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Autore: Nana_EvilRegal    20/08/2015    2 recensioni
Nana ha una vita sicuramente non adatta ad una ragazza di sedici anni come lei. Probabilmente sarebbe inadatta per chiunque, a qualsiasi età. Eppure lei è lì.
Vive.
Ci convive.
La accetta.
Combatte. Anche che non sempre sembra che lo faccia.
Nana vorrebbe essere come una ragazza qualsiasi. Come tutte le altre.
O forse no.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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~~ Hospital.
 
Mi ritrovai a camminare per strada senza sapere davvero dove andare. Avevo detto ai miei che prima di due giorni non sarei rientrata, ma non sapevo più dove andare. Di rientrare a casa di Tommi non se ne parlava. Avevo portato via tutta la mia roba e mi stavo trascinando per la città due borse. Il trucco mi segnava ancora tutta la faccia. Alla fine mi decisi. Mi incamminai verso la casa dell’unica persona che, forse, non mi avrebbe sbattuto la porta in faccia. Suonai il campanello un paio di volte, ma nessuno mi aprì. Mi sedetti sui gradini aspettando che la mia amica rientrasse.
- Ho bisogno di un buco dove dormire per una notte. Non ti sarò in mezzo, giuro. Va bene anche il pavimento- la bionda sorrise.
- Cretina se me l’avessi detto subito mi sarei fatta trovare qui. Quanto cazzo è che aspetti?-
- Tranquilla, saranno venti minuti, anche meno. Da chi l’hai saputo?- cercai di sembrare meno giù di morale possibile davanti a colei che mi avrebbe dovuto sopportare per due giorni. Aprì la porta ed entrammo in quella casa che, nonostante, non ci avessi mai passato più di qualche ora, mi sembrò familiare. Abbandonai tutte le borse sul pavimento e mi fissai negli occhi azzurri della ragazza. Lei fissava il pavimento quasi fosse spaventata dall’incrocio coi miei occhi così scuri da sembrare quasi neri.
- Mi ha chiamata Elli stamattina. Non so lei da chi l’abbia saputo, ma stai bene?- mi si avvicinò e mi sfiorò una spalla. Mi allontanai di un paio di passi. Non volevo la sua compassione. Non volevo che tutti mi guardassero come “la poverina che si è ritrovata il fidanzato morto nel letto”. Quello era esattamente lo sguardo che mi stava rivolgendo.
- Porca puttana smettila di guardarmi così e di trattarmi come se stessi per morire. Fammi vedere dove devo dormire così porto lì tutta quella roba- dissi dopo un minuto di imbarazzante e teso silenzio. Odiavo quei silenzi, quelle situazioni scomode in cui tutti pensano a cosa poter dire o a cosa gli altri diranno. Tutti pensano a come rompere quell’orrendo silenzio e nessuno lo fa forse per paura di dire la cosa sbagliata o di offendere chi si ritrovano davanti. Non ottenni una risposta e non dissi nient’altro. Mi limitai a seguire quei capelli biondi fino ad una stanza con un letto singolo e poco altro. Buttai tutto a terra. Presi il telefono dalla tasca e ci attaccai le cuffie. Mi misi ad ascoltare la musica e iniziai a prepararmi per un’iniezione di eroina. Avevo bisogno di pace e naturalmente non l’avrei trovata, ne ero più che certa. Non avendo voglia di alzarmi cercai una vena nel braccio e feci scivolare l’ago al suo interno. Appena sfilato sentii, come sempre, tutti i muscoli tendersi per qualche istante poi mi stesi sul letto e rimasi per un tempo indefinito in quella posizione. Guardando il soffitto come se fosse stata la cosa più bella che avessi mai visto. Fui interrotta dalla proprietaria di casa che mi avvisava che sarebbe uscita. Non essendo entrata nella stanza non si accorse dello stato in cui mi trovavo. Quando decisi che sarei riuscita a stare in piedi andai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Mi ritrovai davanti alla porta della camera e mi vennero le vertigini, iniziò a girarmi la testa. Il bicchiere mi scivolò dalla mano frantumandosi. Corsi a prendere una scopa e una paletta. Mi chinai verso il disastro che avevo combinato per raccogliere i pezzi più grandi. Alcune schegge penetrarono nel palmo della mia mano facendo scorrere rivoli di sangue che finivano in gocce che cadevano sul pavimento. Rimasi immobile per un attimo a guardare la