Capitolo 1
Distolsi lo sguardo
dall’ago che penetrava
lentamente attraverso la pelle. Il suo viso ebbe un fremito quasi
impercettibile, unico segno che la flebo aveva raggiunto la sua
giugulare, da
cui il sangue prese a sgorgare a un ritmo impressionante, un torrente
rosso che
scorreva nel lungo tubo trasparente collegato al Distillatore. Mentre
il sangue
continuava a sgorgare il viso rugoso del vecchio si distese in
un’espressione
neutra, quasi rilassate, e mi chiesi se quel rapido fremito fosse di
paura o
piuttosto di rassegnazione.
Dopo alcuni minuti il
flusso iniziò a rallentare
sempre più, mentre il volto dell’uomo si faceva
sempre più cereo. Aveva chiuso
gli occhi. Il suo petto si alzava e abbassava freneticamente, fino a
quando si
abbassò per non rialzarsi più.
Quell’ultimo respiro fu catturato dalla
mascherina che aveva fissata al viso e incanalata a sua volta nel
Distillatore,
dove avrebbe dato inizio ai processi di extractio
e multiplicatio.
Smisi di fissare il corpo
ormai senza vita di
quell’uomo sconosciuto e osservai assorto il Distillatore,
ricordando il giorno
in cui mio padre mi aveva spiegato il suo funzionamento e, soprattutto,
il suo
scopo.
«Questo,
Ryan…
Questo è il futuro…» mi aveva detto.
«Quando gli scienziati del passato hanno
inventato questa macchina, questo Distillatore, hanno aperto le porte
al
progresso. Hanno reso possibile distillare il sangue ed estrarne,
grazie
all’anima delle persone esalata con il loro ultimo respiro,
un Elisir dalle
potenzialità infinite.»
«E
sai a cosa serve
questo Elisir figliolo? Serve a donare
l’Immortalità.» aveva continuato senza
darmi il tempo di rispondere.
«E
un giorno
quest’Immortalità sarà anche nostra.
Grazie al sacrificio di qualche banale
essere umano, noi eletti potremo vivere per sempre!» aveva
concluso con una
risata, scompigliandomi i capelli con la mano.
Avevo
solo otto
anni.
«E
ricordi cos’è
l’Oligarchia, ricordi bene quello che ti ho
insegnato?» aveva chiesto ancora,
sorridendo benevolo.
«Certo
papà!» avevo
risposto da bravo bambino. «L’Oligarchia
è l’élite che governa
l’Impero di Drēor,
il gruppo di nobili Immortali che da seimilanovecentnovantanove anni ci
guida e
ci protegge amorevolmente dai pericoli del mondo esterno, utilizzando
le loro
ricchezze e le loro conoscenze per il bene comune.»
«E
chi ha fondato
l’Oligarchia dando inizio a quest’epoca
d’oro di pace e prosperità?»
«Ma
è ovvio, è
stata creata dal Primo Oligarca Juglans e da sua sorella, la Prima
Oligarca
Carya. Durante i Tempi Oscuri hanno creato il primo Distillatore e dato
origine
al nostro mondo.» avevo risposto di nuovo a memoria.
«E
dimmi, cosa sai
invece del Distillatore?» mi aveva interrogato, questa volta
più seriamente.
Lui era lo scienziato capo che lavorava al suo continuo miglioramento.
«Il
Distillatore
serve per produrre l’Elisir, la sostanza alchemica che ci
permette, grazie al
sacrificio volontario del nostro coraggioso popolo, di fare
sì che gli
Oligarchi vivano per sempre, cosicché possano mantenerci per
sempre al sicuro e
felici.» Ero proprio un bravo pappagallo.
Adesso,
dieci anni
dopo, avevo imparato tutto sul Distillatore. Mio padre mi aveva
insegnato ogni
cosa. Sapevo che per produrre l’Elisir era necessario
combinare il sangue
estratto dalle vittime con il fiato emesso nell’istante della
loro morte, che
conteneva l’essenza della persona, l’ultimo alito
di vita, la sua anima che si
disperdeva. Questa combinazione dava origine a complessi processi
alchemici che
portavano a trasmutare il sangue in un liquido ambrato dai poteri
illimitati.
L’Elisir
poteva
garantire la vita eterna, l’immunità a qualsiasi
malattia, la resistenza a
qualsiasi veleno, ma soprattutto trasmetteva a chi lo beveva tutte le
conoscenze e il sapere delle vittime.
