Anime & Manga > Death Note
Segui la storia  |       
Autore: Victoria93    27/08/2015    8 recensioni
Tratto dalla storia:
-"Stai dicendo che sono io la tua ossessione, signor detective...?" gli sussurrò, di nuovo vicinissima alle sue labbra.
"Non lo so...ma mi stai impedendo di pensare. E nessuno era mai riuscito a ottenere un simile risultato nei miei confronti. Direi che le probabilità che tu sia diventata la mia ossessione sono intorno al 62%".
"Odio le tue stupide percentuali" replicò lei, senza riuscire a trattenersi dal ridacchiare.
"E io amo te".- Elle è pronto per dedicarsi al caso Kira, e ben presto incontra gli agenti giapponesi e si prepara allo scontro con il colpevole, come da programma, ma stavolta...il coinvolgimento di un nuovo agente dell'FBI nelle indagini lo porterà a cambiare notevolmente le sue prospettive, in un modo che nemmeno la mente più geniale del mondo avrebbe mai potuto calcolare e prevedere. Una storia d'amore, intensa, passionale, contro cui quasi niente sarà in grado di opporsi...
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'SUGAR AND PAIN'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 26- Remember me?
 
Silenzio. È una di quelle cose di cui non puoi parlare, un’entità con cui non puoi avere un dialogo, una personificazione che non ha motivo di esistere: basta solo nominarlo, e se n’è già andato. Il silenzio. Quella dimensione dove nulla ha più motivo di esistere, perché il minimo rumore la farebbe crollare, il minimo suono l’annullerebbe…qualsiasi risata, qualsiasi movimento, qualsiasi parola, qualsiasi respiro ne distruggerebbe le componenti, e la ridurrebbe a nulla più che un ricordo. Qualcosa di fragile, di effimero, persino di inconsistente…il silenzio.
Esiste un solo luogo, nel mondo, dove il silenzio regna incontrastato? Sarebbe come dire che esistono angoli della Terra dove vi è semplicemente il nulla: quello di cui parlano gli scienziati, quello che forse ti attende all’interno di un buco nero…o forse il nulla non esiste, proprio come non può esistere il vero silenzio.
Ma quando è l’anima di un essere umano a venire inghiottita dal silenzio, che cosa si può fare? Quando non è la sua persona in quanto tale, ma le sue percezioni, i suoi pensieri, le sue azioni, le sue emozioni, il suo intero emisfero cerebrale, e ogni componente del suo cuore a precipitare in una dimensione ovattata, isolante, priva di una via di fuga…come si può farla riemergere alla luce del sole?
“Ruri, devi mangiare qualcosa”.
Mangiare. Parlare. Pensare. Ridere. Vivere. Morire. Parole che non hanno senso, quando si è circondati dal silenzio. Alzarsi, correre, lottare, scappare, reagire…lasciarsi andare. Non si tratta più di un fenomeno di azione e reazione, non è una lotta per la sopravvivenza…non è più niente. Il silenzio cancella ogni ostacolo. Cancella ogni significato, ogni ricordo, ogni punta di dolore…come una prigione isolante dal mondo, capace di allontanarti da tutti quelli che sono rimasti, e, al contempo, dalla memoria di tutti coloro che se ne sono andati. Tutta la rabbia, tutte le incomprensioni, le frustrazioni, tutto il dolore…tutto sparisce. È come essere costantemente isolati fra pareti di acqua ghiacciata, dove l’ossigeno è solo una parola, dove respirare è solo un verbo, dove espressioni come ‘vita’ e ‘morte’ perdono di significato. È possibile vivere la morte? Percepirne l’essenza, e al tempo stesso ritrovarsi incapace di provare una singola sensazione? Un po’ come quando si riflette sulla proiezione del tempo e sul modo in cui esso si dipana nella dimensione spaziale…è solo una serie di eventi messi l’uno in fila di fronte all’altro, oppure si tratta di frammenti di un unico qualcosa? Il passato, il presente, il futuro…seguono il loro corso, oppure si inseguono l’un l’altro, nello stesso preciso istante? E la morte? Può esserci la morte, quando ancora si respira? In fondo, ci sono diversi modi di morire: ma il peggiore, è senza dubbio rimanendo vivi.
“Ruri…ti prego. Sono tre giorni che non tocchi cibo”.
Giorni, ore, settimane, mesi, anni, minuti, secondi…che importanza aveva? Il tempo non esisteva più: non c’era più bisogno neppure di sbattere le palpebre, o di piangere, o di pensare, o di gridare…il caso Kira, l’FBI, le fragole con la panna…era tutto svanito. Un ricordo effimero, di cui non comprendeva più le componenti. Eppure, avrebbe voluto poterci riuscire: una parte di lei, fugace e debole come non mai, stava ancora cercando di risalire in superficie, di tirare la testa fuori dall’acqua. Sconfiggere la morte, sconfiggere quella sensazione di marcio che avvertiva in gola e che le impediva di articolare qualsiasi parola: in realtà, vivere le mancava. Le mancavano Robin e Ayber, le mancava la luce del sole…le mancava avere la forza di reagire che mai si era augurata di dover perdere…le mancava accarezzarsi la pancia, alla ricerca della sua bambina. Sapeva di dover trovare il modo di reagire, di infrangere quella barriera di silenzio, anche soltanto per lei…ma non ci riusciva. Era come se un gigantesco macigno le impedisse di ribellarsi, schiacciandola