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Autore: Elissa_Bane    20/08/2015    1 recensioni
Seguito di "Cercatevi una stanza".
Questo è ciò che accade, un anno dopo l'epilogo.
E' una storia sull'amore.
Perchè l'amore è il primo motore del nostro mondo. Ed è in nome dell'amore che si compiono i gesti più belli e quelli più terribili.
[dal prologo]
Ho capito che non puoi meritare o meno l'amore. L'amore è un difetto chimico, una mutazione pericolosa quasi quanto un tumore, che ti si attacca prima ad una cellula e poi infetta tutto il resto, fino a portarti via anche il cuore. Tanti pensano che il cuore sia la prima cosa che l'amore ti porta via. Non è così: è l'ultima, e quando te ne accorgi ormai è troppo tardi.
Non lo puoi controllare, così come non puoi controllare le tempeste solari. L'amore non ha regole: non puoi scegliere a chi darlo, nè da chi riceverlo. Non puoi smettere di amare a tuo piacimento. Non puoi rifiutarti di amare, per quanto tu ti sforzi. Non puoi controllare l'amore, ed è per questo che ci fa così paura.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Deduction Is Easy, Life Is Not.'
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Nda: Hey! Ultimo capitolo in assoluto prima dell'epilogo. Siete pronti? 
Buona lettura!
xxx
-Dan

 

Capitolo 3

Crashing Down.

 

And I've lost who I am, and I can't understand

Why my heart is so broken, rejecting your love,

without, love gone wrong, lifeless words carry on.

But I know, all I know, is that the end's beginning.

Who I am from the start, take me home to my heart.

Let me go and I will run, I will not be silent.

All this time spent in vain, wasted years, wasted gain.

 

 

Vorrei potervi dire che la mattina seguente mi svegliai nel letto con Sherlock che mi fissava dalla poltrona come suo solito, ma mentirei. Nuovi incubi mi avevano tormentato nella notte, ghiaccio che copriva il terreno e io avevo una pistola in mano e Sherlock davanti. Sparai, nel mio sogno. Sparai e sentii il rinculo del metallo bollente nella mia mano e poi lui stava cadendo verso terra, un fiore purpureo che si allargava sulla camicia bianca.
Vorrei potervi dire che non vidi alcun riferimento a ciò che gli avevo fatto.
Vorrei potervi dire che mi svegliai e andai a cercarlo.
Ma questa è la realtà e io mi svegliai sola, in un letto vuoto, con gli occhi gonfi e la testa pulsante. Cercai di chiamare Sherlock, sentendo un peso crescermi nel petto e schiacciare i polmoni, ma mi ricordai che se n'era andato. Sentivo che il respiro mi si mozzava prima che io potessi sfruttare quel poco di ossigeno che ottenevo e gli occhi mi si oscurarono.
Jude.
Dovevo pensare a Jude. Dovevo proteggerla.
Afferrai il cellulare e feci partire la chiamata al mio numero d'emergenza. Poi scivolai nel buio e nel freddo.

