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Autore: Sea    16/08/2015    2 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Angolo autrice:

Innanzitutto, vi ringrazio di cuore per le recensioni e il numero di visite, non mi aspettavo nulla del genere. *-*
Detto ciò, sappiate che sono appena rientrata e che il primo pensiero è stato quello di aggiornare la storia, ma non ho rivisto il capitolo, quindi perdonatemi strafalcioni e/o errori grammaticali di cui ho immensamente vergogna. Rivedrò la storia con calma in questi giorni e mi dedicherò nuovamente alla sua stesura, intanto fatemi sapere cosa ne pensate, consigli, opinioni, aspettative - tutto è concesso.
A presto! :D
S.


IV




Aveva un lungo repertorio dal quale attingere, ma sembrò che non sarebbe bastato per quella serata. Era solo a suonare per tutta quella gente e cominciava ad essere fisicamente stanco, le dita tremavano, aveva bisogno di una pausa, ma non aveva il coraggio di prendersela spontaneamente.
Era un piacere essere lì ed essere ascoltato, ma erano già 3 ore che cantava senza sosta.
Ogni tanto la vedeva farsi largo tra la gente al bancone per raccogliere la nuova ordinazione, ma non era mai riuscito ad incontrare i suoi occhi, non sapeva nemmeno se lei si fosse accorta che fosse lì. Comunque, si sentiva internamente combattuto: nessuno gli aveva detto che quella ragazza fosse speciale o che lui dovesse avere qualcosa a che farci, ma era stranamente attratto dalla sua persona e contemporaneamente se ne voleva allontanare come fanno due magneti uguali. Era curioso e spaventato. Chiuse gli occhi e terminò la canzone cercando di allontanare i pensieri.
Sorrise e raccolse il suo applauso, mentre si sedeva sullo sgabello, stremato. Sembrava che nessuno si fosse accorto che avesse smesso di suonare, ma tanto meglio, poiché lei stava procedendo a passo svelto nella sua direzione. D’un tratto desiderò sparire.
Era sudato e pieno di polvere e aveva i capelli probabilmente spettinati come quelli di una vecchia barbie e lei stava andando proprio da lui. Con la chitarra ancora al collo, si passò le dita nei capelli rossi. Eccola, erano praticamente faccia a faccia.
  • Te l’avevo detto che cercavano qualcuno come te. – sorrise in risposta alla sua espressione confusa. – Tieni.
Era stata lei a scrivere il biglietto, era lei che lo aveva sentito cantare in biblioteca. Oddio, che vergogna. Voleva sprofondare.
  • La prendi o no?
Lo guardava stranita mentre gli porgeva una birra che non aspettava altro che essere afferrata. Come se si stesse svegliando da un incantesimo, si scosse e la prese dalle sue mani, senza riuscire a chiudere la bocca o a sembrare una persona normale.
  • Grazie. – disse soltanto, mentre cercava di rimettere insieme i pezzi.
Lei andò via, diretta nuovamente al bancone.
Quella birra era la stessa della settimana scorsa, ma non poteva credere che fosse stata lei anche in quel caso. Ne bevve un sorso e poi si sfilò la chitarra dalla spalla per togliersi il maglione, altrimenti si sarebbe sciolto sulla pedana. Quando tirò fuori la testa dal groviglio di lana, si guardò intorno, poi guardò lei, poi guardò la birra. Oh, no. No, no, no. Non doveva aspettarsi niente. Tutta quella storia – pensò mentre riprendeva la chitarra e la birra – era soltanto un momento di fortuna, che molto presto lo avrebbe lasciato in balia della sua vita. Era meglio per lui se rimetteva la testa a posto, non poteva rischiare di ripetere lo stesso errore: credere in qualcuno non era mai una buona idea, perché prima o poi ti avrebbe voltato le spalle e quella volta non sarebbe stato diverso.
Come se fosse tornato davvero con i piedi per terra, sentì la pedana di legno fare attrito sotto la gomma delle sue scarpe, riavviò la pedale loop e riprese a suonare, deciso ad evitare lo sguardo di quella ragazza per il resto della serata.
La sua mente sembrò acquietarsi di canzone in canzone, tenendo gli occhi chiusi, pensando che tra un paio d’ore sarebbe stato nel suo letto a riposare. Soltanto quando le lancette toccarono le 2:00 la gente cominciò ad uscire dal locale, dandogli modo di calare il ritmo e cantare qualche suo pezzo meno frenetico dei precedenti. La vita notturna di quella cittadina si limitava a quello ed aveva degli orari abbastanza definiti, anche perché – parliamoci chiaro – non c’era nulla da fare dopo l’1:00 del mattino, con quel freddo e quella neve.
