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Autore: Comatose_    26/08/2015    1 recensioni
Qualche tempo dopo, rintanata in casa da quell’avvenimento, decisi che il momento di riprovare quella scuola era arrivato. Dopo aver passato un periodo di stallo tra la vegetazione e la voglia di morire, giustamente pensavo fosse giunto il momento di arricchire il mio curriculum vitae e far sì che nelle possibili opportunità lavorative che mi si sarebbero presentate, non sarebbe in alcun modo uscita la voce “mantenuta, scansafatiche e nullafacente a tempo pieno”.
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Dopo anni ho deciso di ripubblicare una fanfiction, da un altro account, con pochi capitoli, magari scritta male BUT WHO CARES.
Hope you like it, people!
Genere: Avventura, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo Personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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[2]
Come dimostrarsi miserabile difronte a Maestri D'Armi ed Armi




“Non fraintendermi. Nel corso di recupero, appunto, si recuperano cose che durante le lezioni sono sfuggite. E, Catherine, sei arrivata alla metà di un anno scolastico, senza sapere cosa tu sappia fare, in una scuola dove c’è bisogno di sapere sempre cosa fare e cosa si è capaci di fare. Perciò, parteciperai al corso di recupero.”
Girò ancora la vite, guardandomi negli occhi.
Io, dal mio canto, capii perfettamente il discorso. Anche se forse era lui a non aver idea di cosa stesse dicendo.
Mi diede le date e gli orari.
Preferii acconsentire, per non dare nell’occhio e non far partire voci strane.
Stain, così era il suo nome, mi congedò. Con un piccolo inchino, un sorriso ed un “grazie”, uscii.
Una volta fuori, sentii soltanto l’uomo sospirare ed accasciarsi sulla sedia, con uno scricchiolio inquietante.
Per evitare di pensarci , decisi di agire come mai avrei immaginato di fare.
“Soul! Maka!”, li chiamai e corsi verso di loro. Una distrazione, è pur sempre tale.
“Oi, Cath!”, mi salutò l’albino. Maka si limitò ad un mugolio.
“Che si fa oooggi?”, sorrisi, giocando col piercing destro.
La biondina parve quasi sorpresa, sorrise appena e mi guidò, accompagnata da Soul, verso casa loro.
Stranamente, prevedevo di divertirmi.
 
“Corsi di recupero?”, chiese stranamente serio.
“Corsi di recupero –asserì l’altro-, abbiamo bisogno di scoprire cosa sappia fare.”
Mentre prima gli stava dando le spalle, Shinigami si voltò verso Stain. Preoccupato? Disorientato? Nemmeno lui sapeva come sentirsi.
“Pensi che sia una buona idea?”, gli chiese, scettico.
Stain girò un paio di volte la vite sulla tempia prima di rispondere.
“Penso sia opportuno per tenerla d’occhio. E’ pur sempre sua figlia.”.
Il dio gli schioccò un’occhiata che non ammetteva repliche.
“Mi scusi.”, interruppe lo sguardo con i fori della maschera di Shinigami, guardando alla sua destra “Volevo dire, Shinigami, ho la situazione sotto controllo.”
Sistemò gli occhiali sul naso, lasciando che la luce riflessa in essi rendesse visibili i suoi occhi poco o nulla.
“D’accordo, Stain. Sii cauto.”, si voltò di nuovo verso lo specchio ad osservare la ragazza e gli amici.
Sospirò quando il meister uscì, un “arrivederci” appena accennato.
Sapeva che l’avvento di Catherine sarebbe stato portatore di guai, ma il fato aveva deciso così.
Abbassò la maschera, passandosi una mano in viso.
Oh, Dio.
 