Ricordo di aver vagato per quelle che mi parvero ore nel mio Mind Palace buio e silenzioso. Persino la scalinata di marmo bianco pareva essere divenuta di un grigio spento. Sentivo la voce del ricordo di Josh che urlava e rideva in lontananza, dicendomi che finalmente avevo fatto qualcosa di giusto. Finalmente me ne stavo andando, stavo morendo. Eppure, la mia lucidità restava e sapevo che era falso. Non stavo morendo. Stavo male, certo, ma non stavo morendo. E soprattutto, lui stava venendo a salvarmi come aveva promesso di fare. Ricordo, in quel buio denso come fumo, di aver attraversato molte stanze: quelle dei miei ricordi, di tutto ciò che tentavo e tento sempre di rinchiudere con molteplici serrature.
La prima stanza era una camera da letto da bambina, con le pareti color cielo e le tende verde acido che svolazzavano nella brezza notturna. C'erano due letti, vicini, in cui dormivamo io e Francesca. Ricordo di aver visto Marta entrare e dare il bacio della buonanotte solo a mia sorella, ignorandomi completamente. E poi Francesca si alzò dal letto e mi rimboccò le coperte, prima di darmi un delicato bacio sulla fronte.
Il mio cuore mancò un battito, entrando nella seconda stanza, dove vidi una me appena adolescente gettarsi dal London Bridge e pregare chiedendo a un Dio a cui non credeva di non portarle via sua sorella. Ricordo le mie urla, quando scoprii che una volta in più Dio non mi aveva ascoltata. Fu in quel momento che smisi di credere ai miracoli.
Ricordo un pavimento troppo freddo e un fuoco troppo caldo, pochi anni dopo, a casa di James, e la stoffa verde dell'abito che mettevo per compiacerlo e le mie canzoni piene di dolore e la sua carne nella bocca e il suo odore e le mie preghiere urlate di notte ad un cielo muto, non più a Dio, ma a mia sorella. Nemmeno lei mi rispose mai.
Dopo quella stanza dovetti fermarmi e riprendere fiato, ferma nel corridoio silenzioso. La carta da parati color crema accolse le mie spalle stanche, quando mi sedetti. Mi nascosi il volto tra le mani, senza piangere, respirando profondamente. Sapevo che cosa mi sarebbe toccato affrontare ora e non ne avevo la forza. Non potevo, non ci riuscivo. Ma dovevo farlo, dovevo trovare la strada per uscire dai ricordi e riaccendere le luci. Dovevo.
Ripresi fiato e mi rialzai. Aprii la porta della stanza successiva con mano tremante, lo devo ammettere, e quello che vidi mi fece scappare un minuscolo gemito di dolore. C'era la me di due anni fa, ritta in piedi come una statua di ghiaccio che sorrideva a Sherlock, nel nostro primo incontro. Rivissi ogni singolo momento, ogni singola parola, ogni singolo tocco delle sue mani su di me quando mi abbracciò, per provare il mio terrore del contatto fisico. E alla fine crollai, crollò la me del presente tra le braccia del ricordo di uno Sherlock felice e soddisfatto di una vita che non gli avevo ancora rovinato. Ricordo di avergli chiesto perdono per la prima volta nella mia vita.

Mi salvarono un paio di braccia forti e lievemente abbronzate, quelle di un soldato, che sollevarono il mio corpo troppo stanco e troppo pesante. Aprii gli occhi, incontrandone un paio del colore del mare, più scuri sia di quelli di Sherlock, che di John o Giulia. Chiamai Jude e l'uomo con i capelli biondi mi rispose di stare tranquilla, che la avrebbe portata da Giulia. Sentii il pavimento scricchiolare mentre attraversava il soggiorno per scendere e mi lasciai sfuggire in una domanda sussurrata anche il nome di Sherlock. Mi disse che James lo avrebbe avvisato.
«Come ti chiami?» rantolai con la gola secca, aggrappandomi alla sua giacca di pelle nera. Odorava di whisky e fumo, ma non gli stava male, come odore.
Abbronzatura su mani e viso, ma non sui polsi e sotto il girocollo della maglietta.
Postura rigida.
Muscolatura allenata.
Militare. Ex militare. Colonnello.
Vestito interamente di nero.
Due coltelli da caccia nella giacca.
Uno contro la caviglia.
Pistola.
Un cecchino mandato a fare il lavoro di qualcun'altro. Un uomo di cui James si fida.
Occhi azzurri.
Capelli biondi.
Gentile.
Servizievole.
Il nuovo compagno di James.

Sebastian.