Ma
la cosa più
macabra era che il sangue non poteva semplicemente essere estratto
dalle
persone, doveva essere donato in un
sacrificio volontario. Era su questo sacrificio che si reggeva il
nostro
sistema: le persone venivano spinta a donare la propria vita per il
bene
comune, di solito in cambio di denaro per le loro famiglie. Proprio per
questo
erano un’infinità i disperati che vivevano in
povertà e si sacrificavano per
garantire denaro e sicurezza ai propri cari, andando incontro ad un
destino
ignoto.
«Tre
sacrifici
consumati correttamente, un’ottima giornata direi. Ora
possiamo andare, l’Oligarchia
sarà contenta del risultato, ma intanto prendiamoci una
pausa. Per oggi è
sufficiente.» annunciò mio padre con orgoglio,
fiero dei progressi ottenuti.
Con un sospiro di sollievo lo seguii fuori dalla Sala
d’Estrazione,
abbandonando il Distillatore al suo triste lavoro. Intanto mio padre
continuava
a parlare, indifferente alla mia mancanza di attenzione.
«Gli
Oligarchi
hanno indetto un Concilio il mese prossimo per discutere delle
possibili nuove
ammissioni al loro gruppo. Hanno deciso di festeggiare
l’anniversario dei loro
settemila anni di regno elevando alcuni nuovi Oligarchi, questa
potrebbe
finalmente essere la volta buona, la nostra famiglia potrebbe
finalmente
ottenere i privilegi che ci spettano per il nostro duro
lavoro.» commentava
emozionato.
«Si
papà, ottima
notizia davvero…» risposi con scarso entusiasmo,
perdendomi di nuovo nei miei
pensieri.
Mi
riscossi dai
miei pensieri mentre uscivamo dall’edificio e ci dirigevamo
verso casa, situata
in uno dei quartieri più ricchi della città. Mio
padre era uno scienziato di
successo, e la nostra famiglia apparteneva alla Cerchia Superiore,
appena un
gradino al di sotto dell’Oligarchia. Eravamo ricchi, e
invidiati da coloro che
vivevano nei quartieri poveri costretti alla fame. Grazie alle sue
capacità e
al suo lavoro, mio padre ambiva da anni ad essere elevato ad Oligarca e
guadagnare l’Immortalità per la nostra famiglia, e
ora sembrava che fosse molto
prossimo a raggiungere i suoi scopi.
Non
che ne fossi
molto interessato, la prospettiva della vita eterna non mi allettava
particolarmente, e proprio ciò era spesso motivo di lite tra
noi.
Con
un sospiro lo
lasciai sulla via di casa, annunciando che sarei andato a fare un giro
in
città. Avevo bisogno di un respiro di libertà.
Sopportai in silenzio la sua occhiataccia
di disapprovazione, ma non cercò di fermarmi.
Mi
diressi a passo
sicuro verso i Giardini della Vita, il grande parco dove i ricchi
trascorrevano
la maggior parte del loro tempo libero, ma esitai al pensiero che avrei
potuto
incontrarvi mia madre o i miei fratelli. Non era proprio ciò
di cui avevo
bisogno.
Vincendo
l’istante
di indecisione, girai su me stesso ed imboccai una delle vie in discesa
che
conducevano verso la parte più povera di Blotan, la capitale
dell’Impero.
Sapevo che se mio padre fosse venuto a sapere che mi aggiravo per i
bassifondi
mi avrebbe fatto passare dei guai, ma in quel momento ero in una delle
mie fasi
ribelli e non me ne preoccupai.
Non
so per quanto
tempo passeggiai per quelle stradine affollate, a malapena mi accorgevo
degli
straccioni che mi fissavano con odio alla vista dei miei abiti
lussuosi, o dei
delinquenti con gli occhi colmi di invida, chiaramente desiderosi di
rapinarmi.
Forse non mi consideravano una preda facile, viste le armi che portavo
al
fianco, o magari l’agitazione che traspariva da me era vista
come furia invece
che smania di libertà, fatto sta che nessuno osò
attaccarmi, e prima che me ne
rendesse conto si fece buio mentre lentamente calava il crepuscolo.
Dovrei tornare, se non voglio peggiorare la
situazione…
mi dissi pensando ai guai che mi attendevano a casa. Al diavolo, ormai sono già nei casini,
tanto
vale farli stare in ansia per un po’! emerse il
cattivo ragazzo che era in
me.
