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Autore: Astry_1971    20/08/2015    1 recensioni
Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cap. 23

  
Le prigioni di Lapidia erano scavate all’interno di pozzi che penetravano fin sotto il livello della pianura della cava. Vi si accedeva attraverso una stretta scala a chiocciola che immetteva in un corridoio altrettanto angusto. Geber procedeva lentamente lungo i gradini, scendendo sempre più in profondità nella roccia. Giunto al corridoio, il mago fu costretto a camminare tenendo il capo chino. Non c’erano feritoie, nulla che potesse collegarlo con l’esterno a parte dei piccoli canali, la cui apertura non era più larga di un pugno chiuso, che fungevano da prese d’aria.
Geber stringeva in mano un bastone di metallo, simile ad una lancia corta, si guardò attorno finché il suo sguardo individuò una pietra di colore verde incastonata nel muro. Puntò il suo bastone dritto al centro della pietra e, facendo un passo indietro, prese lo slancio e la colpì con forza. La pietra si spaccò in due con un rumore secco. Il mago la fissò per qualche istante, poi, proseguì lungo il corridoio fino a raggiungere una seconda pietra, poi una terza. Spaccò anche le altre finché trovò, lungo il budello roccioso, decine di piccole porte di ferro; dietro di queste si trovavano le celle: una serie di pozzi che s’innalzavano, fino a raggiungere la base del grande cratere nel quale vivevano gli schiavi. Il cunicolo che aveva appena percorso si snodava collegando un pozzo all’altro alla base, tuttavia, a causa di errori di calcolo dei costruttori, tra il piano di alcune celle e il cunicolo c’era un dislivello di diversi piedi.
I prigionieri erano letteralmente lasciati cadere all’interno, spesso riportando fratture e gravi ferite, che ne accorciavano la permanenza e risparmiavano al consiglio imbarazzanti sentenze di morte.
“Nessun Discendente può ucciderne un altro.” queste parole risuonarono nella mente di Geber come una beffa: trovandosi di fronte ad una simile realtà, comprese come fosse stato semplice nei secoli aggirare quella legge. 
Giunto quasi alla fine del corridoio, abbandonò il bastone nascondendolo dietro una sporgenza del muro. Poco più avanti  trovò l’uomo  di guardia seduto in un angolo che sonnecchiava. Appena si accorse della sua presenza scattò in piedi, esibendosi in un goffo inchino, e tentò di articolare qualche parola, ma inutilmente. Le sue labbra carnose provarono a sostituire la lingua, evidentemente recisa, agitandosi come una grottesca appendice rossa e umida; si protesero verso l’altro, tendendo i muscoli del volto fino allo spasimo, per poi assottigliarsi nuovamente in uno strano riso forzato che metteva in evidenza la fila irregolare di denti neri e scheggiati. Geber suppose che un suo superiore gli avesse fatto mozzare la lingua per punizione. Era chiaro che certe usanze erano difficili da sradicare. Non si trattava però di uno schiavo, un figlio del sole, ma  solo un cadoniano che non aveva trovato un lavoro migliore.
Nonostante l’uomo si sforzasse, il mago non riuscì a capire se  lo stesse semplicemente salutando o gli stesse chiedendo il motivo della sua visita. Nel dubbio, gli ordinò di aprire la cella del cieco; aveva il sospetto che la guardia ignorasse persino il nome dei suoi prigionieri.
Quello si diresse con sicurezza verso la porticina più vicina a lui, armeggiò con un mazzo di grosse chiavi e, dopo averla aperta, si fece da parte per lasciarlo passare.
Geber si avvicinò circospetto. Il locale era buio, non c’erano torce, ne lumi di alcun genere, di certo Amauròs non ne aveva bisogno, tuttavia la cella avrebbe dovuto essere illuminata, visto che era giorno pieno e tutti i pozzi ricevevano luce ed aria da una grata posta molto in alto; evidentemente, nella cella di Amauròs, la grata era ostruita.
A Geber occorsero alcuni istanti per abituare gli occhi all’oscurità e, assicurarsi che il pavimento della cella si trovasse al livello della soglia, prima di azzardare il primo passo oltre l’entrata.
Una volta dentro, guardò verso l’alto, effettivamente la grata era completamente chiusa. Era tradizione, in giornate di festa come matrimoni o nascite, gettare del cibo nei pozzi: sfamare i prigionieri era considerato una sorta di rito propiziatorio. Sia gli schiavi che i Discendenti si recavano nel piazzale recintato ai piedi della città, con ceste colme di pane e carne. Le guardie non mancavano mai di aprire i cancelli di fronte al festoso pellegrinaggio. L’intero contenuto dei canestri veniva riversato nelle celle sottostanti, accolto dalle grida festose dei prigionieri.