Quando ripresi conoscenza ero in una camera estranea. La luce entrava da una finestra alla mia destra, da dietro pesanti tende color crema aperte su un piccolo balcone. Il mobilio era semplice, sobrio, elegante: un armadio, un letto e una piccola toeletta con accessori da uomo. Le lenzuola che mi coprivano erano del colore degli occhi del compagno di James, Sebastian. Probabilmente, il suo uomo migliore.
«Io te l'avevo detto, di stare attenta. E magari avresti dovuto leggere il referto che ti ha mandato Giulia, avresti evitato di sottoporti a stress inutile.» esordì la voce morbida di James, distogliendomi dalle mie considerazione. Da quando la sua voce sapeva assumere quella tonalità associabile solamente ad una tazza di cioccolata calda in inverno? Era calda, sicura, lievemente speziata di rimprovero e preoccupazione, ma mi avvolgeva stretta, facendomi sentire protetta.
Voltai il capo, cogliendo subito la sua figura longilinea seduta scompostamente su una poltrona di cuoio chiaro, il capo appoggiato alla punta delle dita della mano sinistra. Sorrisi quando sorrise. Se James era allegro, allora o era morto qualcuno o non mi era accaduto nulla di grave. «Dove sono?»
«In camera mia. Non ci eri mai entrata, a differenza di altre stanze in questa casa, e ho preferito farti la cortesia di non farti portare nella tua vecchia camera da letto. Comunque ormai sono mesi che dormo nella camera degli ospiti con Sebastian.» annuii, troppo stanca per farmi prendere dal dolore dei ricordi e di Molly. Lo ringraziai con un cenno stanco del capo, prima di domandargli dove si trovasse Jude. «Sebastian l'ha portata da Giulia. Sta bene, non ti preoccupare.»
«Sherlock?» in quel momento i suoi occhi si scurirono, in un'espressione di rabbia, disprezzo o impotenza, non saprei dire, anche se propendo molto più per quest'ultima opzione.
«Ho provato a chiamarlo. Tre volte. Mi ha risposto con un messaggio.» rispose, lanciandomi il cellulare.
«Tutto normale» commentai, leggendo. Quando si sveglierà chiamami. Sarebbe stupido dover venire ora e abbandonare il caso. Sto portando a Lestrade le prove che è stato Robbins. SH. «Quindi è stato il direttore dell'albergo.»
«Il padre della bambina. Voleva averla solo per sè, visto che Clorinda, in seguito a varie minacce, gli aveva impedito di vederla.» confermò James, storcendo lievemente la bocca prima di continuare «Ti ha lasciata sola.»
«Stavo bene, James, ero con te. Ha ragione Sherlock, sarebbe stato stupido doversi fermare solo perché io sono stata poco bene. A meno che io non stia morendo, va bene così.» lo vidi incurvare lievemente le spalle, ancora più incupito. «Sto morendo, James?» non mi rispose. «James Moriarty, ho il diritto di saperlo.»
«Se volevi così tanto la verità, avresti potuto leggere i referti che ti ha portato Giulia» commentò laconico, mentre la porta si apriva con un delicato fruscio, lasciando entrare Sebastian. «Sebastian» lo chiamò immediatamente mio fratello «Faresti vedere le rose in giardino a Cecilia?»

***

Il sole mi accarezzava le braccia nude, mentre osservavo i fiori. Belle, opulente nel colore e nell'abbondanza di petali setosi come la carezza di un amante, le rose splendevano, rosse e bianche davanti ai miei occhi. Ho sempre trovato volgari le rose, con quella loro breve bellezza che appassisce nel giro di qualche giorno, meravigliose allo sboccio e via via sempre meno fiere, sempre meno regine, la loro freschezza soggetta come ogni cosa umana e terrena allo scorrere inevitabile del tempo.
In generale, io non amo i fiori: mi ricordano fin troppo spesso che la vita non è che un breve passaggio su un mondo fin troppo vecchio, fin troppo stanco, che non si ricorderà dei grandi della storia così come delle persone comuni, perché anche la memoria è umana e ciò che è umano svanisce. Non amo i fiori, perché sono fragili, delicate strutture di fibre strette, pressate insieme, che possono essere distrutte con una mano, addirittura con un dito, che rovina il lavoro di giorni e mesi effettuato dalla natura. Non amo i fiori quasi per ripicca, perché mia madre li amava, quindi mi volsi a guardare il compagno di James, impegnato a prendersi cura del roseto florido. Devo dire che Sebastian è un bell'uomo, di quella bellezza data dalla sicurezza che fa girare le donne per strada e che gli uomini invidiano. Sebastian era a suo agio nella sua pelle, nel suo corpo, e questo traspariva da ogni suo più piccolo gesto: il suo corpo era il suo strumento di lavoro e lui se ne prendeva cura con attenzione. Aveva i capelli corti e biondi, più scuri di quelli John, e occhi blu che avrebbero incantato parecchie persone, e probabilmente me stessa, se solo nella mia mente non apparissero troppo volgari rispetto al paio ghiaccio che dominava il mio cuore. Un fisico muscoloso, adatto ad un uomo che uccide per vivere. Adatto al compagno di James. Mio fratello è fatto così: ama comandare la situazione come ama avere accanto Sebastian, che con una mano probabilmente riuscirebbe ad ucciderlo. Gli piace vivere di contraddizioni.