pozza rossa espandersi. Spostai improvvisamente lo sguardo sentendo conati di vomito salirmi fino in gola e uscire dalla mia bocca. La casa era piombata nel silenzio. Con la mano pulita presi il cellulare e misi la musica col volume più alto possibile in modo che si espandesse in tutte le stanze. Andai in bagno e mi sciacquai la bocca poi tornai a raccogliere i pezzi di vetro nonostante l’odore del vomito mi facesse salire altri conati. Altre schegge penetrarono nella mia mano. Sempre la stessa. Non facevano male, anzi, lo scorrere del sangue caldo sulla pelle era rilassante e mi faceva sentire in pace. Il sangue continuava a cadere sul pavimento mischiandosi all’acqua e al vomito creando un disegno orrendo sul pavimento. Mi alzai e strinsi la scopa fra la mani. Le schegge entrarono più in profondità. Feci una smorfia nel vedere che dalla mano scendevano rivoli di sangue che percorrevano l’intero bastone della scopa. Avevo paura. Mi guardai le mani. Mi inginocchiai sul pavimento e appoggiai la mano ferita allo stipite della porta. L’impronta sul legno mi fece rabbrividire e altri conati salirono fino alla mia bocca senza che io riuscissi a controllarli e prima che me ne rendessi conto erano sul pavimento. Serrai i pugni. Le schegge penetrarono quei pochi tessuti che erano ancora intatti e sentii la mano riempirsi di sangue. Le lacrime mi macchiarono il volto. Il puzzo che veniva dalla pozza sul pavimento era nauseante e le gocce di sangue che si stavano depositando sopra al vomito fresco formarono una texture orribile. Spostai lo sguardo cercando di cancellare le immagini di quella mattina che continuavano a popolarmi la mente. Non avevo idea di quanto fosse passato da quando mi ero fatta quella dose, ma quei pensieri mi fecero credere che, forse, era giunta l’ora di farne un’altra. Non riuscii a muovermi.  Mi passai la mano destra sul viso per asciugare le lacrime senza pensare al fatto che fosse quella ferita, ma il risultato non fu quello sperato. Mi alzai stringendo i pugni e facendo fuoriuscire dai tagli più sangue del dovuto andai verso la cucina lasciando sulle piastrelle una scia di sangue. Mi sentivo il sapore del vomito ancora in bocca e sapevo che se Pinky mi avesse ritrovato con tutto il sangue che avevo sparso sul viso e sulla maglia l’avrei fatta preoccupare più del dovuto. Le lacrime continuavano a rigarmi il viso come se volessero pulirlo dal sangue che gli aveva lasciato la mia mano. Mi sorpresi appena mi resi conto che la sinistra non aveva nulla poi ricordai di non averla usata, ma di averla sempre tenuta appoggiata al muro per non cadere in mezzo a quell’orribile disastro che avevo lasciato sul pavimento. Mi guardai indietro. Tante piccole macchie erano rimaste dov’ero passata. Dei conati di vomito salirono fino alla gola, ma li spinsi dov’erano venuti. Mi chiedevo cosa ci fosse ancora da espellere dal mio corpo. Forse solo gli organi, se ce n’era rimasto qualcuno. Arrivai al lavello e aprii la mano dalla quale uscì un pugno di sangue poi aprii l’acqua e la feci scorrere sopra ai tagli. Sentii un urlo morirmi in gola. L’acqua bruciava sulle ferite. Guardai la mano quasi pulita. Avrei dovuto togliere tutte le schegge e dovevo anche pensare a quello che avevo lasciato per terra. Dovevo fare tutto prima che tornasse la bionda. Tornai nella mia piccola camera e dall’astuccio estrassi delle piccole pinze. Mi allontanai dal letto e andai a sedermi accanto a tutto quello che il mio corpo aveva rigettato. Cercando di non urlare e di concentrarmi sulla musica che usciva dal mio telefono iniziai ad estrarre le schegge con quelle pinzette ed un ago. Non riuscii a toglierle tutte. Le più piccole rimasero all’interno della mano rischiando di tagliare quei vasi ancora intatti. Fasciai la mano meglio che potei poi iniziai a pulire il pavimento. Appena finito aprii la finestra. Lasciai che l’odore di vomito svanisse e mi ritrovai a fumare l’ennesima canna. Guardai l’orologio. Erano le cinque passate. Mandai un messaggio alla mia ospite dicendo che uscivo e non avevo idea di quando sarei rientrata poi presi la borsa e mi diressi verso l’ospedale.
