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Autore: Akemichan    17/08/2015    3 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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1946 - Parte II
 
 
Los Angeles, 29 Giugno
 
Il fumo della sigaretta saliva lentamente verso il soffitto, mentre le braci consumavano la canna. Solo quando la cenere cadde per terra Nojiko si riscosse: prese una boccata finale e poi la spense definitivamente nel portacenere.

«Grazie per essere venuto a dirmelo» mormorò infine.

Ace annuì, ma non aggiunse altro. Non disse nemmeno “mi dispiace” o “condoglianze”, se l'era sentito dire talmente tante volte che aveva capito quanto poco senso avesse. Quando Sabo gli aveva raccontato quello che era successo a Mortrée, Ace aveva sentito che fosse una sua responsabilità passare l'informazione alle figlie di Bellmere. Ovviamente Nojiko sapeva già quello che era successo perché era riuscita a raggiungere Mortrée nel '45, però era estremamente incuriosita dall'avere un'altra versione.
«Certo che è una coincidenza incredibile che tuo fratello fosse il ragazzo biondo che ha cercato di aiutare mia madre.» Nojiko si alzò dalla sedia e raggiunse la credenza, da dove estrasse una bottiglia di liquore. Quando gli fece cenno se ne voleva, Ace scosse la testa.

«Ti devo chiedere scusa» disse. «Ti ho invidiato, un tempo, perché credevo che tu avessi una speranza che io non avevo più. E invece...» Bellmere era morta e Sabo era vivo. Ancora in quel momento Ace non riusciva a credere alla fortuna che aveva avuto e che sentiva di non meritarsi.

«Non è mica stata colpa tua» rispose Nojiko, dopo aver preso un sorso di liquore, con un po' troppa foga, tanto che una goccia marrone le scese lungo il mento. «Anzi, Genzo mi ha detto quanto tuo fratello abbia cercato di fare.» Prese un respiro. «I giornali ci hanno bombardato riguardo alla crudeltà dei campi di concentramento tedesco... e mia madre è stata uccisa da un ebreo.»

«Credere che due schieramenti in guerra rappresentino il bene e il male è un grosso errore di valutazione.» Ace lo sapeva bene, l'aveva provato nella sua stessa pelle. I bombardamenti alleati avevano ucciso più francesi che tedeschi, inizialmente, senza contare le razzie di cui erano stati fatti vittime. E Sabo gli aveva raccontato anche delle esecuzioni sommarie che erano seguite alla liberazione di Parigi, che certo non erano molto diverse dalla giustizia dei collaborazionisti tedeschi.

«Comunque, se vuoi puoi mandare una lettere a Sabo e farti raccontare direttamente da lui» propose Ace. Il fratello non ne parlava volentieri, ma sapeva anche che era disposto a farlo se era per far un favore a qualcuno. «Ti lascio l'indirizzo.»

«No, non preoccuparti, quello che ho saputo mi basta.» Nojiko sorrise tristemente. «Riascoltare più volte la stessa storia non ne cambierà l'epilogo.»

«Come vuoi.» Ace non aveva intenzione di insistere. «Ti lascio comunque l'indirizzo, magari a tua sorella interessa.»

Lei sembrò fissarlo sorpresa. «Non le hai già parlato?»

«No, ho chiesto all'esercito e ho avuto solo il tuo indirizzo... Non abitate assieme?» domandò Ace, che l'aveva dato per scontato.

«No, lei ora sta ad Atlanta con suo marito e... Credevo lo sapessi» aggiunse, scrutandolo con un'espressione strana.

«Non ne avevo idea.» Ace non capiva cosa ci fosse di così strano, aveva incontrato Nami solo una volta, al compleanno di Rufy, prima di partire per i Ranger. Di certo non si poteva dire che la conoscesse, se non attraverso qualche racconto di Rufy. Probabilmente aveva sbagliato lui a non chiedere informazioni su Nami all'inizio, in modo da mettere in chiaro che non aveva notizie.

«Dovesti davvero incontrarla, allora.» Nojiko prese un pezzo di carta e iniziò a scriverci sopra con una calligrafia chiara. «Ora fa la giornalista per un piccolo giornale, per cui credo che sapere questa storia da parte tua o di tuo fratello le sarebbe utile.»

Ace prese il foglio e fissò l'indirizzo. Non sapeva quanto Sabo fosse disposto a dire ai giornali, ma era anche vero che le grandi testate americane parevano voler raccontare solo una parte della storia, laddove i veri protagonisti si ritrovavano in racconti che non gli appartenevano. Da parte sua, avere una conoscente giornalista forse avrebbe significato aver qualcuno di cui fidarsi. E poi era amica di Rufy.

