“What hurts the most”
“The winter is coming”
George R. R. Martin
Quando arrivai a casa mi buttai sul letto, sfinita. Il
viaggio sui mezzi pubblici era stato terribile, mi era tornata la nausea e
avevo rischiato di vomitare almeno una decina di volte. Sentivo dolore in
qualsiasi punto del mio corpo, come quando si corre per lungo tempo e l’acido
lattico inizia ad invaderti i muscoli. Il mio trucco era collassato per via
della continua sudorazione fredda e il mio viso ora era una maschera informe di
nero e grigio. Il mio zaino era stato abbandonato all’entrata e io ero a letto
con ancora le scarpe addosso, il solo provare a slacciarle mi aveva causato dei
capogiri.
Voglio
morire...
<< Bene, sei arrivata. Potevi passare a
salutare! >>
Una donna, dai capelli neri e corti, era
entrata in camera mia, senza bussare. Aveva un fisico atletico e muscoloso,
quasi come quello di una body builder, e indossava una tuta da ginnastica.
Lavorava come personal trainer in una palestra per fighetti in centro, ma per
quanto mi riguardava era una spia del KGB e una gran rompicoglioni.
Se
fosse veramente una spia, mi avrebbe già fatto sparire in un fosso.
<< Ciao, zia Monica, dov’è la mamma?
>>
<< In Cile o giù di lì. Un tipo è stato
arrestato per droga, ma sembra essere innocente e Moser è stato chiamato
all’improvviso per difenderlo. >>
Il dottor Moser, il capo di mia madre, era un
avvocato per i diritti civili e lei era la sua assistente sottopagata. Lui,
occupandosi principalmente di casi internazionali, la costringeva a seguirlo in
tutti i suoi viaggi.
<< Ok, quando torna? >>
<< Non so, forse fra due o tre
settimane. Mi ha detto che è un caso molto importante. >>
Sbuffai, era un viaggio piuttosto lungo anche
per i suoi canoni. Mi venne un fortissimo capogiro e la mia vista divenne
torbida.
<< Comunque, Camilla, ti farebbero bene
un po’ di sole e un po’ di sport, andiamo a fare una corsetta? >>
Sapevo cosa stava per succedere, saltai in
piedi con le poche energie che mi erano rimaste, scansai mia zia e corsi verso
il bagno, chiudendomi la porta alle spalle.
Ti
prego, questa volta non fuori dalla finestra...
Divenne tutto buio intorno a me.
Un istante dopo picchiai la testa sul
soffitto e ricaddi a terra sul ginocchio, sentendo un dolore atroce. Mi misi
entrambe le mani sulla bocca per non urlare e farmi sentire dalla zia.
Monica bussò lievemente alla porta del bagno.
<< Camilla? Tutto bene? >>
Dopo quel “salto” la mia mente era tornata
lucida, pronta ad inventare una bugia,
quindi, sebbene la mia gamba dolorante non riuscisse a reggere bene il
mio peso, andai ad aprire la porta.
<< Credo di avere un’intossicazione
alimentare, ho appena vomitato l’anima. Tra l’altro sono inciampata e mi sono
distrutta il ginocchio. >>
Evidentemente la mia faccia, pallida e
sconvolta, confermò appieno ciò che avevo appena inventato. Monica mi prese per
un braccio e mi trascinò in cucina, facendomi accomodare sulla panca di legno.
<< Togliti i pantaloni, servirà del
ghiaccio. >>
Ubbidii controvoglia e aspettai che lei
valutasse la situazione. Il mio ginocchio aveva assunto un colore rosso scuro e
stava iniziando a gonfiarsi. Mi appoggiò un sacchetto di piselli surgelati
sopra al gonfiore.
<< E’ solo una botta, tranquilla. Però
dovresti fare un po’ di sport per migliorare la coordinazione e soprattutto per
dimagrire un po’, non vorrai avere la cellulite fra qualche anno? >>
Solo
complimenti oggi!
<< Ok, ci penserò, ora sono inabile
allo sport. >>
Indicai sorridendo la mia gamba destra e mi
diressi verso la mia stanza.
<< Vuoi qualcosa per lo stomaco? O vuoi
mangiare magari? >>
<< Magari prendo qualcosa per lo
stomaco dopo e l’idea di mangiare non mi attira per nulla. >>
<< Camilla, vedi, questo è il tuo corpo
che vuole dimagrire e ti sta parlando. >>
Si e mi
sta suggerendo di spedirti da qualche parte.
