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Autore: Acinorev    16/08/2015    1 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Buongiorno gente!
Mi scuso tantissimo per il ritardo: diciamo che, a parte una piccola vacanza che mi sono concessa, la stesura di questo capitolo è andata davvero a rilento.
Promemoria delle parole in Swahili che troverete nel capitolo:
- asante sana = grazie molte;
- tafadhali = per favore;
- nini? = cosa?
- hapana = no.
Nuove parole:
- ndiyo = sì;
- mimi = io;
- wewe = tu.
Buona lettura :)
 

 

Capitolo sette
In nome dell'amore

 

Solomon conosce bene le notti del Kenya, le respira ad ogni tramonto: il nero che le caratterizza è totalizzante e non si limita a rabbuiare il paesaggio, è come se spegnesse qualsiasi cosa sotto di sé. La vita si ferma, si assopisce cullata dalle stelle luminose, e qualsiasi rumore si dissolve nel nulla: il silenzio è così intenso, così avvolgente, da amplificare ciascun suono abbia intenzione di interromperlo.
In quel momento, Solomon desidera che la notte si trasformi nel caotico chiacchiericcio tipico delle giornate di mercato, nelle risate dei bambini che giocano tra le mura del Kenyatta Centre: persino il russare fastidioso dei suoi compagni di stanza andrebbe bene. Accetterebbe tutto, pur di non sentire il silenzio che lo circonda, il proprio battito cardiaco veloce, vigoroso.
Si volta verso Tifah, alla sua destra: è seduta sulla strada sterrata, accanto al cancello che li divide dai loro amici e dai loro letti. Hanno camminato lungo la via del ritorno con passi decisi e senza pronunciare una parola, ma per qualche ragione non hanno osato attraversare la soglia del Kenyatta Centre, come rifiutandosi di affrontare la realtà.
«Avanti, parla», la incita a denti stretti, accorgendosi del modo in cui Tifah lo sta guardando. Non ha fatto altro da quando hanno lasciato il penitenziario.
Solomon non vuole davvero ascoltare cos’ha da dire – può immaginarlo perfettamente – ma il suo cuore è ancora troppo rumoroso e lui non riesce a sopportarlo oltre, ha bisogno di distrarsi.
Tifah corruga la fronte e smette di giocherellare con un ciuffo d’erba tra i suoi piedi, sembra valutare la situazione. «Quindicimila scellini, Sol», esclama. «Dove diavolo li prendi quindicimila scellini?»
Lui si irrigidisce, ripensa alla guardia che nemmeno un’ora prima li ha guardati con superiorità ed arroganza, avanzando una proposta da accettare senza obiezioni: Solomon avrebbe voluto colpirlo in pieno viso con tutta la forza che lo animava per il rancore, ma avrebbe solo peggiorato le cose.
«Il tuo problema è che quei soldi servono ad aiutare mio fratello», indovina Solomon, posizionandosi di fronte a lei. «Se in questa situazione ci fosse stata Ryma, saresti andata a prostituirti con i tuoi odiati inglesi pur di tirarla fuori dai guai».
Le vuole bene, darebbe un braccio per lei, ma Dio quanto lo fa incazzare.
Tifah balza in piedi, serra i pugni. «Ma Ryma non è in prigione», precisa, senza negare le sue insinuazioni. «C’è Kelvin. E se lo merita, si merita ogni singolo giorno che sta passando lì dentro».
«Attenta a come parli», la ammonisce: sa perfettamente quale sia il rapporto con suo fratello, ma in quel momento non ha bisogno di parole simili, non ha bisogno di ricordarsi di quanto siano vere.
«Perché?» domanda Tifah, più indignata. «Brucia così tanto sapere che tuo fratello dovrebbe marcire tra quelle pareti per tutto quello che ha fatto e che ti ha fatto? Ammettilo: quei quindicimila scellini sarebbero sprecati per lui, perché non appena uscito di prigione tornerebbe per strada e continuerebbe a fare di testa sua senza neanche ringraziarti! Lo sai anche tu, lo sappiamo tutti!»
«E cosa cazzo dovrei fare?!» sbotta Solomon, gesticolando e sospirando subito dopo, pentito di aver alzato la voce con il rischio di essere sentito da qualcuno. Si morde un labbro, calcia nervosamente un sassolino a terra. Si rivolge di nuovo a lei solo dopo una manciata di secondi: «È mio fratello», esclama, quasi geme.
«In comune avete solo il sangue», gli ricorda Tifah, assumendo un’espressione incredula: è evidente, non concepisce le sue debolezze, non riesce a coglierle.
Solomon distoglie lo sguardo, scuote la testa e si allontana.
Preferisce nuovamente il silenzio.
 
