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Autore: Pachiderma Anarchico    28/08/2015    3 recensioni
Il suo sguardo è una promessa di guerra.
Sembra sibilare nell'oscurità come il gelido vento del Nord, sussurrare come sussurrano gli amanti.
Le sue parole cadono come petali di rose sul campo di battaglia.
"Piangerò ma la maschera lo nasconderà,
laverò le mie mani dal tuo senso di colpa,
spezzerò il mio cuore e lo ricomporrò come un puzzle,
fuggirò dal nostro passato: farò in modo che non ritorni.
e il sangue ribollirà come se avessi febbre nelle vene.
Sveglierò l'inferno e avrà luci verdi."
Genere: Azione, Dark, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Felicia, Harry Osborn, Peter Parker, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Double Mirror
 
 
 di

Pachiderma Anarchico

 
 

Capitolo 2

 Sit down or I send everything to hell 






Ha rispettato i patti: Harry è fuori di prigione giovedì sera, quattro giorni dopo la loro piccola chiacchierata. 
Harry è arrivato scortato dagli uomini del Ravencroft ma varca la soglia da uomo libero. 
C'è qualcosa di inquietante nel vedere la causa della morte di Gwen Stacy vagare libera per l'appartamento al 108esimo piano della Oscorp. C'è qualcosa di sbagliato. E' qualcosa che Spider-man è ancora restio ad accettare.
Ma ha dovuto farlo, perché Harry Osborn si rivela sempre, in un modo o nell’altro, il nodo della questione, l’elemento che apre tutte le porte (e che dopo te le sbatte in faccia) e senza di lui Spider-man non potrebbe fare ciò che deve fare. 
Sarà per il suo cognome, sarà per la sua caparbietà, sarà per quella maniacale sete di controllo, ma è meglio averlo dalla propria in situazioni pericolose. Forse perché lui sa esserlo molto più.
“Cristo erano mesi che non facevo una doccia così.”
Esce dalla sua stanza con i capelli umidi di acqua calda e lusso (non avete visto la sua doccia) e un qualche shampoo all’olio pregiato di un qualche seme raro che si trova solo sul lato Ovest delle montagne della Cina occidentale, ma con indosso una semplice e larga canottiera nera e un paio di vecchi jeans scuri.
Senza la liscia piega ai capelli di precisione millimetrica e senza la cravatta al collo dalla giusta sfumatura di cobalto in molti direbbero che quello che Parker ha davanti non è il giovane erede delle Osborn Industries ma una sua copia disadorna, non all’altezza del suo nome. 
E Peter, che ha conosciuto l’Harry dietro i vestiti firmati e il contegno troppo adulto, può giurarvi che era un Harry che non vi sareste mai aspettati, che si divertiva a provare i jeans strappati dell’amico e le sue t-shirt arancioni quando si chiudevano in casa nei pomeriggi di pioggia, mentre zia May preparava la cioccolata calda e Gennaio infuriava alle finestre. Ma quella pioggia e quel vento e quel gelo non li raggiungevano mai. 
Le loro risate e il vedere Harry osservarsi allo specchio con ai piedi le infradito troppo grandi di zio Ben con lo stesso interesse di come Peter osservava il suo riflesso con indosso una delle giacche blu di Harry cucite a mano avrebbero sciolto qualsiasi freddo.
Era pura magia.
“Tu hai intenzione di stare qui ancora a lungo?”
Era.
Ora basta un’occhiata ai suoi occhi dove il ghiaccio ha condensato quelle iridi su cui da sempre bramava il possesso per rinunciare ad ogni passato.
“Credo che faresti meglio a darmi una mappa dell’attico perché… beh, ho paura che mi vedrai spesso qui intorno.”
In risposta gli lancia uno sguardo che si porta dietro la stessa sensazione di quando al secondo anno i bambini gli lanciavano le palle avvelenate durante l’ora di ginnastica: aggressivamente.
Che cosa?
“A meno che tu non voglia tornare al Ravencroft.” Peter alza le mani. “Decidi tu.”
“Quindi adesso funziona così? Sono prigioniero di Spider-man?”
“Per il momento c’è solo Peter Parker.” il ragazzo nasconde le mani nelle tasche del Jeans,  la sua voce è paziente ma si sporca di fuliggine. 
“E né Spider-man né Peter Parker fanno prigionieri. A loro piace tenere solo le cose lontano dai pericoli.”
 E la voce dell'altro si sporca di sabbia bollente sui palmi delle mani. “Allora puoi dire a Spider-man che spero gli piacciano anche le sfide.”
Fa per allontanarsi nelle spire del corridoio ma non lo fa abbastanza velocemente. La risposta del moro è già palpabile nell’aria, rancorosa, sanguinante, stretta in una morsa d’acciaio.
“E io cosa dovrei dire a lui?”
E la sua è calma, e compiaciuta. 
Una prostituta che fa delle avances avrebbe la stessa voce. Una prostituta che non vuole soldi ma che continua nel suo gioco… vorrà qualcos’altro. 
“Chi ti dice che tu non ci stia già parlando?”