Purtroppo, però, solo una piccola parte di quella manna finiva sul fondo, il resto del cibo rimaneva intrappolato nelle grate ostruendo sempre di più i condotti, fino a privare addirittura dell’aria i malcapitati.
L’uomo di guardia prese il lume, che era appeso accanto alla porta, e lo porse a Geber. Il mago sollevò il braccio illuminando la cella. L’orrendo odore che gli aveva riempito le narici nel momento in cui la porta era stata spalancata non era nulla rispetto alla scena che si presentò ai suoi occhi: i muri anneriti lacrimavano di umidità e urina; il pavimento, pieno di avvallamenti, era un pantano viscido nel quale galleggiavano resti di cibo andato a male, escrementi, ossa e persino brandelli di vestiti appartenuti ai precedenti ospiti di quell’inferno.   
Lo sguardo di Geber individuò, alla propria sinistra, Amauròs, seduto con la schiena appoggiata alla parete. Era rimasto immobile, impossibile che non si fosse accorto della sua presenza, ma, evidentemente, attendeva che il nuovo venuto si facesse riconoscere...
Geber decise di non soddisfare la sua curiosità. Mandò via la guardia con un cenno del capo e, una volta chiuso all’interno, si avvicinò alla parete assicurando il lume alla catena che pendeva dal muro. Una smorfia disgustata gli si disegnò sul viso, quando i piedi scalzi affondarono in quel liquame.
Fece qualche passo in direzione di Amauròs, che ora si era voltato e lo fissava con le sue iridi spente.
Geber attese ancora, finché l’altro decise di averne abbastanza del suo silenzio.
“Se vuoi che scopra da solo chi sei dovrai avvicinarti di più e permettermi di toccarti.” sorrise. “Ma, fossi in te, lo eviterei: ho le mani sudice.” concluse sarcastico, mentre sollevava i palmi per mostrarli all’altro.
“Deve piacerti questo posto, visto che continui a tornarci.” la risposta di Geber aveva lo stesso tono beffardo.
Nel riconoscere la voce del vecchio amico, il volto del prigioniero si fece livido.
“Cosa sei venuto a fare?” domandò irritato. Poi un lampo di comprensione gli illuminò lo sguardo. I suoi occhi ciechi si spalancarono e, per un attimo, le labbra parvero non riuscire ad articolare le parole.
“Leda?” chiese in un soffio. “Sei qui per lei, non è vero?”
“Forse sono qui per me stesso. Dove sono gli schiavi, Amauròs?” tagliò corto.
Amauròs chinò di nuovo il capo. Un angolo della sua bocca si piegò leggermente, indeciso tra l’amarezza e il riso.
“Se speri di saperlo da me, stai sguazzando in questa fogna inutilmente.” lo schernì, accennando col capo ai suoi piedi nudi. Amauròs non aveva bisogno di vederli, conosceva bene l’abitudine dell’amico di non indossare calzari: il contatto diretto con la terra potenziava la sua magia.
“Sai che posso ottenere quello che voglio con i miei mezzi.” lo avvertì Geber.
“Qui dentro? Non credo.”
Geber si chinò su di lui. “Come ti senti, Amauròs?” sussurrò ad un palmo dal volto dell’altro.
Le labbra dell’uomo in terra si serrarono all’improvviso e s’irrigidì.
“Che significa?”
Geber drizzò la schiena e lo guardò dall’alto della sua statura, sul suo volto comparve un sorriso cattivo che l’altro non poté vedere.
“Ho distrutto alcuni degli amuleti qui fuori. Dovresti sentire qualche miglioramento.” lo schernì, ma subito si pentì del suo cinismo rendendosi conto delle condizioni del prigioniero: il viso pallido di Amauròs era segnato da profonde occhiaie violacee, e la pelle si tendeva fin quasi a lacerarsi sugli zigomi spigolosi, mentre le guance incavate erano nascoste appena da una corta barba bianca che pareva voler gridare sfacciatamente la sua vera età.
Amauròs era rinchiuso in quella cella da più di una settimana, ormai, e, a giudicare dalla ciotola vuota e asciutta accanto a lui, non doveva aver toccato cibo e acqua da diverso tempo.
Per quanto la distruzione degli amuleti potesse avergli dato un po’ di vigore, l’uomo che aveva di fronte non avrebbe avuto certo abbastanza forza per contrastare i suoi poteri.