«Credi che possano interessarle anche delle fotografie?»

Nojiko lo guardò per un attimo, ricordandosi della prima volta che si erano incontrati. «Tue? Della guerra?» A cenno positivo, sorrise. «Portagliele senza alcun dubbio.»
 
Atlanta, 2 Luglio
 
Non intendeva dimostrarsi così sorpreso, ma lo era. Certo, non conosceva Nami abbastanza bene e quindi non si era immaginato di conoscere suo marito. Il fatto che fosse Usop lo colpì particolarmente perché era uno dei pochi amici di Rufy che ricordava bene.

«Capitano...» Usop era sorpreso quanto lui. Certo non si aspettava quella sorpresa a quell'ora della sera. Poi però esclamò: «Era ora!».

«Non sono più nell'esercito, quindi chiamami pure Ace» gli rispose. Usop gli piaceva: quando aveva processato la notizia, aveva apprezzato l'idea di averlo trovato sulla tomba di suo fratello e successivamente l'aveva anche fotografato. «Ti chiedo scusa per l'orario, Nojiko mi ha dato il vostro indirizzo perché devo parlare con Nami. Se potete darmi un appuntamento quando vi va bene...»

«Adesso.» Usop lo invitò ad entrare e chiuse la porta dietro di lui per indicare che non avrebbe accettato un no come risposta, quindi gli fece cenno indicandogli la cucina, da cui sentiva provenire delle voci. «Noi abbiamo già finito di cenare, ma credo che sia rimasto ancora qualcosa.» Lo precedette. «Nami, guarda chi è venuto a trovarci!»

Ace entrò nella cucina con l'intento di salutarla, ma rimase pietrificato sulla soglia: il tavolo era apparecchiato per quattro persone e una di queste era Garp. Non lo vedeva dall'ultimo Natale che era riuscito a trascorrere a casa, nel '40, prima di Pearl Harbor. Non era cambiato molto, in fondo anche da bambino gli era sempre sembrato indistruttibile. Rimase fissarlo, incapace di articolare una parola.

Al contrario Garp pareva avere molte cose da dirgli. «Nipote degenere!» Si alzò dalla sedia in tutta la sua enorme stazza. «Cosa ti è saltato in mente di mollare l'esercito e sparire senza dire una parola? Dovresti essere il bastone della mia vecchiaia!»

«Lasciami stare, vecchio pazzo» commentò, cercando di sottrarsi alla sua presa. Era vero che non l'aveva nemmeno chiamato prima di essere congedato, ma aveva paura di affrontare con lui la morte di Rufy. Il suo vero nipote era morto, quando lui era sopravvissuto.

«Non hai idea di quello che...» Ace era convinto che l'avrebbe colpito come faceva quand'erano bambini, invece si ritrovò stretto nel suo abbraccio, che faceva male comunque, ma non intenzionalmente. «Credevo di aver perso anche te...» Singhiozzava con la testa appoggiata contro la sua spalla.

Da quello che Ace ricordava, era la prima volta che lo vedeva piangere. Ed era anche la prima volta che pareva dargli un affetto vero. Però era l'uomo che l'aveva cresciuto ed improvvisamente sembrava aver semplicemente senso che avesse pianto per lui. D'altronde, per Ace era stata la stessa cosa: quando aveva sentito di Pearl Harbor il pensiero che suo nonno potesse essere stata una delle vittime era stato tremendo. Incapace di contenere le lacrime per quell'affetto improvviso, ricambiò l'abbraccio.

Poi Garp si ricompose e decise di dimostrarlo colpendolo effettivamente. «Mandami un telegramma la prossima volta.» Si voltò verso Nami e Usop, che erano rimasti ad osservare i due uomini senza dire una parola, ma con visibile commozione. «Scusatemi per questa scena patetica.»

Nami scosse la testa. «Ci mancherebbe.»

«Usop mi ha fatto entrare nonostante l'ora, quindi prenditela con lui» le disse Ace. «Nojiko mi ha dato il tuo indirizzo perché volevo parlarti di persona di tua madre.» Poi scoccò un'occhiata a Garp: la commozione aveva per un attimo preso il posto della sorpresa. «Di certo non mi aspettavo di trovare lui qui.»

«È perché Rufy non ti ha detto niente.» Nami fece un lungo sospiro. «Lo sospettavo, dato che non l'aveva detto a nessuno. Probabilmente aspettava il momento giusto o non gli è venuto in mente.»