sotto il suo peso e fermandola dal chiedere aiuto, dal ricambiare la stretta di mano di Robin, dal rispondere alle domande del sovrintendente, che così tante volte aveva cercato di farle aprire bocca, in quei giorni…ma non aveva senso. Tutta quella situazione era priva di qualsiasi senso. Quella giostra chiamata vita continuava a girare freneticamente, senza che lei avesse la possibilità di risalirci sopra…la verità era che Kira aveva trovato il modo per ucciderla, nel modo più suadente e perverso possibile. Adesso capiva di cosa aveva parlato Elle, molti mesi prima, quando era uscita dalla sala operatoria: quel senso di morte stava uccidendo la sua mente, trascinandola in una voragine da cui non riusciva a riemergere, nonostante quella piccola parte di lei continuasse ad aggrapparsi alle pareti del baratro, senza sprofondare del tutto.
La voce di Robin continuò a parlarle per qualche altro minuto.
Da tre giorni, ormai, rimaneva seduta sul divano della sala centrale del loro quartier generale, senza accennare a mutare la sua posizione, gli occhi fissi nel vuoto: aveva gridato, aveva pianto, si era precipitata sotto la pioggia nel tentativo di credere di essersi sognata tutto, forse persino per cercarlo lì, nello stesso punto in cui l’aveva ringraziata per averlo amato…si era persino aggrappata ai bordi di quella ringhiera con tutte le sue forze, gridando e maledicendo ogni attimo della sua vita, imprecando contro il Cielo, supplicando, piangendo, implorando che fosse tutto frutto della sua immaginazione…
Ma adesso, era tutto finito. Era come se il cuore si fosse fermato nuovamente, malgrado le contrazioni e malgrado i movimenti ritmici che continuava ad avvertire nel petto: era egoista pensarla in quel modo, lo sapeva. Sapeva che il mondo non si sarebbe fermato per la morte di Elle, e che lei avrebbe dovuto trovare il modo di proseguire senza di lui, ma probabilmente non era pronta. Forse stava solo cercando qualcosa che le desse l’input decisivo, che la scuotesse del tutto, che la convincesse che aveva ancora tanto da fare, tanto per cui lottare, per cui andare avanti…forse avrebbe ritrovato la voce, le parole, la capacità di articolare un pensiero. Forse.
Al di fuori della sua barriera di ghiaccio, Robin posò il piatto contenente una fetta di torta alla panna, decorata da alcune fragole, sul tavolino posto di fronte a loro, gli occhi verdi, leggermente arrossati, incapaci di staccarsi dalla sua migliore amica.
“Senti, non…non puoi fare così, va bene? Devi reagire, in qualche modo. Lo so che…lo so che non è quello che vuoi, e che adesso non ti senti più parte di questo mondo, ma…ma devi andare avanti. Lo sai che è quello che devi fare. Elle non avrebbe voluto che ti arrendessi così…e tu lo sai” le disse la dottoressa, senza suscitare la minima reazione da parte di Ruri.
Robin continuò a fissarla, lasciando che qualche lacrima le scivolasse appena lungo le guance.
“Non è finita, ok? Non è finita finché non sei tu a deciderlo. Vuoi davvero che tutto quello che hai fatto in questi mesi vada sprecato? Vuoi che tutte le tue energie, che i vostri sforzi, il vostro lavoro, il vostro genio se ne vada al diavolo? Ti arrendi e basta? No, Ruri. Tu non ti arrendi. Io ti conosco. Tu non…non lascerai che Kira vinca. Io lo so. Ma…ma non posso farcela da sola; ho…ho bisogno che…”.
Le lacrime ebbero a un tratto la meglio sulle sue parole, interrompendola di botto e strozzando qualsiasi frase che le uscisse dalle labbra: quando infine si fu calmata, riuscì a proseguire.
“Ho bisogno che tu sia qui. Perché…perché adesso non ci sei, e…e mi manchi. E non so che cosa posso fare per aiutarti, perché…tu non mi parli nemmeno. Avrei creduto di doverti dire di non piangere, e di farti forza, ma…ma è come se te ne fossi andata anche tu, e io non ho modo di riportarti qui. Potresti solo…potresti dire qualcosa? Solo…solo una parola, qualsiasi cosa, perché…perché ho la sensazione che non tornerai più, e…e mi fa male. Mi fa male davvero”.
Voleva risponderle, lo voleva davvero. Voleva realmente trovare la forza di pronunciare quelle parole che l’avrebbero fatta stare meglio, che le avrebbero fatto capire che una parte di lei era ancora viva, e stava cercando di risalire l’abisso…ma c’era qualcosa che mancava. Come se Robin non avesse posseduto la chiave di decrittazione per risolvere il codice in cui era intrappolata, come se avesse avuto bisogno di un singolo termine che la riportasse in quel mondo, che le permettesse di ricominciare…la stessa ragazza intenta a cercare di tornare in superficie stava gridando alla sua migliore amica che non voleva che soffrisse, che voleva aiutarla, che stava cercando di tornare…ma la sua voce era troppo flebile, e Robin non riusciva a sentirla. Forse era la stessa cosa che era accaduta con Elle: nel momento in cui le era morto fra le braccia, gli aveva gridato contro, lo aveva supplicato di guardarla ancora, di parlarle, di dirle qualcosa, di fare in modo che capisse che non doveva lasciarlo andare…ma lui non aveva risposto. Forse voleva farlo, ma per lui era già troppo tardi.
 
