa il mio pigiama, rimanemmo interdetti a guardarci ai due lati della stanza, io in piedi dietro alla sedia dello scrittoio, lei accanto al comodino del letto. La mia mascella calò progressivamente mentre cercavo qualcosa da dire, ma alla fine riuscii ad articolare:
-Beh… immagino che avrai molte domande.
-Oh, sì – rispose lei precipitosamente, sedendosi sul letto. –Sì, ehm… solo, non so da dove cominciare. Voglio dire, certo, ho molto da chiedere, ma ho anche una tale paura delle risposte…
-L’immagino. Non dobbiamo per forza parlare oggi, sai… sappi solo che puoi chiedermi qualunque cosa.
-No, io voglio chiedere!- Saltò in piedi, come se avesse paura che me ne andassi. –Insomma. Che cosa mi è successo?
Calai lentamente a sedere sulla sedia, cercando le migliori parole da usare. Poi parlai con il tono più calmo e pacato che avevo, come un dottore che illustra ad un paziente il decorso della malattia che l’ha affetto.
-Quello che è successo, che è successo sia a te che a me tanti anni fa, è che siamo stati uccisi. Credo che a te abbiano rotto il collo, mentre io sono stato strangolato. E siamo, a tutti gli effetti, morti: il nostro cuore non batte, non abbiamo bisogno di respirare; vedo che tu lo fai, ma se provi a smettere scoprirai che non ti sentirai mancare il fiato – tacqui, mentre Doris compiva quell’esperimento. I suoi occhi e la sua bocca si spalancarono, via via che i minuti passavano. Alla fine, esclamò:
-Dio mio, è vero! Ma… ho appena preso fiato per parlare. Non ci ho pensato, è stato involontario. Dovrei dominare anche questo?
-No… per parlare occorre respirare. Neanch’io ci avevo mai pensato, prima di morire, ma se ci poni mente è così che funziona. Pensa ai cantanti, a come sia importante la respirazione per modulare bene il canto. E comunque, non devi smettere di respirare, se non vuoi.
-Ma la gente se ne accorgerebbe!
Sorrisi. Quanto mi ero assillato, quante prove avevo fatto, io, per imparare! E tutto da solo.
-No, la gente non se ne accorge.
-Oh. Ma… se siamo morti… quando moriremo?
-Non lo so, Doris. Non ho mai incontrato un altro come me, prima di te. Ma, di sicuro, non tanto presto. Io sono… piuttosto vecchio.
Mi fissò, a lungo. Come era accaduto con Catherine, vidi i suoi lineamenti cambiare, mentre la portata di quello che le suggerivo li tirava e li spingeva verso la deriva del dubbio, dello sconcerto, dell’attesa di una rivelazione.
-Quanti anni hai?
-Ne ho settantasette. Sono nato nel milleottocento e ottanta e sono morto nel millenovecento dodici. Avevo trentadue anni.                
Mi guardava. Cercava qualcosa da dire, ma cosa? Parole di conforto per me, nel caso che soffrissi ancora? O le domande più pressanti su sé stessa, accompagnate dal senso di colpa, dalla paura di passare per egoista, per indelicata? Cercai di venirle incontro.
-Ascoltami, Doris: neanch’io so come muovermi in questa situazione. Ti ho già detto che non ho mai incontrato un altro come me, prima, quindi non mi aspetto nessuna reazione precisa da te, e tu non devi avere paura di seguire le tue emozioni.
-Ecco- soggiunse lei, imbarazzata. –Circa le emozioni… io mi sento strana. Non capisco cosa provo, Julian. Non per quello che mi è successo, ma in senso generale. Non so come spiegarmi… è come se capissi quello che sento, ma non lo provassi. Come se fossi spaventata, ma calma; oppure triste, ma calma. Preoccupata, ma comunque, sempre calma. A te capita? E’… normale?