Gli fece cenno di seguirlo per un attimo nell'altra stanza, quella da dove era entrato prima. Sul divano c'era un fagottino che aveva notato in precedenza, ma ora, con la luce accesa e la vicinanza, notò che era un bambino avvolto in una coperta. Il caos che il suo arrivo aveva creato lo aveva svegliato, perché aveva ancora lo sguardo addormentato, ma si strofinava gli occhi con la manica del pigiama.

«Questo è mio figlio Rufy. Noi lo chiamiamo Junior.» Nami incrociò le braccia e studiò Ace aspettandosi che ci arrivasse da solo. Ace osservò Junior e il suo viso rotondo circondato dai capelli neri spettinati. La pelle era chiara, cosa che lo portava a dubitare che fosse di Usop. Ed improvvisamente gli fu tutto chiaro.

«È figlio di Rufy?» E alla risposta positiva non poté far altro che esclamare: «Ma io lo uccido!». Già l'idea che suo fratello avesse avuto una ragazza e ci avesse anche fatto sesso era incredibile solo da pensare, ma il fatto che se ne fosse andato in guerra lasciandola incinta era assurda. «Lo sapevo che avrebbe combinato danni senza di me...» Era colpa sua che era nell'esercito nel momento in cui Rufy esplorava la pubertà. Figuriamoci se aveva una chiara idea di cosa fossero gli anticoncezionali!

Nami rise. «Il signor Garp ha avuto la stessa reazione» gli comunicò, non rendendolo felice. «Junior, questo è Ace, il fratello di tuo padre.»

Junior lo guardò con sguardo curioso. Uno sguardo fin troppo familiare. Poi sorrise. «Ciao.»

«Ciao...» Ace si sentiva come se Rufy gli avesse appena lasciato un piccolo se stesso indietro, a consolarlo. Però non sapeva veramente come comportarsi con lui. «Vuoi vedere una foto di tuo padre?» gli chiese infine.

«Sì!» Il volto di Junior si aprì in un grande sorriso. Ace aspettò il cenno positivo di Nami, quindi si sedette sul divano ed estrasse dal suo zaino la busta con le fotografie che aveva sviluppato. Non ce n'erano moltissime di Rufy perché il periodo che avevano trasmesso a Fort Irwin assieme era stato limitato, tuttavia ne aveva un paio dove si vedeva bene.

Junior gli si avvicinò e studiò attentamente la figura che lui gli indicava con il dito. Poi sorrise. «Questo è papà» commentò, indicando Rufy. «E questo è l'altro papà» aggiunse, indicando la foto di Usop. «Dov'è la mamma?»

«È più intelligente di Rufy» affermò Ace in direzione di Nami.

Lei annuì. «Fortunatamente ha preso da me.»

Ace non aveva una foto precisa di Nami, ma non voleva deluderlo dicendoglielo, quindi si limitò a mostrargli altre foto nel tentativo di distrarlo, cosa che parve funzionare. Junior le osservò tutte attentamente e sorrideva ogni volta che riusciva ad identificare Rufy, Usop o lo stesso Ace. Aveva già iniziato a chiamarlo “zio” come se lo conoscesse da sempre. Per Ace guardare quelle foto era meno doloroso con un bambino al fianco che non sapeva che cosa rappresentassero.

Quando lo vide sbadigliare, Nami decise che per quella sera era abbastanza. «A letto, su.»

«Ci penso io» si offrì Garp, cosa di cui Ace fu grato perché aveva ancora molto di cui discutere con gli altri due.

«Se il nonno ti tratta male, dimmelo, ti proteggo io» sussurrò a Junior, facendolo ridere, prima di lasciare il divano e tornare in cucina, che era stata riassettata nel frattempo. «Be', questa è sicuramente stata una sorpresa» esclamò, facendosi cadere sulla sedia di schianto. «Mio fratello è sempre stato un cretino, ma non mi aspettavo così cretino.»

«Eravamo tutti cretini.» Nami scosse la testa. «Era la guerra, nessuno di noi voleva rischiare di essere troppo considerato.» Guardò in lontananza verso la porta della stanza da letto dove Garp aveva portato Junior. «Ero furiosa per essere stata così stupida e aver perso l'occasione di andare in Francia, ma adesso...» Gli occhi le diventarono umidi. «Sono contenta di aver potuto approfittarne finché era possibile.» Usop si sedette al suo fianco e le mise una mano sulla spalla.

Ace li guardò: erano una coppia interrazziale, il che indicava che probabilmente avevano avuto un sacco di problemi e ancora li avrebbero avuti in futuro, in quel paese libero e razzista che era l'America. Ma erano anche due persone che avevano attraversato la morte di una persona che era loro estremamente cara, per cui erano abbastanza forti per affrontare qualsiasi cosa. Pensava che avrebbe dovuto essere irritato con Nami per aver sostituito Rufy così in fretta, ma non lo era: quei due avevano bisogno l'uno dell'altro perché capivano perfettamente quello che avevano provato.