 
Death City, Arizona, 2006
Un solo pensiero nella testa. Un solo, bacato pensiero.
Il respiro veloce, spezzato da qualche inciampo dovuto alla fretta.
Strinse il pargolo a sé, quasi fosse qualcosa di così prezioso da dover essere protetto in qualunque circostanza.
Sì, doveva arrivare velocemente alla casa. E non poteva permettersi ritardi.
Il portale stava per chiudersi.
Girò lo sguardo e quel che vide fu solo fuoco.
Tanto fuoco, tanta disgrazia. Morte.
Corrucciò il viso in un’espressione indecifrabile. Tanto storpia quanto malata.
Ma non interruppe la sua corsa. Non poteva.
Dall’enorme bolla sulla Shibusen provenivano rumori di ogni genere. Non osava immaginare cosa stesse succedendo a quei ragazzi.
Ma quel pargolo non poteva restare lì. La follia del Kishin era troppa.
Arrivò all’edificio. Era distrutto, disastrato.
La potenza del portale stava manifestandosi. E questo non doveva accadere.
Solo un sacrificio avrebbe portato la pace, secondo il Libro di Eibon.
Qual miglior sacrificio, orsù, se non il suo stesso figlio?
Medusa scoprì il suo volto dal cappuccio di stoffa nera, salendo le scale all’interno del cadente loco.
Arrivò lì. Il portale. Il tanto esasperato portale.
Portò una mano a carezzare la guancia del pargolo, ignorando le sue furenti urla. Sorrise, piano.
“Dormi, presto non avrai bisogno di queste inutili urla.”
Il fascio di coperte stoppò i lamenti, guardando la donna negli occhi.
Non poteva immaginare cosa stesse per succedere.
Medusa guardò il portale. Un enorme, gigantesco buco nero.
Sprigionava un’ingente quantità di follia. Sentiva l’aura nera che lo contornava tirarla al suo interno.
Sentiva di dover andare.
Rinsavì, ridendo.
“Non è il mio turno.”
Il pargolo, or ora, stava fluttuando davanti alla sottile figura della donna. Continuò a ridere.
“Il tempo è la chiave. Il tempo.
In un lampo scuro, la cui forza d’impatto scaraventò via la strega, il pargolo fu trascinato all’interno del portale.
“Qual miglior sacrificio”, pensò Medusa, alzandosi e calando il cappuccio, “se non il figlio di Eibon?”
Il portale scomparve, lasciando dietro sé niente se non rovine.
La strega scese le scale, riprendendo la sua corsa.

 


Death City, Arizona, 2009
Non si sa come, non si sa perché, ma eravamo tutti finiti a giocare a Monopoly.
E mi stavo perfino divertendo!
Ero in coppia con Kid, il che comportava dover tirare i dadi in un preciso luogo e con la velocità esattamente pari. Altrimenti finiva male.
Ma a parte questo, era una bella situazione.
Almeno finché Black Star non saltò sul tavolo, urlando cose sconnesse e facendo cadere il gioco dal tavolo.
Mi alzai, tirandolo giù ed urlando “EHI CRETINO”
Mi guardò sbigottito, poi ghignò.
“Cos’è? MI STAI SFIDANDO, PER CASO?”, si drizzò in piedi, indicandosi col pollice.
Avvampai dal nervosismo.
“AAAAH.”, gridò “O HAI PAUURA?”, sghignazzò.
Nella mia testa schioccò non so quale meccanismo strano, fatto sta che gli urlai di rimando –ed io non urlo mai- “VEDIAMO CHE SAI FARE, CAZZONE!”
I presenti, dal loro canto, non parvero stupiti o altro per Black Star, ma guardavano me, incuriositi.
Curiosi di cosa, non lo capirò mai.
Cinque minuti dopo eravamo al campo di basket, uno difronte all’altro.
“Tsubaki!”, chiamò, “Modalità shuriken!”
Tsubaki provò, povera ragazza, a farfugliare qualcosa come “ehi cretino, Catherine non ha una cazzo di arma”, in termini più gentili.
Ma inutile palesarvi che fu inutile.
Così mi ritrovai a schivare uno shuriken grande quanto me rotolando per terra come un ciccione.
Righiai quando, tornando indietro, l’arma mi stracciò parte della felpa.
“Tsubaki, MODALITA’ KUSARIGAMA!”
Velocissimo, iniziò a correre verso di me.
Dalla posizione di difesa che avevo assunto, mi preparai a saltare, superando la sua corsa e atterrando dietro di lui.
Appena si voltò per colpirmi con un falcetto, velocissimo, mi abbassai e gli afferrai una caviglia con la mano.
Semplicemente, lo tirai e lui scivolò a terra.
Il gruppetto, che osservava la scena dalle panchine, rise.
Black Star diventò paonazzo dalla rabbia.
Si alzò e scomparse nel nulla.
Fui tanto confusa quanto stupita, ma cercai di non perdere la concentrazione.
Optai per quel che sapevo fare meglio. Meditare.
Velocemente, levai la felpa e della manica stracciata feci una benda.
Non posso vederlo, ma posso sentirlo.
Detto fatto, appena fui sicura di aver rintracciato la sua anima, sferrai un pugno.
Lo sentii gemere, così levai la benda improvvisata.
Quel che vidi fu Tsubaki che reggeva il suo zigomo, dolorante.
Non capii cosa stesse succedendo finché Star non mi colpì da dietro con l’onda d’urto della sua anima.
In un momento tutto il suo cazzo di ego, tutta quella superbia mi fu chiara.
Venni scaraventata dall’altra parte del campo, contro il palo del canestro.
Considerai l’idea che qualche costola mi era partita, e mi portai una mano allo sterno.
Tossii sangue.
Sentii  qualcuno urlare il mio nome, ma guardando verso di loro vidi Soul prendere per il colletto Star.
“Non è questo quel che s’intende per combattimento fra amici!”, urlò l’albino.
“Fratello, è colpa sua se è una mezza cartuccia”, disse di rimando il megalomane “avrebbe dovuto aspettarselo da un dio come me!”
“Catherine è appena arrivata alla Shibusen, Star! Non può essere al livello di una persona che la frequenta da anni!”, strattonò Star dal colletto, ma quello si liberò con un gesto del braccio.
D’altro canto, aveva ragione Black Star.
Appena Maka e Liz furono vicine, mi aiutarono ad alzarmi.
Reggendomi su Maka, guardai l’azzurro.
“Ehi, Star!”, gridai per farmi sentire, “sei forte!”
I due si voltarono verso di me, dapprima sconvolti. Black Star sciolse la sua espressione in un sorrisone.
“Lo so, Catherine!”, si passò una mano sulla nuca, “scusami per essere stato troppo super per te!”
Ricacciai dentro lo sputo che avrei voluto puntargli in pieno viso appena fui più vicina.
Non potevo mettermi contro una delle uniche persone che mi avevano accolta subito.