 
La mattina dopo mi svegliati in una stanza bianca su un letto scomodo. Ero stanca. Il materasso di quel letto era duro e così sottile da farmi sentire la rete che lo sosteneva. Avevo dormito forse un paio d'ore. Guardai l'orologio. Non erano neanche le sette. Pian piano mi resi conto di dove mi trovavo.
Ospedale.
Reparto di neuropsichiatria.
Avevano visto i tagli.
Avevo saltato il lavoro.
Fui scossa da un istante di panico cercando di ricordare esattamente cosa fosse successo il giorno prima. Poi i ricordi riaffiorarono la mente.
Il corpo senza vita di Tommi.
La polizia.
La scuola.
Pinky.
Il bicchiere.
L'ospedale.
Avevo bisogno di fumare.
Uscii dalla stanza e incrociai un infermiere. Gli chiesi dove potessi fumare una sigaretta e il suo sguardo fu tra lo stupito e l'incredulità. Entrò nella mia stanza e lo seguii.
- Direi che puoi uscire su quel terrazzo, ma qualcuno dovrebbe controllarti- cazzo. Dentro di me imprecai come mi ero ritrovata a fare poche volte. Non potevo farmi vedere in crisi d'astinenza o non mi avrebbero più fatta uscire, ma non potevo nemmeno uscire in pace e fumare o iniettarmi qualcosa.
Dovevo uscire.
Dovevo trovare un modo.
- Grazie- risposi titubante. Presi il solito pacchetto di sigarette nel quale tenevo di tutto fuorché tabacco e mi incamminai verso il balcone di cui aveva parlato. Uscii e per mia fortuna lui rimase dall'altra parte della vetrata fissandomi. Mi voltai verso l'esterno. Estrassi la canna e la accesi. Fumai velocemente terrorizzata dall'idea che mi scoprisse. Rimasi lì guardando la città ancora qualche minuto poi, quasi certa che l'odore fosse scomparso, rientrai. Il ragazzo mi guardò tornare in camera senza dire nulla. Tornai a stendermi e presi il cellulare in mano. Avevo più di venti messaggi. Decisi di rispondere solo a quelli di colei che avrebbe dovuto ospitarmi quella notte e le spiegai velocemente la situazione.
Scusami davvero, mi dispiace di averti fatto preoccupare e per tutte le scuse che hai dovuto inventare per coprirmi il culo. Non ricordo nulla di ieri sera, ma ieri pomeriggio ti ho rotto un bicchiere e sono dovuta venire in ospedale perché alcune schegge erano entrate troppo nella mano per farle uscire. Mi hanno messo nel reparto di neuropsichiatria. Appena mi fanno uscire ti raggiungo a casa.
Non lessi la risposta. Mi stesi nel letto voltata verso la porta e rimasi a fissare le persone che passavano nel corridoio. La maggior parte camminava guardandosi intorno come dispersa. Come se non capisse dove fosse e il motivo per cui si trovava lì. Dopo qualche ora decisi che non potevo permettermi di stare troppo tempo lì dentro. Per cui, dopo aver chiesto ad un medico che passava davanti alla mia stanza, presi quella difficile decisione che fu chiamare i miei genitori per venire a firmare i permessi di andarmene contro la volontà dei medici. Che altro potevo fare? Io non avevo bisogno di stare lì dentro. E anche se ne avessi avuto bisogno non potevo permettermi che mi trasformassero in uno zombie dipendente dai farmaci. Come dipendenze mi bastavano quelle che già avevo. Non volevo che degli stupidi medici venissero lì a rendere ancora più concreti tutti i miei problemi.