Raccolsi lo zaino da terra, solo per poi
buttarlo sul letto, e recuperai il mio cellulare. Sullo schermo campeggiava una
scritta che quasi mi fece inciampare, per davvero questa volta: Daniele Zatti
ti ha mandato una richiesta d’amicizia.
Subito dopo comparve anche un messaggio in
cui lui mi chiedeva di incontrarlo per ridargli l’accendino. Se questo mi fosse
accaduto ieri, avrei fatto dei salti di gioia alti tre metri.
Invece oggi l’avevo visto diventare quella cosa e mi aveva terrorizzato tantissimo.
Non era stato l’aspetto a sconvolgermi, ma più il fatto che quello che avesse
detto Gabriele su di lui fosse vero. Infondo, tutta quella faccenda della
Guerra mi sembrava così irreale e poi li avevo visti combattere, con odio. Era
tutto fottutamente reale e io, per qualche ragione assurda, ne facevo parte.
Mi lasciai cadere a terra e iniziai a
piangere, cercando di non farmi sentire da Monica.
Dopo due ore di lacrime e autocommiserazione,
la nausea tornò a tormentarmi e il mio cellulare squillò: era una chiamata di
skype con i miei tre amici, Carla, Michela e Andrea. Risposi controvoglia e
cercai di darmi un contegno.
<< Era ora che rispondessi Camilla, ho
cercato di chiamarti un sacco di volte. >>
Era stata Michela a parlare. Probabilmente
ero in uno stato così confusionale che non mi ero resa nemmeno conto delle chiamate
precedenti.
<< Scusa, non sto troppo bene...
>>
<< Non puoi stare ancora pensando alle
parole di quel cocainomane. >>
Andrea mi interruppe, senza lasciarmi finire.
<< No, no, tranquillo Andre, sto
proprio fisicamente male, devo aver preso un virus intestinale. Però, a
proposito di Daniele, dovete darmi un consiglio. >>
Inviai a tutti loro uno screenshot del
messaggio che avevo ricevuto e stetti ad ascoltare, senza intervenire, la loro
lunga discussione al riguardo. Andrea, molto protettivo nei miei confronti,
sosteneva che non dovessi nemmeno rispondergli, mentre le ragazze
controbattevano che Daniele volesse avere un appuntamento con me. Io non potevo
fare a meno di sentirmi in colpa per non spiegar loro come stessero veramente
le cose. Era la prima volta, da quanto eravamo diventati amici, che non potevo
essere totalmente sincera con loro e questo mi faceva stare ancora peggio.
Soffrivo così tanto che dovetti chiudere la conversazione.
<< Ragazzi sono le sei e mezza, fra
un’ora mangio. Va bene se porto l’accendino a uno di voi? Tanto non penso di
venire domani. >>
<< Non dirai sul serio? >>
<< Si, Carla, è uno stronzo, ha ragione
Andre. Posso portarti l’accendino fra una mezz’ora? >>
Dopo qualche altra opposizione da parte delle
ragazze, riuscii a convincerle. Andai a farmi una doccia e mi preparai
velocemente.
<< Monica, devo portare degli appunti a
una amica, torno fra, massimo, venti minuti. >>
Un rumore assordante uscì dalla cucina. Mia
zia non era mai stata un’ottima cuoca, se non per fare centrifughe e insalate
iperproteiche.
<< Ok, io mi faccio un’insalata di
pollo ne vuoi un po’ per cena? >>
<< Non penso che mangerò, sai, lo
stomaco. >>
<< Meglio, un po’ di digiuno può farti
solo bene. >>
Io sbuffai e presi le chiavi del motorino,
dopo aver controllato di avere ancora l’accendino in tasca. Scesi le scale
reggendomi bene alla ringhiera e al piano di sotto incontrai il mio vicino.
<< Ciao, Davide. >>
<< Ciao, stai... stai bene? >>
Io mi guardai e poi capii che si riferiva al
mio colorito cadaverico e all’aspetto da malato terminale che dovevo avere.
<< Ah si, solo un virus intestinale che
sta girando. Attento, eh. >>
Tirai un falso colpo di tosse diretto verso
di lui, che mi guardò schifato e si chiuse in casa.