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In una stanza di vetro squilla un cellulare. Un uomo da le spalle al tramonto. Il sole incendia di rosso i suoi occhi. 
Il cellulare continua a squillare. 
L’uomo sa esattamente quanti squilli farà. All’ottavo squillo risponde. Immagina un uomo vestito di nero dall’altra parte.
“Ce l’hai fatta.” dice la voce grossa oltre la linea.
“Avevi dubbi?” risponde l’accento spesso di Harry Osborn.
“Sulla tua intelligenza? Assolutamente no. Ma sul collaborare con Parker…”
“Peter Parker non è un problema. E’ troppo sensibile per rappresentare una minaccia.”
La conversazione si interrompe quel tanto che basta a Harry per versarsi del Bourbon in un bicchiere di cristallo.
“A proposito di minacce… Max Dillon, aka Electro, è ufficialmente morto; è stato ucciso dalla sua stessa energia che Spider-man ha rivoltato contro di lui.”
Qualcosa si rompe dentro Harry. 
Non come l'ultima volta, quando il verde è diventato denso come sangue che sgorga copioso da un fiume di vene, ma altrettanto violentemente. Altrettanto devastante.
Max era davvero suo amico?
Harry era amico di qualcuno?
Non ti perderai proprio adesso nel sentimentalismo spero.
No. Harry andrá avanti. I patti andranno avanti.
Max era solo qualcuno di cui Harry si era servito per uscire di scena alla grande.
Era solo un mezzo. 
lo so io e lo sai tu... noi due sappiamo le stesse cose.
Ma non le sentiamo allo stesso modo.
Il giovane dal volto di porcellana si rende conto tardi che sta parlando, o almeno pensando da solo, dopo tre richiami da parte del suo interlocutore e il sole scomparso nel cielo fosforescente di New York.
“Sovraccaricamento elettrico…” mormora Harry.
“Esatto. Max Dillon poteva rappresentare un valido alleato e un altrettanto valida minaccia. Meglio così.”
“E di me?” il giovane sorride, ma non c’è gioia incastonata nel suo bel volto. “Di me non pensi che possa essere una minaccia?”
“Tu sai con precisione ciò che vuoi e sei disposto a tutto pur di ottenerlo. Tu sei diverso, l’ho capito subito. Diverso da tuo padre perché non ti arrendi, trasformi il tuo dolore in oro e utilizzi la paura contro gli altri: la affili, la rendi feroce, la lucidi per farla splendere… solo attento, non puoi fidarti di nessuno.”
“Neanche di me stesso?”
“Come procede… quella cosa?
“Va e viene. Spesso.”
L’uomo respira profondamente, il sollievo tangibile nel maturo silenzio. Il respiro rimbomba come un eco sibilante.
Harry conosce già la risposta, è nelle sue orecchie prima che venga pronunciata.
“Non trattenerlo. E’ ciò che sei, è ciò che ti rende forte. Non trattenerlo.”
“Non lo farò. Devo andare.”
“Ti chiamo io. Dieci squilli questa volta. Pensa a Parker.”
“Parker è innocuo, è di Spider-man che devi preoccuparti.” dice, come se non fossero la stessa persona, come se l'anima potesse scindersi in due entità distinte.