Say something, I’m giving up on you
I’ll be the one if you want me to
Anywhere I would have followed you
Say something, I’m giving up on you
 
Le parole di Robin vennero interrotte dal rumore di una porta che si apriva: sulla soglia, si stagliavano Matsuda, il sovrintendente Yagami e Ayber, intenti a fissare nella loro direzione con sguardo triste e preoccupato: tutti e tre indossavano completi neri in giacca e cravatta.
“È ora, Roby” le disse tristemente Matsuda, cercando di nascondere la sua voce rotta “Dobbiamo andare. Il funerale inizierà fra poco”.
Robin annuì, ma non accennò ad alzarsi.
“Non penso che verrò…Ruri non…non ha ancora detto una parola, e non credo che…non credo che lo farà in tempo” mormorò la dottoressa, abbassando gli occhi.
Senza aggiungere una parola, il giovane poliziotto la raggiunse, chinandosi alla sua altezza e abbracciandola di colpo, lasciando che si facesse trasportare dalle lacrime e che gli gettasse le braccia al collo, senza più trattenersi.
Con estrema delicatezza, anche Ayber entrò nella stanza, posando una mano sulla spalla della rossina e facendole alzare lo sguardo.
“Ci penso io. Va’ con Matsuda e gli altri: vedrai che vi raggiungeremo fra poco” le sorrise il biondo, con fare incoraggiante.
“Ma…ma non posso…” balbettò il medico, stringendosi ancora a Matsuda “Lei è…”.
“Rimango io. Non sarà da sola” la rassicurò Ayber, aiutandola ad alzarsi in piedi “Devi solo darle del tempo, Robin: forse ha bisogno di qualcosa che deve trovare dentro di sé, e che noi non possiamo darle. Ma tornerà qui; lo so. Tu pensa ad andare, lei starà bene”.
Dopo un lungo silenzio carico di dubbi, Robin si convinse a staccare la mano da quella dell’amica, carezzandola per l’ultima volta prima di lasciarsi guidare fuori dalla stanza, ancora fra le braccia di Matsuda, che non aveva smesso per un momento di stringerla a sé: non appena se ne furono andati, il sovrintendente lo fissò a lungo, la mano sulla maniglia.
“Possiamo aspettare ancora” gli disse infine, sospirando “Sono sicuro che…che Ruri non si perdonerebbe di non essere venuta. Fa’ del tuo meglio…ok?”.
“D’accordo” annuì il biondo.
Quando infine anche il signor Yagami se ne fu andato, Ayber prese definitivamente il posto che Robin aveva occupato fino a quel momento, sorridendole come di consueto e prendendo a carezzarle la mano, stringendola di quando in quando.
“Ciao, principessa” le si rivolse, dopo una pausa che sembrò interminabile a lui stesso “Ti ricordi di me?”.
Ruri non accennò a guardarlo, né a muovere un muscolo, gli occhi ancora fissi nel vuoto.
“Sì, insomma…il truffatore. Quello di bell’aspetto, che guida auto favolose e che è più bravo di te al poker, come a sparare, o a tirare di boxe” proseguì, ridacchiando “Anche se in effetti, queste sono tutte stronzate, quindi…immagino che non potrebbero esserti molto d’aiuto nel mettere a fuoco chi sono io”.
La ragazza continuò a non rispondergli, rimanendo immobile: rendendosi conto che non accennava neppure a sbattere le palpebre, Ayber prese un respiro profondo e decise di proseguire.
“Mi dispiace, principessa. Mi dispiace di non essere stato l’amico che meritavi; mi dispiace tanto per aver incasinato tutto. Mi dispiace di non essere entrato con te nell’FBI, o meglio…forse mi dispiaceva un tempo, ma considerando come sono andate le cose, immagino d’essere comunque felice di non averlo fatto. Altrimenti, magari sarei morto insieme al resto della squadra che è arrivata con te in Giappone, oppure non avrei comunque fatto parte di questo quartier generale e di questa squadra, e allora sì che avrei avuto qualcosa di cui pentirmi davvero. Ma in ogni caso…mi dispiace di non aver fatto per te tutto ciò che avresti meritato. Tu sei sempre stata…beh, lo sai. Sei sempre stata forte, incredibile, e hai sempre fatto sì che gli altri trovassero un appiglio nella tua forza e che, in questo modo, potessero risalire in superficie…e a me dispiace di non esserti stato vicino in questi anni del cazzo, in cui…in cui forse avresti avuto bisogno di me. Anche se, in effetti, devo dire che te la sei cavata alla grande, quindi…immagino che sia difficile stabilire con esattezza di cosa potrebbe aver bisogno una forza della natura come te”.
Ruri non dette segno di volersi voltare, o di reagire in qualche modo alla presenza di Ayber; tuttavia, il biondo decise di continuare a parlare, nonostante tutto.
“Forse è per questo che è così difficile…” mormorò il truffatore “Come fai a spiegare alla persona più forte che conosci che il suo momento non è ancora arrivato? Potrei dirti che capisco quello che provi, ma…forse sarebbe ingiusto, da parte mia. Ma posso senz’altro dirti…che capisco cosa si prova a sentirsi piccoli e insignificanti, per quanto sia umanamente possibile e concepibile. So che è…che è come una prigione. Una prigione da cui vorresti uscire…e credi che sia la realtà, e inizi a credere negli angeli, o nei santi, o in qualsiasi cosa che ti dia modo di sperare che c’è ancora una possibilità, per te. Che c’è una possibilità di rivedere quella singola persona, di tornare a quel momento, all’istante in cui era con te, e in cui avevi ancora l’occasione di parlare, di piangere, di respirare…e in effetti, non conta quello che fai, o quello che sei, o tutti i sensi di colpa che ti passano per la testa, perché non puoi cambiare ciò che è stato, e non puoi riprenderti indietro quello che ti è stato tolto. In un certo senso, credo di capire davvero come ti senti, perché anch’io, una volta, sono finito in quella prigione…e so che tu sei ancora lì, da qualche parte. Non so se esiste un modo per tirarti fuori di lì, ma…vorrei che tu sapessi che ti sto aspettando, Ruri. Che ti sta aspettando Robin, ti sta aspettando la tua bambina…ti stiamo aspettando tutti. È proprio come…è stato come un battito di ciglia. Tu eri lì, e poi…c’è stato un secondo in cui…in cui non c’eri più. È come se te ne fossi andata, e…e questo…no. Io questo non lo posso accettare. Senti, tu…tu mi hai chiesto un favore, ok? Me lo hai chiesto, io me lo ricordo: stavo per morire, ma…me lo ricordo. Mi hai chiesto di rimanere, e io sono rimasto. Quasi tutti se ne vanno, dopo una sparatoria come quella in cui mi sono fatto coinvolgere, ma io sono rimasto. E non voglio…non posso perdere la mia amica…” disse poi, la voce che iniziava a spezzarglisi “Quindi…volevo solo che tu sapessi che so che è la cosa più difficile che ti stia chiedendo di fare, ma…vorrei…vorrei che tu vivessi. Non m’importa di nient’altro, solo…vorrei che tu vivessi. Che venissi con me a trovare Giselle e i bambini, e che gli spiegassi che è grazie a te, e a quello che ha fatto Robin, se sono ancora vivo. Vorrei che…vorrei che riprendessi a muoverti. So che sei bloccata, e che non ci riesci, e che vorresti…trovare semplicemente il modo, ma…non posso non chiedertelo. So che odi tutta questa pressione, e tutte queste persone che ti ronzano intorno aspettando che tu faccia qualcosa, che tu urli, che tu pianga, o impazzisca…e che vorresti fare quello che tutti si aspettano. Non so come siamo arrivati a questo punto, e non so come tutto abbia preso vita così, ma non sopporto di vederti in questo stato…e volevo che capissi…che non sei sola”.
Lo aveva detto reprimendo a malapena le lacrime, stringendole la mano con forza.
“Tu non sei sola, Ruri” ripeté, senza staccare gli occhi dal suo volto “E io rimarrò con te. E quando deciderai che è il momento…ci alzeremo insieme e andremo incontro a Kira, e gli faremo un culo così. Ma fino ad allora…io rimarrò con te, e salterò quel funerale, e ti stringerò la mano, perché c’è stato un momento in cui stavo per morire, e tu mi hai impedito di farlo. Quindi adesso…adesso io ti impedirò di morire. E quando sarai pronta, completeremo il lavoro di Elle, e testeremo la regola dei tredici giorni, proprio come voleva lui”.
Fu come se qualcosa si stesse improvvisamente spezzando, come se la realtà in cui era intrappolata si stesse disgregando, come se le pareti crollassero e il silenzio venisse a un tratto infranto dal più grande boato mai udito: prima che potesse rendersene conto, improvvisamente strinse le dita intorno a quelle di Ayber, e si voltò verso di lui, incontrando finalmente il suo sguardo.
Ad un tratto, capì che la realtà aveva ripreso a muoversi, che i rumori stavano tornando alle sue orecchie, e che adesso riusciva a vedere il suo amico, senza poter fare a meno di domandarsi come avesse fatto a non accorgersi della sua presenza per tutto quel tempo.
“Ehi…” le si rivolse Ayber, sorridendole lentamente “Sei qui…?”.
Tredici giorni. Tredici giorni. Tredici giorni. Tredici. Sì, eccola. Ce l’aveva. La chiave di decrittazione, la soluzione di tutto.
Tredici giorni…se solo non fosse per questo.
Le parole di Elle…l’ultimo pezzo del puzzle, la soluzione finale, la sua arma vincente. Adesso ricordava, adesso capiva, adesso sapeva…sì, poteva farcela. Aveva solo bisogno di quel singolo elemento.
“Ayber…” gli si rivolse, stringendogli di rimando la mano “So che cosa dobbiamo fare”.
 