 
 
 
La signora Harvey ha preparato una torta al cocco e al cioccolato, già infornata e probabilmente quasi pronta: l’aroma dolciastro si diffonde in tutti gli ambienti della villa, raggiungendo anche il naso di Solomon, che sta sistemando dei fiori in aiuole appena create. Il suo stomaco si lamenta rumorosamente, facendogli desiderare che la sua datrice di lavoro esca da un momento all’altro chiedendogli di assaggiare una fetta della torta: si vergogna di questo suo bisogno, del fatto di non aver mai gustato qualcosa di simile, e cerca di non pensarci concentrandosi anche sui movimenti più banali.
Bahati, che anche quel giorno ha voluto seguirlo, sta giocando con della terra fresca a pochi metri di distanza: i pantaloni smessi che qualcuno gli ha generosamente prestato si sono consumati sulle ginocchia, lo rendono più goffo di quello che è. Muove il capo seguendo il ritmo di una canzone proveniente dallo stereo della signora Harvey: è musica classica, si alternano note energiche a melodie inevitabilmente noiose.
Solomon sorride tra sé, pensando che potrebbe fare di meglio, pur non essendo nato in Europa nella famiglia di Mozart e non avendo un accento sofisticato: la musica è sempre stata un’amica, una compagna di giochi in grado di liberarlo da qualsiasi pensiero. Per Solomon non è la sua ragione di vita, come per altri, ma non può negare la sua importanza.
Seppellendo le ultime radici sotto un cumulo di terra, inizia a creare qualcosa: con la bocca produce dei suoni che dovrebbero rappresentare delle percussioni, con lo scopo di animare quella canzone malinconica. Batte le mani sulle proprie cosce per aiutarsi, prima debolmente come per non farsi sentire e poi sempre più forte: nella sua mente costruisce una chitarra costosa ed invidiata da qualsiasi musicista, pizzica le sue corde immaginarie abbinando note che non saprebbe riconoscere o suonare. Aggiunge un basso, il violino con il quale una giovane ragazza asiatica si è esibita in televisione tempo fa e che l’aveva incantato: il ritmo accelera, aumenta il volume della sua espressione e Solomon si muove secondo quella melodia appena nata, o forse è la melodia a scaturire dai suoi movimenti improvvisati.
«Anche io, anche io!» grida Bahati, con il viso entusiasta, mentre si alza da terra e corre verso di lui: balla come un bambino di cinque anni potrebbe fare, ma si può già notare il sangue che scorre nelle sue vene, il temperamento che lo anima e che non è altro se non genetico.
Solomon sorride ancora, prendendolo per mano per guidarlo, e ricorda quando anche lui e Kelvin, molto più giovani, passavano il tempo in quel modo: gli sembra quasi di rivivere quei pomeriggi caldi e monotoni, di rivedere le labbra ridenti di suo fratello e la spensieratezza vivace nei suoi occhi. Prima che tutto iniziasse a sgretolarsi senza mai essere stato intero. Prima, molto prima.
Le note nella sua testa si intestardiscono, ancora accompagnate dalla musica classica di base, e si trasformano in qualcosa di più rabbioso, confuso, inarrestabile. Solomon, ad occhi chiusi, è padrone del vasto giardino che cura per lavoro, mentre si libra da un angolo all’altro muovendo il bacino e le gambe toniche, facendo scattare il capo a destra e a sinistra, ondeggiando dolcemente.
«Wow».
Quel sussurro si intrufola distintamente nella sua fantasia, facendo immobilizzare Solomon al centro del prato verde e rigoglioso: la signora Harvey è sulla soglia della porta-finestra, con un vassoio tra le mani e lo sguardo rapito. Bahati sta ancora gironzolando attorno al suo maestro improvvisato, canticchiando qualcosa distrattamente e non mostrando alcuna intenzione di fermarsi.
«Torno subito a lavoro», borbotta ansimando per lo sforzo, in preda alla vergogna derivante dall’essersi esposto fin troppo.
«No», lo ferma la signora, impedendogli di fare un altro passo: appoggia il vassoio sul tavolo in legno sotto un gazebo, lasciando in bella vista la torta gonfia ed invitante, accanto a dei bicchieri ed un succo di frutta. «Non preoccuparti: sei già a buon punto, ti meriti una pausa», gli dice, sorridendogli cordialmente.
Solomon inspira profondamente, diffidando della sua gentilezza per la necessità di proteggersi. Posa una mano sul capo di Bahati, non appena questo gli si avvicina per caso, e lo spinge debolmente verso il tavolo a pochi metri di distanza. È apparecchiato con una tovaglia bianca e ricamata in corrispondenza dei bordi, abbinata ai tovaglioli in stoffa: sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto, un piano per mettere a disagio chiunque le si avvicini con le mani callose e sporche di terra, il sudore a gocciolargli sulla fronte.