 

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Peter Parker non è mai stato bravo a fare piani. 
O forse, più semplicemente, non è bravo a realizzarli. 
C’è sempre qualcosa che sconvolge il progetto iniziale: un bambino di dieci anni che se ne sta travestito da Spider-man in piedi davanti ad un criminale appena evaso di galera; una ragazza coraggiosa che rimane vittima del suo stesso amore; la persona che pensavi di conoscere meglio al mondo che si trasforma in un mostro.
No, non sono metafore; è la verità.
E per questo Peter Parker, il ragazzo che se ne sta seduto solo ad un tavolo in un affollato pub, con lo sguardo basso e il silenzio sulle palpebre, non vuole proprio farli, i piani.
Ma questa volta sarà diverso: le circostanze sono appese al filo di un rasoio, la posta in gioco troppo alta.
E’ così alta che persino la rabbia deve fare un passo indietro.
“Cos’hai intenzione di fare?” è la prima domanda che si concede di porre ad un Harry Osborn impassibile seduto difronte a lui.
“Tornerò alla Oscorp, domani.”
Ha la risposta pronta Harry, come se si fosse aspettato che questo sarebbe stato il primo quesito. 
Alza il bicchiere. La luce gioca sull’oro del liquido. “E me la riprenderò.”
E’ difficile non credergli quando il colore della sua voce è così dannatamente scuro.
“Non devi solo tornarci per comandare, devi...”
“Credi che sia facile?”
Le parole rimangono sospese sui piatti della cena, il punto interrogativo è un ingrediente aspro nei Nachos. 
“Non credo che sia facile.” Incomincia Peter. “Credo che tu dovresti quantomeno cercare di impegnarti.”
“Sai come m’impegnerò? Preservando le apparenze.” 
Harry si sporge in avanti; potrebbe avere delle manette ai polsi e una tuta arancione, e non ci sarebbe alcuna differenza.
“Vedi Peter… tu pensi che tutto si riduca al soccorrere vite innocenti e vecchiette che attraversano la strada all’ora di punta e che basti indossare una tutina rossa e blu e cimentarti in quei commoventi atti eroici per salvare il mondo-“ la divisa di un cameriere si interpone fra loro: divide in due il discorso, ma solo per un attimo. Le due metà sono perfette. “..ma ci sono altre cose, cose che si chiamano potere, apparenza e reputazione –o altresì note come le ‘falle nei tuoi piani’-.”
Harry ordina altro vino, Peter non ha ancora finito il suo. 
Vorrebbe gettarselo tutto in gola, certo, lasciare che il liquido ambrato gli spezzi in due le corde vocali, ma non è mai stato tanto attratto dall’alcol. 
Dalle lacrime, piuttosto.
“Potere? Tu ne hai a bizzeffe.” Il ticchettio di un orologio è quanto c’è di più scomodo fra i due. “Apparenza, non ne parliamo.” Tic Tac Tic Tac Tic- “Non so cosa i pezzi grossi pensino adesso di te, ma la tua reputazione non sarà un problema.”
“Il problema è che anche altri hanno potere, apparenza e reputazione. E nessuno è disposto a rinunciarvi.” Ribatte l’altro, fermo.
Peter può vedergli attraverso e non vederlo affatto. 
“Perciò la prima cosa che faremo” continua il giovane erede, “sarà fingere che tutto quello non sia mai accaduto. Nulla, di tutto quello.”
“Mi stai chiedendo…” e Peter non riesce a crederci. Può quasi sentirle le mani che fremono per afferrare i bordi del tavolo e lasciare solchi sul legno, rompere ogni venatura di marrone pur di non sentire lo sfrigolio di bile amara che frigge in gola. Ma non c’è limite al peggio. Ed Harry Osborn glielo dimostra puntualmente anche stavolta.
“Io non sto chiedendo niente Peter. Dobbiamo farlo, devi farlo… se non vuoi che i sospetti si nascondano anche nel dentifricio del tuo bagno.” 
Peter artiglia l’aria. Fa per parlare. Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa è meglio di questo. Ma Harry non ha limiti, ed è il peggio, agli occhi di Peter. 
“Agli occhi di tutti, agli occhi del mondo che ti sta a cuore quanto un cucciolo di Panda, io e te siamo amici Peter. Come prima.”
Come prima. 
Io e te non eravamo amici. Eravamo i migliori. 
Non funzionerà.
Non voglio che funzioni. 
Ma deve funzionare Peter. Deve
“Come… come pensi di fare con la… Oscorp.”
