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Autore: Adeia Di Elferas    26/08/2015    7 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 “Quella cagna di una Gonzaga non ha ancora capito che con gli Sforza non si scherza!” urlò Galeazzo Maria, picchiando il pugno sul tavolo, mentre Cicco Simonetta stringeva al petto la sua solita cartella di pelle.
 “Vi prego di valutare la situazione, se noi potes...” cominciò Simonetta, ma il Duca lo zittì immediatamente.
 “Valutare un corno! Se pensa di poter fare quello che le pare si sbaglia di grosso! Questo è l'ultimo avvertimento! Sua figlia sposerà quel pescivendolo ripulito, il papa avrà quello che vuole e noi avremo salvo il casato e il Ducato!” ululò Galeazzo Maria, il volto stravolto dalla rabbia.
 Erano giorni che il cattivo umore lo rincorreva come un cane rabbioso, facendolo eccedere in attività che lui stesso disprezzava, ma dalle quali non riusciva a rifuggire quando era in collera.
 Si lasciava andare a torture e atti orribili, a volte tanto indicibili che perfino lui non ne voleva più parlare, una volta sfogato il primordiale istinto.
 Se ripensava a quel ragazzo che aveva fatto seppellire vivo e alle urla della madre, costretta ad assistere al supplizio del figlio...
 E la colpa era solo di quell'oca da cortile di Gabriella Gonzaga, che continuava a tergiversare e ritrattare senza motivo!
 Galeazzo Maria doveva convivere con la doppiezza della propria natura, doveva fronteggiare la brutalità e gli scempi di cui era capace solo perché quella stupida donna non voleva piegare il capo di fronte al suo sacro dovere di sacrificare la figlia per il bene dei suoi parenti?
 “Simonetta.” disse piccato il Duca, cercando di tornare in sé, con scarso successo: “Questa è l'ultima possibilità che daremo a quella... A Gabriella Gonzaga.” concluse, reprimendo ogni turpiloquio, per dimostrare la sua forza d'animo.
 “Il problema risiede nelle richieste avanzate dal futuro sposo...” fece notare Cicco Simonetta: “Egli infatti non vuole dover attendere la maggiore età della fanciulla per...”
 “Ma non scherziamo.” lo fece tacere Galeazzo Maria: “Di certo vorrà rispettare le leggi difese da suo zio, no? A che serve essere parenti di un papa e di un cardinale se poi...”
 “Credo che Riario tema che una volta fatte le nozze, insomma, nel tempo trascorso tra la cerimonia e la legittimazione del suo status di marito, ecco, teme che gli Sforza trovino qualche pretesto per tirarsi indietro. E comunque è stato categorico.” disse rapidamente Cicco Simonetta, sperando di non aizzare di nuovo il Duca.
 “E allora che a quel maledetto Riario sia dato quello che vuole.” continuò il Duca: “E che diamine, la figlia di Gabriella avrà già dodici o tredici anni...”
 “Undici.” lo corresse Cicco.
 “Quello che è.” tagliò corto Galeazzo Maria: “Insomma, è l'unica che possa andare bene per questo matrimonio e a noi serve qualcuno imparentato con gli Sforza per mettere a tacere tutto l'incidente di Imola ed evitare la fine. Lei è l'unica disponibile, che la Gonzaga se ne faccia una ragione.”   
 “Non è proprio l'unica...” osò insinuare Cicco Simonetta, pentendosi subito della libertà che si era preso.
 “Al momento è l'unica!” sbraitò Galeazzo Maria, saltando in piedi, rifiutandosi anche solo di prendere in considerazione l'alternativa: “E ora levati dalle scatole, se non vuoi finire appeso per i piedi nelle segrete!”
 Cicco Simonetta chinò il capo, ma la sua espressione lasciava trasparire tutta la sua perplessità.