Se da una parte questo pensiero lo rassicurò, dall’altra lo fece sentire un vigliacco: avrebbe strappato alla sua mente le informazioni che voleva con facilità poichè Amauròs sarebbe stato troppo debole per difendersi. Si chiese se il suo amico, l’uomo col quale aveva condiviso i più bei momenti della sua giovinezza, si sarebbe arreso senza opporre resistenza, o avrebbe comunque lottato, sapendo di rischiare la vita?
E lui, fino a che punto avrebbe potuto spingersi pur di estorcergli quelle informazioni?
Si costrinse a mettere a tacere la propria coscienza: non poteva più aspettare, in ogni caso sarebbe stata una scelta di Amauròs. Tese il braccio col palmo della mano aperta rivolto verso l’uomo rannicchiato sul pavimento. Trattenne il respiro e ascoltò il potere fluire nelle sue vene, ne assaporò la sensazione piacevole di calore, finché non divenne un fiume rovente come lava fusa.
“Dove sono gli schiavi?” domandò ancora. La sua bocca non si mosse, Amauròs tuttavia lo sentì gridare nella propria mente, un urlo che non aveva nulla di umano.
Protese le braccia in avanti in un inutile tentativo di proteggersi.
“Gli schiavi…. Dove sono?” insisté Geber.
Amauròs si portò le mani alle orecchie, ma non servì: quelle parole continuavano a martellargli nella testa. Presto Geber avrebbe visto i ribelli, avrebbe visto nella sua memoria quello che cercava.
“Gli schiavi, Amauròs, dove sono gli schiavi?” Geber continuava a gridare pur tenendo le labbra serrate.
Amauròs si accostò maggiormente al muro, spingendosi con i piedi; le labbra riarse si tesero lacerandosi e un filo sottile di sangue gli colò sul mento.
Geber strinse i pugni come se volesse afferrare i ricordi dell’altro, e lo fece con tanta forza da ferirsi i palmi con le unghie. “Dimmi dove sono gli schiavi! Mostramelo!” urlarono ancora i suoi pensieri, ma improvvisamente un muro impenetrabile si levò tra le menti dei due maghi. Amauròs aveva chinato il capo e allargato le braccia artigliando la roccia dietro di sé. Un flebile lamento sfuggì alla sua gola, mentre con le gambe continuava a scalciare nel tentativo di spingersi contro il muro, verso un’illusoria via di fuga.
Geber si concentrò, provò ad incanalare ogni energia nel tentativo di leggere i pensieri di Amauròs, ma non vi riuscì, iniziò, invece, a sentire su di sé la sofferenza che gli stava infliggendo, la sentì diventare sempre più intensa, aveva la sensazione che qualcuno gli avesse infilato una lama nella testa. Era un dolore insopportabile ed era lui stesso a provocarlo.
Amauròs gli stava resistendo, gli stava rivoltando contro i suoi poteri, ma stava morendo.
“No!” la magia s’interruppe di colpo. “Non voglio ucciderti!” disse in un singhiozzo, mentre riprendeva il controllo della sua voce e del suo corpo.
Scosse il capo e lasciò cadere la braccia sui fianchi, facendo un passo indietro, ansimante.
Amauròs si rilassò e sollevò il volto stanco verso di lui.
“Non resistermi!” Geber lo supplicò. “In nome della nostra vecchia amicizia, lascia che io veda.”
“Non posso.” la voce dell’uomo cieco era debole, ma fredda e determinata.
“Perché? A che scopo?” Geber iniziò a gridare realmente. Era disperato, avrebbe voluto poter afferrare l’altro e scuoterlo fino a convincerlo a parlare, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Poi, davanti al suo ostinato silenzio, respirò a fondo e provò a ritrovare la calma.
“Ti ho sempre battuto, anche da ragazzi.” rise, una risata senza gioia. “Sono sempre stato io il più forte.” si vantò.
“Sì… eri bravo a leggere nei miei pensieri… ma allora avevo solo piccoli segreti da adolescente da difendere.” confermò Amauròs in un soffio.
Geber si voltò e fece qualche passo allontanandosi dal suo amico.
“Hai ragione, erano piccoli segreti e, ogni volta che provavo a scoprirli, mi regalavi dei gran mal di testa.” tornò a fissare l’altro. “Fino a quel giorno. Anche lei era parte di quei piccoli segreti?”
Amauròs divenne, se possibile, ancora più pallido. Appoggiò una mano al muro e con uno sforzo si mise in piedi. Ora erano alla stessa altezza, e i suoi occhi neri trafissero quelli di Geber come se potessero vederlo realmente.
“Tu lo sapevi.” ruggì.