La signora Harvey taglia delicatamente la torta, disponendone le fette in piatti di ceramica pulita: Solomon trattiene il fiato per non cedere così clamorosamente al profumo dell’impasto e del cocco, all’ombra del gazebo e alla freschezza del succo nella caraffa trasparente, ma Bahati sembra essere il portavoce dei suoi più nascosti desideri, affrettandosi a prendere posto e guardando con incanto la delizia che sta per assaggiare.
«Se non ti siedi immediatamente, ti licenzio», lo rimprovera la signora Harvey, assumendo un’espressione furba e provocatoria: gli passa una fetta di torta prima ancora che lui si sia seduto, sicura che non otterrà un rifiuto in risposta.
Solomon le dà ascolto senza convinzione, con le mani strette a pugno posate sulle ginocchia e la schiena dritta: inconsapevolmente sta cercando di toccare il meno possibile.
«È buonissima!» esclama Bahati, con della farina di cocco che gli sporca gli angoli della bocca: riesce a malapena a tenere i gomiti sul tavolo, deve allungare il capo per raggiungere la torta che mangia con tanto vigore.
«Ti piace? Mi fa piacere», sorride la signora, tornando con lo sguardo sul suo dipendente. «Balli davvero bene, sai?»
Solomon continua a fissare la fetta di torta.
«Prendi delle lezioni?» insiste lei, con la solita premura.
Gli viene da ridere, ma si trattiene. «No».
«Non hai mai pensato di prenderne?»
Solo a quel punto Solomon si decide a guardarla, corrugando la fronte. «No», mente, stupendosi della sua cieca domanda: certo che si sarebbe iscritto in una qualsiasi scuola di danza, se solo le lezioni non costassero oltre quello che può permettersi.
La signora Harvey aspetta un paio di minuti prima di riprendere a parlare. «Oggi mi sembri stanco: non ti senti bene? Vuoi tornare a casa?»
Non è che non si senta bene, più che altro gli sembra di essere sul punto di spezzarsi, e no, non vuole tornare a casa: in fondo suo fratello non è lì e forse questo stretto collegamento esiste solo più nella sua mente e nel suo cuore. Su una cosa ha ragione, però: è stanco, ma non si tratta di stanchezza fisica.
«Sto bene, non si preoccupi», risponde, distogliendo lo sguardo e posandolo sul piccolo Bahati, il simbolo dell’innocenza. Forse il suo viso spensierato gli può conferire una dose in più di coraggio. «Signora Harvey?» dice velocemente, deglutendo a vuoto.
Lei gli presta subito attenzione, masticando educatamente.
«Potrebbe darmi lo stipendio del mese in anticipo?» Quella richiesta lo fa rabbrividire, la sua dignità si accartoccia, ferita. Solomon serra la mascella con forza: l’ideale sarebbe stato chiedere un aumento, ma con che faccia tosta? Guadagna più soldi di qualsiasi aspirante giardiniere a Nayuri, in confronto alla mole di lavoro che lo aspetta, e sa anche di non meritarseli: chiederne ancora sarebbe davvero troppo, significherebbe approfittare della gentilezza della padrona di casa.
«A cosa ti serve?»
Lui corruga la fronte, in qualche modo offeso da quell’intromissione: sa bene che la signora ha tutto il diritto di chiedere spiegazioni, ma ne è comunque infastidito.
«Hai ragione», sorride lei, pulendosi la bocca con il fazzoletto. «Non sono affari miei».
«Non mi va di parlarne», si affretta a precisare Solomon, come per ammorbidire il tono della conversazione.
«Posso prenderne ancora?» interviene Bahati, leccandosi le labbra ingenuamente felici.
Solomon resta immobile ed in silenzio mentre la sua datrice di lavoro taglia un’altra generosa fetta di torta. Si sente ridicolo nel desiderare così tanto una risposta positiva e si chiede come possa essere la vita di un inglese benestante come la signora che gli sta di fronte, che non ha problemi del genere e che non è costretto a risparmiare qualsiasi centesimo a disposizione.
«Chiunque mi sconsiglierebbe di darti lo stipendio in anticipo», esordisce la signora Harvey, osservandolo con tranquillità. «Ci sono molti ragazzi come te che chiedono un favore simile e poi spariscono con i soldi in tasca, lasciando il lavoro».
Lui apre bocca per ribattere, per allontanarsi da persone nelle quali non si rispecchia, ma viene preceduto.
«Eppure voglio rischiare», viene interrotto. «Ti pagherò oggi stesso: non credo e non voglio credere che tu sia come quei ragazzi. O sbaglio?»
Solomon sente un vago senso di colpa premergli sul petto: non si aspettava una tale fiducia, soprattutto dal momento che lui non è mai stato bravo o pronto a mostrarne nei suoi confronti. L’istinto gli suggerisce persino di chiederle scusa per i suoi dubbi e per la sua onnipresente diffidenza.
Si limita a chinare il capo, a chiudere gli occhi.
Il resto della mattina trascorre quasi completamente in silenzio.
 