And I…am feeling so small…it was over my head
I know nothing at all
And I…will stumble and fall…I’m still learning to love…
Just starting to crawl
 
Il funerale di Ryuzaki consistette in una cerimonia molto breve e semplice, a cui parteciparono soltanto Wedy, Ayber, Ruri, Robin, Light, Soichiro e gli altri poliziotti; Misa decise persino di non farsi vedere, sostenendo che non si sentiva molto bene.
Stranamente, non riusciva ad avercela con lei: proprio come aveva detto a Rem, sentiva che era più una vittima manipolata che un vero carnefice, e non riusciva a bandire del tutto il ricordo di quella ragazza frivola, eppure simpatica e dolce, a cui aveva finito per affezionarsi. Quanto a Light, sapeva di averlo perso per sempre: il potere di Kira lo aveva completamente assorbito, privandolo di qualsiasi componente che aveva fatto parte dell’amico spensierato, felice e brillante con cui aveva trascorso quei mesi. Poteva dire che Light aveva preceduto Elle nella dipartita.
Quando fu il momento di portare la bara nella tomba, si alzò in piedi, gli occhi ancora increduli di fronte a ciò che stava vedendo: Ayber e Mogi la caricarono personalmente sulle loro spalle, precedendo gli altri fino alla posizione a lui destinata nel cimitero.
Dopo una brevissima sepoltura, Soichiro depose una croce, fusa in oro, sulla terra appena smossa, mentre Robin avvicinava ad essa alcuni fiori bianchi, incapace di smetterla di tirare su con il naso: non c’era molto altro da fare.
Le parole che pronunciò il sovrintendente le scorsero addosso come gocce d’acqua, mentre i suoi pensieri vagavano altrove, incuranti del tempo e della prima giornata di sole del mese di Novembre, che ormai volgeva al termine, tingendo le lapidi del cimitero di un deciso color rosso sangue: forse, una parte di lei era dispiaciuta anche di non aver visto più il suo corpo. Sapeva che non era Elle, e che non lo avrebbe riavuto indietro, ma le sarebbe piaciuto poterlo salutare un’ultima volta; così come avrebbe voluto abbracciare il guscio vuoto di Watari, che non aveva mai avuto occasione di vedere materialmente.
Ayber le aveva detto che il corpo non era stato trovato, e che probabilmente Kira doveva averlo indotto al suicidio in un altro luogo, ma dopotutto non aveva importanza: anche lui non c’era più. Le era rimasto solo un fazzoletto, come unico ricordo di quell’anziano così premuroso e gentile, che l’aveva sempre trattata come una figlia e che la considerava parte della sua famiglia.
Nemmeno Rem si era più visto da nessuna parte: forse era scomparso nel nulla, dopo aver aiutato Light e Misa per l’ultima volta. Forse queste erano le leggi del suo mondo. Non poteva saperlo. Ma che cosa importava, alla fine? Se n’erano andati tutti.
Un improvviso colpo al basso ventre la distolse dai suoi pensieri, e le concesse un breve sorriso: neanche la sua bambina era stata capace di riportarla in mezzo agli altri, in quei momenti bui, eppure adesso non faceva che domandarsi come avesse fatto a non tenere di conto della sua presenza, e di quanto avesse bisogno di lei. Forse era davvero soltanto un’egoista che non accettava che le cose non andassero come voleva. Forse era infantile. Come Elle. Come il padre di sua figlia.
Infine, giunse il momento di andarsene; una parte di lei avrebbe voluto rimanere ancora su quella tomba, a pensare, a riflettere, forse persino a salutarlo definitivamente, cercando di essere pronta, sperando che lui la potesse ancora sentire. Fu in virtù di un simile desiderio che chiese a Robin di aspettarla in macchina, e decise di tornare sui suoi passi.
Ma prima che potesse ritornare all’effige, capì che qualcosa non andava, e che c’era ancora qualcuno intento a fissare la tomba di Elle: con un colpo al cuore, si rese conto che si trattava di Light, e che lui stesso doveva aver deciso di rimanere indietro, a contemplare la dipartita del suo nemico principale; senza fare il minimo rumore, si appostò dietro la statua di un grande angelo, a sufficiente distanza da non essere vista, e, prima che la sua mente potesse chiederle spiegazioni, estrasse il suo telefono e premette il pulsante di registrazione.
 
Say something, I’m giving up to you
I’m sorry that I couldn’t get to you
Anywhere I would have followed you
Say something, I’m giving up on you
 
