Point of no return
«Ti ringrazio, maestro, so che
stai facendo tutto il possibile per il mio amato marito» disse Lysa, e con un
rapido gesto comunicò a Pycelle che era congedato. Si voltò nuovamente a
guardare il moribondo che giaceva sul grande letto a baldacchino. Ogni giorno
era sempre più debole, sempre più stanco. La vita lo stava abbandonando e
stranamente Lysa si sentiva impaurita. Era quello che aveva sempre voluto,
presto sarebbe stata libera, presto sarebbe stata con lui, eppure quella punta di timore che già da subito si era fatta
strada nel suo animo, ora era diventata cieco terrore.
Decise di tornare nelle
proprie stanze; era tempo di scrivere quella lettera.
Quando Jon aveva mostrato i primi segni
della malattia, Lysa aveva relegato suo figlio nelle proprie stanze, per
proteggerlo dal contagio: tutti dovevano credere che si trattasse di un male
sconosciuto e una buona madre non avrebbe mai esposto la sua fragile creatura
ai miasmi mefitici che si respiravano in quella camera, dove le imposte serrate
trattenevano i vapori di strane pozioni, gli umori malsani ammorbavano l’aria, e,
sopra tutto questo, aleggiava il lezzo pungente della morte: Jon Arryn stava
lasciando questo mondo.
Ma non era abbastanza, aveva
detto Petyr, era essenziale che i Lannister fossero accusati della morte del
Primo Cavaliere. Lysa non ne capiva la ragione: perché gettare ombre e
sospetti? Qualcuno avrebbe indagato, qualcuno avrebbe potuto scoprire la verità!
Ma Petyr le aveva assicurato che nessuno l’avrebbe mai ritenuta colpevole, non
se avesse scritto quella lettera, così perfetta, così innocentemente
realistica.
Prese pergamena e inchiostro.
Petyr aveva avuto ragione su Jon, aveva sempre avuto ragione su ogni cosa.
Questa volta non avrebbe fatto eccezione.
Il luogo senza animali era
come da bambine chiamavano il Nido dell’Aquila, perché è talmente in alto che
soltanto gli uomini e le aquile ne hanno fatto la propria la dimora. Quanto si
erano divertite con quel gioco sciocco! Lei, Petyr e Catelyn si arrampicavano
sul più alto albero del Parco degli Dèi e, a turno, impersonavano l’algido signore
delle aquile: chi raggiungeva la cima per primo aveva diritto a chiedere
qualsiasi cosa al signore, anche a prenderne il posto, perché la Valle non era
mai stata espugnata; ma quando Petyr vinceva, e quasi sempre vinceva lui,
chiedeva ogni volta una e una sola cosa: un bacio.
Vermiglio invece, era il più
minuto dei cavalli delle stalle del lord loro padre, più simile a un pony in
effetti, chiamato così perché era interamente bianco a parte una voglia
vermiglio sulla groppa.
Ricordò che alcune servette dicevano
che in quel punto lady Bethany aveva sanguinato per la prima volta, scherzando
che, alla fine, Delta della Acque si era presa la verginità della promessa
sposa di ser Brynden. E proprio da quel cavallo, Catelyn aveva preso il
soprannome per Robin quando l’aveva visto per la prima volta: una cosina piccola
piccola, tutta rosea, con una piccola voglia rossa sulla pancia.
La bestia dorata invece era
come lord Hoster definiva lord Tywin.
Sigillò la lettera e la ripose
nel suo piccolo porta gioie. Sarebbe stato più prudente inviarla una volta
raggiunta la Valle.
Improvvisamente le pareti
della stanza si erano fatte opprimenti, ma non osava lasciarle. Fuori c’era la
morte, c’era il pericolo.
Voleva andare da suo figlio,
ma non voleva turbarlo con le sue paure; Robin era straordinariamente
intelligente, riusciva a comprendere subito il suo stato d’animo, prima ancora
che lei proferisse parola, e subito dopo iniziava a tremare. No, non era il
caso, prima doveva calmarsi.