A metà strada, mentre Solomon cammina con Bahati aggrappato alla sua mano indolenzita, il piccolo interrompe i suoi pensieri con un borbottio incomprensibile.
«Nini?» gli chiede, per capire meglio.
Bahati imbroncia le labbra ed il suo viso si incupisce, rallentando il passo. «Tu mi vuoi bene?» domanda a bassa voce, senza alzare lo sguardo su di lui.
Solomon alza un sopracciglio, stupito ed inevitabilmente imbarazzato da una domanda simile. «Ndiyo», risponde lentamente, riflettendoci su.
«E mi vuoi bene sempre?» continua Bahati, fermandosi e stringendosi nelle spalle: lascia la sua mano e la nasconde dietro la schiena. «Anche quando faccio qualcosa che non ti piace?»
«Che ti prende?» sorride l’altro, confuso dal suo comportamento. Il silenzio che segue la sua domanda lo fa insospettire. «Cosa hai fatto?»
Bahati lo guarda spaventato, colpevole, mordendosi una guancia. «Mimi…»
«Wewe…?»
«Ho preso… Un pezzo di torta», dice il piccolo velocemente.
«Be’, sì, ti è piaciuta così tanto che l’hai quasi finita», ride Solomon, pensando alla faccia della signora Harvey nell’accorgersi del vassoio quasi vuoto.
«Hapana», lo corregge. «Ce l’ho in tasca».
«In tasca?!»
Bahati quasi impallidisce, poi affonda la mano minuta in una delle tasche dei pantaloni e ne tira fuori una fetta di torta sbriciolata ed ammaccata, di piccole dimensioni. Gliela porge abbassando lo sguardo. «Non volevo rubarla, ma tu non ne hai mangiata nemmeno un po’ e stava per finire, allora l’ho presa di nascosto quando lei non guardava. Ma non volevo rubarla, non mi piace rubare, e ora tu non mi vuoi più bene», termina, sopprimendo un singhiozzo e trattenendo le lacrime.
Solomon spalanca gli occhi, sbatte le palpebre più volte. «Non c’è bisogno di piangere», quasi balbetta, schiarendosi la voce. Ma Bahati non si lascia convincere facilmente, trema appena e china il capo.
Solomon si piega sulle ginocchia con un sospiro, gli alza il viso con due dita sotto al mento e cerca di rivolgergli il miglior sorriso che in quel momento è in grado di regalare. «Sei stato gentile», esclama, accarezzandogli la nuca rasata. «Asante sana».
E per convincerlo definitivamente – lontano dalla casa sfarzosa ed elegante della signora Harvey, dai suoi occhi consapevoli e da una vita che non si può permettere – afferra il pezzo di torta che Bahati tiene tra le mani e se lo porta alla bocca, masticando lentamente.
Non ha mai mangiato niente di così buono.
«Ti piace?» chiede Bahati, emozionato.
Solomon annuisce, leccandosi le dita. «Ma non rubare più niente!» lo rimprovera bonariamente, esclusivamente perché si sente in dovere di farlo, anche se vorrebbe solo ringraziarlo ancora una volta.
 