Se la ragazza gli era passata davanti qualche volta, non se n’era accorto, ma il ridotto numero di persone faceva in modo che le probabilità di vederla aumentassero. E infatti successe, ma evitò palesemente il suo sguardo. Si sentiva un traditore mentre lo faceva, perché in fondo era grazie a lei che si trovava lì, ma quel dettaglio non doveva influenzarlo.
Quando anche l’ultima persona fu fuori, rimasero lui, il proprietario e i dipendenti che pulivano i tavoli. Spense la pedale loop con un movimento così fluido da sembrare un’abitudine agli occhi degli altri, tant’è che il proprietario gli si avvicinò e gli disse:
  • Bravo, ragazzo! – e gli diede una pacca sulla spalla. – Mi hai salvato.
  • Grazie, signore. – disse, ricambiando il suo sorriso.
  • Come ti chiami? – lo guardava negli occhi, con lo sguardo dell’uomo d’affari.
  • Edward Sheeran, signore. – e strinse ufficialmente la sua mano tesa. Aveva una stretta micidiale, ma non diede segni di resa.
  • Bene, Edward, pensi che potrei chiamarti ancora sabato prossimo?
La risata che sfuggì al proprietario dell’Hawking, era il chiaro segno che aveva fatto un’altra figuraccia: lui stesso si rendeva conto di non riuscire a chiudere la bocca o a riportare gli occhi ad un’apertura normale. L’uomo agganciò i pollici alle sue bretelle blu e facendo muovere i baffi grigi, riprese a parlare.
  • Credo sia un sì. – fece, mentre scuoteva le spalle per la risata.
  • Sì, signore, mi scusi! – disse lui, conscio della sua goffaggine.
L’uomo infilò la mano destra in una tasca e ne tirò fuori dei soldi. Doveva essere la sua paga per la serata. L’uomo lo salutò e gli disse che lo avrebbe telefonato. La quantità di banconote che aveva tra le mani, era molto più consistente di qualsiasi paga avesse ricevuto all’uscita di qualsiasi locale.
Si passò una mano tra i capelli, mentre le metteva in tasca: con quelle avrebbe potuto pagare la visita di sua nonna della settimana successiva.
Rimise la chitarra nel fodero ed infilò nuovamente la testa nel maglioncino, ma quando lo tirò giù sul collo, si ritrovò davanti quella ragazza, che lo fece saltare sul posto per la sorpresa. A volte si sentiva un alieno per quel suo atteggiamento.
  • Scusa, ti ho spaventato! – disse lei, senza particolare enfasi.
Rimase muto. Non diede alcun segno di voler rispondere.
  • Sei stato bravo. – gli sorrise. Sembrava che volesse cominciare una conversazione, ma restò fermo nel suo silenzio, limitandosi ad un sorriso lieve. – Tornerai anche sabato prossimo? – e lui fece spallucce. – Tutto bene? – evidentemente si era accorta del fatto che non rispondesse di proposito.
Capì subito che i suoi occhi erano fermi sui suoi lividi. Sentiva il suo sguardo aggrottarsi per quell’analisi così attenta, ma per fortuna qualcuno la chiamò, facendola voltare. I suoi capelli lunghi si mossero con lei.
  • Scusa, devo andare. – disse, tornando ai suoi occhi. – Ciao!
Alzò la mano, rispondendo al suo saluto e lasciò andare l’aria che stava inconsapevolmente trattenendo. L’altra cameriera gli aveva appena svelato il suo nome: Marina.
Attraversò la fredda notte pensando cosa c’entrasse quel nome con lei, ma non seppe darsi una risposta, perché non la conosceva.
Quando mise piede dentro casa, corse dritto nella sua stanza e si gettò sul letto. La schiena gli faceva male per le troppe ore passate in piedi, così chiuse gli occhi e si godè il piacere del sentire i muscoli rilassarsi. Sentiva tutto: la morbidezza del piumone, il freddo della stanza, la schiena che si distendeva, la mente che si abbandonava alla stanchezza. Aprì forzatamente gli occhi per cambiarsi e la prima cosa che vide fu la catenina d’oro sul comodino. Allungò la mano e la prese.