Voleva andare da Petyr, ma lui
le aveva detto che sarebbe stato meglio non farsi vedere insieme, almeno per il
momento.
Fu assalita da un nuovo attacco di panico: non poteva farcela, non era quello il suo mondo. E presto non ci
sarebbe più stato Jon a proteggerla. Che cosa aveva fatto? “Stupida, Jon non è
più in grado di proteggere chiunque da molto tempo” si disse.
Si alzò, cominciando a passeggiare
su e giù per la camera che ad ogni passo diventata più piccola, più soffocante.
“Sta calma, Lysa” si disse “Petyr ti ama, sa quello che è meglio per te”. Era
vero, Petyr l’amava, l’aveva sempre amata.
Lord Hoster le aveva proibito
di far visita a Petyr, ma lei aveva disubbidito. Si era infilata un vecchio
abito, di un azzurro cupo che alla tremolante luce delle torce appariva grigio.
Con un leggero velo sulla testa, il capo chino e un piatto di calda zuppa presa
dalle cucine, era passata davanti alle guardie pressoché inosservata. Lo
stupore di Petyr nel vederla era stato totale. Catelyn, la fanciulla per la
quale si era battuto, per la quale aveva perso tutto, non si era fatta vedere,
ma Lysa era lì, invece. Ricordava ancora le parole cariche di amore che gli
aveva rivolto, e Petyr le aveva sorriso, per la prima volta con quel suo
sorriso speciale, che l’aveva fatta sentire nuda, deliziosamente vulnerabile. Lui
era ancora provato dalla convalescenza, aveva bisogno di rimettersi in forze,
eppure non aveva neanche guardato il piatto fumante, perché l’unico
ricostituente di cui aveva bisogno era proprio lei. Con lentezza esasperante le
aveva slacciato il vestito, poi si era liberato delle sue malconce brache ed
erano rimasti così, nudi, a contemplare l’uno il corpo dell’altra per un tempo
che le era parso infinito. Poi Petyr l’aveva presa tra le braccia,
sussurrandole all’orecchio se ne fosse sicura, e lei aveva annuito con
decisione: non avrebbe voluto trovarsi in nessun altro luogo. Lui aveva
sorriso, aveva appoggiato il suo petto sui suoi già ben formati seni e aveva
colto il suo fiore. Non aveva mai provato niente di simile. Prima una stilettata
di dolore le aveva trafitto il ventre, ma si era trattato di un momento, un
dolcissimo istante che preludeva a quello che ci sarebbe stato dopo, che ne
esaltava il piacere. Lui era esperto, sapeva cosa toccare e come toccarlo; le
aveva accarezzato i capezzoli, li aveva succhiati, l’aveva baciata ovunque, la
bocca, il collo, il ventre, in mezzo alle cosce e lì, anche se il sangue aveva
lasciato dita purpuree sulla sua candida pelle, macchiando le lenzuola. Non
avrebbe mai immaginato che il suo corpo potesse celare così tanti piaceri. Era
stata una notte magica, anche se poi Petyr aveva sussurrato il nome di sua
sorella. Lui il giorno dopo si era scusato, dicendo che l’unica cosa che ricordava
di quella notte non erano gli appellativi bisbigliati, ma lei, Lysa. E tanto le
era bastato per credergli, in fondo era lei che Petyr aveva posseduto, lei e non Catelyn. Che la sua sorellina
si tenesse pure quel suo lupo del Nord e divenisse la signora delle nevi e dei
ghiacci; Lysa avrebbe avuto il sole, il verde della natura e il tepore del sud,
ma, soprattutto, avrebbe avuto Petyr tutto per sé.