Sono
stata un po’ stronza.
Uscita dal portone di casa, mi diressi verso
il mio vecchio motorino rosso. Mia madre me l’aveva regalato due anni fa,
l’aveva preso usato, da un amico, e mi aveva autorizzata a utilizzarlo solo
raramente, per uscire la sera o per andare dagli amici, ma non per andare a
scuola. Una volta acceso, faceva un rumore orribile e fastidioso, ma la cosa
positiva era che mi portava in giro. In un attimo stavo girando nella via di
Carla e una nausea improvvisa mi prese lo stomaco.
Non
ora, ti prego.
La mia vista si oscurò e mi teletrasportai.
Io e il mio motorino ricomparimmo venti metri più avanti a un metro da terra.
Riuscii ad atterrare, senza cadere, e frenai di colpo. Mi guardai intorno, non
c’era nessuno per fortuna, e iniziai a ridere.
Ok,
questo
era stato divertente.
Erano passati cinque giorni da quando avevo
portato l’accendino a Carla. Gli attacchi di nausea e i “salti” imprevisti
erano diminuiti fino a sparire, ma io comunque non volevo tornare a scuola. Avevo
inviato quella brutta risposta a Daniele e l’ultima cosa che volevo era
rivederlo. I miei amici mi avevano chiamata più volte e io avevo usato la scusa
del virus intestinale, scusa che con Monica stava smettendo di funzionare.
Era domenica, nel pomeriggio avevo fatto una
videochiamata con mia madre, ma non avevo avuto il coraggio di farle domande.
Io e lei avevamo un bel rapporto, ma non eravamo quel genere di persone che
parlavano seriamente dei loro sentimenti o dei loro problemi, eravamo persone
riservate. E questo era il motivo per cui le risposte che cercavo su di me e su
mio padre le avrei ricevute quella stessa sera, da qualcun’altro.
In teoria, quella sera, alcune classi della
mia scuola, tra cui la mia, sarebbero dovute andare a teatro a vedere lo
spettacolo “La bisbetica domata”, ma io avevo programmi diversi: popcorn e film
romantico. Ma, essendo la mia vita diventata un fottuto casino, una telefonata
modificò i miei progetti.
Una telefonata, da un numero privato, accese
lo schermo del mio cellulare.
<< Pronto? >>
<< Ciao, Camilla, sono Gabriele, tutto
bene? >>
Io, in quel momento, mi stavo dondolando
annoiata sulla sedia della mia scrivania e quasi mi ribaltai quando sentii la
sua voce, invece di quella di un operatore telefonico.
<< Ah, ehm, si, a parte il fatto che
negli ultimi giorni sono stata letteralmente sballottata da un posto all’altro
e non abbia fatto altro che vomitare. >>
Lui rise dolcemente e io mi sentii un’idiota.
Scommetto
che era proprio interessato alla parte del vomito.
<< Immagino, è normale. Comunque, ho
saputo che anche la tua classe deve andare a teatro... >>
<< Si e ci andrà senza di me. >>
<< E invece ti sbagli. Voglio
presentarti gli altri ragazzi della squadra, parlare un po’ con te e
soprattutto farti vedere come lavoriamo. >>
Strabuzzai gli occhi, l’ultima frase poteva voler
dire solo una cosa: pericolo.
<< Si, sembra interessante, ma non
posso. Sarei solo un peso per voi. >>
<< Lo sai che i Cacciatori hanno
chiesto informazioni sul tuo conto ai tuoi amici? Io, per proteggere loro e il
nostro segreto, ieri gli ho fatto dimenticare tutto. Mi dispiace che stia
succedendo tutto così in fretta, ma dovrai imparare a difenderti, per
proteggere te e le persone che ami. >>
Il mio respiro si bloccò e i miei occhi si
persero nel vuoto.
I miei
amici...
<< Camilla, stanno bene per ora, ma è
importante che tu capisca e che sia pronta. Ti passo a prendere alle otto, va
bene? >>
Io ripresi fiato, non potevo permettere che
ai miei amici succedesse qualcosa.
<< Ok, va bene, ci vediamo alle otto.
>>
Chiusi la chiamata e mi alzai in piedi.