 
 
Prima di cena, quando l’avvicinarsi del tramonto dipinge il cielo di tonalità rosate, Solomon è in piedi in un angolo del prato secco accanto al dormitorio femminile e dietro a quello maschile: lo spazio neutrale in cui ragazzi e ragazze possono passare del tempo insieme sotto lo stretto controllo delle Mamme.
I suoi amici gli sono intorno, silenziosi e probabilmente già consapevoli del perché lui li abbia riuniti tutti lì: Tifah ha sicuramente raccontato loro cosa è accaduto la sera prima.
«Io non ho molti soldi da parte, ma posso darti qualcosa», esordisce Ryma: è la prima a parlare da quando si sono incontrati, la prima a rendere reale una necessità che fa vergognare Solomon. Seduta su un vecchio pneumatico impolverato, con un pezzo di stoffa rosso legato intorno al capo, lo guarda con comprensione, facendogli desiderare di appoggiare la testa sulle sue gambe ed addormentarsi cullato dal suo respiro, proprio come un bambino che ha bisogno della propria madre. «Lavorerò ancora e cercherò di guadagnare di più, così riuscirò comunque a risparmiare per Peter», continua, spostando lo sguardo su Pete.
È quello il maggiore ostacolo alla sua determinazione, la fonte dei suoi scrupoli: Solomon ha cercato qualsiasi alternativa al chiedere dei soldi ai propri amici, sia perché non se lo meritano, sia perché sono anni che lottano per mantenersi e per preservare dei soldi che prima o poi toccheranno a Peter. Peter che non è finito in carcere per stupidità, Peter che perisce sotto una maledizione che non si è cercato.
Eppure Kelvin è suo fratello e, nonostante tutto, il suo istinto più grande ed irrefrenabile è quello di salvarlo da un posto e da persone che lo distruggeranno in poco tempo, danneggiandolo ancora di più. È disposto ad annientare la propria dignità, per quanto faccia male, e a calpestare una promessa condivisa con le persone più importanti della sua vita.
«Lavorerai ancora?» interviene Tifah, incredula. Ha le braccia incrociate, lo sguardo ricco di rancore. «Passi notte e giorno piegata su quella macchina da cucire, dove troveresti il tempo? E perché dovresti trovarne dell’altro?»
«Tifah-»
«Hapana, non esiste: i tuoi soldi sono tuoi, tuoi e di Peter. Sicuramente ne avete più bisogno di Kelvin e della sua testa marcia».
Ryma non si scompone. «Esatto: quei soldi sono i miei, quindi decido io cosa farne».
L’amica è evidentemente indignata, si rivolge a Solomon. «È per questo che ci hai chiesto di incontrarci qui? Per spillarci dei soldi?»
L’accusa che traspare dalle sue parole è forte, ferisce, ma non è del tutto una calunnia. «Vi sto chiedendo un favore», ribatte Solomon, cercando di non alzare la voce: la differenza di espressione tra Ryma e Tifah non fa che rendere più aspra qualsiasi parola di quest’ultima. «Sta a voi decidere».
«Quanto ti serve?» chiede Peter, seduto a terra con le braccia attorno alle ginocchia piegate.
Una breve pausa di silenzio precede la risposta. «Quindicimila», sospira, mentre Tifah sorride nervosamente scuotendo il capo. «Ma io ne ho già intorno ai seimila ed oggi la signora Harvey mi ha anticipato lo stipendio, quindi arrivo a novemila», si affretta a precisare: gli dispiace fare i conti ad alta voce, davanti a persone che lavorano più duramente di lui e che guadagnano molto meno, solo perché non hanno nessun inglese sopra di loro.
«Non posso dartene più di duemila, Sol», esclama Ryma, amareggiata. «Ultimamente ho subito delle… Perdite, e non posso permettermi altro», aggiunge, guardandolo con una strana luce negli occhi.
«Asante», risponde Solomon, con la voce roca per l’amore fraterno e la riconoscenza che prova per quella giovane donna. «Asante sana».
Lei gli sorride dolcemente, senza parlare oltre, e per qualche istante sembra che ognuno di loro non riesca a trovare qualcosa da dire.
«Non ho soldi da darti, Sol».
È Peter: ha lo sguardo fisso in quello del suo migliore amico, Solomon non riesce a metabolizzare fino in fondo quelle parole. Non vorrebbe comportarsi in modo così egoista, ma tutti loro sanno che a volte è necessario: l’hanno sperimentato sulla propria pelle almeno una volta.