 Caterina stava rincorrendo una gallina che, scappata dal pollaio, aveva ben pensato di avventurarsi nelle stanze del palazzo di Porta Giovia.
 Per quanto la pennuta fosse grassa e impacciata, la bambina non era ancora riuscita a catturarla. Sentiva nelle orecchie la voce del maestro d'armi che le diceva quanto quegli animali riuscissero a essere veloci, quando non volevano lasciarsi acciuffare. Sapeva che se fosse riuscita a recuperarla, avrebbe potuto vantarsi della sua prodezza e ricevere anche qualche lode.
 Che ci fosse una gallina in libertà nel palazzo del Duca di Milano, non era di per sé una grande stranezza. Gli Sforza avevano mantenuto una certa rusticità, che li aveva resi oggetto di commenti anche abbastanza cattivi, soprattutto da parte degli stranieri, che li accusavano di aver nel sangue quel pragmatismo e lo strano vezzo contadino di vivere a stretto contatto con gli animali che era tipico della gente lombarda.
 Benché gli abitanti di quella fortezza facente funzione di reggia amassero quel tipo di vita, ogni tanto c'era qualche inconveniente. Come una gallina che correva nei corridoi.
 La porta davanti alla quale stava razzolando la pennuta si aprì di colpo, spaventando l'animale e permettendo, finalmente, a Caterina di recuperarla.
 Ancora felice della propria impresa, Caterina quasi non vide il cancelliere Cicco Simonetta che usciva con passo rapido dalla porta che si era appena aperta.
 Dopo essersela chiusa alle spalle, l'uomo notò la bambina, scapigliata, vestita da maschio e con una gallina tra le mani. I suoi occhi si strinsero in un'espressione che Caterina trovò ripugnante.
 “Rimpiango molto i tempi in cui erano i tuoi nonni a governare Milano.” disse Cicco Simonetta, a mezza bocca, stringendo al petto la cartella di cuoio e voltandole subito le spalle, per ricominciare a camminare spedito, allontanandosi sempre di più.
 La bambina non sapeva come prendere quella frase, ed era ancora lì, con la sua benedetta gallina tra le mani, quando la porta si aprì di nuovo.
“Caterina...” fece Galeazzo Maria, appena vide la figlia. In altre occasioni avrebbe chiesto che diamine ci faceva con quel pennuto in braccio, ma la spiacevolissima conversazione che aveva appena avuto con quell'idiota pomposo di Cicco Simonetta l'aveva un po' confuso.
 Caterina salutò il padre con un sorriso, che però l'uomo non riuscì a ricambiare, corroso com'era dalla preoccupazione.
 Il vedersi comparire di fronte agli occhi la sua figlia prediletta proprio in quel momento gli era parso un pessimo presagio, come se la vittima sacrificale si fosse volontariamente consegnata al carnefice.
 “Caterina, ascolta – cominciò, con la voce fredda e distaccata – ti andrebbe una battuta da caccia?” propose.
 Gli pareva che, offrendole qualcosa che di certo avrebbe gradito, la bambina non avrebbe fatto troppo caso al suo cattivo umore.
 Si sbagliava.
 Caterina lo fissò a lungo, pensando che a quella promessa avrebbe preferito un rimbrotto per via della gallina che aveva appena sporcato in terra schizzandole pure le calzature, o un sorriso pieno, uno di quei sorrisi dolci che così di rado Galeazzo Maria si lasciava sfuggire.
 “Certo.” annuì alla fine, convinta che una battuta di caccia era meglio di niente e che, magari, se fosse riuscita a restare sola con lui, avrebbe potuto avere quel poco di attenzione e affetto che tanto desiderava.
 “Bene. Ne parlerò coi cacciatori e ti farò sapere quando usciremo.” disse il Duca, dando una veloce pacca sulla schiena alla figlia: “E riporta quella gallina dove l'hai trovata.”
 Rincuorata da quell'ultimo sprazzo di suo padre, Caterina si affrettò a correre verso i pollai.
 Galeazzo Maria ne seguì il profilo fino a che non la vide scomparire. Gli doleva il petto al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere, se Gabriella non avesse infine ceduto ed avesse invocato l'aiuto della sua famiglia d'origine...
 I Gonzaga, che spina nel fianco.
 Anche la testa gli faceva male, pulsava irrefrenabile e sentiva di nuovo quel fuoco avvampargli nelle viscere.
 Doveva far qualcosa per distrarsi, se non voleva ritrovarsi come sempre a indugiare nei più tetri e macabri passatempi.
 La palla, avrebbe giocato per un po' a palla.
 Cercando di spostare i pensieri lontano dai Gonzaga, dai Riario e soprattutto da papa Sisto IV, che tanto sembrava desideroso di affrancare i nipoti dal titolo di pescivendoli ripuliti, si diresse verso la sala del gioco della palla.
 Chiunque l'avesse visto in quel momento avrebbe faticato a riconoscerlo: le gambe scattanti e giovani incerte come quelle di un malato, il busto muscoloso e affusolato piegato come quello di un vecchio, e le mani forti torte e portate al petto, come quelle di un penitente.

   
 
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