Ace abbassò leggermente lo sguardo e coprì le lacrime con la mano. Rufy aveva colpito la vita di così tante persone, la sua compresa. Aveva un figlio. Ed era morto. Il senso di colpa per essere sopravvissuto lo invase con forza, ma cercò di cacciarlo. C'erano ancora più persone adesso che avevano bisogno che lui fosse forte.

«Posso offrirti qualcosa? Hai cenato?» Nami cercò di spezzare il silenzio con frasi di circostanza, perché la presenza di Rufy in quella stanza era diventata troppo papabile.

«Sono a posto, ma dimmi che hai qualcosa di forte da bere.» Ne sentiva il bisogno, aveva avuto decisamente troppe emozioni per quella sera. Mentre lei si alzava per recuperare un bicchiere e la bottiglia di liquore, si rivolse ad Usop: «Siete proprio sposati?».

«Sì» fu la risposta imbarazzata.

«Dev'essere stato difficile.» Era una semplice osservazione. «Siete stati molto coraggiosi.»

«È stato molto difficile, persino i preti neri come me non volevano saperne di una coppia mista» confermò Usop. «Ma se c'è una cosa che Rufy mi aveva insegnato era a non arrendermi.» Abbassò lo sguardo. «Vivere come un reietto per via della mia pelle era sempre stata la soluzione più facile, ma dopo aver conosciuto Rufy ho visto le cose da una diversa prospettiva. Lo voglio cambiare, questo paese. Voglio che tutti abbiano la possibilità di essere trattati come Rufy ha sempre trattato me.»

Era un Usop completamente diverso rispetto a quello che ricordava di aver incontrato a Fort Iwin e poi in Inghilterra prima dello sbarco. La guerra aveva cambiato la vita delle persone, ma non tutte in peggio. Ace si commosse davvero a sentirlo parlare così di suo fratello, perciò tentò di proseguire la conversazione per evitare di pensare troppo a lui. «Come vi siete incontrati?»

«Ci conoscevamo da prima, era stato Rufy a presentarci. Sapevo che stavano assieme, perciò quando sono riuscito ad essere congedato, ancora prima della caduta di Berlino, sono venuto a cercarla. Volevo raccontarle come Rufy ci aveva salvati tutti.» Usop non faceva altro che ripeterlo, perché per la sua vita era stata fondamentale la fiducia che era stata riposta in lui quel giorno, quando tutto sembrava senza speranza. «Ho scoperto di Junior e ho pensato che avessero bisogno di me.»

Nami pose il bicchiere davanti ad Ace e gli versò da bere. «Non ci siamo sposati per rimediare» aggiunse. «Ci siamo innamorati.»

«Non ti devi certo giustificare con me.» Ace ingoiò il liquido tutto d'un fiato, rischiando quasi di strozzarti. «In più non so se augurare a qualcuno di finire sposato con Rufy. Credimi, ci ho vissuto assieme per anni.»

«Penso di poterlo immaginare» sorrise Nami. Con il gruppo scherzavano sempre riguardo la sua idiozia, ma lo rispettavano tutti. Era bello poter continuare a riderne nonostante tutto quello che era successo, le ricordava com'era prima.

«Rufy non è il tipo che porta rancore a nessuno e non vedo perché dovrei farlo io. Certo, sono piuttosto sconvolto dalla cosa.» Anche perché continuava a non riuscire ad immaginarsi Rufy con una donna. O con un uomo, ovviamente. Per altro non aveva idea di come comportarsi con i bambini, né se fosse positivo per Junior che fosse comparso improvvisamente nella sua vita.

«Avevo provato a cercarti per dirtelo, ma ho trovato solo il Viceammiraglio Garp» disse Usop. «Parevi sparito.»

In un certo senso, lo era. «In guerra ho perso praticamente tutte le persone a cui tenevo. Avevo bisogno di assimilare quello che era successo.»

«E ci sei riuscito?» domandò Nami gentilmente, ma sottraendogli la bottiglia di liquore prima che se ne servisse un terzo bicchiere pieno.

«Un po' sì, ma non per merito mio.» Prese un respiro profondo. «C'è un altra persona che deve sapere di Junior» affermò. «Sabo.»

I due lo guardarono, poi Nami spalancò la bocca e infine fece un sorriso soddisfatto. «Rufy aveva ragione!»

«Sì, gliel'ho già detto e credo che abbia gongolato parecchio» annuì Ace, accennando ad un piccolo sorriso. «L'ho incontrato per caso in Francia e... Ho scoperto che era lui il ragazzo biondo della resistenza il giorno che tua madre è stata uccisa.» Era stato diretto, ma lei gli era sembrata abbastanza forte da sopportarlo. «Ero venuto a dirti questo.»