Con estrema lentezza, come se si fosse trattato di una sorta di vulcano sul punto di eruttare, capì che Light aveva iniziato a ridere. Una risata come non ne aveva mai udite, fredda, malefica, eppure pervasa di una perversa gioia maligna, impossibile da descrivere.
Era la risata di Kira. La risata di un assassino.
Sbirciandolo di sottecchi, avrebbe giurato che i suoi occhi fossero diventati completamente rossi.
“Ogni ostacolo che mi intralciava la strada ormai non esiste più!!” gridò, il tono intriso di una soddisfazione inumana “Tutti quanti mi credono! Non è un risultato incredibile, Ryuk? Persino quella sottospecie di criminologa da strapazzo è troppo impegnata a piangere la morte del suo adorato detective, piuttosto che dedicarsi a indagare su di me! Probabilmente, non avrò neanche bisogno di ucciderla, da quanto è ormai inoffensiva! Adesso, è solo questione di tempo prima che controlli l’intera polizia! D’altro canto, mi hanno già offerto il ruolo di L su un piatto d’argento!”.
A quel punto, lo vide cadere in ginocchio, affondando le dita nella terra della tomba di Elle, l’espressione maniacale ormai a un centimetro di distanza da quella croce silenziosa e indifferente.
“CHE COSA NE PENSI, ELLE?!? HO COMPLETAMENTE VINTO!! IO…HO…VINTO!!!!”.
Ruri chiuse gli occhi e strinse i denti, trattenendosi dall’uscire allo scoperto e dall’affrontarlo di persona: dopotutto, doveva pensare alla piccola che le riposava nel ventre. Non l’avrebbe mai più messa in pericolo per lui.
*Hai vinto, eh? Sottospecie di maniaco omicida…mi hai portato via Elle, non mi porterai via nient’altro*.
Alla fine, Light sembrò calmarsi di botto, rialzandosi in piedi e riprendendo a parlare con quello che, con ogni probabilità, era un altro shinigami.
“Credi che le cose, da ora in poi, non saranno più così interessanti, Ryuk?” domandò, con la massima calma “Questo non è vero…da ora in poi, assisterai alla nascita di un nuovo mondo”.
Lo aveva detto con un tono naturale, come se si fosse trattato di una constatazione oggettiva e del tutto ovvia, priva di qualunque contraddizione logica: non passò molto prima che udisse i suoi passi, cadenzati a ritmo di morte, avviarsi fuori dal cimitero e salire sulla propria auto, per poi accendere il motore e tornarsene alla base, come se nulla fosse.
A quel punto, gli occhi azzurrissimi della profiler si posarono sul suo telefono, che aveva appena fedelmente registrato ogni parola pronunciata dal serial killer, stendendo nero su bianco la sua confessione.
“La nascita di un nuovo mondo, eh…?” mormorò, premendo il tasto ‘STOP’ “Ti ho fregato, figlio di puttana”.
Aveva una prova schiacciante, ma sapeva comunque di dover proseguire nella direzione che Elle le aveva indicato: la conferma definitiva sarebbe derivata dalla prova dei tredici giorni.
Inspiegabilmente, non poté fare a meno di sorridere: forse, alla fine, sarebbe riuscita a gettare via il suo orgoglio. Forse sarebbe stata pronta per dirgli addio…
 
And I will swallow my pride…
You’re the one that I love…and I’m saying goodbye…
 
Erano passati solo tre giorni dalla sua morte, eppure aveva la sensazione che fosse passato un mese, forse un anno, forse persino un decennio…come se la sua storia fosse stata descritta in un libro lungo e dai capitoli interminabili, per poi giungere a una parte dove non c’era quasi niente da dire, semplicemente perché lei stessa si era sentita vuota, inutile, incapace di reagire: e malgrado tutti coloro che conosceva e che le erano rimasti avessero continuato a muoversi intorno a lei, cercando di scuoterla dalla sua trance, poteva dire di aver avvertito in qualche modo soltanto le voci di Robin e di Ayber, che infine era riuscito a farla alzare da quel divano, accelerando di colpo gli eventi di quella sorta di epilogo della sua stessa vicenda.
O forse non doveva chiamarlo così…forse era solo un nuovo inizio, in cui avrebbe dovuto semplicemente riprendere a muoversi come aveva iniziato a fare, e pian piano, il dolore che le stava dilaniando il petto avrebbe finito di uccidere il suo spirito, e con il tempo avrebbe fatto male solo un po’, permettendole di riacquistare parte del sorriso che Elle le aveva fatto comparire sulle labbra. Forse sarebbe stato proprio merito della piccola coccinella, come improvvisamente aveva preso a chiamarla, che le riposava nel ventre; forse l’avrebbe chiamata Eliza, come sua sorella, con un nome che in parte le ricordava il suono di quello di Elle…forse sarebbe stata di nuovo bene. Nonostante avesse vissuto quei tre giorni orribili come se si fosse trattato di tre anni, come se si fosse trattato di mille pagine d’agonia, quando invece tutto ciò che le era successo si sarebbe potuto riassumere in una decina…la verità era che si era sentita tagliata fuori dallo spazio e dal tempo, ma riprendere a tornare alla realtà aveva significato vivere il tutto a doppia velocità, quasi per recuperare le settantadue ore ormai perse. Il funerale, le parole di Soichiro, il percorso fino al cimitero, i fiori sulla tomba…e la risata di Kira. Una confessione sotto il suo stesso naso.
Pensava davvero di poterla imbrogliare? Pensava che non avrebbe reagito fino in fondo?
Udire Ayber pronunciare le parole ‘tredici giorni’ aveva significato tutto, come se quell’informazione, che in realtà possedeva già, le fosse a un tratto piovuta dal cielo, come se tutto avesse preso a esserle chiaro solo in quell’istante, malgrado una parte di lei fosse sempre stata consapevole di quello che doveva fare…continuare il lavoro di Elle, esattamente dal punto in cui lui era rimasto. Verificare la regola dei tredici giorni, incastrare Kira, mandarlo sulla forca e terminare ciò che lei ed Elle avevano iniziato insieme.
Carezzandosi la pancia, non poté fare a meno di sorridere di nuovo, mentre una lacrima le scivolava lungo la guancia: le sarebbe piaciuto poter udire le sue ultimissime parole, nonostante non avesse avuto il tempo materiale per pronunciarle. Le sarebbe piaciuto potergli dire che si sarebbe dimostrata più forte di quanto non credesse e che, in un modo o nell’altro, avrebbe mantenuto la sua promessa. Le sarebbe piaciuto semplicemente poter avere più tempo a disposizione da trascorrere con lui.
 