Non seppe dire se non ci avesse semplicemente pensato o se il suo inconscio avesse voluto volontariamente ignorarlo, ma l’iniziale appesa a quella sottile catena, era una M.
 
Era domenica e di solito niente lavoro la domenica, niente posta la domenica. Era l’unico giorno libero che aveva e non poteva passarlo in casa sua a riposare, dato che era assediato da Ben e da Jef. Di solito si va in chiesa la domenica, ma lui no, lui andava a fare una cosa più utile e carina del pregare. Doveva sempre vedersela con Ben la domenica mattina, perché uscire di casa per qualcosa che non producesse denaro era disdicevole per il suo figliastro già abbastanza d’intralcio. Di solito, la domenica mattina faceva una doccia, si infilava qualcosa di comodo e preparava la colazione prima che tutti si svegliassero, ma qualche volta si era preso qualche cazzotto perché il the si era freddato o i cereali erano finiti. La domenica mattina era sempre una sfida tra lui e Ben a chi avesse la meglio, se lui che voleva riempirlo di botte o Ed che tentava di scappare e quella domenica mattina, Ben si era alzato con qualche ora di anticipo. Sentì un capogiro quando percepì la sua presenza in cucina.
Fece finta di niente mentre preparava il the, sperando che lui non dicesse una parola per fermarlo, quando sarebbe uscito dalla stanza. Si avviò a passo svelto su per le scale, ma dato che Ben lo aveva mollato, Jef avrebbe preso il suo posto.
Era in piedi nel suo pigiama grigio, al centro delle scale, deciso a non farlo passare.
  • Jef, fammi passare. – lo guardò dritto negli occhi, nervoso.
  • Che c’è, Edward? – lo canzonò. – Stai scappando?
Il suo viso magro e pallido sapeva decorarsi delle espressioni più odiose. Quella mezza calzetta sarebbe caduto sotto un suo pugno nel giro di un nanosecondo, ma no. Lui era Ed.
Lo spintonò, ignorando le sue parole, ma quelle si attaccarono al suo cervello mentre prendeva il suo zaino e la chitarra.
Quando fu sul vialetto innevato, fuori da quella casa inerme, sentiva ancora l’eco della voce del suo fratellastro. Gli aveva reso la vita un inferno per anni, ma da quando era diventato più largo e più alto aveva paura di lui, quindi aveva cambiato tattica, passando dalle mani alle parole. Stai scappando? Non riusciva a trovare un senso preciso alla domanda, ma a qualunque cosa si riferisse, la risposta era sì.
Quella domenica mattina, come tutte le altre domeniche, stava scappando dalla sua casa, dai suoi incubi, ma soprattutto dai suoi sogni. Erano due anni che faceva volontariato per il reparto “Oncologia infantile” dell’ospedale della città e quel posto era diventato un punto di riferimento per lui. Sì, assurdo che fosse così, ma quando entrava in quell’ospedale, qualsiasi pensiero negativo che riguardasse la sua vita, evaporava nell’aria come se fosse una boccata di fumo presa da una sigaretta. Effimero. Ininfluente.
L’edificio grigio e bianco accoglieva fin troppe persone rispetto alla sua reale capienza, infatti quando vi entrava, superando la scritta rossa “Hospital” posta sulle porte automatiche in vetro, c’era sempre una folla di parenti, infermieri, medici che andavano avanti e indietro, senza sosta. Anche lui era stato in quella sala d’aspetto diversi anni prima, ma non era quello il motivo per cui si vestiva da pagliaccio tutte le domeniche.
Ogni volta che passava al bancone d’accoglienza, la segretaria Stephany lo salutava, rimproverandolo per il suo aspetto stanco. Lei era una delle persone più carine che conosceva, con quella sua corporatura abbondante, la pelle scura e gli occhi luccicanti, una delle poche che salutava con sincerità. Camminando alla luce dei neon bianchi, sul pavimento lucido, cercò di abituarsi all’odore di disinfettante che infestava l’ospedale e si diresse direttamente alle scale. Al secondo piano, entrò nel reparto di suo interesse e salutò un paio di infermiere con la mano. Cercò di non farsi vedere da nessuno ed entrò nello stanzino che lo aiutava nella sua trasformazione: lui ormai era il pagliaccio magico che veniva dal suo pianeta lontano per raccontare le sue avventure a quei bambini. Quando era lì dentro, non esisteva più Ed Sheeran. Si guardò allo specchio e cominciò a stendere il cerone bianco sul viso, cambiando identità. I suoi occhi chiari sembravano trasformarsi quando lo faceva. Indossò il costume e cominciò il suo giro.