Una volta a casa –dopo essere stata portata in braccio da Soul perché a quanto pareva “ero messa proprio male”, entrai in bagno e trovai il mio coinquilino nella vasca.
“Spero che tu non sia qui da stamattina.”, gli dissi dall’uscio.
“Non si usa più bussare?”, non staccò gli occhi dal libro che stava leggendo e non parve shockato dal fatto che lo stavo osservando mentre era nudo in una vasca da bagno.
“Non mi sembra che stamane tu abbia usato bussare”, alzai un sopracciglio, “in ogni caso, gradirei lavarmi”.
Spostò i suoi sottili occhi rossi verso di me, facendomi cenno di aspettare.
Così, decisi di girarmi.
“E dimmi, coinquilino, quale sarebbe il tuo nome?”, cazzo, vivo con te e nemmeno so come ti chiami.
Uscì dalla vasca, sospirando.
“Sam. Chiamami solo Sam.”, mi sorpassò e mi accennò un sorriso cordiale.
“Ed il tuo nome?”
Lo guardai, scettica.
Pareva saper così tante cose, e nemmeno sapeva il mio nome?
“Catherine, ma chiamami Cath.”, abbozzai un sorriso.
Lui mi guardò un pochino, poi mi disse, semplicemente:
“Dopo esserti lavata, vieni in camera mia. Hai delle ferite niente male ed io sono abbastanza bravo in queste cose, ti bendo per bene.”
Fui sorpresa, ma accettai con piacere e lui si congedò.
Nella vasca, l’unica cosa a cui riuscii a pensare fu all’impatto dell’onda d’urto di Black Star.
C’era stato qualcosa di strano. Lo sentii.
Qualcosa di davvero strano.










Hi there! Ehuehueh
Ci siamo, secondo capitolo in cui succede finalmeeente qualcosa.
E c'è perfino un flashback! Wooh! 
Beh, non ho davvero niente da dire, quindi mi congederò facilmente, quest'oggi. 
Mi farebbe piacere se lasciaste un commentino (come fa la nostra benvoluta Ria, che ringrazio tantissimo) per farmi sapere se almeno un po' appassiona :<
OKKEI BAST, addio persoooneh! 
  
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