Non era una domanda la sua, ma fino a quel momento sembrava aver voluto ignorare la risposta. “Tu l’hai detto a mio padre, è così che ci hanno trovati.” sputò la sua accusa con tutto il fiato che gli rimaneva.
“Eri il figlio di un membro stimato del consiglio, come hai potuto rinunciare a tutto per quella donna?”
“Io ho fatto una scelta… Forse una pazzia per amore.” il viso di Amauròs divenne di marmo. “Qualcosa che tu non sei stato capace di fare per Leda.” gli rinfacciò. “Hai preferito la tua posizione ad una donna che ti amava. Ora ti illudi di poterla riavere trovando suo figlio?”
Geber strinse i pugni con rabbia. “Come te, anch’io ho fatto la mia scelta, Leda ora è una donna rispettata e, soprattutto, è viva.” sottolineò. “Se tornassi indietro prenderei la stessa decisione, tu puoi dire lo stesso?” chiese velenoso, i suoi sensi di colpa lo resero crudele.
Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi Amauròs sollevò il mento con orgoglio.
“Sì!” rispose deciso. “Se io potessi tornare indietro agirei nello stesso modo…” poi chinò il capo e i muscoli del suo viso si contorsero colti da una fitta dolorosa.
“… ma, questa volta, entrerei nel passaggio con lei.” mormorò.
Geber serrò le palpebre, improvvisamente fu sopraffatto dai ricordi. Ripensò agli anni della giovinezza, ad Anedjib, il suo amico, alle confidenze che si scambiavano, alle loro sfide di magia; finché un giorno, quell’amico, divenne sempre più misterioso. Ricordò le sue frequenti visite alla cava e tutte le volte che l’aveva seguito o aveva cercato di vedere nei suoi pensieri, per curiosità, certo, ma anche per la sua stupida gelosia. Invidiava la posizione che quel ragazzo avrebbe ricoperto in futuro, grazie a suo padre, ma soprattutto grazie alle sue straordinarie doti di mago. Voleva anche lui diventare un membro del Consiglio dei Discendenti, e quando la notizia della fuga degli schiavi aveva sconvolto l’intera città, lui non aveva esitato a rivelare al consiglio ciò che era riuscito a scoprire. Solo anni dopo, quando anche lui era entrato a far parte della ristretta cerchia di Discendenti che guidavano la città, solo allora aveva saputo della strage e aveva ritrovato il suo amico che già ricopriva quella carica con un diverso nome e dopo aver pagato duramente la sua ribellione.
Scosse il capo lasciandosi sfuggire un lungo sospiro, ma subito la sua espressione si fece dura.
“Mi dispiace!” disse gelido e, con un gesto rapido e inaspettato, protese di nuovo le mani. La forza della sua mente colpì l’altro come uno schiaffo.
Amauròs fu schiacciato contro la parete, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Anche gli occhi di Geber si aprirono in modo innaturale, nel momento in cui centinaia di immagini comparvero nel suo cervello; si sovrapposero una sull’altra per poi svanire, confondendosi risucchiate in un baratro fatto di oscurità, suoni, odori. Sentì le proprie mani stringere le rocce magiche, udì le piccole pietre cadere e rotolare sul pavimento, percepì la loro energia e il calore proveniente dalla terra, e poi divenne egli stesso parte del mondo. Fu roccia, fu un fiume impetuoso; in un istante attraversò valli e montagne, e, infine, divenne di nuovo acqua: un immenso specchio scuro irto di guglie traslucide, taglienti come spade affilate. Lo riconobbe: era il mare dei cristalli. Ora sapeva, non aveva bisogno di guardare oltre, gli schiavi erano diretti verso l’unico punto in cui quel mare poteva essere attraversato a piedi: il passaggio chiamato le Zanne del Drago.
Fece un balzo indietro liberando l’altro dal suo potere.
Amauròs si accasciò sul pavimento, respirava appena. Geber si chinò e, passandogli la mano dietro la schiena, lo sollevò da terra; lo circondò con le braccia sostenendolo in posizione seduta, ma il capo dell’amico ricadde abbandonato sul petto, in parte nascosto dal groviglio di capelli bianchi.
“Dovevo farlo,” disse Geber con voce roca. “Io dovevo farlo, perdonami!” ripeté, e poggiandogli la mano sulla fronte gli sollevò il viso. La vita del suo migliore amico stava scivolando via ed era stato lui a prendergliela, come ottant’anni prima, con la sua denuncia gli aveva rubato gli occhi. Era stato stupido allora, stupido ed egoista. Voleva farsi notare, voleva il potere e aveva venduto la sua amicizia.  Ma ora? Come avrebbe potuto perdonarsi di ciò che aveva appena fatto?