Say something, I’m giving up on you
I’m sorry that I couldn’t get to you
Anywhere I would have followed you
Say something I’m giving up on you
 
Asciugandosi appena le lacrime, decise che era giunto il momento di tornare al quartier generale e di studiare le sue prossime mosse: sicuramente, Light avrebbe ben presto fatto altrettanto, e non poteva permettergli di guadagnare ulteriormente terreno. Con ogni probabilità, se l’avesse ritenuta una minaccia, avrebbe trovato il modo per ucciderla, ma sapeva bene che non era uno sciocco, e che non l’avrebbe fatto, se la cosa avesse finito per attirare su di lui qualche sospetto indesiderato: avrebbe semplicemente creato l’occasione ideale, e avrebbe presentato agli altri la sua morte come una tragica fatalità, dovuta al suo dolore e alla sua eccessiva impulsività. Ma per il momento, non sembrava considerarla un reale pericolo…doveva fare attenzione a fare in modo che continuasse a pensarla così. Forse Misa aveva riacquistato la capacità di uccidere conoscendo solamente il volto della vittima, e allora le cose avrebbero potuto complicarsi…in ogni caso, doveva fare in fretta. Non restava poi molto tempo.
Ma proprio mentre i suoi passi l’avevano appena condotta fuori dal cimitero, ormai deserto, udì il suo cellulare squillare e si affrettò ad estrarlo dalla tasca: con sua sorpresa, si rese conto che la stavano chiamando da un numero sconosciuto e non rintracciabile.
Per un momento, pensò che era meglio non rispondere, ma poi, per una sorta di sesto senso, capì che doveva farlo assolutamente: premette quindi il pulsante che accettava la chiamata e si portò il ricevitore all’orecchio.
“Pronto?” disse, con voce spenta.
La voce all’altro capo era gentile, anche se un po’ burbera, ma senz’altro le era completamente estranea: comprese immediatamente che doveva appartenere a un anziano, probabilmente un fumatore.
“Miss Ruri Dakota?”.
Sentirsi chiamare in quel modo le gelò il sangue nelle vene: come faceva quella persona a conoscere il suo nome in codice? Chi era? Cosa voleva? Com’era possibile? Era una qualche strategia ideata da Light Yagami?
“Lei chi è? Come ha fatto ad avere questo numero?” ribatté, subito guardinga.
“Sono un amico di Watari, Miss” replicò l’uomo.
“Può dimostrarmelo?” pretese Ruri, sempre sulla difensiva.
“Sono il vice-direttore di un istituto molto particolare, che si trova a Winchester, in Inghilterra. Apparentemente, è un comune orfanotrofio, ma in realtà si tratta di una scuola per giovani dotati, dalle capacità straordinarie. Il nome ‘Wammy’s House’ le dice niente?”.
Quel nome prese a rimbombarle nella mente, facendola tornare alla prima sera in cui lei ed Elle avevano fatto l’amore, e in cui lui le aveva parlato della sua infanzia e di quello stesso luogo in cui era cresciuto e in cui venivano allevati piccoli prescelti della logica e della razionalità, nel tentativo di trovare un degno successore di Elle.
“Miss?”.
Sentire qualcuno che la chiamava in quel modo le fece provare un tuffo al cuore, ricordandole subito il fare affettuoso e sempre formale di Watari: per l’ennesima volta, provò l’incontrollabile bisogno di piangere.
“Sono…sono qui” mormorò infine, appoggiandosi al cancello “Sta parlando su una linea sicura?”.
“Certo, Miss” replicò il suo interlocutore.
“D’accordo. Sono Ruri Dakota. Lei è…?”.
“Il mio nome è Roger Ruvie, Miss. Sono un vecchio amico di Watari; ho esercitato come medico per diversi anni, prima di unirmi a lui nel suo progetto di creazione degli orfanotrofi, a cominciare dalla ‘Wammy’s House’” seguitò il suo interlocutore.
“Watari mi ha parlato di un amico medico” rammentò a un tratto Ruri, annuendo “Le credo, signor Ruvie. Perdoni la mia diffidenza, è solo che…non mi trovo in una situazione in cui è bene che conceda troppa fiducia agli estranei”.
“Ha fatto benissimo. È proprio per questo che la sto contattando” proseguì Roger, il tono che si faceva sempre più concitato “So che vive ancora al quartier generale che Elle aveva allestito per dedicarsi alle indagini per la cattura di Kira”.
“Sì, è così” sospirò Ruri “Ma non mi trovo là, in questo momento…”.
“Oh, lo so, Miss. So già perfettamente dove si trova”.
Quella risposta la spiazzò di colpo, portandola a guardarsi intorno in maniera quasi frenetica.
“Di cosa sta parlando? È qui anche lei?” gli domandò subito.
“A non troppa distanza. Mi scusi se non l’ho contattata prima, ma ho dovuto accertarmi che fosse sola” le disse Roger, impassibile.
“Io non capisco che cosa…”.
“Senta, non abbiamo molto tempo: deve ascoltarmi attentamente e seguire le mie istruzioni, o sarà ancora più in pericolo di quanto non lo sia già adesso. Ho ricevuto precise disposizioni sul prelevarla il prima possibile, senza interferenze da parte di terzi, per portarla in un luogo sicuro, dove lei stessa avrà un quadro più chiaro della situazione e dove potrà a sua volta ricevere indicazioni su come muoversi nei prossimi giorni. Un solo passo falso, e Kira potrebbe decretare la sua vittoria e ucciderla” le disse Roger, iniziando a parlare molto in fretta.
“No, no, no, no! Un momento!” lo interruppe Ruri, accigliata “Prelevarmi per portarmi dove? Per fare cosa? Quali disposizioni? Da chi le ha ricevute? Senta, il fatto che sia amico di Watari non mi convincerà a fidarmi di lei fino in fondo, mi sono spiegata? Non ho intenzione di farmi sballottare dove le pare solo perché ritiene che questo potrebbe tenermi al sicuro. Io non so chi sia lei, e non so come faccia a sapere nel dettaglio del caso Kira, ma di certo non penserà che io decida di attenermi alle sue fantomatiche disposizioni solo perché lei e Watari avete lavorato insieme per una vita intera!”.
Roger sospirò pesantemente, con il tono di chi sta alzando gli occhi al cielo.
“Watari mi aveva detto che non sarebbe stato facile convincerla…” mormorò.
“Watari?!” ripeté subito Ruri, con la sensazione di aver appena saltato un battito cardiaco “Cosa sta dicendo?!”.
“Miss, è stato Watari a chiedermi di chiamarla e di portarla in un preciso luogo sicuro”.
Quelle parole furono capaci di farla crollare in ginocchio, ma la sua voce, connotata da una vena gelida, fu comunque in grado di mantenersi ferma.
“Watari è morto, signor Ruvie. Non mi prenda in giro” gli ricordò, il disprezzo impresso in ogni sillaba.
Accadde allora: Roger sospirò di nuovo, con il tono di chi è costretto ad ammettere qualcosa che avrebbe voluto tenere nascosto.
“No, Miss. Devo contraddirla” le disse, lentamente.
Ruri si rialzò in piedi di scatto, appoggiandosi con una mano al muretto del cimitero.
“Che cosa sta dicendo?! Watari è morto di arresto cardiaco, tre giorni fa! E con lui è morto…”.
“Elle?” la precedette Roger “Miss, mi ascolti: è davvero importante che faccia quello che le dico. È per il suo bene e per il bene del suo lavoro; lo so che lei non mi conosce e che non ha motivo di fidarsi di me, ma io sono suo amico e sono dalla sua parte. Mi dia la possibilità di dimostrarglielo”.
Ruri rimase in silenzio per qualche istante, cercando di concentrarsi sulle parole che le aveva appena detto, e che non smettevano di vorticarle nella mente per un solo secondo: Watari? Un posto sicuro? Ma non era possibile…non poteva essere vero!!! Forse era un sogno, un sogno speranzoso da cui si sarebbe infine svegliata…ma se davvero era così, allora avrebbe anche potuto…se ci fosse potuta essere una possibilità, anche solo una possibilità…che un miracolo avvenisse? Che le cose fossero diverse da quella realtà oggettiva e implacabile, con cui era stata costretta a confrontarsi in quelle settantadue ore cariche di follia, di silenzio, di gelo e di dolore?
“Mi fido di lei” gli disse, senza neppure sapere da dove le fossero uscite quelle parole “Mi dica cosa devo fare”.
 