Dovevo andarmene.
Dovetti aspettare poco più di mezz’ora prima di vedere i miei genitori entrare nella mia stanza. Avevano un’espressione cupa sul viso. Un’espressione che non avrei potuto dimenticare mai più. Sembravano così delusi dalla figlia che si trovavano davanti da non poterla nemmeno degnare di uno sguardo. Cercai di incrociare i loro occhi. Solo loro e Tommi riuscivo a guardare dritti negli occhi senza sentirmi male. Lui non c’era più e loro… adesso erano loro a non volermi più guardare. Non parlarono nemmeno. Mi vestii velocemente, presi la borsa e scappai. Corsi fuori dall’ospedale. Avevo bisogno di aria. Ad ogni respiro sembrava mancare sempre di più e ad ogni respiro ne avevo più bisogno. Non mi fermai. Le mie gambe continuarono a correre fino a quando non mi trovai davanti alla porta di Pinky. La aprii con la chiave che mi aveva lasciato e mi buttai all’interno. Dopo quegli sguardi vuoti avevo capito che non mi avrebbero cercata e non mi avrebbero seguita. Non sarei potuta tornare a casa per più tempo del previsto. Mi buttai sul letto e piansi.
Piansi fino a finire le lacrime.
Piansi finché non mi fece male il viso.
Piansi per ogni secondo che qualcosa era andato male.
Piansi per ore. Instancabilmente.
Mi ritrovai a pensare che quello sarebbe stato un pianto eterno, che non mi sarei mai più ripresa.
Sarei potuta annegare in quelle lacrime che continuavano imperterrite a solcarmi il viso.
Non mi interessava più niente.
Sentii la serratura scattare, mi alzai dal letto e corsi in bagno. Consapevole di avere un aspetto terribile mi guardai allo specchio e cercai di eliminare ogni traccia di pianto. Ovviamente, per quanto potessi lavarmi il volto, quella era un’operazione impossibile allora decisi di uscire.
- Nana, cazzo, mi hai spaventata-
- Scusami- tenni gli occhi sul pavimento, la voce mi uscii così bassa da non sentirla nemmeno. Lei si abbassò cercando di guardarmi in viso, mi voltai.
- Che hai? Stai bene?-
- No, non sto bene. Come pensi che possa stare porca troia? È morto e i miei mi odiano. Ora dimmi: tu staresti bene? Saresti felice dopo aver trovato il tuo fidanzato morto, essere stata internata e nemmeno te lo ricordi e dopo aver visto quanto i tuoi genitori ti odino? No perché se tu staresti bene ti faccio i miei complimenti. Io mi sento morire. Porca puttana- la bionda fece due passi indietro e si appoggiò al muro. Aveva quella bambina in casa e la stava vedendo uccidersi ogni secondo di più e si sentiva impotente. Non poteva mandarla via. Le voleva bene quasi come fosse una figlia.
- Cosa posso fare per aiutarti?- mi disse dopo qualche secondo di assoluto silenzio.
- Puoi fare in modo che i miei tornino a vedermi come prima?- di nuovo silenzio. Mi rendevo conto che la mia voce suonava quasi infantile. Certo, avevo sedici anni, non mi si poteva certo considerare adulta, ma era tanto tempo che non la sentivo così. Ero sempre stata una di quelle “cresciute in fretta”. Una di quelle ragazze che fanno le cose prima degli altri e che vengono guardate quasi con paura dai suoi coetanei e considerate come “già abbastanza matura” dagli adulti. Così ero finita in quel giro. Tutta quella libertà che mi era improvvisamente caduta addosso a quattordici anni mi aveva lasciato il modo per vivere la mia vita come se ne avessi avuti già venti se non di più. Un’esperienza che, forse, sarebbe stato meglio tardare di qualche anno. Non avevo idea di come le ragazze della mia età passassero il tempo. Vedevo le mie compagne di classe vedersi di pomeriggio e fare i compiti insieme. Scherzare e, persino, giocare insieme. Io avevo passato due anni della mia vita completamente sola e i successivi erano stati un susseguirsi di eventi più grandi di me che mi avevano spalancato le porte di quel mondo.