Il silenzio si scheggia come pietra al sole.
“La Oscorp è mia di diritto. Chiunque la gestisca adesso dovrà alzarsi da quella sedia, girare sui tacchi, fare un passo indietro e…” spiega semplicemente l’erede di Norman Osborn, strascicando le parole che gli sembrano scontate sulla lingua. “andarsene.”
“Non saranno tutti disposti a crederti. A volte non basta il sangue per convincere le persone di chi sei.”
Le parole restano appese a un filo. E’ candido, e traslucido, e invisibile. Sembra una ragnatela, ma è il destino. Penzolante come un condannato a morte. 
“Un tempo sarebbe bastato.” mormora Harry. Quasi con rimpianto. Se Peter non lo conoscesse bene avrebbe scambiato quell'incerto sussurro per velata malinconia.
Il filo è sottile.
“Un tempo il tuo sangue non era sporco.” Le parole nascoste fra le labbra di Peter rovinano fra loro.
“A volte ci si deve sporcare… quando si va con le mani nel fango della tua vita consumata giorno dopo giorno da una malattia deleteria e incurabile chiamata genetica.”
Il filo si sfilaccia. Il bicchiere trema fra le sue mani. 
“Un tempo…” Peter rinuncia all’appetito. Non ha più alcun motivo di sradicare dalla gola i rovi affilati quanto il veleno che sgorga dagli occhi di Harry Osborn: non risale l’acqua di un fiume. “Ci sarebbe bastato guardarci negli occhi per riconoscerci.” 
Non sa se quello che dice è vero, ma deve dirlo, Peter sente che deve mettere dei cancelli fra il prima e il dopo in questo spazio infinitesimale dove passato e presente stanno giocando a dadi con il mondo.
“Ma quei tempi sono morti, penso che tu abbia buttato giù dalla Torre dell’Orologio anche loro.”
Peter si vede alzarsi, rifiutarsi di guardarlo, logorarsi, gettare la spugna impregnata di destini e ragni da qualche parte negli angoli più neri del pub e sentirsi afferrare. Forte. 
Non riesce a liberarsi. Con il sangue di Spider-man nelle ossa n on riesce a liberarsi. 
E la verità si fa di piombo fuso e bollente su un mare di fredda consapevolezza.
Siediti o mando tutto a puttane.
E’ possibile dimenticare la voce di Harry Osborn?
No.
E’ possibile dimenticare la voce della parte più sgualcita e oscena di Harry Osborn?
No.
Peter si volta. 
Lentamente. 
Guarda un film che non ha mai visto. Ne conosce gli attori.  Ma non sa come finirà.
E’ imbambolato dinnanzi allo schermo di una TV in bianco e nero.
“Qui è pieno di gente, non vuoi che succeda qualcosa, vero… Peter?”
Fanno un silenzioso tira e molla per sei secondi, ma la televisione si spegne sul finale e Peter rinuncia a prevederne il male. 
Ma lo sa che sarà puro, e sarà tanto. Sensuale come il jazz, corposo come la pioggia che si getta nel fiume, nero come il lutto.
Si siede. 
Il suo polso viene lasciato all’istante. 
“Sei così prevedibile...”
La verità è che Harry lo conosce troppo bene. 
Ed è per questo che Peter non riesce a guardarlo negli occhi. 
Per questo e perché quegli occhi sanno di urla di donna e ‘c’era una volta’.
“Evita di essere tanto debole Peter o ci farai ammazzare entrambi.”
“Stai parlando di me e te o di te e qualcun altro?” sibila Peter. Non ha intenzione di dargliela vinta tanto facilmente. Ha lottato con sé stesso per essere qui ora, seduto a questo tavolo di rancore e di perché, ha lottato perché il mondo non gli crollasse addosso con il suo insostenibile peso, lotta ogni notte per soffocare sotto il cuscino impregnato del suo sudore gli incubi che, sorridenti e grossi come enormi gatti neri gli fanno visita la notte: non lascerà che Harry Osborn renda tutto questo lottare e ingoiare la tristezza in silenzio vano.
Ma Harry è… Harry. Il suo sorriso di Harry si fa incerto un attimo, solo per poco, prima di fare la sua lussureggiante comparsa. 
“Permettimi di essere realistico Peter", perché Harry è… Harry, e non te la darebbe vinta neanche se da ciò ne dipendesse la sua vita. "Non si gioca in quattro una partita a scacchi.”
La porta si chiude. 
Peter non se n 'è accorto che è andato via.
Il suo sguardo viene catturato dalle crepe sul vetro del bicchiere che fino a pochi secondi prima era nelle mani di Harry. 

