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Autore: Persej Combe    21/08/2015    2 recensioni
Un giorno, tanto tempo fa, ho incontrato un bambino. Non lo dimenticherò mai. È stato il giorno più emozionante di tutta la mia vita. Nessuno potrà mai avere la stessa esperienza che ho avuto con lui. Ciò che abbiamo visto, è precluso soltanto a noi.
...In realtà, non ricordo neanche il suo nome. Non ricordo nemmeno se ci siamo presentati, a dire il vero. Però non smetterò mai di cercarlo. Un giorno so che le nostre mani si uniranno di nuovo, come quella volta. Perché noi siamo destinati a risplendere insieme per l’eternità.

[Perfectworldshipping]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Elisio, Professor Platan, Serena
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eterna ricerca'
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19 . Nella foresta buia
(Seconda parte)


 

   «Non l'hai ancora capito che è stato tutto solo e soltanto un sogno?»
   Era quello che avrebbe voluto dirgli dopo esser stato per troppo tempo ad ascoltare quelle parole inutili. Tuttavia non aveva trovato il coraggio di farlo, perché infrangere i suoi sogni, almeno quelli più puri, era l’unica cosa che si sarebbe sempre rifiutato di fare, in qualsiasi circostanza. E così, sovrappensiero, allungando la mano verso il tavolo per afferrare il bicchiere e bere un ultimo sorso di vino, l’oggetto gli era scivolato dalla presa, si era infranto sul pavimento lasciando una chiazza rossa sul marmo.
   «Scusami!» esclamò mortificato una volta che si fu ripreso dai propri pensieri «Scusami, Elisio, non volevo!».
   Eppure Elisio non aveva l’aria di essersi arrabbiato. Platan si mordeva le labbra e osservava con dispiacere la macchia continuando a scusarsi. Fissò lo sguardo sulla scopa mentre l’uomo spazzava via i vetri rotti e gli diceva di fare attenzione a dove avrebbe messo i piedi quando si sarebbe alzato. Soltanto dopo numerosi incoraggiamenti e rassicurazioni da parte di lui, Platan finalmente si calmò. Elisio si offrì di andargli a prendere un altro bicchiere, ma lui lo bloccò: «Non voglio esserti ancora di peso», gli aveva detto.
   «Semmai è il contrario», aveva ribattuto amaramente. Si era fermato in silenzio accanto al divano, pensieroso, poi era tornato a sedersi vicino al compagno.
   «Puoi bere dal mio, se vuoi», aveva proposto allora, tendendogli il bicchiere.
   «Se sono in compagnia, non mi piace bere da solo. Berremo insieme», aveva risposto l’altro trattenendo le dita del rosso contro la superfice vitrea, stringendovele con le proprie mani.
   Avevano ripreso a parlare, si guardavano l’un l’altro nei visi studiandosi come per riportare alla memoria un ricordo scomparso dalla mente.
   Che cosa hai fatto ultimamente? Come vanno i tuoi studi? E i tuoi Pokémon come stanno? Hai cominciato a lavorare a un nuovo progetto?
   Sei stato con altre donne? Con altri uomini?
   Guardami. Parlami. Accarezzami. Stringimi tra le tue braccia come facevi una volta.
   Mi daresti un bacio? Uno, uno solo.
   Fra parole dette ed altre solamente pensate, si addormentarono sul sofà, l’alito impregnato d’alcol e il fisico stanco, appesantito. Platan ad un tratto si svegliò. Si fece aiutare dal suo Garchomp a portare Elisio a letto. Lo distese sul materasso, si sedette accanto a lui. Forse avrebbe fatto meglio ad andarsene, pensò osservandolo. Una dispiacevole fitta l’aveva colpito alla bocca dello stomaco. Stava forse avendo qualche ripensamento sull’averlo seguito?
   Non era stato lui stesso a chiedergli di portarlo via da quel posto ricolmo di gente?
   Gli sfilò via il farfallino dal collo, aprì i bottoni di quella camicia bianca e stretta. Mano a mano che sbottonava l’indumento, lo sentiva sospirare e riprendere il respiro con maggior rilassatezza. Si fermò a metà del suo petto, quanto bastava per non lasciarlo soffocare nel sonno: certe volte, per mantenere l’eleganza, Elisio non si asteneva dal patire un leggero dolore, quando necessario. Fermò lo sguardo sul suo torace leggermente scoperto, dal colorito chiaro e le forme virili, forti.
   «Bellissimo, bellissimo Elisio...» non si trattenne dal dire. Lo accarezzò con la mano lungo la scollatura, sentendo la sua pelle nuda sotto i polpastrelli. Come lo desiderava, come lo rivoleva indietro! Solo e soltanto per sé, come un ladro col capriccio di rubare un’opera d’arte e nasconderla in un angolo sconosciuto della casa per riservarla esclusivamente alla propria vista.
   Ritrasse le dita.
   Gli rimboccò le coperte, gli mise un bicchiere d’acqua sul comodino, si prese cura di lui come aveva sempre fatto quelle volte in cui lo aveva trovato addormentato al tavolo di lavoro o nel vedere insieme un film di cui poco gli interessava alla televisione. Fra un ripensamento e l’altro, decise di rimanere. Si spostò silenziosamente verso l’armadio e si spogliò, prese la solita magliettona e la indossò. Si rintanò sotto alle coperte e raggomitolandosi contro il cuscino si lasciò sfuggire uno sbadiglio sonoro. Chiuse gli occhi cercando di addormentarsi.
   Da poche settimane avevano aperto un locale in una delle vie vicine, in lontananza si sentiva la musica che proveniva da lì. Qualche ragazzo rideva per strada, altri cantavano a squarciagola sotto l’effetto dell’alcol. I vetri della finestra della stanza, tuttavia, erano abbastanza spessi da non far trapelare eccessivamente i rumori esterni.