<< Vai da qualche parte? >>
Mia zia Monica era appoggiata alla porta e
portava orgogliosamente, sul viso, un sorriso sornione. Io buttai gli occhi al
cielo e mi diressi verso l’armadio.
<< Un amico viene a prendermi fra venti
minuti, dobbiamo andare a teatro con la scuola. >>
Mi infilai un paio di jeans e notai con
sorpresa che mi andavano larghi. Evidentemente il teletrasporto non aveva solo
consumato le mie energie, ma anche, letteralmente, il mio corpo.
<< Se esci con un ragazzo, dovresti
metterti qualcosa di carino e, visto che sei dimagrita, dovresti metterti
qualcosa che non ti stia così largo. >>
Io sbuffai, ma in fondo aveva ragione. Mi
infilai per metà nell’armadio e rovistai in una scatola dove tenevo i vestiti
che mettevo due anni fa. Trovai dei jeans attillati, pieni di strappi, e li
misi.
<< Quelli fanno schifo, ma almeno la
taglia è giusta. Mettiti questa. >>
Mi lanciò una camicia bianca.
<< Non mi va, non si chiude sulle
tette. >>
<< Quello è perché hai ereditato le
tette giganti di mia cognata. >>
<< Beh, visto che tutto il resto fa
schifo, almeno quelle lasciamele. >>
Lei se ne andò sbuffando e io, alla fine, mi
misi una canottiera nera con una camicia scozzese sopra. Iniziai a truccarmi,
ricoprendo i brufoli col solito correttore, senza esagerare.
Tanto
finirà a botte e, se mi trucco, finirò come un panda.
Rabbrividii. Presi un respiro profondo e
scrissi ai miei amici che sarei andata a teatro, senza ricevere alcuna
risposta. Due minuti dopo mi arrivò un messaggio da Gabriele che mi diceva di scendere.
Presi la borsa con dentro il portafoglio e ci misi il telefono. Poco prima di
uscire mi fermò mia zia.
<< Non tornare tardi, ok? >>
<< Vado solo a teatro, mi farò un paio
d’ore di sonno, tranquilla. >>
<< Sono tranquilla, vestita così sei l’antisesso.
>>
Grazie.
Sorrisi a Monica, mi chiusi la porta alle
spalle e le feci il dito medio. Scesi le scale di corsa e, di corsa, uscii dal
cortile. Fuori c’era un costosissimo suv nero, aprii la portiera e salii.
<< Ciao, Camilla. >>
<< Ciao, Gabri, hai già la patente?
>>
Idiota,
è ovvio, sta guidando.
<< Si, presa un mese fa.>>
Lui mise in moto e partì.
<< Ok, come prima cosa, ti dico cosa ho
scoperto sul tuo conto. >>
Io gli lanciai un’occhiata di traverso, ma
lui continuò.
<< Tuo padre era Jazeriel Aleri, un
Angelo molto importante nella nostra società e un amico dei miei genitori,
pensavano fosse morto senza lasciare eredi... >>
Si interruppe, probabilmente aveva notato che
io avessi smesso di respirare. Io rilasciai l’aria e cercai di mantenere il
controllo, dopo la notizia della morte di mio padre. Pur non avendolo mai
conosciuto era strano e triste venirlo a sapere così.
<< Sto bene, tranquillo, però che nome
strano. >>
Lui mi sorrise e posò la sua mano sulle mie.
<< Si, alcuni di noi portano nomi di
Angeli, contenuti nella Cabalà. Io porto il nome dell’arcangelo e probabilmente
anche il tuo deriva da lì, ma dovresti chiedere a mio padre, è lui quello
esperto. >>
Io annuii e gli chiesi se potessi fumare, in
modo tale da liberare le mani dalla sua stretta.
<< Si, solo abbassa il finestrino.
Comunque, stasera non ci sarà molta azione, vogliamo solo vedere le loro
reazioni verso di te. >>
<< Che reazione vuoi che abbiano?
Penseranno che sia la vostra mascotte oppure che sia la più facile da ammazzare.
>>
Lui rise di gusto.
<< A Roberto e a Edoardo piacerai un
sacco. >>
Non
credo, ma è gentile da parte tua dirlo.
Dopo qualche minuto di pausa, disse una cosa
che mi fece quasi morire dalle risate.