Forse erano state troppe informazioni contemporaneamente, perché Nami sembrò cedere per un attimo, ma subito dopo riprese il controllo. «Davvero?» domandò in un sussurro, ma era una domanda retorica. «È come se fossimo tutti collegati...»

«Già.» Ace annuì. Trovava incredibile che Bellmere venisse da Mortrée, ma adesso che Nami era improvvisamente diventata la madre di suo nipote, le coincidenze del legame fra le loro due famiglie diventava assurda. Era quasi destino. «Nojiko mi ha detto che fai la giornalista, per cui pensavo che magari poteva interessarti la testimonianza diretta.»

Nami lo stava fissando intensamente. «Sabo... Era nella resistenza francese?»

«Oh, molto di più. Era nella France Libre, dal '40» rispose Ace con un sorriso. Era estremamente orgoglioso di entrambi i suoi fratelli.

«Credi che sarebbe disposto a concedermi un'intervista? Vorrei davvero scrivere articoli da diversi punti di vista.»

«Non ho alcun dubbio a proposito.» Sabo era stato elusivo nei confronti dei giornalisti, ma quando avrebbe scoperto che era la madre di suo nipote non avrebbe saputo dire di no. Francamente voleva essere lui a dirglielo, sarebbe stato divertente vedere la sua faccia. «Anzi, saresti interessata anche alle mie foto? In realtà te le avrei fatte vedere comunque, ma adesso sei quasi una di famiglia e...» Rimase un attimo incerto: Nami si era già costruita una famiglia per conto suo, non aveva certo bisogno di lui che spuntava improvvisamente nella sua vita.

Lei allungò la mano verso la busta senza alcuna incertezza. «Rufy non la smetteva mai di parlare dei suoi fratelli e della loro bravura con le fotografie» spiegò. Le prese e le sparse lungo tutto il tavolo, che era stato liberato dalla quantità di piatti che c'erano quando era entrato. Sia lei sia Usop rimasero a fissarle a lungo, senza dire una parola.

«Sono fantastiche!» esclamò infine Usop, senza riuscire a trattenere l'entusiasmo. «Ehi, qui ci sono anche io.»

«Le dobbiamo pubblicare assolutamente» affermò Nami. «Il mio capo al giornale te le pagherà a peso d'oro, me ne assicurerò personalmente.»

«No, no» scosse la testa Usop. «Sono sprecate per un giornale, specialmente uno così piccolo. Dobbiamo organizzare una mostra.»

«Pensi che sia possibile?»

«Certo, dobbiamo solo trovare un posto giusto.» Recuperò un enorme foglio dalla credenza ed iniziò a disegnare una possibile pianta di come esporre le foto e anche di come fare i cartelloni pubblicitari.

Ace era rimasto stupefatto dalla calda accoglienza delle sue foto e dato che i due parevano parlare di loro come se lui non ci fosse, li lasciò fare, contagiato dal loro entusiasmo. Vedeva bene perché Rufy li avesse scelti e perché gli volessero ancora così bene. Si sentiva come se fosse stato lui, a essere appena stato adottato da una nuova famiglia.

Una mostra... Poteva funzionare. Anzi, avrebbe funzionato. In un modo o nell'altro sarebbe riuscito a mantenere la promessa che aveva fatto a Rufy tanti anni prima e quello poteva essere il primo scalino. Era sopravvissuto e doveva trovare una ragione per motivarlo.

«Ci vorrebbe una foto d'impatto, per la pubblicità» stava dicendo Usop. «Una davvero forte.»

«Questa.» Ace non esitò nemmeno per un istante a porgergli quella che aveva scattato a Brest, al corpo di Marco sdraiato ai suoi piedi. Era l'ultima cosa che si ricordava di lui e aveva dovuto immortalare quel momento.

Usop deglutì dalla forza di quell'immagine, poi parve riconoscere l'uomo nella foto. «Questo è...»

«Il Colonnello Marco. Noi due stavamo assieme.» Non aveva avuto più alcuna esitazione nel dirlo: era davanti alle due persone più importanti della vita di Rufy oltre ai suoi fratelli, ed era davanti ad una coppia interraziale che sicuramente non l'avrebbe giudicato. Le lacrime tornarono a scorrergli lungo le guance. Era in famiglia.

Nami e Usop lo guardarono con gli occhi lucidi, poi giunsero contemporaneamente alla stessa conclusione. «Allora questa dev'essere l'immagine simbolo della mostra.»
 