Fece un profondo respiro prima di entrare nella prima stanza e col naso rosso ben fermo, fece il suo ingresso. Non era mai facile sorridere davanti a quei bambini, la visione non era propriamente di quelle che ti aiutano a fingere, ma ormai si era abituato a trovare il coraggio di andare a sedersi su quei letti e non badare all’assenza di capelli, ai fili, ai macchinari, al pallore. Conosceva quei bambini uno ad uno, ma ogni settimana sembrava che ce ne fossero di più. I genitori, prima che andasse via, gli posavano una mano sulla spalla, lo guardavano negli occhi e lo ringraziavano, lasciandolo sempre col dubbio di non aver fatto ancora abbastanza.
Aveva imparato trucchi di magia di ogni tipo, a creare cagnolini con i palloncini, a far apparire monete dalle orecchie ed ogni volta gli sembrava che fossero i bambini a dare forza a lui, non il contrario.
Li vedeva sorridere dai loro letti e non avrebbe mai voluto lasciare quelle loro manine bianche.
  • Ciao Jake, ci vediamo la settimana prossima per una nuova storia! – disse al nuovo arrivato, falsando la voce.
  • Ciao pagliaccio! – fece il piccolo, agitando la mano.
Uscì dalla porta bianca e si diresse nell’ultima stanza, pronto a raccontare di nuovo la sua storia all’ultima bambina, Kathy.
  • Ciao Kathy! – urlò, spalancando la porta.
  • Ciao pagliaccio! – scattò la piccola, tirando su il busto ed alzando le mani al cielo.
Si diresse direttamente ad abbracciarla, facendo attenzione all’ago che le perforava il dorso della mano. La bambina gli spettinò tutti i capelli, ma la lasciò fare. Dall’ultima volta che l’aveva vista aveva decisamente meno capelli biondi, ma si forzò di ignorare la cosa, di non guardarla.
Quando alzò gli occhi per salutare sua madre, ebbe una sorpresa inaspettata. La donna non era sola e con lei indovinate un po’ chi c’era, nel suo grosso parka?
Marina.
Marina era lì e lo fissava sconvolta, ma ancora una volta…non lo stava giudicando. Si congelò, guardandola negli occhi, tornando per un attimo ad essere Ed. Cosa diavolo aveva la vita contro di lui? Cosa ci faceva lei lì? Erano settimane che la bambina era in ospedale, abbastanza da poter dire di non averla mai vista lì, eppure era in piedi che lo guardava con gli occhi sgranati.
Per un attimo la tensione fu così palpabile che la madre della bambina li guardò entrambi, probabilmente chiedendosi cosa stesse accadendo.
Beh in realtà non stava accadendo proprio un bel niente, maledizione. Riprese a muoversi, rischiacciando il tasto play del tempo e cominciò a parlare con Kathy.
  • Come stai, Kathy? – si sforzò di essere il pagliaccio da cui era vestito.
  • Io sto bene e tu? Mi racconti una storia? – chiese.
  • Certo che te la racconto! – disse, sentendosi tremendamente osservato da lei. – Allora…questa settimana sono stato in un posto davvero particolare – cominciò – Era pieno di altri pagliacci come me, che si erano riuniti per dare una grande festa. Come ben sai, ad una festa di balla e si canta – e fece un paio di mosse per far ridere la piccola, più intirizzito del solito.  – ma non c’erano i musicisti!
  • E come avete fatto?
  • Allora, sono intervenuto io! Ho preso la mia fedele chitarra e ho cominciato a suonare! – prese a suonare qualcosa di allegro e la piccola gli portava il tempo con le mani.
  • E poi?
  • Tutti ballavano e cantavano, ma io cominciavo ad essere stanco. Forse qualcuno se n’era accorto, perché mi hanno portato una magica bevanda che mi ha ridato tutta la forza. – nel pronunciare quelle parole, sentì gli occhi della ragazza su di lui, pesanti.
  • Chi è stato? – chiese Kathy, curiosa.
  • Una principessa misteriosa, con dei lunghi capelli!
  • Come Marina! – e guardò la ragazza ancora in piedi, che si godeva lo spettacolo.
  • Già, come Marina.