«Niente?» sussurra Solomon, corrugando la fronte.
L’altro resta immobile, non risponde.
«Non posso credere che tu non abbia nemmeno uno scellino da prestarmi», si innervosisce Solomon. «Stai risparmiando da anni e so che quei soldi ti servono, ma almeno-»
«No», lo interrompe Peter, troppo rigido rispetto alla sua indole. È strano.
«È perché si tratta di Kelvin? Non vuoi darmeli perché si tratta di lui?» prova ad indovinare, incapace di mettere in dubbio la loro amicizia.
«Forse è semplicemente perché Peter è malato?» interviene Tifah, duramente. «Chiunque terrebbe i propri risparmi per sé, se servissero per salvarsi la vita!»
«E tu credi che Kelvin non sia in pericolo là dentro?!» sbotta Solomon, arrivato al limite della pazienza. «Quanti ragazzi vengono arrestati e poi non tornano più a casa?! Cazzo, Tifah, apri gli occhi!»
«Fantastico, allora pensiamo a tirar fuori il povero Kelvin dalla prigione: e se domani Peter dovesse contrarre un’infezione, ci pensi tu a curarlo con dei soldi immaginari, ok?!»
«Non sto dicendo di darmi tutti i vostri soldi!» ribatte Solomon, gesticolando. Ha la bocca secca. «Vi sto solo chiedendo di aiutarmi!»
«E hai detto che sta a noi decidere, quindi perché non accetti la risposta che ti ha dato Peter e lasci perdere?!»
«Perché io non ho esitato a spaccarmi il culo giorno e notte per lui, lavorando senza sosta per lui, ma ora non è disposto a darmi nemmeno un centesimo!» Poi si rivolge a Peter. «Io ti ho aiutato senza battere ciglio, lo sto ancora facendo. Tu dovresti fare lo stesso».
Peter deglutisce a vuoto, è nervoso. «Non posso», ripete, prima di alzarsi ed allontanarsi a passi svelti.
Solomon ansima guardandolo andarsene via, incredulo: gli ha voltato le spalle senza alcun ripensamento e non c’è cosa che lo ferisca di più.
«Cerca di capirlo», interviene Ryma, alzandosi in piedi. «Forse è solo spaventato: darti parte dei suoi soldi, ma anche parte dei nostri, significa mettere a rischio la sua salute».
«Ma non darmeli significa mettere a rischio quella di Kelvin», ribatte Solomon. «E per quanto voi possiate disprezzarlo, lui è-»
«Tuo fratello», lo anticipa lei. «Lo so. Non è una decisione facile per nessuno di noi».
«Per te lo è stata».
«No», lo corregge, serrando la mascella. «E se domani dovesse davvero succedere qualcosa a Peter, se noi non avessimo i soldi per affrontare qualsiasi cosa sia, non me lo perdonerò mai», confessa, guardandolo seriamente per poi imitare Peter ed andarsene.
Solomon sente il peso delle proprie decisioni e dei propri bisogni occludergli la gola, rendendogli difficoltoso continuare a respirare. Quella possibilità terrorizza anche lui, ma non sa cos’altro fare, non sa a cos’altro aggrapparsi: spendere tutti i propri risparmi – compresi quelli dei suoi amici – è davvero un passo azzardato, se si tiene conto dell’imprevedibilità della malattia di Peter, ma in quel momento i rischi di Kelvin sono in qualche modo maggiori e hanno bisogno di essere dissipati al più presto possibile.
Si volta alla propria destra ed osserva Tifah, l’ultima persona che pensava sarebbe rimasta: non sa a cosa stia pensando e teme il peggio.
«Penserai sicuramente che sono un egoista-»
Ma lei lo interrompe. «Penso che non riesco a sopportare che qualcuno ti renda la vita un inferno. E che io debba persino pagargli la cauzione». Sono parole stranamente dolci, che hanno perso gran parte della rabbia che impregnava la lingua di Tifah poco prima.
«Ti sembrerà strano», osa Solomon a bassa voce, serio, «ma se mi aiuterai a pagargli la cauzione, la mia vita sarà un inferno più sopportabile».
Silenzio.
«Tafadhali».
Tifah sospira sonoramente e si passa una mano sulla fronte. «Te lo giuro, Sol. Se quello esce e non si comporta come un santo in carne ed ossa, lo uccido con le mie mani», lo minaccia, puntandogli un dito contro il petto e facendolo sorridere di riconoscenza.