   Sentiva Elisio rigirarsi tra le lenzuola: il movimento delle coperte che si stringevano e si allentavano attorno al suo corpo gli trasmetteva una sensazione piacevole. Lo rassicurava del fatto che nel letto c’era anche lui e non era solo. In fondo, la sua compagnia gli dava conforto, era sempre stato così e per quanto ci si fosse sforzato non avrebbe mai potuto cambiare le cose. Capo del Team Flare o meno, criminale o brillante uomo d’affari, Elisio aveva quella stazza imponente, quell’aura grandiosa e fiera, che in un certo senso trovarsi fra le sue braccia, nelle sue grazie, sotto la sua protezione, inevitabilmente trasmetteva una sensazione di sicurezza, di rifugio dalle brutture del mondo esterno.
   Se soltanto avesse smesso di lasciarsi influenzare da quelle brutture, pensò Platan con rammarico.
   Si voltò un attimo dal lato opposto per prendergli la mano e stringerla in una carezza, poi però si fermò, dicendosi che era una sciocchezza, e tornò a dormire.
   Era una notte calma, quella, in fin dei conti. Più la luna si spostava nel cielo disegnando il proprio arco, più il buio e il silenzio si diffondevano pacatamente sopra i tetti di Luminopoli, cullando il sonno dei suoi abitanti.
   Nelle notti come quelle, Elisio preferiva rimanere a scrutare i palazzi fuori dalla finestra, perdersi nelle proprie riflessioni in quel quadro apparentemente immobile eppure così ricco di vita. Chi poteva sapere cosa stava accadendo dietro ad una finestra chiusa? Oltre a una tenda che oscilla, dentro una macchina parcheggiata in fondo alla strada? Era in quel preciso momento che la natura umana si mostrava per ciò che era, che l’uomo si spogliava delle vesti indossate al mattino per rivelare il suo vero aspetto, per dare sfogo ai propri tormenti, confessare un odio o un amore lontano dalla luce del sole che rende tutto evidente e chiaro, senza possibilità di celare un segreto, ciò che è più intimo. Quello che non si può dire viene gridato, sbattuto contro i muri con eccezionale audacia, senza il timore che lo si possa giudicare.
   Gli piaceva osservare quell’aspetto così naturale dell’uomo, scoprirne ogni particolare e dettaglio. Innescava in lui un certo fascino a cui non riusciva a sottrarsi. Mai, però, quell’attrazione sarebbe stata pari a quella che il Professor Platan era in grado di suscitargli in maniera così forte e vivida.
   E così quella volta, dopo essersi svegliato per la luce bianca della luna che campeggiava sul letto, anziché aprire la finestra e sporgersi a guardare fuori, aveva chiuso le tende oltre la testiera e tornando a sdraiarsi si era fermato a studiare la sagoma nera e sottile della schiena del compagno.
   Compagno, perché si fosse trattato d’amore o di viaggi in luoghi sconosciuti, lui era sempre stato il miglior compagno su cui fare affidamento.
   Avrebbe voluto avvicinarsi a lui solamente di qualche altro centimetro, senza toccarlo, ma ancora provava timore. Si limitò ad osservarlo.
   Platan ogni tanto bisbigliava frasi scombinate e lui lo ascoltava, chiedendosi che cosa stesse sognando in quel momento. Lentamente cominciava a riaddormentarsi e gli pareva di vedere l’albero rigoglioso che l’uomo gli stava indicando al centro del burrone, con i suoi fiori dai mille colori, i profumi del bosco, le foglie verdi come smeraldi che si scuotevano mosse da un vento gentile. Si presero per mano e si arrestarono lungo il brodo del precipizio a guardare con occhi meravigliati quell’albero misterioso. Una luce sfavillante brillava all’interno del tronco. Elisio volle avvicinarsi per osservare meglio quello strano fenomeno, ma non appena mosse la gamba, un allarme cominciò a squillare nelle sue orecchie, come per ammonirlo.
   Gli ci volle qualche istante per riprendere i contatti con la realtà e rendersi conto che ciò che aveva sentito non era un allarme, ma la suoneria del suo Holovox che trillava sul comodino con fare impaziente. Vide Platan rigirarsi nel letto in cerca di una posizione in cui il suono non lo raggiungesse, così si affrettò a rispondere alla chiamata per non disturbarlo ulteriormente.
   «Che c’è?» rispose in tono secco, ruvido e infastidito portandosi lo strumento all’orecchio. La sua voce suonava profonda e minacciosa. Platan socchiuse gli occhi e guardò l’uomo chinato dal lato opposto che cercava di capire che cosa fosse successo con mille domande e provocazioni.
   «Xante, è la terza volta questa settimana. Possibile che non riusciate a sistemare questo problema?».
   Il Professore sospirò, allungò una mano verso di lui e la posò sulla sua spalla. Va tutto bene. Tranquillo, sembrava gli volesse dire con quel gesto. Elisio si calmò. Prese un respiro e parlò più lentamente.
   «Ho capito. Sì, vengo subito. Aspettatemi».
   Attaccò la chiamata e ripose l’Holovox sul comodino, restò in silenzio con le braccia incrociate sul petto a rimuginare.
   «Mi dispiace d’averti svegliato», disse a Platan dopo un po’.
   «Non fa niente», disse lui in tono pacato «Devi andare?».
   «Sì».