Salire su quella macchina fu come imbarcarsi a bordo di quello che continuava a credere fosse un sogno pazzesco: sì, doveva essere così. Perché come altro avrebbe potuto spiegare logicamente quello che le stava capitando?
Ignorando continuamente le chiamate di cui Robin aveva ben presto iniziato a tempestarla, durante il viaggio in auto aveva preso a spiare nervosamente il suo autista, che non le aveva rivolto che poche parole da quando aveva preso posto sul sedile posteriore, limitandosi a concentrarsi sulla guida. Aveva avuto modo di accorgersi che si trattava di un uomo anziano, probabilmente coetaneo di Watari, dotato di un grosso naso adunco e di pochi capelli, bianchi e radi: ma malgrado l’aspetto arcigno, le aveva subito dato l’impressione di possedere un’aura benevola e amichevole, che le aveva ricordato proprio quella del mentore di Elle, e in fondo aveva dovuto riconoscere che le era simpatico.
Se non fosse stato per la sua decisione categorica di eludere ogni singola domanda che le stava uscendo dalla bocca.
“Senta, potrebbe almeno dirmi dove stiamo andando?!” gli chiese per l’ennesima volta, dopo circa un’ora di viaggio “Le faccio presente che ho una pistola nella borsa, e che sono pronta a usarla, nel caso in cui lei mi faccia scherzi!”.
Dal posto di guida, Roger non poté fare a meno di ridacchiare.
“Il vecchio Quillsh aveva proprio ragione, sul suo conto…ha un carattere forte e determinato. Ora capisco perché gli è andata subito a genio…”.
“Quillsh?” ripeté Ruri, alzando un sopracciglio.
“Quillsh Wammy. Watari” ribatté Roger “È il suo vero nome. Lei ha un fazzoletto con le sue iniziali, a quanto mi ha detto lui; certo che, per essersene separato…voglio dire, aveva quel pezzo di stoffa dal giorno del suo matrimonio. Non se ne separava mai, qualsiasi cosa dovesse fare. Credo fosse un regalo di sua moglie…lei sa di Vivienne, non è vero? Certo, so che gliene ha parlato. Immagino che non si sia mai perdonato fino in fondo d’aver abbandonato la sua famiglia…ma senz’altro lei ha rappresentato una grande vittoria, da questo punto di vista e non solo, Miss. A proposito, le mie congratulazioni: so che aspetta una bambina”.
Dallo specchietto retrovisore, Roger scorse la sua espressione e non poté trattenere una risatina soddisfatta.
“So molte cose di lei, Miss. Almeno, ciò che mi hanno raccontato” le disse, con tono rassicurante.
“Le hanno raccontato…?” ripeté Ruri, con il cuore che le batteva all’impazzata.
Prima che Roger potesse risponderle, la macchina si fermò di colpo: sbirciando fuori dal finestrino, appannato dalla pioggia che aveva ripreso a cadere, Ruri poté rendersi conto che erano giunti a un edificio dall’aspetto imponente, una sorta di incrocio fra un collegio riservato all’alta borghesia e un albergo di lusso, schermato da cancelli dall’aria nobile e imponente e da un vasto giardino.
“Dove siamo?” domandò la ragazza, lasciando che lui le aprisse la portiera e le porgesse un ombrello.
“Di fronte ad uno degli orfanotrofi che io e Watari abbiamo fondato, nel corso degli anni: a dire il vero, la sua costruzione definitiva è stata ultimata solo di recente, e dovevamo ancora scegliere un nome. Qualche giorno fa, il mio amico me ne ha suggerito uno: pensavamo a ‘Ruri’s Nest’. Le piace?” le domandò Roger, con un sorriso benevolo.
La criminologa lo guardò dritto negli occhi, incapace di replicare in modo sensato.
“Perché siamo qui?” gli chiese, aggrappandosi appena al suo braccio, quasi nella speranza che fosse tutto reale.
Roger le sorrise di nuovo e scosse appena la testa.
“Non è sicuro parlarne in strada” le ricordò, a voce bassa “Entri dentro l’edificio e salga le scale: non troverà nessuno in circolazione, a quest’ora i ragazzi sono tutti nelle loro camere. Una volta al primo piano, continui a salire fino ad arrivare all’ultima rampa: a sinistra vedrà una porta. Là troverà le risposte che cerca”.
“Lei…lei non viene con me?” domandò Ruri, vedendo che si stava accingendo a risalire in macchina.
“No; le mie disposizioni prevedevano che io l’accompagnassi qui e poi me ne andassi. Rimarrò in Giappone solo qualche altro giorno, e poi dovrò rientrare in Inghilterra: alla ‘Wammy’s House’ c’è bisogno di me. Ma spero di rivederla, un giorno. È stato un vero piacere conoscerla, Miss Dakota” si congedò, stringendole la mano.
“Anche per me” rispose Ruri, frastornata da tutto ciò che stava succedendo.
“Stentavo a credere che tutto quello che Watari diceva sul suo conto fosse vero, ma adesso che l’ho conosciuta…mi chiedo come avrebbe potuto non esserlo. In bocca al lupo, Miss. So che ce la farà” le disse infine, prima di salire a bordo e di accendere il motore.
Ruri lo guardò sparire dietro l’angolo, immobile come una statua di sale: ma perché si era fatta convincere? Com’era arrivata di fronte a quell’edificio? E cosa si aspettava mai di trovare, al suo interno? Non erano in una favola, dannazione. Le persone non tornavano in vita e basta.
Eppure, una costante, insopportabile quanto vitale sensazione continuava a dirle che se non avesse messo piede in quella sorta di scuola, avrebbe finito per rimpiangerlo per il resto della sua esistenza: mettendo a fatica un piede di fronte all’altro, superò i cancelli, poi il giardino, poi gli scalini che la separavano dalla porta d’ingresso.
Quando ebbe bussato, un bambino dall’espressione curiosa le aprì, rivolgendole uno sguardo indagatorio e sinceramente perplesso a un tempo.
“Tu sei Ruri!” dichiarò infine.
Non era una domanda; prima che potesse replicare, il bimbo l’aveva già afferrata per una manica, trascinandola dentro la scuola e spingendola in direzione delle scale.
“Devi salire subito!” aggiunse, prima di dileguarsi nel nulla.
Cercando di controllare il suo stupore e di assumere un’aria indifferente, Ruri prese ad avviarsi di sopra come le era stato detto, con il cuore che le batteva più forte ad ogni scalino che sfiorava: era una follia, una semplice follia. Ma perché si era fatta convincere? Perché continuava ad abbandonarsi a quella specie di sogno folle? Avrebbe dovuto essere alla base, a lavorare sul caso, invece di perdere tempo in quel posto sperduto, in cui non conosceva nessuno, dove niente aveva un legame con lei…o forse si sbagliava.
Perché aveva quell’assurda sensazione all’altezza del petto? Era una speranza, un profondo desiderio? Davvero aveva iniziato a credere nell’impossibile?
E infine, giunse a destinazione: senza neppure sapere perché, si sentì come il giorno in cui aveva incontrato Elle per la prima volta, ritrovandosi ad esitare di fronte alla porta di quella stanza d’albergo, come se la sua intera vita avrebbe preso a dipendere dall’incontro con quegli occhi foschi, cupi, e apparentemente senz’anima.
Ebbe a un tratto la sensazione che entrare in quella camera le avrebbe dato lo stesso effetto di gettarsi in una vasca piena d’acqua, e perciò prese un bel respiro: ripetendosi mentalmente le parole di Roger, abbassò la maniglia della porta ed entrò.
Inizialmente, non vide nulla, nel senso letterale del termine.
La stanza era completamente vuota, priva di qualsiasi mobile, di qualsiasi fonte d’illuminazione, di qualsiasi cosa: poi, i suoi occhi si posarono leggermente su di un computer dall’aspetto moderno, poggiato sul pavimento in maniera alquanto insolita, la cui luce elettronica rischiava a malapena l’ambiente del tutto buio in cui era appena piombata.
E poi, infine, lo vide.
Venne avanti nel suo modo consueto, le mani in tasca, il passo leggero come il volo di un uccello, la schiena curva in avanti, il volto emaciato eppure affascinante, gli occhi scuri cerchiati di nero, e al contempo dotati di una luce che mai più aveva sperato di poter rivivere ancora…il sorriso delicato, quasi impercettibile, eppure incredibilmente sincero, posto su quelle labbra in maniera naturale, semplice, quasi come se non fosse mai scomparso, quasi come se non si fossero mai separati, come se quei giorni non fossero mai esistiti, come se fosse sempre e comunque rimasto accanto a lei.
In fin dei conti, poteva dire di averlo fatto, a modo suo.
Lo vide passarsi una mano fra i suoi capelli scurissimi, disordinati come al solito, e poté rendersi conto che stava allargando il suo sorriso, man mano che la distanza fra di loro si accorciava: udire la sua voce fu il colpo di grazia.
“Ciao, Ruri. Ti ricordi di me?”.
 