«Sono belle, vero?» mi domandò, spezzando il nostro silenzio e sorridendomi ancora. Mi era piaciuto da subito il suo sorriso: Seb non è un uomo che sorride viscidamente o per scherno, i suoi sono sempre gesti sinceri e attenti, che ho notato essere concessi solo a me, James e Jude. È una cosa che ho sempre apprezzato, così come il fatto che so che sarebbe pronto a uccidersi per rendere felice James. In aggiunta, ha un carattere altamente sarcastico e cinico sul lavoro (ci siamo incrociati per caso qualche giorno fa, ognuno sulle tracce di un altro uomo) che muta quasi radicalmente con le persone di cui si fida.
«Bellissime» lo elogiai, comprendendo che solo lui se ne prendeva cura.
«Mia nonna diceva sempre che ogni cosa ha un prezzo. Lei, perché le sue rose fossero così belle, ogni mattina lasciava cadere due gocce del suo sangue sulle foglie della sua rosa preferita.» aggiunse, prendendo un piccolo coltello dalla tasca dei pantaloni «Non è che creda che il sangue le renda belle, ma mia nonna aveva ragione: ogni cosa ha un prezzo.» terminò, incidendosi un minuscolo taglietto sul polpastrello del pollice sinistro e lasciando cadere qualche goccia di sangue nella terra umida e fertile.
Quando si rivolse di nuovo verso di me gli tesi la mano e lui, senza farmi domande, mi porse il coltello. Avrei potuto sgozzarlo in cinque secondi. Sei, visto il mio precedente malore. Lasciai che il metallo scorresse sul palmo della mano, tracciando un'aggraziata linea di porpora sulla carne chiara. Bruciò e il dolore corse attraverso ogni mia terminazione nervosa, ma, come ogni dolore che ho imparato a prevedere, lo seppi celare. Strinsi il pugno e lasciai il sangue colare, gocce purpuree che si allargavano sul petalo di una rosa prima di frantumarsi a terra e bagnare la pianta.
Irragionevolmente, chiesi una cosa alle rose: io avevo donato loro il mio sangue, loro mi avrebbero regalato la felicità con Sherlock.

Venti minuti dopo, Sherlock mi raggiunse nel giardino in cui ero rimasta ferma ad osservare la pianta e le sue spine e non fece domande, vedendo il mio palmo fasciato da una garza leggera.
Salimmo in taxi, sempre senza dirci una parola. Leggevo nei suoi occhi ancora il dolore bruciante, ma ora era mescolato all'adrenalina del caso. Dovevamo solo trovare Robbins, poi avremmo concluso. Era questione di ore, ormai.
La suoneria del mio cellulare interruppe il silenzio. Era John. Robbins era andato a casa loro per riprendersi quella figlia per la quale aveva ucciso. Era entrato, mentre Guinevre dormiva nel salotto. Aveva salito le scale della villetta, attraversando il corridoio celeste con le foto preferite di Giulia. Era entrato nella camera da letto di Guinevre, dove la mia amica stava consolando una Jude in lacrime.
E le aveva sparato.