   Il Professore fece scorrere la mano lungo il suo braccio, poi lo lasciò. Elisio si alzò dal letto, cominciò a prepararsi per uscire. Platan lo osservava mentre si cambiava e intanto pensava. Si sedette con la schiena poggiata sulla testiera e si mise a giocherellare con un lembo della coperta. I cassetti si aprivano e si chiudevano, le stampelle si scontravano tra di loro nell’armadio e tintinnavano mentre Elisio vi riponeva gli abiti da festa. L’uomo si aggiustò le maniche della camicia, avvolse l’ascot attorno al collo e se lo annodò con cura guardandosi allo specchio. Dietro di sé scorgeva la figura magra del caro Professore. Incontrò i suoi occhi nel riflesso e istintivamente distolse lo sguardo.
   «Elisio,» lo chiamò quello ad un tratto «quale sarà la prossima mossa del Team Flare?».
   L’uomo si bloccò. Il nodo era venuto male, aveva una forma scomposta e disordinata. Sospirò, sciolse tutto e si apprestò a ricominciare daccapo.
   «È che l’ultima volta non mi hai detto nulla...».
   «Non ti ho detto nulla perché avevo paura di ferirti. So quanto per te tutta questa storia non sia altro che un peso inutile».
   «E tacere ti sembrava la soluzione migliore?».
   «La prossima mossa», ignorò il suo ultimo commento perché non avrebbe saputo in che modo ribattere «sarà quella di prendere possesso della Centrale Elettrica».
   Platan lo osservò sorpreso. La Centrale di Kalos? Di certo non era un obiettivo di poco conto.
   «E perché rischiare una mossa così azzardata?».
   «Certo che sei una persona proprio curiosa, Platan. Se non sai tutto, non ti accontenti mai, come al solito...».
   «Se non lo fossi, non sarei Professore di Pokémon, dopotutto».
   Elisio sorrise lievemente. Prese il pettine dal cassetto e si riordinò i capelli arruffati.
   «Nelle ultime settimane mi sono accorto che l’energia dei Pokémon che abbiamo revitalizzato dai fossili presi nella Grotta dei Bagliori non è sufficiente per alimentare del tutto l’Arma Suprema. Hanno un buon potenziale per crescere e rafforzarsi, ma noi non abbiamo le apparecchiature adatte ad aumentarne la potenza. C’è bisogno di altra energia e la Centrale Elettrica è il luogo adatto in cui raccoglierne a sufficienza. Una delle mie Reclute è riuscita ad entrare nella struttura e già abbiamo tentato diverse volte di accumularne un po’ nei Laboratori per vedere se il piano funziona».
   «Non mi dirai che i blackout che ci sono stati diverse volte a Corso Alto in questi giorni sono per causa vostra...».
   «Temo di sì».
   Non c’era molto da dire. Quella parte di Elisio lo lasciava davvero senza parole, tuttavia non poteva fare a meno di provare una strana attrazione per quel carattere calcolatore: mai lo aveva visto fare un così grande sfoggio della sua intelligenza quanto in quella circostanza.
   «E poi?» chiese ancora, il tono lievemente incupito «Immagino che a quel punto il progetto sarà giunto al termine».
   «Non ancora», e la sua voce era morbida, era rassicurazione e conforto, «Prima», ed ecco che cominciava a infiammarsi di nuovo, a diventare fuoco «Prima c’è un’ultima cosa che voglio fare. Prima che tutto finisca, intendo far capire alla gente la vera bellezza dei Pokémon. E lo farò privando ognuno di ogni contatto con essi. Sottrarrò tutte le Poké Ball prodotte nella Fabbrica di Romantopoli e distruggerò i macchinari in modo che non sia più possibile fabbricarne».
   Platan tacque. Le sue labbra si incurvarono in un arco ricolmo di dispiacere.
   Le Poké Ball. Il simbolo più importante dell’amicizia fra i Pokémon e gli esseri umani.
   «In mancanza dei Pokémon,» Elisio riprese il discorso «quegli insulsi bastardi che ne abusano per il proprio beneficio si renderanno conto di quanto meravigliose siano quelle creature. Rimpiangeranno di averle sfruttate per i propri scopi egoistici. Sai quanti in tutto il mondo strumentalizzano i Pokémon con finalità losche. Sai il modo in cui ogni giorno quelle creature vengono maltrattate e torturate. Ricordo ancora quando sui giornali leggevamo dei colpi sferrati dal Team Rocket a Kanto e Johto. Io non permetterò che simili atrocità si ripetano ancora! Tu più di tutti dovresti capirmi, Platan...».
   E lo capiva. Comprendeva la sua rabbia, perché era la stessa che si infiammava in lui stesso quando veniva a sapere di queste violenze o ne era testimone o se anche ci si soffermava a pensare soltanto. Però, però...
   «Elisio, sei davvero convinto di ciò che vuoi fare? Per te è davvero questa l’unica soluzione possibile?» gli chiese.
   «Se ne avessi avuto altre a disposizione, non avrei versato le mie forze su una così drastica», rispose.
   Si allontanò per pochi minuti ritirandosi in qualche stanza per raccogliere alcuni fascicoli di cui aveva bisogno. Quando tornò vide Platan ancora fermo immobile nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. Aveva un aspetto severo. Stava riflettendo. Elisio si sedette sul letto e si infilò una scarpa ad un piede, si appoggiò contro la gamba per legarne i lacci.
   «Perché non hai chiesto aiuto a me?» domandò ad un tratto il compagno, voltando la testa verso di lui «I Pokémon, la loro energia... Sai bene che io sono in grado di portarli al massimo delle loro potenzialità. Come Professore potrei essere una risorsa molto proficua, per voi».
   «Chiederti di aiutarci contro il tuo volere? No. Finirei solo per sentirmi in colpa. Tralasciando tutto il resto, tengo molto a te».
   Si allacciò la seconda scarpa.