Say something, I’m giving up on you…
Say something…
 
Continua…
 
Nota dell’Autrice: SENTITE, L’HO POSTATO ALLA VELOCITÀ DELLA LUCE PROPRIO PER FARVI POSARE LE ASCE, VA BENE?!? Quindi, non vi lamentate se questa volta ho fatto VERAMENTE schifo XD No, sul serio, non ho giustificazioni, ma che posso dire…questo capitolo è stato veramente difficile da scrivere, soprattutto in un solo giorno, e non è affatto come lo avrei voluto, ma spero tanto che vi sia piaciuto almeno un pochino…lo so che è scritto male e che gli avvenimenti sono presentati alla velocità della luce, ma in parte voleva essere proprio un ritmo del capitolo in sé, una sorta di viaggio interiore diretto delle emozioni di Ruri (no, la verità è che non so scrivere e che faccio proprio schifo, ma non odiatemi troppo per questo XD). Beh, che dire? CI ERAVATE CASCATI, EH?!? Ma no, dai, lo avevate capito tutti che era vivo!! MA VI PAREVA CHE LO UCCIDEVO VERAMENTE??? MA VIAAAA!!! XD Oh, venendo a noi: la scena del cimitero in cui Light sbraita è realmente tratta dall’anime, come vi sarete accorti, era una scena tagliata…ora, quello che mi chiedo io è…ma Light, tu che ti credi tanto un genio…MA IL CERVELLO LO HAI PESTATO COME FAI CON LE MERDE DI CANE E POI LO HAI APPESO AD ASCIUGARE, PRENDENDO ALLA LETTERA IL CONCETTO DI ‘FAR PRENDERE ARIA ALLA MENTE’?!? Ma è possibile che nessuno si accorga che sta sberciando peggio del Joker quando è in crisi da astinenza di benzina?? Va bene che gli altri ormai sono fuori dal cimitero, ma qui siamo veramente al limite dell’idiozia!! L’ho sempre detto che ha vinto solo per una questione di culo…che poi, ‘vinto’, non ha mai vinto davvero…bah…Anyway! La canzone di questo capitolo era ‘Say something’ dei Great Big World, cantata insieme a Christina Guilera! Io devo ovviamente ringraziare SelflessGuard, Robyn98, Lilian Potter in Malfoy e MaryYagamy_46 per aver commentato il capitolo 25, e naturalmente ringrazio anche bananacambogianachiquita (l’avrò scritto bene? XD), per aver inserito la storia fra le ricordate, spero tanto che anche tu vorrai recensire questo abominio che la sottoscritta ha partorito. Io adesso vi saluto ragazzi, e cercherò di non farvi aspettare troppo con il seguito :D Un bacione grosso grosso, la vostra Victoria <3      
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Death Note / Vai alla pagina dell'autore: Victoria93