Dicono che il dolore ci renda più confusi.
Io ricordo perfettamente ogni singolo istante di quella dannata corsa all'ospedale, Sherlock che chiama Lestrade e mi dice che lo prenderanno, non lo ascolto, corro, devo solo raggiungerla. Non può morire così, non Giulia. Non adesso. John non può crescere Guinevre da solo. Io non posso crescere da sola. Corsi, corsi attraverso le corsie, attraverso i pazienti, i morti, i morenti, coloro che avevano desideri illusori e speranze irreali di una guarigione che non sarebbe mai arrivata e pregavo le rose di poter cambiare desiderio, di poter dare il mio sangue al posto di quello di Giulia.
Di poter dare la mia vita al posto della sua.
Non valeva la pena, la mia felicità con Sherlock, se per averla dovevo rinunciare a lei.
E ora so che questi non sono pensieri razionali, che non aveva senso, che non era colpa né merito delle rose né del mio desiderio. Ma niente sembrava avere importanza in quei lunghi minuti in cui raggiungevo John, che in braccio teneva sua figlia, quella figlia con gli occhi di Giulia, che mi guardava terrorizzata. Aveva importanza solo Guinevre e Giulia e John e pensavo a Jude e a Sherlock e mi chiedevo cosa avrei mai fatto, se la mia bambina fosse rimasta con Sherlock.
Se ci fosse stato lui in quella sala operatoria, con un proiettile in corpo, e io fossi rimasta lì con Jude stretta tra le braccia. Sentii John pregare in quel Dio in cui credeva solo a metà, ma in cui Giulia credeva ciecamente, e rivolgergli prima preghiere e poi imprecazioni e poi promesse e richieste. Guinevre, appollaiata ora in braccio a me, piangeva silenziosamente, attendendo che la mamma stesse bene, che le dicessimo che era solo uno scherzo.
Avrei voluto poterglielo dire.

Ma anche l'attesa più lunga, prima o poi, finisce.
E ci ritroviamo a dover affrontare la realtà. A doverci guardare intorno, dopo l'urgano che ci è piombato addosso, e a quantificare i danni e a raccogliere le macerie e gettare via ciò che non può essere riparato.
E mi ritrovai sola, nella sala d'aspetto, un medico che ci raggiungeva e «Come sta?» e il «Mi dispiace, solo i parenti.». Rimasi sola, nella luce pallida e nel bianco, a sospirare di sollievo. Non potevo vederla, ma era viva. Era ancora con me, con sua figlia e con suo marito. Ogni cosa aveva un prezzo, ma evidentemente la vita aveva deciso che Giulia era un prezzo troppo alto.
Il pensiero di Sherlock tornò prepotente, mentre lui mi abbracciava, dopo, a casa finalmente, le condizioni di Giulia stabili. Come avrei fatto, se ci fosse stato lui al posto della mia amica? Non avevamo alcun legame di parentela, non avrei nemmeno potuto sapere se era vivo o morto. Non sarei potuta entrare nella sua stanza e prendergli la mano e chiedergli scusa perché ero una stupida ingenua che aveva creduto di poter rimandare per sempre.
Misi a letto Jude, rimboccandole le coperte.
«Mi dispiace» canticchiò.
«Non ti dispiacere, tesoro. Non è colpa tua. È tutto finito, ora» le risposi, cantando anche io.
«Posso restare qui per sempre? Con te e Sherlock?» chiese sgranando gli occhi scuri e stringendomi la manica della camicia. Sospirai. Le cose non erano semplici, ci sarebbero potuti volere mesi o addirittura anni e forse Jude non sarebbe comunque stata affidata a noi. Glielo spiegai, e le promisi che avrei fatto il possibile perché potesse rimanere. Se fosse servito, se servisse ancora, chiederei a Mycroft tutti i favori di questo universo, pur di far sì che mia figlia sia felice.
«Ti voglio bene, Jude» le sussurrai, dandole un bacio «Buonanotte, stellina.»
Lei, con gli occhi mezzi chiusi dal sonno, rispose «Buonanotte», ma non fu quello a farmi sorridere meravigliata.
Fu che aveva smesso di cantare.