Un mondo che avrei fatto meglio a ignorare.
Un mondo in cui potevi ritenerti fortunato se ti svegliavi la mattina dopo.
Un mondo in cui ogni giorno rischiavi il carcere.
Un mondo poco adatto agli adulti e sicuramente non adatto a bambini come ero io quando ne avevo varcato le porte.
Razionalmente sapevo di rischiare tantissimo, ma non mi rendevo davvero conto di quanti possibili capi d’accusa pendevano sulla mia testa. Forse nessuno se ne rendeva davvero conto.
- No, ma tua sorella? Insomma con lei come va?-
- Lei mi odia. Io non sono mai in casa e non ha idea di quale sia la mia vita. Lei è piccola e vorrei che la sua vita restasse quella che è anche se devo passare per la pessima sorella maggiore-
- Quanti anni ha adesso?-
- Tredici-
- Lo sai che quella è stata l’età dell’inizio della tua fine vero?-
- Non ricordarmelo- mi presi la testa fra le mani e mi buttai a sedere sul pavimento. Avevano ragione i miei genitori: ero una persona orribile. Non meritavo l’affetto di nessuno. Tantomeno quello della bionda che si avvicinò a me per abbracciarmi. Mi lasciai stringere tra le sue braccia.
- Passerà, ti prometto che arriveranno giorni in cui ricorderai tutto questo schifo e penserai “per fortuna è passato”. Un giorno ti innamorerai di nuovo e quell’amore ti cambierà la vita. Arriverà il momento in cui ti affaccerai alla vita con un approccio diverso, magari ora non sei ancora pronta, ma te lo prometto: tutto questo succederà- mi sentii un groppo alla gola, ma non una sola lacrima uscì dai miei occhi. Pensai di averle finite davvero.
- E tu ci sarai?- sussurrai. Avevo bisogno di sapere che quella ragazza col carré biondo e gli occhi chiari mi sarebbe stata vicina anche quando sarei stata diversa.
- Sì, ci sarò. Ci sarò finche tu lo vorrai e magari anche dopo- adesso era lei ad avere le lacrime agli occhi. Mi sciolsi da quell’abbraccio e le asciugai una piccola lacrima che le stava giungendo alla bocca. Avevo una decisione da prendere e dovevo essere veloce a prenderla. L’ennesima decisione da adulta che per qualsiasi ragazza di sedici anni sarebbe sembrata un macigno, ma per me era ordinaria amministrazione.
- Posso restare? Non voglio tornare a casa. Se domani mattina potessi accompagnarmi a prendere un po’ di cose da casa mia verrei a stare da te per un po’- gli occhi azzurri della ragazza si posarono su di me qualche istante. Era titubante. Avere una coinquilina sedicenne non doveva sembrarle l’idea migliore. Alla fine sospirò.
- Va bene, ma devi dirlo ai tuoi- annuii. Avrei trovato il modo. La ringraziai poi cambiammo argomento. Decisi di saltare anche quella sera il lavoro. Starmene in casa mi avrebbe calmata un po’ e avrei avuto tempo per stabilirmi in quella che sarebbe diventata la mia nuova camera.
 
Guardai l’orologio. Erano le quattro e un quarto. Pinky era rientrata da poco e io non avevo ancora chiuso occhio. Per quante canne potessi fumare non mi sentivo tranquilla e non mi veniva sonno. Continuavo a pensare a come poter dire ai miei genitori la decisione che avevo preso. Alla fine decisi. Presi carta e penna e iniziai a scrivere. Le lettere che venivano impresse sul foglio avevano un tratto incerto. Lo avrebbero attribuito alla fatica di scrivere quelle parole, non certo alla quantità di droga che circolava nel mio corpo.