   «Se c’è un motivo per cui voglio mantenere la nostra relazione un fatto privato, è perché, nel caso in cui qualcosa dovesse trapelare e diffondersi, non intendo assolutamente che tu venga coinvolto in qualche questione. Di questa storia non ne hai voluto sapere fin dall’inizio. Ricordo perfettamente quando sei scappato da qui, quella sera, non volevi nemmeno guardarmi in faccia. Mi sono sentito talmente male perché sapevo che stavi provando un dolore immenso per causa mia. E quando ti ho sentito gridare quelle cose il mese scorso al Caffè, quando eri venuto con Floette... Temevo...».
   Tirò bene il nodo e con lentezza tolse le dita dai lacci. Alzò lo sguardo verso il muro. Strinse le palpebre in un attimo di raccoglimento.
   «Quello che intendo dire è che non voglio farti soffrire per tutto questo. Se non vuoi entrarci, allora non c’entrerai. Mi sporcherò io le mani, ma tu, tu devi rimanere puro. È per questo motivo che non mi sarei mai permesso di sottrarre i tuoi documenti. Non mi sarei mai perdonato un simile tradimento nei tuoi confronti», si voltò, incontrò gli occhi grigi di lui «Ma forse sono solo uno sciocco per continuare a sprecare parole in questo modo. Tu non mi credi, non è vero? Non mi crederai mai».
   Platan sussultò. Si morse le labbra, le ciglia abbassate per nascondere il proprio sguardo. Non aveva mai pensato di averlo fatto soffrire così tanto. Avrebbe voluto consolarlo, ma non poteva contrastare quel rancore che ancora gli si gonfiava nel petto, e nonostante gli avesse spiegato tutto quanto, non aveva il coraggio di credergli, di perdonarlo, ancora. Si scostò un ciuffo di capelli da davanti la fronte e si girò.
   Elisio si arrese. Si tirò in piedi, prese le ultime cose e si apprestò ad andarsene.
   «Ti lascio le chiavi sul tavolo in cucina», disse fermandosi accanto allo stipite della porta «Quando te ne andrai, chiudi bene casa. E mi raccomando, cerca di non dimenticartele, stavolta. Passerò a riprenderle da te in giornata».
   Rivolse un ultimo sguardo a Platan rannicchiato tra le lenzuola. Provava una leggera amarezza nell’andarsene senza aver ricevuto nemmeno un bacio. Quando il Professore si girò per salutarlo, le parole gli morirono in bocca, sentì un tonfo al cuore: gli occhi di Elisio erano talmente languidi da apparire come una carezza soave sul viso.
   La porta si chiuse e si ritrovò solo nel buio della casa.
   Affondò la testa sul cuscino e cercò di riaddormentarsi.
   Stupido, stupido Elisio! Non sapeva proprio nulla su quei monoliti? Gli sembrava poco plausibile. Aveva organizzato quella spedizione per scoprire i segreti di quelle pietre? E c’era riuscito in così poco tempo? No, non era possibile. A lui c’erano voluti mesi e mesi per studiarli, per mettere per iscritto quella relazione. Forse qualcuno gli aveva dato una pista? Aveva distrutto i suoi documenti cartacei per evitarlo.
   In effetti non si erano trovate tracce di intromissione nel registro del foglio elettronico.
   E se avesse avuto occasione di sbirciare prima che fosse riuscito a trasferire i dati sul dispositivo? No, si era sempre impegnato a nasconderli dalla sua vista, a maneggiarli con cura in sua presenza in modo da non attirare la sua attenzione. Allora come aveva fatto? Qualcun altro lo aveva messo al corrente? Sina? Dexio? Improbabile, i suoi assistenti non mancavano mai di informarlo riguardo ogni avvenimento che aveva luogo fra le mura del Laboratorio. Forse... quel Professore di Unima? Avevano collaborato insieme nello studiare quelle rovine pensando che potessero avere il potere di manifestare la vera forza dei Pokémon... Poi però, in seguito a circostanze misteriose, era completamente scomparso dalla circolazione. Chissà cosa gli era accaduto? Magari Elisio, con i suoi numerosi agganci, era riuscito a riprendere contatti con lui. Sennò cos’altro? Gli erano davvero bastate poche ore per scoprire il funzionamento di quelle costruzioni?
   Con la testa ricolma di troppi pensieri, non riusciva a prendere sonno. Si alzò nervosamente dal letto e si diresse in cucina per bere un bicchiere d’acqua fresca e sbollire l’animo. Mentre tornava in camera notò qualcosa di strano nel salotto. Si guardò attorno e poi la vide.
   Si arrestò di fronte allo specchio. C’era qualcosa che non gli tornava nell’immagine riflessa. Aguzzò lo sguardo e scorse un paio di occhiali poggiati sul tavolo. A quella vista un brivido gli corse lungo la schiena. Non era possibile che fossero lì. Mentre avanzava verso il vetro, un sottile brusio proveniente dalla finestra si fece strada nella stanza. Il vento di fuori si faceva sempre più forte, le imposte sbattevano e si udiva il brulicare delle foglie trascinate dalla corrente.
   Non era possibile una cosa del genere, pensava. Il tavolo era vuoto. E quell’oggetto non avrebbe mai potuto trovarsi in quel posto. Mai. Erano passati anni, troppi anni. Dovevano essere andati persi.
   Allungò una mano verso lo specchio, non riusciva a trattenere la curiosità che gli consumava i pensieri.
   Immerse le dita nel vetro e fu come se stesse facendo scorrere le membra sotto il getto freddo e quieto di una cascata. Guardò la propria immagine riflessa, il braccio spezzato a metà. L’altra metà dell’arto pareva pulsare a contatto con l’aria fresca che spirava dall’altra parte.
   Fissò gli occhiali con insistenza, muovendo la mano incastrata al di là dello specchio. Il tavolo era troppo lontano e non riusciva a raggiungerlo.