A quella visita ne erano
seguite altre, e, man mano che Petyr ritrovava le forze, la sua passione
diveniva sempre più travolgente. Una notte, mentre gli accarezzava la cicatrice
che gli solcava il petto, Lysa aveva espresso il desiderio di restare chiusi lì
dentro per sempre. Erano giorni che Petyr si era completamente rimesso, ma lui
fingeva ancora di essere troppo debole per mettersi in viaggio. Fingeva per
rimanere, fingeva per lei. Lysa aveva condiviso con lui i suoi sogni quella
notte e lui le aveva sorriso, credendo per un istante che quelle fantasie
potessero diventare realtà; avevano persino escogitato un piano che permettesse
loro di stare insieme per sempre. Ma il mattino dopo lord Hoster in persona
aveva fatto visita al suo ex protetto, e aveva scoperto l’inganno. Le visite
notturne erano cessate e una settimana dopo Petyr aveva lasciato le alte mura
di Delta delle Acque per non farvi più ritorno.
Ma avrebbero pagato, avrebbero
pagato tutti: suo padre, sua sorella e chiunque si fosse frapposto tra lei e il
suo amato.
«Mia lady» disse finalmente «Il
Primo Cavaliere, lord Arryn» si schiarì la voce, mentre Lysa si era protesa
verso di lui, pendendo letteralmente dalle labbra tremolanti del maestro «Il
lord tuo marito, mi dispiace, lui non è più» annunciò con un filo di voce;
sembrava sinceramente rattristato, o forse era dovuto solo alla sua espressione
perennemente sofferente. Tutti i dubbi e le paure di Lysa svanirono all’istante,
mentre ripeteva mentalmente le parole che aveva appena udito “Non è più, Jon è
andato, è morto, MORTO!”. Il suo cuore esultava, ma il suo volto era l'autentica immagine della vedova in lutto. Una perfetta lacrima le scivolò sulla guancia
liscia. Era un’attrice anche lei, aveva imparato dal maestro assoluto e aveva
fatto pratica in quel covo di guitti ben vestiti.
«Vorrei stare un po’ da sola,
maestro» Pycelle annuì e lentamente lasciò la stanza. Quando fu sicura di
essere sola, una risata liberatoria le sfuggì tra le labbra, cominciò a
piangere, a ridere, a urlare, le mani tremavano, le gambe cedettero; si lasciò
andare contro il muro, fino a sedersi sul pavimento. Era felice, era libera,
era dannatamente euforica: aveva fatto tutto lei, proprio lei, la fragile
ragazzina che tutti avevano sempre sottovalutato, la seconda figlia di lord
Hoster, la piccola lucciola investita dal sole splendente che era Catelyn. Lei,
Lysa Tully, aveva ucciso suo marito, il lord della Valle, il protettore dell’Est,
il Primo Cavaliere del Re, il secondo uomo più potente dei Sette Regni! Lei, la
piccola, timida Lysa! Rise e pianse, si sdraiò sulla fredda pietra del
pavimento, scalciando i preziosi tappeti di Myr, stracciando le sue ricche
vesti, strappando quelle fastidiose pietre che portava intorno al collo, alle
dita, tra i capelli. Rimase lì, nuda e tremante, scossa dai brividi, come
capitava a volte al suo piccolo Robin. Robin, che ne era stato di lui? Sapeva
che suo padre era morto? Avrebbe dovuto dirglielo lei. E Petyr? Oh dov’era
Petyr, quando si sarebbero sposati? Aveva bisogno di un nuovo abito, quello che
aveva indossato al suo matrimonio con Jon era troppo semplice, adatto a una
fanciulla, non a una donna del suo rango. E Jon? Che ne era stato del suo
povero marito, morto perché lord Tywin l’aveva convinto a vendergli il suo
unico figlio? C’erano così tante cose da fare, così tante persone avevano
bisogno di lei adesso.
Il mattino seguente Lysa era
già in marcia verso il Nido dell’Aquila con tutto il suo seguito, lasciandosi alle spalle la capitale e i suoi
peccati.