Tornai al piano inferiore, dove mi attendeva il mio compagno. Gli presi la mano, senza parlare, nell'altra la busta che avrei dovuto leggere molto tempo prima, e andammo in camera. Fece per slacciarsi i bottoni della camicia, ma le mie mani furono più veloci. Lo svestii con delicatezza, assaporando ogni brivido della sua pelle sotto la mia, e lui fece lo stesso. Mi baciò con una delicatezza che non aveva mai avuto, nemmeno la prima volta. Sembrava un addio, quel bacio, ma le mie labbra inseguirono le sue e le trovarono ancora e ancora e ancora e poi lui era contro di me, sopra di me, nucleo pulsante di ogni mia cellula.
Mi riscoprii a piangere, alla fine, e le sue mani bianche, corrose dagli acidi in macchioline ancora più pallide, mi asciugarono il volto, mentre si stendeva al mio fianco, fronte contro fronte.
«Va tutto bene» mi disse «Qualsiasi cosa tu mi voglia dire, dimmelo.»
«So qual'è la mia risposta, Sherlock. Ma quella busta potrebbe dirmi qualsiasi cosa, che sto morendo, che morirò presto, che magari non ho speranze e io non voglio che tu -»
«Prima dimmi la tua risposta, poi aprirò io la busta. Così sarai tranquilla: io non cambio idea. Voglio che tu sia al mio fianco per tutti i giorni che ci restano da vivere.»
Mi sporsi nel buio e misi una mano sul suo cuore, quel cuore che batteva ancora dopo che così tanti avevano cercato di farlo smettere, e lui sfiorò le cicatrici della mia spalla, attirandomi vicina a sé. Aveva un buon odore, la sua pelle, di sapone e schiuma da barba e agenti chimici e sigaretta e cenere e un tocco d'arancia. Era Sherlock.

«William Sherlock Scott Holmes» pronunciai il suo nome con dolcezza e lo sentii istantaneamente rilassarsi. Aveva capito, ma io dovevo andare avanti. «Ho soppesato a lungo la questione che portasti alla mia attenzione un anno fa, e ne ho considerato i pro e i contro. Sai che non sono una persona che si dilunga in discorsi smielati sull'amore e la vita e cazzate varie.» Rise nel buio, e il suo petto riverberò quella risata in una bassa vibrazione che mi fece sentire amata e felice e stupida allo stesso tempo «William» lo chiamai ancora, con il nome che usavo solo per le cose importanti «io ti amo. Ti amo e voglio sposarti.» il bacio che mi diede fu forte, irruento, un cozzare di labbra più che un bacio vero e proprio, che espresse la sua gioia e il suo sollievo e il morso che ne seguì fu il rimprovero per tutto quel tempo speso inutilmente.
«Tocca alla busta» mi avvertì, prendendola dal comodino e aprendola. Sedette sul letto, l'abat-jour accesa alle sue spalle a dargli quasi un'aureola intorno ai ricci corvini. Lo osservai leggere, serissimo. Non sorrideva. Non diceva nulla.
«Mi stai facendo paura» lo avvertii «E' davvero così grave?»
«Abbastanza» disse, posando il foglio nuovamente sul comodino e guardandomi con gli occhi che improvvisamente divennero lucidi.
«Che cos'ho, Sherlock?» gli chiesi con fermezza, terrorizzata e determinata ad andare avanti. Si poteva guarire praticamente da tutto, sarei guarita, sarei-
Scoppiò a ridere, abbracciandomi e crollando di nuovo con me sul letto, tra le lenzuola sfatte e la mia confusione e i fogli nel mio Mind Palace che volavano.
«Sei incinta, signora Holmes. Sei incinta!»

  
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