   Trapassò il vetro trattenendo il respiro e una volta fuori si ritrovò in una stanza perfettamente speculare a quella da cui era giunto. Rimase a scrutare attorno in attesa di abituarsi al nuovo spazio, a ritrovare l’orientamento contaminato dalle informazioni ricevute dall’altra parte. Ogni cosa era al suo posto. Si affacciò verso le camere circostanti e vide che altrettanto in ordine erano gli oggetti sparsi in giro per la casa. Persino la macchia di vino era ancora lì, vicino al tappeto, in attesa di essere lavata via dal pavimento di marmo.
   Ad una prima occhiata quel luogo pareva essere l’esatta proiezione del proprio riflesso. Tranne che per un particolare. Platan si mise a correre verso il tavolo, non riuscendo a comprendere.
   Afferrò gli occhiali e li studiò con sguardo inquisitore mentre se li rigirava tra le dita. La montatura era consumata. Lungo la superfice, a macchie dorate ne seguivano altre scolorite, brune e corrose dal tempo. Le lenti rotonde e perfettamente circolari riflettevano con tonalità opache la sua immagine. Prese un lembo della lunga maglia e con essa spolverò i vetri, li rivolse alla luce della luna per controllare di averli puliti bene. Rimase a scrutarli ancora, silenzioso.
   Erano passati anni, troppi anni. Dovevano essere andati persi.
   Udì un mormorio acuto nelle orecchie. Istintivamente se le tappò con le mani, guardandosi attorno per capire da dove provenissero quelle voci così stridule e sgraziate. Ma non c’era nessuno nella stanza, nessuno! Era solo. Sentiva le voci nella testa. Strinse gli occhiali nel palmo della mano e si volse indietro, verso lo specchio, cercando di sfuggire a quel caos di suoni. Sgranò gli occhi quando si accorse di non essere più nell’appartamento. Dalle sue labbra serrate risuonò un mugolio inquieto.
   Aveva i piedi nudi, sporchi di terra, dei ciuffi scomposti di erba si infilavano in mezzo alle sue piccole dita tondeggianti. Provava sollievo a contatto con la frescura del prato. Sentiva le palme pulsare e i talloni dolergli. Doveva aver corso molto. Vide il nastro azzurro di un fiume che serpeggiava fra le rocce qualche metro più avanti. Vi si diresse e sedendosi sulla sponda vi immerse i piedi doloranti. Con il visetto rintanato tra le mani, osservò il proprio corpo riflesso nell’acqua. Era un corpicino sottile, dalle forme affusolate e tenere. Un corpo da bambino. Si stropicciò la punta del naso con le dita trattenendo un singhiozzo e tastò gli occhiali che aveva poggiato sulla roccia posta al suo fianco.
   Improvvisamente udì dietro di sé lo spezzarsi di un ramo nel folto della vegetazione. Scattò in piedi e indietreggiò. Voci, ancora voci. E poi centinaia, migliaia di occhi che lo scrutavano con ossessione, beffardi e insidiosi. Infilò gli occhiali che lo avrebbero protetto da quegli sguardi malevoli, che non avrebbero permesso agli altri di scavare nel profondo del suo animo, che avrebbero sbiadito ogni visione, ogni pericolo. Ma quelli si avvicinavano, si avvicinavano a passi eccessivamente rapidi, ed erano in troppi per lui che era uno solo. Indietreggiò ancora, strusciando un piede contro una roccia appuntita e ferendosi. Trattenne un grido di spasmo mordendosi le labbra, e raccogliendo tutte le forze cominciò a correre a perdifiato dall’altro lato del fiume, sforzandosi di seminare i suoi inseguitori. Scalò pareti di roccia e scivolò lungo pendii scoscesi, strisciò in mezzo ai campi ricchi di arbusti e si tuffò in ruscelli lasciandosi trascinare dalla corrente; ma quelli erano troppi, quelli erano belve. Sentiva male alle gambe per il troppo correre e si sarebbe voluto fermare a riposarsi anche solo un secondo, ma loro erano sempre a pochi passi da lui e non c’era possibilità di arrestarsi senza essere travolti dalle loro bocche, dai loro artigli. In un gesto di disperazione si fiondò verso l’entrata della foresta, ma nel farlo gli occhiali scivolarono via dal suo viso e vennero inghiottiti dalla violenza dello sciame.
   In un primo momento sentì di essersi salvato, di aver trovato un rifugio sicuro. Le belve non potevano entrare in quel luogo. Ma ben presto si accorse di aver commesso un errore, perché l’aspetto della foresta era ancora più raccapricciante e spaventoso di quanto non fossero state le loro grida. Aveva perso i suoi occhiali ed ora era costretto a fronteggiare quella visione così reale e vera del mondo che lo circondava senza potersi proteggere. Vagò a lungo a passi lenti, lo sguardo che si aggirava inquieto tra i tronchi spogli e neri in cerca di qualche pericolo. Non sapeva se fosse giorno o notte, se da quando era entrato fossero passate poche ore o innumerevoli giorni. Camminava, camminava. Dov’era l’uscita? Mentre la cercava si perdeva infinite volte. Mano a mano che il tempo passava, cominciò a perdere le speranze. Si sdraiò a terra coprendosi con una lunga foglia e si raggomitolò su sé stesso. Dormì profondamente per qualche ora, e nel momento in cui, svegliatosi, vide che era ancora nella foresta buia e che nulla era cambiato, non si contenne più e pianse.