Parigi, 4 Luglio
 
L'ufficio era ormai vuoto quando Koala spense le luci e chiuse a chiave la porta. Era sempre l'ultima ad andarsene, ma era anche quella per cui quel lavoro era una questione personale. I suoi colleghi le dicevano spesso di prenderla più con calma, perché a livello emotivo poteva essere devastante. E lo era, ogni singola volta che doveva comunicare ad una famiglia ebrea che i loro parenti erano stati confermati come deceduti.

Aveva iniziato quasi per caso, con l'intenzione di ritrovare Shirley, Kaime e le altre e comunicargli cos'era successo ai loro familiari, poi aveva capito che era quello che voleva fare, cercare per quanto possibile di dare una speranza alle famiglie. La sua più grande soddisfazione era poter comunicare di averli ritrovati ancora vivi e ciò la compensava per tutti gli altri fallimenti.

Anche i suoi colleghi erano motivati da nobili scopi, ma non avevano vissuto le sue stesse esperienze, cosa che per lei trasformava il lavoro in una missione di vita. Anche per questo non aveva problemi a stare a lungo da sola in ufficio.

Quel giorno però aveva fatto effettivamente tardi: aveva promesso a Sabo che si sarebbero visti per cena e invece era rimasta ben oltre l'orario per terminare una ricerca. Per questo motivo quasi non si accorse della figura che la stava aspettando ai piedi della scala del palazzo, nella penombra.

«Robin...» esalò, quando l'ebbe riconosciuta e si fu tranquillizzata.

«Non volevo spaventarti» disse lei con gentilezza.

«No, non preoccuparti, ero solo sovrappensiero.» Koala non la vedeva dal '44, quando avevano combattuto assieme per conquistare il ponte. Non aveva un suo contatto e non era riuscita a rintracciarla. «Come stai? È passato molto tempo.» Era felice di vederla: la stimava moltissimo come donna e come persona.

«Tutto bene. Avevo una cosa da fare a Parigi e ho pensato di passare a salutarti prima di ripartire.»

Koala sorrise. «Hai notizie di Dragon e degli altri?»

«Stanno bene. Hanno le loro cose da fare, come sempre.» Poi aggiunse: «Spero che non ve la siate presa perché sono spariti così, è il loro lavoro».

«Sì, l'avevamo capito» annuì Koala. Lei e Sabo avevano persino smesso di chiedersi esattamente per chi o che cosa lavorassero, li avevano presi per delle persone che combattevano per la fazione che ritenevano nel giusto. E soprattutto che era meglio averli dalla propria parte. «Resti a cena con noi? Io dovevo andare da Sabo e penso che anche a lui faccia piacere rivederti.»

«No, mi dispiace, ma grazie. Devo ripartire subito.» Robin aveva lo sguardo serio, raramente sorrideva. «In realtà, sono venuta qui per chiederti di venire con me.»

«Intendi... Tipo in missione?» domandò Koala stupita.

«Esatto.» Robin annuì. «So che dopo la liberazione di Parigi hai dovuto lasciare l'esercito, purtroppo è ancora così che funziona, ma come spie le donne sono estremamente utili. E ho visto di cosa sei capace.»

Koala rimase immobile. Era lusingata, ovviamente, che Robin avesse pensato solo a lei. E tentata, anche. Voleva vivere in un mondo dove l'essere una donna non veniva considerato un problema ed era sempre rimasta stupefatta dai risultati di Robin. «Mi piacerebbe, davvero» rispose. «Ma sto facendo un lavoro qui che sento davvero mio e non voglio lasciarlo.»

Robin la fissò. «Ne sei sicura?»

«Sì.»

«Allora non insisterò.» Robin sorrise, uno dei suoi rari sorrisi che la facevano sembrare una persona totalmente diversa da come appariva. Koala era onorata di essere riuscita a vederlo in più occasioni. «Ti auguro solo il meglio, qualunque cosa tu abbia deciso. E naturalmente credo che tu stia facendo un lavoro molto importante.» Robin scomparve nella notte com'era arrivata, e Koala si limitò a fissare per un po' il punto dove l'aveva vista, era sicura, per l'ultima volta, con rammarico, ma con la consapevolezza di aver preso la decisione giusta. Molte cose erano cambiate durante la guerra e su quelle lei aveva costruito la sua vita.

Inforcò la sua bicicletta e si diresse all'Île Saint-Louis: lei e Sabo condividevano l'appartamento di famiglia che lui stava facendo ristrutturare e sistemare per adibirlo a sua residenza fissa, perché sentiva di dover avere una casa all'altezza del suo status di uomo politico. Koala l'aveva sempre vista come un magazzino per le armi, ma da quando aveva iniziato a recuperare il vecchio splendore ne era quasi spaventata. Dopo anni a rape e pancetta, qualsiasi lusso le pareva strano.