 


Eccoci di nuovo qui!
- Capitolo dal punto di vista di Solomon: mi sembrava giusto farvi conoscere un po' meglio il suo stato d'animo dopo aver saputo che Kelvin si trova in prigione (luogo piuttosto rischioso, anche per la vita, come lui stesso sottolinea). La guardia ha chiesto quindicimila scellini per scarcerare Kelvin e per un ragazzo del Kenya sono davvero tantissimo soldi, tenendo conto dello stipendio e del costo della vita (sproporzionati tra loro): difatti, nonostante Solomon prenda 3000-3500 scellini al mese e stia risparmiando da anni, da parte ne ha "solo" 6000 (la signora Harvey lo paga meglio, rispetto agli altri datori di lavoro: un giardiniere non prenderebbe mai così tanto. Per questo mi sono ispirata ad una mia esperienza: ero andata da una sarta per farmi cucire tre vestiti tradizionali e lei mi aveva chiesto 1500 scellini - che per una solo commissione per lei sono un'infinità di soldi -, ma sinceramente, nonostante sapessi che stava puntando MOLTO in alto dato che ero una turista, non mi è importato più di tanto: in fondo per me erano solo 15 euro e per lei avrebbero significato tantissimo. Insomma, è tutto molto relativo, quindi anche per la signora Harvey pagarlo 35 euro al mese è una stupidaggine).
- Come sempre Solomon si trova molto a disagio a casa della signora Harvey, è un tipo molto orgoglioso, che tiene parecchio alla propria dignità: si siede a tavola sotto minaccia ed assaggia la torta solo una volta allontanatosi da casa sua. Ma gli tocca chiederle un anticipo, cosa che va a scalfire la sua fierezza. (Solomon ha la passione della danza: anche la prima volta che entra in scena, nel prologo in cui è ancora un giovanotto, balla costantemente, quindi ho voluto sottolinearlo, perché avrà una certa importanza).
- Breve momento dolcezza tra Solomon e Bahati, che ha rubato un pezzo di torta solo per farglielo assaggiare :)
- Solomon chiede soldi ad i suoi amici e so perfettamente che può sembrare - ed è - un gesto egoistico, soprattutto se si tiene conto della vita difficile che conducono e degli sforzi per risparmiare per le cure di Peter: eppure, proprio in una vita fatta di stenti, l'avere un fratello per Solomon ha tutt'altro significato di quello che potrebbe avere qui, in un contesto più agiato. Farebbe di tutto per lui, che se lo meriti o meno. Da qui anche la discussione con Tifah e con Peter: Tifah è una specie di can che abbaia ma non morde, quando si tratta dei suoi amici, perché urla, sclapita, si indegna, ma alla fine cede e li aiuta con tutto il cuore (ha fatto mille storie parlando dei soldi da prestare, ma poi ha ceduto in due minuti); Peter invece è un po' più delicato, dato che solo lui sa dell'avanzare della malattia, quindi nessuno sa che i suoi risparmi stanno già finendo. Credo si possa immaginare perché non abbia detto nulla. Egoista anche lui?
- Ryma la amo e basta hahaha È di una bontà unica, è disposta a spendere soldi sudati e guadagnati per una persona che non se li merita e che l'ha anche derubata, tutto per affetto nei confronti di Solomon. Buona ed ingenua, forse.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto: anticipo che il prossimo sarà più leggero, con un'atmosferma più tranquilla e in qualche modo dolce e spensierata :) Vi prego di farmi sapere le vostre opinioni, per favore! Mi farebbe davvero piacere.
Grazie per aver letto!


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Veronica.

 
 
  
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