Mamma, papà,
non è la lettera più facile che io abbia mai scritto. Anzi, è decisamente difficile, a quest’ora di notte, dirvi quello che nella mia testa sembra semplice. So di avervi dato tanti pensieri in questi anni. So di non essere stata la figlia che avreste voluto. So che siete delusi e che anche mia sorella non potrà mai perdonarmi per quello che sto per dirvi. Vi ho visti in ospedale. Ho visto che non riuscivate a guardarmi. Il mio corpo e la mia età potranno anche dirvi che sono ancora piccola, la vostra figlia che col tempo tornerà ad essere quella bimba bionda che correva per casa. Quella col sorriso un po’ storto. Non tornerò così. Io me ne sono resa conto e l’ho accettato tempo fa, vi prego, accettatelo anche voi. Mi ha fatto soffrire vedervi così come immagino che voi abbiate sofferto quando avete ricevuto la mia telefonata. Il reparto di neuropsichiatria. L’ennesima conferma delle mie pessime scelte di vita. Scappare non è stata sicuramente la scelta migliore che potessi fare, me ne rendo conto. Vorrei spiegarvi che non è colpa mia. Cioè, sì, è colpa mia, ma non è quello che volevo. Sono successe così tante cose in due giorni che non riesco a rendermene conto. Parto dall’inizio. È morto il mio fidanzato. Sì, quello che non vi ho mai fatto conoscere, ma che odiavate ugualmente. Quello a cui avete dato la colpa per la mia vita così incasinata. Non era colpa sua, ma so che difenderlo qui non farà cambiare la vostra opinione su di lui. L’ho trovato io. Il cadavere. È morto nel sonno accanto a me. Immagino che già abbiate capito com’è morto, ma ve lo confermo: overdose. Lui era così, ma non aveva mai esagerato. Non so cosa gli sia preso quella notte. Io dormivo. Comunque ovviamente ora non sono a casa sua. Non riuscirei mai a rientrare lì. Sono da una mia amica. Ieri pomeriggio mi si è rotto un bicchiere e le schegge mi sono entrate nella mano, da sola non riuscivo a toglierle. Sono andata in ospedale e immagino che il resto già lo sappiate quindi non starò qui a scriverlo. Comunque ho deciso. Non riuscirei a tornare a casa. Resterò qui per un po’ non so quanto, sono passata solo a prendere le mie cose. Tornerò questo non lo metto in dubbio, ma non so quando. Vi chiedo, per favore, di non cercarmi e di lasciarmi quella libertà che mi avete concesso in questi anni. Ne ho bisogno. Ho bisogno di avere un po’ di tempo per pensare e capire cosa voglio davvero. Ho bisogno di uscire da questo periodo che sto vivendo e per farlo ho bisogno di allontanarmi da tutto e da tutti e per farlo non posso restare a casa. E poi, ammettiamolo, non sopporterei di vedervi ancora così.
Per quanto vale… vi voglio bene.
Appoggiai la penna sul tavolo e, finalmente, mi addormentai.
 
Erano ormai mesi che vivevo con Pinky e le giornate si erano fatte pian piano sempre più monotone. Lei era poco a casa e mi lasciava fare tutto quello che volevo. Anche il nostro rapporto, pian piano, da una semplice amicizia si era trasformato in qualcosa di più. Non eravamo fidanzate o almeno così dicevamo, ma era come se lo fossimo. Ero stata anche in vacanza con i miei genitori, ma non ero ancora pronta per tornare a casa. Avevo scoperto alcune cose in quelle due settimane insieme che mi avevano travolto ancora di più. Avevo acconsentito ad andare con loro per stare con mia sorella. Lei non meritava niente di tutto quello che stava succedendo. Due settimane in Calabria che erano filate piuttosto bene. Io e lei eravamo finalmente state un po’ insieme e lei sembrava non odiarmi più. Forse non mi aveva neanche mai davvero odiato. Le ero mancata in quei mesi che avevo passato lontana. Erano quasi tre mesi, in fondo. Probabilmente, sicuramente, ero mancata anche ai miei, ma non dissero nulla. Il viaggio d’andata era stato monotono e triste. Non volevo lasciare tutto quello che mi ero costruita da sola per stare con chi non mi voleva davvero. Poi, giorno dopo giorno, le cose sembravano cambiare. Andare sempre un pochino meglio. Finché non avevo scoperto il grande segreto di mio babbo. Mi sentii così male quando ne venni a conoscenza da volerlo quasi uccidere. Nei momenti in cui ero completamente in balia delle droghe ci avevo anche pensato, ma poi non avevo fatto nulla. In fondo cosa interessava a me? Potevo benissimo farmi i fatti miei senza pensare che aveva l’amante.