Lo trovò seduto in una delle future stanze da letto, che stava venendo riverniciata in quel periodo e in cui si avvertiva un forte odore di pittura fresca. Sabo aveva deciso di far restaurare gli affreschi nelle sale di rappresentanza e di dare semplicemente un colore unico in quelle private, per risparmiare, per cui i muri di quella avrebbero avuto solo una passata di bianco.

Quando la sentì entrare non si voltò nemmeno, ma indicò con il dito un angolo della parete non ancora tinteggiata. Qualcuno, molto tempo prima, vi aveva scritto sopra con l'inchiostro nero. Da quello che poteva leggere, erano parole inglesi.

Si sedette di fianco a lui. «Questa è opera tua» disse.

«Mia e di Ace e di Rufy» rispose lui. «Infatti è in inglese perché Rufy non ha mai imparato il francese. Sono insulti nei confronti di Stelly, per la maggior parte.»

«Li lascerai così?»

«Forse. Ci sto pensando.»

Ora che a Koala veniva in mente, non avevano parlato di cosa sarebbe successo una volta che la casa sarebbe stata pronta. Dovevano ancora arredarla, in ogni caso, quindi non si era preoccupata di pensare a una divisione delle stanze. E in fondo quella non era nemmeno casa sua, era solo un'ospite. Forse avrebbe potuto pagare un affitto.

«Vado in America» annunciò Sabo, prima che lei avesse il tempo di accennare qualsiasi cosa.

«Oh.» Era una cosa strana, così all'improvviso. Non conosceva la sua famiglia e sapeva che lui ne parlava con termini non entusiastici, ma forse vivere in quella casa gli aveva fatto tornare dei ricordi. «C'è un motivo particolare?»

«Ace mi ha chiamato poco fa, sta organizzando un'esposizione per le sue fotografie» le raccontò. Continuava a tenere lo sguardo fisso sulla parete di fronte a sé. «Ci voglio essere.»

«Be', sarà una bella cosa» mormorò Koala. C'era qualcosa che non andava, lo sentiva, ma non sapeva cosa. Non era successo nulla di particolare quella mattina.

«Vuoi venire con me?» le chiese gentilmente lui.

Lei scosse la testa. «Non posso lasciare il lavoro proprio adesso che stiamo ottenendo dei risultati.»

«Immaginavo, ma valeva la pena chiedertelo.»

«Comunque voglio un resoconto completo.»

«Certamente.» Rimasero nuovamente in silenzio. Koala si chiese se non era il caso di dirgli di Robin, giusto per rallegrare un po' l'atmosfera e farlo parlare, quando fu Sabo a riprendere l'argomento: «Ace mi ha detto anche un'altra cosa».

«Positiva o negativa?»

«Positiva, credo...» Sabo sembrò pensarci. «Ti ricordi che ci ha parlato delle figlie di Bellmere?» Koala se lo ricordava bene, era rimasta davvero sorpresa dal fatto che Ace le conoscesse. Era come se fossero tutti collegati. E naturalmente non avrebbe mai più potuto dimenticarsi quella scena, né lo sguardo sconvolto di Genzo quando le avevano detto che Bellmere era morta. «Be', apparentemente Rufy stava con una delle due e ci ha pure fatto un figlio prima della guerra.»

Koala lo fissò per un attimo per assimilare la notizia. «Hai un nipote!» Sabo non aveva mai parlato di Rufy ed Ace in termini diversi da “fratelli” e benché lei sapesse che non lo erano, li considerava tali comunque. Era una cosa che Sabo aveva sempre apprezzato di lei.

«Già.» Sabo fece un debole sorriso. «Voglio incontrarlo. Voglio vedere la mostra. Non voglio più perdermi nulla.» Aveva le lacrime agli occhi, ma le tratteneva più che poteva. «Rufy è morto senza nemmeno sapere che ero vivo... Be', l'ha sempre sperato, ma non ha avuto da me che una stupida lettera scritta male. Non voglio che ricapiti mai più.»

«Devi andare.» Koala sapeva benissimo com'era perdere qualcuno di fondamentale per la propria vita, e anche com'era non averlo potuto salutare un'ultima volta. «Non ti preoccupare di niente, anche ai lavori ci bado io.»

«Grazie.» Sabo aveva sempre potuto contare su di lei. Allungò il braccio e le strinse la mano. «Lo capisco che tu non possa venire con me, però poi vorrei passare il resto della mia vita con te.»

«Cosa?» Koala rimase a fissarlo per un attimo. «È una proposta?»