   Il sapore delle lacrime si mischiava a quello della terra incrostata sulle sue guance. Sputò, gli disgustava. Stropicciò le mani tra i capelli mentre la gola gli bruciava e aveva sete e sapeva già che non si sarebbe potuto dissetare in quella selva magra e secca. Si tirò su spingendosi sulle braccia, la foglia che lo aveva coperto durante il sonno scivolò via dalla sua schiena. Si alzò in piedi, si calmò. Riprese a camminare in silenzio, senza crearsi aspettative su ciò che avrebbe trovato sul suo cammino. Stava scalando una grossa radice quando, inaspettatamente, vide una figura muoversi di fronte a sé, nascosta oltre una grande massa di fusti grigi e sottili. Balzò in avanti e con il cuore ricolmo di sollievo si mise a correre verso quell’ombra, le braccia protese in avanti per poterla afferrare al più presto. Non era solo, non era solo, non era solo!
   «Ehi!» gridò, cercando di attirare la sua attenzione «Ehi, tu!».
   Sussultò nel momento in cui riconobbe quella figura. Era il bambino con il fiore in mano: gli stava sorridendo. Quando fece per gettarsi tra le sue braccia, egli svanì, e si ritrovò con il volto schiacciato contro terra, gli occhi che bruciavano per il fango che vi era entrato dentro. Era stata un’illusione, allora? Un miraggio? Tremando per il dolore, aspettò che il bruciore agli occhi si alleviasse. Quando smise di lacrimare non esitò neanche un istante a rimettersi in moto. Doveva assolutamente uscire da quel luogo.
   Dopo giorni, o forse settimane, di cammino, sentì che le forze lo stavano abbandonando.
   Inciampò in un sasso e si aggrappò al tronco di un albero per non cadere. Respirava a fatica. Osservò i propri piedi sporchi e graffiati, coperti di croste e vesciche. Si chiese quanto avesse camminato in tutto quel tempo. Era stanco. Si lasciò andare lungo la corteccia e chiudendo gli occhi si accasciò fra le sue radici. Faceva freddo. Se si fosse addormentato, temeva che sarebbe morto di gelo mentre dormiva. Avvicinò le gambe al busto e le circondò con le braccia, la testa rintanata in mezzo alle ginocchia. Sospirò. Nonostante stesse combattendo con tutto sé stesso, il sonno lentamente lo stava prendendo. Si lasciò vincere senza opporre più resistenza.
   Poi, ad un tratto, uno strano calore si diffuse lungo la sua mano.
   La sentiva sghiacciarsi e un poco alla volta riprendere il controllo dei propri movimenti. Era avvolta in innumerevoli carezze offerte da delle dita sottili, morbide. Poi avvertì un telo, forse un mantello, poggiarsi sulla sua schiena, caldo e accogliente. Ricominciava a prendere colorito, a sentirsi vivo un’altra volta. Alzò la testa verso il suo salvatore e di fronte a sé vide gli occhi più azzurri, più belli e limpidi che avesse mai visto. Aumentò la stretta sulla sua mano, come per ringraziarlo. L’altro bambino si chinò su di lui, gli diede un bacio sulle labbra. Poi lo aiutò ad alzarsi e lo incoraggiò a seguirlo. Tenendosi strette le mani, cominciarono a correre in mezzo agli alberi e ai rovi, veloci e leggeri come piume. Avevano le braccia graffiate e coperte di lividi, gli abiti strappati e sporchi. Provavano dolore, ma non lo dimostravano, sfrecciavano rapidi tra le rocce alla ricerca dell’uscita.
   Ed eccola, finalmente.
   Tirato dalla mano dell’altro, Platan riuscì a vedere dopo tanto tempo i contorni del mondo esterno, a sentirne i profumi e ad ammirarne la luce. Gli parve che loro stessi fossero impregnati di quella luce.
   Con le dita incessantemente intrecciate, caddero distesi su un campo fiorito, guardandosi e sorridendosi. Un giglio sbocciava tra le loro mani.
 
 
   La pioggia pareva non voler smettere di scendere. Dentro la grotta spirava un vento freddo e fra le pareti rimbombava il mormorio lontano delle onde che si scagliavano nell’acqua di fuori. La strada per giungere a Yantaropoli era ancora lunga, così, per ripararsi dalle intemperie, avevano deciso che quella notte si sarebbero fermate nella Grotta dei Riflessi. Shana dormiva nel suo sacco a pelo, aveva un sorriso tranquillo. Serena la osservava con la schiena poggiata contro la parete di roccia. A quanto pareva, lei proprio non riusciva a prendere sonno. Alzò lo sguardò e si specchiò fra le pietre che ricoprivano il lato opposto della grotta. La sua immagine si divideva e moltiplicava all’infinito in mezzo alle sfaccettature delle rocce. Udì un tuono in lontananza. Si alzò in silenzio, e in punta di piedi, per non svegliare l’amica, si diresse verso l’uscita della caverna. Quale spettacolo la accolse non appena si affacciò! Non riuscì a trattenersi, tornò di corsa da Shana e scuotendola le chiese di alzarsi.
   «Vieni a vedere!» le disse.
   Con andatura assonnata, la ragazza la seguì, ritirò le braccia all’interno delle maniche del pigiama per non infreddolirsi. Si fermò accanto a Serena e lentamente mise a fuoco la vista.
   «Oh cielo, è meraviglioso!» esclamò una volta che vide ciò che avevano di fronte.
   Oltre la costa, la Torre Maestra si innalzava fra le onde burrascose, emergendo dalle profondità marine come una creatura fantastica. Era maestosa e invalicabile, pareva porre la propria supremazia sull’intera superficie d’acqua. Le onde erano alte, rumorose, si schiantavano contro la pietra della torre schizzandola con la loro schiuma bianca. Il mare era in tempesta, ma nemmeno unito alla forza e alla violenza della burrasca, dei tuoni e dei fulmini, poteva sovrastare l’imponenza dell’edificio.
   Le due ragazze rimasero ad osservare quello spettacolo epico sedute sul limitare della caverna.