<< Comunque i nostri poteri consumano le
nostre energie, devi mangiare molto più del normale se non vuoi diventare pelle
e ossa e morire. >> e continuò quando sentì le mie risate << Sto
dicendo sul serio, la nostra alimentazione è molto importante. >>
<< Va bene, va bene, mi sfonderò di
pizza. >>
<< Dovrai seguire un’alimentazione
equilibrata. >>
Io sbuffai del fumo fuori dal finestrino e mi
misi più comoda sul sedile.
La macchina imboccò una via, stretta e con il
pavè, che portava dritta al teatro Carcano.
<< Guarda che di qui ci può passare solo
il tram. >>
<< Tranquilla, a noi non arrivano le multe. >>
Fantastico.
Lui parcheggiò in divieto di sosta e scese
dalla macchina, mentre io facevo lo stesso. Notai che lui si era mosso
velocemente verso il mio lato, forse per aprirmi la portiera, e gli sorrisi. Mi
fece segno di seguirlo. Davanti al portone d’ingresso del teatro si era
radunata una folla di studenti e i professori facevano fatica a tenerli calmi.
Era una bella serata autunnale, limpida, e soffiava un lieve brezza fredda,
come per ricordare a tutti noi che l’inverno stesse arrivando.
The
winter is coming.
Sorrisi leggermente.
<< Camilla, posso finalmente
presentarti Roberto e Edoardo. >>
Rivolsi lo sguardo verso i due ragazzi. Il
primo aveva i classici tratti mediterranei, aveva i capelli corti e
un’orecchino sul lobo sinistro, mentre il secondo aveva i capelli biondi e le
iridi davvero scure, quasi nere. Entrambi erano vestiti in modo curato ed
avevano un fisico definito.
Ok,
sono l’unico Angelo cesso, va bene.
I professori iniziarono a richiamare gli
studenti affinché entrassero e io con la coda dell’occhio notai le tre figure
dei miei amici dirigersi verso l’entrata. Subito scattai verso di loro per
andare a salutarli.
<< Ehi, Camilla, aspetta... >>
Ignorai Gabriele e mi infilai a spinte in
mezzo alla folla. I ragazzi a loro volta si strattonavano l’un l’altro, nessuno
voleva avere il posto di fianco ai professori. Inciampai in un piede di
qualcuno e finii contro a una persona. Mi aggrappai alla sua felpa per
recuperare l’equilibrio e sfornai un sorriso a trentadue denti ai miei tre
amici.
<< Ehi, ragazzi, guardate un po’ chi
c’è? >>
Iniziai a saltellare felice, ero stata una
stupida a evitarli, ma poi notai l’oggetto nelle mani di Carla e glielo
strappai di mano.
<< Che cavolo ci fai ancora con questo
accendino? >>
Michela, Carla e Andrea mi fissarono stupiti
e allo stesso tempo imbarazzati. Poi si scambiarono degli sguardi fra loro.
<< Che sono quelle facce appese?
>>
<< Ehm, Aleri, non ci hai mai rivolto
la parola in quattro anni che siamo in classe insieme. Scusa, ma tutto questo
sembra un po’ strano. >>
Non potevo credere alle parole che erano
uscite dalla bocca di Andrea. Mi avvicinai a loro di un passo, la maggior parte
dei ragazzi era ormai entrata e muoversi era diventato più facile. I tre
davanti a me arretrarono, sempre più imbarazzati.
<< Ragazzi, mi prendete in giro? Noi
siamo amici da anni! >>
I ragazzi si scambiarono di nuovo degli
sguardi sconcertati.
<< Io non so di quale droga tu ti sia
fatta, ma dovresti farti vedere da qualcuno. >>
<
Sembravano davvero non riconoscermi, come se
io, nelle loro vite, fossi stata solo una comparsa.
...ieri
gli ho fatto dimenticare tutto.
E allora capii.
Gli aveva fatto dimenticare tutto, tutto di
me.
Il mio cuore perse un battito quando li vidi
voltarsi e andarsene via da me.
Arretrai, iniziando a piangere e a
singhiozzare forte, e finii contro qualcosa. Mi portai le mani al petto, mi
sentivo bruciare dentro, e urlai con tutta la voce che avevo.