Lo strinse e lo cullò, con la mano gli sosteneva il capo stringendolo contro la propria spalla, finché lo udì sussurrare.
Si chinò avvicinando l’orecchio alle labbra tremanti dell’amico.
“Hai vi…sto?” gli domandò quello, la voce era ridotta ad un soffio.
Lui annuì.
“Die...go…Diego, lui non… c’entra.” continuò il mago cieco.
Geber scosse il capo, non aveva intenzione di far del male agli schiavi, voleva solo riportare Silas a casa, ma era chiaro che Amauròs temeva per la vita di qualcuno.
“Chi è Diego?” gli domandò, poi, d’un tratto, si ricordò del vecchio servitore, l’uomo che era stato con Amauròs fin da bambino.
“Il tuo servo? E’ per lui che ti preoccupi?” 
Amauròs si aggrappò alla tunica dell’altro. “L’hanno rapito, Diego non… lui non è coi ribelli… se li prendono, dillo al consiglio… salvalo… ti prego!”
“Non li prenderanno.” tentò di rassicurarlo Geber, ma l’altro allentò di colpo la presa e posò lo sguardo vuoto su di lui.
“Ti seguiranno… e uccideranno tutti… anche Si…las.” quelle parole suonarono come una maledizione. Geber rabbrividì. Fece per rispondere, per rassicurarlo sulle sue intenzioni: nessuno avrebbe saputo ciò che aveva appena scoperto, non sarebbe andata come l’ultima volta. Lui e Leda avrebbero raggiunto gli schiavi in segreto; Silas sarebbe tornato indietro dalla propria madre, al sicuro, e i ribelli sarebbero stati liberi di proseguire, non glielo avrebbe impedito. Anche Diego sarebbe potuto tornare a Lapidia se lo avesse voluto, e nessuno lo avrebbe mai sospettato. Era questo che voleva dirgli, glielo avrebbe giurato, ma quando le sue labbra si schiusero per pronunciare la solenne promessa, un lungo e debole respiro risuonò lugubre nella cella, Geber vide il petto dell’amico abbassarsi fino a restare immobile.
“No!” fu un gemito strozzato quello che uscì dalla sua gola.
Prese a scuoterlo, ma l’altro non reagì.
Era morto, Amauròs era morto.
Geber restò a fissarlo per diversi minuti, in silenzio. Tremava, aveva l’impressione che qualcosa di freddo gli stringesse lo stomaco, forse l’orrore e il rimorso avevano artigli fatti di ghiaccio. Si afferrò il ventre con la mano libera, trattenendo a stento un conato di vomito.
Quando riuscì finalmente a regolare il respiro e a riprendere il controllo del suo stomaco, lasciò scivolare in terra il corpo di Amauròs, con delicatezza, cercando di adagiarlo nel punto meno sudicio del pavimento.
L’uomo aveva una gamba piegata, mentre l’altra era tesa trattenuta dalla catena che portava alla caviglia, Geber l’afferrò tirandola verso di sé e liberando anche la tunica di Amauròs che si era attorcigliata all’anello di ferro.
Gli distese le gambe e prese a sistemare le pieghe dell’abito in modo maniacale.
Poi gli passò la mano sul viso scansando le ciocche di capelli che si intrecciavano fino a nasconderne quasi del tutto i lineamenti.
Gli rivolse ancora un ultimo sguardo e si alzò.
“Ho fatto la mia scelta, ho dovuto farlo.” mormorò.
Si avvicinò alla porta e bussò con violenza.
L’uomo senza lingua aprì e richiuse immediatamente non appena Geber ebbe varcato la soglia. Non controllò, non chiese spiegazioni delle urla che sicuramente doveva aver sentito, e Geber preferì non informarlo della morte del suo prigioniero. L’avrebbero scoperto nel momento in cui sarebbero entrati per scortarlo alla Grotta del Sonno, ma allora lui sarebbe stato lontano.
S’incamminò, ripercorrendo a ritroso la via che aveva fatto per scendere, una salita che gli parve ancora più ripida. Un macigno gli schiacciava il petto e più volte dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. Le ginocchia si piegavano sotto quel peso e ogni gradino gli sembrava un ostacolo insormontabile.
Strinse i denti con forza.
“Leda!” pronunciò ad alta voce il nome della donna che amava come se quel suono potesse dargli vigore.
“L’ho fatto per Leda.” continuò la sua litania per tutta la scala. La voce sempre più roca e carica di rabbia ad ogni passo, finché non fu fuori dalla prigione.
 
 
 
  
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