Il finto rossore che aveva sulle guance, copriva il suo reale imbarazzo mentre la guardava. Si compresero al volo.
Continuava a chiedersi cosa ci facesse lì, ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo e in un certo senso, nemmeno voleva farlo. Continuò il suo show, esibendosi in qualche trucchetto e cantando qualche canzone per bambini, poi salutò Kathy e cominciò a raccogliere le sue cose per andare via.
Cercando di evitare lo sguardo delle due donne nella stanza, si accovacciò sul suo zaino, cercando di infilarci i giochi più velocemente del solito, ma una presenza si impose davanti a lui, bloccando la luce bianca che entrava dalla finestra. Alzò istintivamente lo sguardo e se la trovò davanti, accovacciata come lui, tra le mani aveva il suo gonfietto per i palloncini.
  • Hai perso questo. – disse, col volto disteso e i capelli che le cadevano in avanti, come delle tendine.
  • Oh. – lo prese dalle sue mani e tornò con gli occhi sullo zaino.
Sembrò che lei non volesse rialzarsi, ma lui lo fece senza problemi, pronto a scappare più veloce della luce. Disse un rapido “Buonasera” e afferrò la maniglia della porta, convinto che sarebbe stato l’unico ad oltrepassarla, ma non fu così. Non si accorse che Marina fosse dietro di lui, così si comportò come se nulla fosse, prendendo un lungo sospiro e portandosi una mano alla fronte, mentre incurvava la schiena.
  • Ciao! – fece lei, col tono più alto del normale, per fargli notare la sua presenza.
Ed sentì quella voce trapassargli la schiena, prendendolo così di sorpresa da fargli sibilare l’aria nella gola, a causa dello spavento. Letteralmente, saltò e poi si girò verso di lei, stringendosi nelle spalle.
  • Come stai? – continuò lei, come se ignorasse coscientemente la sua volontà di evitarla.
  • Uhm… - lei rimase in silenzio, in attesa di una risposta. - …bene. – disse lui, guardando altrove, in un punto indefinito del soffitto.
  • Oh, anche io, grazie. – rispose, portandosi una mano alla bocca, per nascondere la sua risata. – Ma quanti lavori hai?
  • Questo…non è un lavoro. – osservò lui. Cosa stava facendo?
  • Un po’ lo è. – disse.
Cadde il silenzio. Lui era rimasto esattamente immobile nella sua posizione, il viso in un’espressione di terrore, le spalle contratte. Voleva soltanto scappare via da quella conversazione. Non era abituato alle conversazioni. Non gli piacevano, gli sembrava di denudarsi quando parlava.
Lei cominciò a guardarsi i piedi e a muoversi sul posto, cercando con gli occhi qualcosa che non c’era. Il silenzio di quel ragazzo la confondeva. Era deviante e non corrispondeva all’idea che si era fatta di lui e questo la rendeva soltanto più curiosa.
  • Sei strano. – disse, di punto in bianco.
Strano? Accigliò lo sguardo nel sentire quella parola. Si poteva sapere cosa ci trovasse di strano la gente in lui?
  • Perché non parli?
Vaglielo a spiegare a questa perché non voleva parlarle.
  • Io… - cominciò, un po’ dispiaciuto, ma convinto di quello che stava facendo. - …devo andare.
  • Oh. – e guardò in un punto indefinito. – Ok. Ci vediamo.
Lei alzò la mano per salutarlo, poi fece un passo indietro e si voltò per tornare nella stanza di Katy, lasciandosi dietro soltanto la visione della sua figura minuta. Si sentì un vero idiota, perché strano lo era davvero: un tizio coi capelli rossi, vestito da pagliaccio, con una chitarra in spalla, era strano sul serio, ma sapeva che non era quello il punto. Quelle ultime due parole furono come due scosse, ma non sapeva dire se ora si sentisse meglio o peggio di prima. Lentamente, assorto da quel pensiero, entrò nello stanzino e tornò ad essere l’Edward di sempre, lo sciatto ragazzo con le Vans e i capelli scompigliati, troppo rossi rispetto alla norma. Quando raggiunse la bici, fuori dall’ospedale, si guardò indietro, mirando lo sguardo alle finestre del secondo piano. Sperò che Marina non stesse guardando fuori, perché se lo avesse visto avrebbe pensato che fosse matto a cercarla con gli occhi, dopo averla trattata a quel modo.
Ma era meglio per lui.
Era meglio così.
  
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