Qualcosa di primordiale e antico scaturì dal
mio corpo, le vetrine del teatro si frantumarono in migliaia di cristalli e
numerosi antifurti cominciarono a suonare. Le luci dei lampioni sfarfallarono
nervosamente e le braccia di quel qualcosa, no di quel qualcuno, contro cui ero
finita, mi strinsero fino a quasi farmi perdere il respiro.
Cercai di scrollarmi di dosso quella stretta,
ma era come se delle barre d’acciaio mi stessero circondando. Iniziai a
dimenarmi e a scalciare furiosamente. Intorno a me flussi di energia, scaturiti
dal mio potere, salivano nell’aria e si avviluppavano su se stessi come il fumo
di una sigaretta. L’asfalto sotto i miei piedi si era ammorbidito per via del
calore che avevo generato e aveva formato dei cerchi concentrici attorno a me.
I due cerchi più esterni erano anneriti e nello spazio fra di essi vi erano
impressi a fuoco svariati simboli di cui non conoscevo il significato. Quei
simboli stavano brillando di una luce rossastra.
<< Smettila o farai del male alle
persone a cui vuoi bene! >>
Guardai all’interno del teatro, nella hall, e
vidi diverse persone immobili come automi che guardavano nel vuoto, senza
curarsi delle schegge di vetro sparse ai loro piedi. Fra di loro c’erano
Michela, Carla e Andrea. Qualcuno stava manipolando le loro in menti in modo
tale che non si ricordassero di quello che avevo fatto, ma al contempo quelle
persone erano impossibilitate a muoversi ed erano terribilmente vicine a me. Mi
rilassai improvvisamente, il mio potere svanì in fretta così come era arrivato
e i simboli si spensero, diventando cicatrici nere sull’asfalto. Con la coda
dell’occhio vidi le persone muoversi verso la sala interna del teatro, qualcuno
le aveva spinte, tramite una manipolazione mentale, ad allontanarsi. Le mie
gambe cedettero e le braccia intorno al mio corpo allentarono la presa, pur
continuando a sorreggermi. Le scacciai malamente con un colpo della mano e mi
lasciai cadere a terra, portandomi le mani al viso bagnato da lacrime cocenti.
Incredibilmente l’accendino di Daniele era rimasto integro nel mio pugno.
<< Cane, allontanati subito da lei o
giuro che ti faccio fuori. >>
Alzai lo sguardo su Gabriele, che aveva
parlato, e poi sul ragazzo che mi aveva impedito di far del male a delle
persone, Daniele. Quest’ultimo stava in piedi con le braccia lungo i fianchi.
Era trasformato nella sua controparte ferina, con i canini appuntiti
leggermente sporgenti dalle labbra socchiuse e con le pupille verticali che
continuavano a ingrandirsi e a rimpicciolirsi, come se stesse tentando di
mettere bene a fuoco. Sposto i suoi occhi gialli su di me per un secondo e poi
tornò a guardare il suo avversario. Gabriele e i suoi due compagni stavano in
piedi con le mani puntate su Daniele, pronti a colpire.
<< Ehi, cucciolotto, fai festa senza di
me? >>
Brand, l’amico di Daniele, spuntò da dietro
un’auto con un sorriso stampato in faccia. Il ragazzo di fianco a me ricambiò
l’amico e si preparò a combattere, alzando le braccia, chiuse a pugno, davanti
al viso. Io mi alzai di scatto e porsi l’accendino a Daniele che mi guardò
sorpreso e poi accettò facendo sfiorare le nostre dita per un millisecondo.
<< Senti, non mi importa un emerito
cazzo della vostra stupida guerra. Devo risolvere una cosa con lui, >>
indicai Gabriele con rabbia << quindi tu e il tuo amico ritardato non
mettetevi in mezzo. >>
<< Come cazzo mi hai chiamato, troia?
>>
Daniele mi sorrise e diede una pacca sulla
spalla a Brand.
<< Prego, tesoro, prima le signore.
>>
Fece un ampio gesto con la mano e io gli lanciai un’occhiataccia indispettita. Certo, nulla in confronto a quella che lanciai a Gabriele quando mi diressi verso di lui.
Angolo autrice
Questo capitolo è un po’ più lungo del
precedente, ma spero che vi piaccia comunque. Qualsiasi recensione, anche
critica, è ben accetta.
Il titolo di questo capitolo deriva dalla
canzone Rascal Flatts - What Hurts The Most
Detto questo, vi saluto e vi ringrazio per la
lettura.