Io non vivevo con loro.
Non mi sembrava neanche fare più parte di quella famiglia. Se non fosse stato per mia sorella non sarei mai andata con loro. Nonostante tutto in quella vacanza mi ero divertita. Rientrai a casa di Pinky, che ormai era diventata anche casa mia, nel pomeriggio il 7 luglio del 2012. Mi aveva chiesto se mi sentivo pronta a tornare dai miei genitori e, inizialmente, avevo pensato di dirle di sì poi mi resi conto che per quanto quelle due settimane fossero state belle a casa sarebbe stato tutt’altro. Non avevamo mai parlato della mia vita e della mia decisione e mi rendevo conto che se fossi rimasta quello sarebbe stato il primo argomento. Avremo discusso e io me ne sarei andata di nuovo.
No, meglio andarsene subito.
Mi scaricarono a meno di un chilometro da casa sua poi proseguì per quella strada a piedi con le mie due valigie e la borsa. Gli avevo detto che era più vicina. Non volevo sapessero davvero dove mi ero creata il mio piccolo mondo. Il mio cellulare iniziò a suonare. Lo maledissi. Lasciai le valigie e iniziai a frugare nella borsa. Cliccai il tasto per la risposta della prima sim. Chiarissimo segno che avrei dovuto essere semplicemente me stessa. Per la seconda sim mi chiamavo Laura e avevo diciannove anni. I documenti falsi erano ormai diventati essenziali per me e non solo a lavoro pensavano che quella fosse la mia identità per cui mi ero trovata costretta a prendere due sim e farmi due diversi profili Facebook.
- Chiara da quando mi chiami?- posizionai il telefono tra l’orecchio e la spalla e tornai a trascinarmi le valigie dietro andando verso casa.
- Stasera ti va di venire alla sagra ad Albereto?-
- Perché dovrei? Fino a prova contraria odi la mia vita e mi ritieni un’idiota- sapevo che la mia voce era dura e immaginavo che si sarebbe offesa per la mia reazione, ma non mi importava.
- Ci conosciamo da tanto e… non ho voglia di stare sola. Dovrebbero esserci i tuoi cugini-
- Così dovrei spiegare a tutti perché non vivo più con i miei. Col cazzo che vengo-
- Volevo solo cercare di conoscerti meglio. Ci conosciamo dalla terza elementare e non ti ho mai vista star bene. Mi ero preoccupata, ma va bene fai come ti pare- quelle parole sciolsero un nodo che erano anni che mi premeva sul petto.
- Va bene. Chiedo alla mia coinquilina se può portarmi poi ti mando un messaggio- chiusi la telefonata di fretta mentre vedevo avvicinarsi sempre di più la meta.
 
NdA: ciaaao. Sono tornata con un nuovo capitolo. Spero sia piaciuto e spero con tutta me stessa che questa storia vi piaccia.
Nello scorso capitolo mi sono dimenticata di ringraziare un paio di persone per cui lo faccio ora:

Grazie a G. per essere stata (essere e probabilmente continuare in futuro ad essere) la persona più importante della mia vita. Senza di lei non starei facendo quello che faccio ora e, sicuramente, non sarei chi sono oggi.
Grazie alla mia parabatai perché c’è sempre. Qualsiasi cosa mi succeda so che posso contare su di lei.
E poi grazie a M. perché, nonostante tutto, ha creduto in me e mi ha aiutata ad avvicinarmi anche solo di qualche passo a realizzare il mio sogno.
Per qualsiasi cosa (sia come autrice che come beta) mi trovate su twitter come @Nana_Fangirl.
   
 
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