«Non è esattamente una proposta...» si schernì lui.

«Oh, no, lo era chiaramente» ribatté lei. Adesso era più divertita che altro dalla sua espressione imbarazzata. «Ti tiri indietro?»

«No, è che... Oh, sei impossibile!» sbottò Sabo alzandosi di scatto. Lo vide prendere un respiro profondo, prima di tornare a voltarsi verso di lei. «Siamo stati assieme per così tanto tempo che non riesco ad immaginare un futuro in cui le nostre strade si separeranno. Però adesso non abbiamo più un vero motivo per stare assieme, non c'è più la guerra e ognuno di noi ha la sua vita. Semplicemente non voglio che questo finisca.» Oramai aveva il viso più rosso della sua cicatrice. «Niente, te lo volevo solo dire prima di partire, metti che muoio in un incidente aereo.»

«Che cretinata! Perché dovrebbe accadere?»

«Be', sono cose che succedono!»

«Certo che sarebbe ben stupido essere sopravvissuto a sei anni di guerra e morire così.»

Sabo incrociò le braccia. «In effetti sì, sarebbe una morte idiota. Nel caso, inventati che ero già morto e un sosia mi aveva sostituito.» Risero entrambi, ma Koala aveva capito il suo punto di vista, anche se ci aveva scherzato sopra. Era importante non avere più rimpianti e dire quello che era importante dire, in un mondo dove sarebbero potuti essere uccisi ogni giorno.

«Sono incinta.» Non aveva risposto direttamente a quello che lui aveva detto, anche perché Sabo non sembrava voler davvero una risposta, ma solo esternare i suoi sentimenti.

Lui la fissò. «Ma siamo sempre stati attenti...» Adesso era impallidito: era piuttosto comico vedere la gamma dei colori che il suo viso poteva assumere.

«Non sono infallibili, a volte succede» commentò Koala.

«Lo terrai?» Sabo non aveva idea se per la religione ebraica l'aborto fosse considerato un tabù come per il cristianesimo, ma a parte quello non sapeva che cosa ne pensasse lei. Quella era la prima occasione in cui parlavano effettivamente del loro futuro assieme e decisamente non si aspettava una cosa del genere.

«Se dico di sì?»

«Avremo un bambino.» Sabo si sedette quasi abbandonandosi a fianco a lei. «In un giorno sono diventato zio e padre. Caspita.» Poi sorrise. «Adesso lo sai che ti tocca restare con me, vero?»

«Be', non ti credere, potrei sempre scappare e partorire in segreto e dire che il padre è morto in guerra» annuì Koala convinta.

«Poi ad Ace glielo spieghi tu» ribatté Sabo. «È diventato iperprotettivo di recente. Be', in realtà lo è sempre stato, ma fa ridere ora che ho vent'anni e passa.»

Lei rise di cuore. Ace le piaceva, non aveva pregiudizi di alcun tipo nei suoi confronti, era simpatico e avrebbe dato un braccio per le persone a cui teneva. Non era rimasta per niente stupita che avesse quel carattere, conoscendo Sabo. In ogni caso, stava scherzando e sapeva che non c'era nemmeno bisogno di spiegarlo. Anche lei voleva stare con lui: non si erano mai preoccupati di innamorarsi o cose del genere, erano già diventati una coppia senza nemmeno rendersene conto, per questo era stato sempre tutto così facile fra di loro. Diventare parte della sua famiglia era quasi ovvio: era un gruppo strano, composto solo da due fratelli che non erano nemmeno parenti alla lontana, e adesso dal figlio del fratello che avevano perduto, ma era diventata anche la sua. D'altronde, non le era rimasto nessun altro.

«Puoi piangere, se vuoi» le disse Sabo improvvisamente.

«Perché dovrei?»

«Dopo la morte di Fisher Tiger, non te l'ho mai visto fare» rispose Sabo. «Pensavo fosse perché le cose passavano, dopo un po', quando si aveva dell'altro da fare. Adesso so che non passano affatto.» Dopo due anni, faticava ancora ad accettare la morte del fratellino. Ritrovare Ace gli aveva dato una gioia che non pensava di poter provare ancora, ma ciò nonostante non riusciva ancora a sentirsi meglio. Invidiava la forza d'animo di Koala, che invece aveva stretto i denti in ogni occasione, mentre a lui veniva da piangere anche per delle stupide scritte sul muro.

Lei si strinse a lui e nascose il viso sul braccio. «Sono gli ormoni della gravidanza. Dovrai sopportarli per un po'.» Poteva anche lasciarsi andare, in quel momento.

Sabo le passò il braccio sulla spalla. «Quanto vuoi.»
 
   
 
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