Mi fermai
un’istante, combattuto, con il piede
ancora a mezz’aria in attesa di completare il passo. Stavo
proprio per voltarmi
e avviarmi rassegnato verso la Città Alta, orientandomi
grazie alle guglie
illuminate della Cittadella di Poenari, la residenza degli Oligarchi,
quando
sentii l’urlo.
Proveniva da un sudicio
vicoletto alla mia
sinistra. Era una voce femminile. Non esitai.
Mi lanciai
nell’imboccatura della stradina,
seminascosta tra due case, estraendo la Puşcă
PSL dalla fondina alla cintura mentre correvo. Tolsi la sicura,
sollevai
l’arma, una via di mezzo tra una grossa pistola e un corto
fucile, davanti al
viso, l’indice della mano sinistra pronto sul grilletto e
avanzai cautamente
aspettando che gli occhi mi si abituassero
all’oscurità.
Seguii
i
rumori di lotta fino a vedere una ragazza che da sola cercava di
difendere un
corpo steso a terra dalla furia di tre figure ammantate di nero. Prima
di avere
il tempo di pensare, l’istinto guidò la mia mano e
sparai due rapidi colpi. Due
lampi di luce bluastra balenarono riflettendosi sui muri circostanti,
mentre i
raggi laser colmavano lo spazio tra noi colpendo il più
vicino dei presunti
rapinatori, che stramazzò al suolo. I suoi compagni si
girarono sorpresi,
appena in tempo perché uno fosse colpito dal mio colpo
successivo. Vedendolo
accasciarsi, l’ultimo superstite indietreggiò
imprecando e svani nella notte
prima che potessi mirarlo. Riposi l’arma e allontanai con un
calcio i due corpi
incoscienti: avevo regolato l’intensità della
Puşcă al minimo e sapevo che si
sarebbero risvegliati nel giro di un paio d’ore con un brutto
mal di testa.
Mi
precipitai al fianco della ragazza che cercava di soccorrere la sua
amica a
terra, osservandole meglio per la prima volta.
Erano
alte
poco meno di me, mi arrivavano appena al mento. Quella in piedi aveva
dei
lucenti capelli castani, leggermente mossi, e penetranti occhi verdi
che
sovrastavano dei lineamenti affilati e graziosi. Quella a terra aveva
invece i
capelli più scuri e ricci, e occhi marroni colmi di rabbia e
paura in un volto dalle
curve più morbide e dolci.
Le
porsi
la mano per aiutarla a rialzarsi, ma la sua compagna mi si
parò davanti
fronteggiandomi agguerrita.
«Cosa credi di fare? Vuoi
approfittarti anche tu di noi, magari come ricompensa per averci
“salvate” da
quegli altri teppisti?» domandò puntandomi un
dito contro il petto, con un notevole coraggio considerato la pistola
che mi
pendeva al fianco, assieme alla spada corta sull’altro lato.
«Non ho intenzione di
farvi del male. Voglio solo assicurarmi che torniate a casa sane e salve.» Indietreggiai di due passi, in modo da
tornare nel cono di luce proiettato nel vicolo dalla strada principale;
speravo
che, una volta visto il mio abbigliamento, capissero che non ero uno
dei soliti
delinquenti e non ero un pericolo per loro. Ma non ottenni
l’effetto sperato,
anzi, la reazione fu totalmente opposta: entrambe sgranarono gli occhi,
mentre
la seconda che si stava rialzando si bloccava a metà del
movimento.
«Perdonateci
signore, non ci eravamo rese conto…non avevamo
visto…non
sapevamo…» balbettò la prima, mentre
l’altra, ormai di nuovo in piedi, la
interrompeva.
«Grazie
per l’aiuto mio signore, ma adesso dovremmo proprio andare,
siamo
già in ritardo, il coprifuoco è passato da un
pezzo.» disse con lo sguardo
chino, mentre indietreggiavano di corsa. Ebbi a malapena il tempo di
chiedere
loro come si chiamassero, mentre fuggivano ai miei abiti da nobile.
Dovevano
avermi scambiato per un membro dell’Oligarchia, o
dell’alta nobiltà. E ci
avevano abbastanza azzeccato.
Riuscii
solo a scoprire che quella che era caduta a terra, con i vestiti
strappati e i capelli ricci più scuri, si chiamava Svenja,
mentre la sua amica,
evidentemente era sua amica visto che aveva cercato di difenderla, era
Saskia.
Avrei
voluto seguirle, per assicurarmi che arrivassero a casa sane e
salve, ma le avrei terrorizzate ancor di più, ed ero
già dannatamente nei guai
per il mio ritardo.
Poi
le loro schiene sparirono nell’oscurità.