   «Presto, Shana, entrerò lì dentro», ad un tratto Serena spezzò il silenzio «Sono sicura che ce la farò! Sì, mi impegnerò al massimo! Diventerò la nuova Sapiente della Megaevoluzione e a quel punto...».
 
 
   Richiuse lentamente la porta mentre Pyroar già tornava a stendersi sul sofà per rimettersi a sonnecchiare. Prima, tuttavia, si chinò su di lui, gli sciolse il collare dal collo e lo lasciò andare dandogli una carezza in mezzo alla criniera calda e morbida. Il Pokémon aveva imparato a diminuire la sua temperatura in modo che non si scottasse la mano. Ad un tratto Elisio lo vide tendere le orecchie e girare il muso in direzione della cucina.
   C’era odore di caffè. Platan era ancora in casa?
   Si affacciò alla porta e lo vide con la caffettiera in una mano mentre con l’altra coccolava il leone che era venuto in cerca di attenzioni. Notò che ancora non si era rivestito.
   «Pensavo che te ne saresti andato via prima. Sei ancora qui?» disse Elisio, leggermente sorpreso.
   «Me lo stai chiedendo perché ti dà fastidio?» chiese l’altro continuando a carezzare il Pokémon sotto il muso. Pyroar faceva le fusa.
   «No. Non intendevo questo», abbassò lo sguardo.
   Platan lo osservò, gli rivolse un timido sorriso. Si allontanò dal Pokémon e scostò una sedia dal tavolo, invitando l’uomo a sedersi.
   «Ho preparato un po’ di caffè. Ti va una tazza?».
   Uno di fronte all’altro, si misero a fare colazione insieme silenziosamente, come di solito facevano in quelle pigre mattine d’autunno in cui, ancora insonnoliti, inebriati dal profumo del caffè, non si rivolgevano parola. Elisio bevve un sorso della sua tazza, assaporò il liquido nero con la lingua, lentamente, poi lo mandò giù e tutto il corpo parve riscaldarsi del suo piacevole calore. Per quanto potesse essere improbabile, trovava che avesse un sapore migliore del solito. Una piccola ruga si formò sullo spigolo della sua bocca: quella mattina il caffè aveva il sapore di affetto. O forse era il suo animo ad essersi addolcito? Innegabilmente, comunque stessero le cose, si sentiva davvero di buon umore. Alzò lo sguardo su Platan e lo vide stropicciarsi un occhio.
   «Mi mancava», gli disse.
   «Che cosa?».
   «Vedere la tua faccia assonnata a questo tavolo la mattina. Mi piaceva cominciare la giornata con questa immagine di te. Lo trovavo rassicurante. Mi faceva tenerezza».
   Sfumature rosee si fecero più accese sulle guance del Professore. Annuì, si portò la tazza alle labbra e bevve.
   «Onestamente, anche a me mancava fare colazione insieme», confessò ad un tratto «Allora? Sei riuscito a risolvere il problema?».
   «Non ancora. Abbiamo cercato di azionare le pietre che abbiamo preso lungo il Percorso 10, ma ogni volta che ci proviamo emettono una qualche forza che blocca i nostri strumenti e ci impedisce di monitorarle. La situazione è molto più complessa di quanto mi ero aspettato. Ho tentato di tutto, ma è un vero grattacapo, non riesco a venirne a monte. Non guardarmi in quel modo, so che ne sai molto più di noi, ma non ho alcuna intenzione di chiederti informazioni, Platan. Te lo assicuro».
   Il Professore fece un cenno con la testa, si alzò dal tavolo per sciacquare la tazza nel lavandino.
   «Ho dato una sistemata a quella macchia, prima».
   «Quella in salotto, dici? Ti ringrazio, ma non dovevi. Ci avrei pensato io più tardi».
   «Ci ho messo un po’ di acqua ossigenata, non toccare nulla e lascia agire, dovrebbero togliersi quasi tutti i resti. Di solito funziona. Fai attenzione che Pyroar e gli altri non ci si avvicinino».
   Prese un panno e asciugò la ceramica.
   «Platan, non hai freddo così?» gli chiese Elisio ad un tratto, osservando il modo in cui si stringeva in se stesso per riscaldarsi «Il tempo è diventato davvero matto, non hai ancora sentito che vento c’è fuori, peggio di ieri sera. Aspettami, ti prendo la mantella. Sarà meglio coprirti quella spalla, non vorrei che ti raffreddassi».
   «Smettila di preoccuparti, sto bene...» ma non ebbe il tempo di finire che si ritrovò avvolto nella lana rossa che profumava di bosco e di fiori. Incontrò gli occhi di Elisio, ed erano i più azzurri, i più belli e limpidi che avesse mai visto. Si commosse, così, all’improvviso, ricordando quel sogno che forse non era un sogno, che forse era realtà o solamente una meravigliosa illusione. Le mani di Elisio trasmettevano un calore dolcissimo, e il suo viso, illuminato dalla luce del primo mattino che si riversava dalla finestra, da quello di bambino si trasformava in quello di un uomo maturo e forte. Era lui, il suo salvatore, cercato per così lungo tempo. Il destino li aveva uniti un’altra volta. C’era tanto amore nel suo sguardo, tanta speranza, tanta fiducia. Poggiò la testa sul suo petto ampio, sentì le sue dita accarezzarlo piano, affettuose e delicate.
   Come poteva essere realtà? Come poteva essere un sogno?
   Ancora una volta non sapeva più cosa pensare. Si lasciò andare fra le braccia del suo uomo, sprofondò nel suo odore, nel suo calore. Poggiò le mani sui suoi fianchi, le fece scorrere fin sul petto, come se avesse bisogno di tastarlo, di sentirlo sotto le dita e avere la prova che esistesse. Il suo cuore batteva, era vivo. Ma che significato aveva la vita? Che significato aveva il loro destino, il loro incontro? Era davvero stato voluto dal fato? Perché?