-Sì, è normale. Ti ci abituerai. Io credo che sia perché non ci batte il cuore. Sai, quando siamo emozionati, il cuore ci batte forte; quando siamo preoccupati ci sentiamo un nodo allo stomaco e così via. Ma sono tutte reazioni fisiche ai nostri stati d’animo. Ora, il nostro corpo è spento, quindi tutto quello che proviamo rimane nella nostra testa. Sulle prime, pensavo che questo mi avesse reso un mostro senza cuore, ma ho capito che non è così. I nostri sentimenti, quello che ci rende umani, nascono nel cervello. E quello è l’unica cosa che funziona ancora.
“Però devi avere molta cura del tuo corpo: devi stare attenta a non ferirti, perché non puoi più guarire. Taglia le unghie molto corte. Lavati spesso i denti, perché purtroppo avrai sempre un alito cattivo, ma stai attenta a non spazzolarti troppo forte. Succhia pastiglie alla menta, ma non troppe: il tuo corpo non ha bisogno di mangiare e se gli fai ingoiare troppi liquidi o cibo, rigetterai. Ogni tanto succederà comunque: devi bagnarti spesso la bocca, perché non produci più saliva, quindi ingoierai per forza un po' d'acqua. Stai attenta anche alle fiamme e alle fonti di calore in generale: non sentiamo più dolore.- Le mostrai il dito che avevo messo sulla fiamma di candela, la mia prima notte da morto, quando cercavo di conoscere il mio nuovo funzionamento. La pelle era rimasta più scura, e sembrava conciata al tatto. Doris lo guardò a bocca aperta, poi mi prese la mano e la rigirò, guardandola da tutti i lati: era costellata di taglietti, piccole abrasioni, minuscole ferite di ogni genere. Avevo un’unghia annerita da quando mi ero chiuso il dito in una finestra. Da anni ormai temevo che cadesse. Portavo i guanti più che potevo, ma ferirsi era inevitabile. Anche con tutte le premure possibili, a Doris sarebbe accaduto lo stesso. Mi dispiaceva: aveva un aspetto così lindo, era una perfetta donnina degli anni Cinquanta, degna della pubblicità. Era riuscita a fare la casalinga per anni e a mantenere le mani morbide e immacolate, ed ora l’usura si sarebbe impadronita di lei, come di un oggetto qualunque. La vita eterna ci aveva reso le nostre proprie domestiche, armate di piumino antipolvere e panno per lucidare.
Mentre rimuginavo su questo, il filo dei pensieri di Doris si era spostato altrove. Senza smettere di rigirarsi la mia mano tra le sue, mi chiese:
-Ma, e perché la luce del sole ci dà fastidio? Cosa siamo… una specie di vampiri?
La domanda.
-Non saprei, Doris. Me lo chiedo da quando è successo. Ho letto diversi libri di vampiri, e ho visto anche tutti i film che sono usciti al cinema finora, ma non ci sono molte somiglianze. A parte il nutrirsi di sangue e il fastidio per la luce, non c’è altro che ci accomuni ai vampiri. Certo, il bisogno di sangue non è poca cosa, ma comunque i denti non ci si allungano quando ci nutriamo. Riguardo alla luce poi, non ci dà fastidio solo quella solare: hai visto anche tu che basta una lampadina troppo potente a frastornarci. Non so perché, ma ad ogni modo non è certo la stessa cosa che ridursi in cenere…
-Julian!
Mi stava strizzando la mano in una morsa. Sentivo due unghie che premevano sulla carne. Chissà se mi avrebbero lasciato un segno.
-Hai detto “nutrirsi di sangue”?
Oh, beh. In fondo, non credevo realmente che parlarne come di sfuggita l’avrebbe distratta.
-Sì, l’ho detto.
-Ci nutriamo di sangue?
-Lo facciamo, sì. Lo hai già fatto anche tu. Appena ti sei risvegliata, ricordi?
-Io credevo… speravo che fosse una reazione allo shock!
-Può darsi che lo sia, non ne so abbastanza da poterlo dire con certezza. Ma è la stessa cosa che ho fatto anch’io. E ho dovuto rifarlo, molte volte. – Misi la mano libera a coppa sulle sue –Dovrai farlo anche tu. Mi dispiace. Vorrei che ci fosse un altro modo.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: DonnaEliza