   Elisio passava piano le dita tra i suoi capelli, e Platan aveva dimenticato quanto dolce fosse la sensazione di sentire le sue mani scivolare in mezzo a quei boccoli. Pareva tutto così normale e immobile, in quell'istante. C'erano solo loro nell'universo, solo loro uniti in un abbraccio, e l'eternità impregnata in esso si diramava dai loro cuori. L'eternità. Ma che cos'era l'eternità?
   «È arrivato il momento per me di fiorire», sussurrò immerso nei pensieri, crogiolato in quell'emozione vaga e infinita che provava nel sentire il respiro dell'uomo sulla propria guancia, nel sentire il suo corpo così vicino al proprio, le loro anime unite indissolubilmente.
   Si riscosse violentemente nel momento in cui avvertì le sue mani stringere le proprie.
   Che sciocchezza!, pensò, che assurdità lasciarsi contagiare da simili illusioni...
   «Sarà meglio che vada», disse allontanando bruscamente le dita «Devo ancora passare da Diantha a riprendere la macchina e tutto il resto. Se non vado subito farò tardi al lavoro».
   «E pensare che sei così geloso della tua macchina...» ridacchiò mentre lo vedeva correre via.
   «Beh, ma non potevo mica lasciarla lì in quel modo, povera Diantha! Come tornava a casa sennò? È tutta colpa tua, Elisio!» gli gridò dalla stanza da letto.
   Platan si cambiò, rimise addosso i vestiti della festa. Si diede una sciacquata al viso, si lavò i denti, si pettinò con cura. Si fermò in salotto di fronte al pianoforte. La luce del sole rischiarava quella stanza e le dava vita, ogni oggetto acquistava una tonalità particolare. Osservò i tasti dello strumento e provò a suonare qualche nota. Di pianoforte non ne sapeva molto, mentre Elisio ne era un vero appassionato. Non mancava mai di suonargli qualcosa quando trascorrevano del tempo insieme a casa sua. L’unico strumento che Platan aveva imparato a maneggiare in maniera decente era la chitarra: sembrava che le ragazze di Sinnoh avessero un debole per i giovani chitarristi in erba. Ancora ricordava gli accordi della Canzone del Solrock che gli aveva insegnato il Professor Rowan. Se non riusciva a tenersi in piedi su un paio di pattini, doveva pur trovare qualcosa d’interessante che lo aiutasse a far colpo su quelle giovani carinissime che giravano per Sabbiafine!, si era detto. Vide Elisio affacciarsi e poggiarsi al muro per ascoltarlo. Lo stava osservando con le braccia conserte. Sorrideva.
   «Non è proprio il massimo», ammise Platan smettendo di suonare.
   «Credo proprio di no», lo prese in giro «In effetti è terribile», una leggera risata gli illuminò il viso.
   «Sei più passato a comprare quegli spartiti che ti interessavano?» chiese avvicinandosi a lui.
   «No. Non ne ho avuto il tempo. E tu? I tuoi dischi?».
   Il Professore scosse la testa in segno negativo. A quel punto a Elisio parve venire in mente un’idea, ma Platan sembrava aver già capito tutto: sorrideva aspettando che glielo chiedesse.
   «Che ne dici se oggi pomeriggio andiamo insieme in quel negozio di musica vicino Piazza Rossa? Io potrei comprare i miei spartiti, mentre tu potresti cercare qualche disco».
   «Oggi pomeriggio sono abbastanza impegnato, perciò non sono sicuro di poter accettare. Vedrò che cosa posso fare», rispose, nella sua voce c'era tenerezza. Si diresse all’ingresso e si sistemò meglio la giacca nera elegante osservandosi nello specchio del cassettone.
   «Stasera mi hai dato molto da pensare, Elisio», gli disse prima di uscire «Immagino che adesso dovrò fare un po’ di ordine fra le mie idee. Sono abbastanza confuso. Ci sono tante cose che ancora non capisco».
   «Mi dispiace di averti rivelato tutte quelle cose. Forse ho osato troppo».
   «No, non ti preoccupare. Sono contento che tu me le abbia dette. Dopotutto, l’hai fatto per il mio bene, no? Per il nostro bene».
   Si guardarono per qualche attimo. Platan mise mano alla maniglia e se ne andò.
   «Au revoir».



***
Angolo del francese.
     * Au revoir = Arrivederci .




 


Eccoci qua con la seconda parte. Il diciannovesimio capitolo è finito, spero tanto vi sia piaciuto!
Ciò che Platan vede nel sogno è l'insieme di tutto ciò che lui ha provato quel giorno, tanto tempo fa, un po' macchiato dalle ultime esperienze che ha vissuto. Era un punto molto molto importante, quindi, e non vedevo l'ora di farvelo leggere! La foresta in cui si smarrisce e quella in cui si trova l'albero in mezzo al burrone sono due posti diversi, diciamo che il primo è un luogo più spirituale che reale, non esiste in forma corporea, mentre l'altro sì. Vi ricordate? Già lo avevamo intravisto nel capitolo 7 quando abbiamo scoperto il legame tra Gible e il nostro caro Professore alle prese con i suoi primi giri alla ricerca di nuovi Pokémon.
Io ho un headcanon secondo cui Acromio e Platan in passato potrebbero essersi incontrati e aver lavorato insieme. Chissà, forse ciò che Acromio intendeva con lo scoprire "la vera forza dei Pokémon" era proprio la Megaevoluzione? C'è un montanaro sulla Strada dei Menhir che dice che un tipo di nome Acromio una volta gli ha detto che le pietre lungo il percorso emettono una strana energia... Quanto mi piace lavorare di fantasia! c:
  
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