 

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“La notizia che l’unico erede delle industrie Osborn è tornato libero e scagionato da tutte le accuse a capo dei suoi immensi possedimenti ha fatto il giro dell’America nelle prima ore del mattino e quello del mondo nel tempo seguente.
Le voci sono tante, le verità molteplici. Le fantasie galoppano di pari passo con le testate nere dei quotidiani e quelle colorate dei giornali di gossip che si sono dati da fare nello sguinzagliare paparazzi in tutti i cinque distretti di New York pur di immortalare il bilionario padrone della più avanzata area di ricerca al mondo in atteggiamenti equivoci.
Nulla di tutto questo è accaduto.
Harry Osborn è impeccabile come sempre.
Si è dimostrato capace di intendere e di volere già dai primi giorni e ha ripreso abilmente in mano le redini della sua
ricchezza.

Inoltre, il giovane Osborn, si fa vedere spesso in compagnia di Peter Parker, suo vecchio amico. 
Tutti conosciamo i fatti primordiali di questa storia: l’affetto che li legò da piccoli, la lontananza di Harry –durata la bellezza di otto anni- per frequentare una prestigiosa scuola privata, viaggiando da Venezia a Monte Carlo passando per Singapore.
Harry era tornato a New York -sua città natale-, alla morte del celebre padre sei mesi fa, ereditando tutto il suo oro e nel farlo aveva rincontrato il suo amico. Si sono ritrovati entrambi. Si frequentano. Si volevano bene otto anni fa e se ne vogliono oggi, anche dopo l’accusa dell’assistente amministrativo di Norman Osborn Donald Menken sul coinvolgimento di Harry nell’occultamento di incidenti fra i suoi ricercatori. 
Forse la troppa lontananza, il decesso dell’ultimo parente in vita di Harry, le accuse infondate (mancanza di prove concrete) che lo hanno trattenuto in prigione sono cose che possono distruggere un’amicizia, o renderla immortale.”

Una mano accartoccia il foglio stampato. E’ furiosa. 
Le grasse parole in indelebile inchiostro nero finiscono nella pattumiera. 
Un uomo prenota il primo volo della giornata. 
Destinazione: New York. 
Obbiettivo: non permettere al passato di ripetersi. 
Il destino non avrebbe affilato i suoi coltelli per colpire una seconda volta dove la prima ne portava ancora i segni, vividi e mai cicatrizzati. 
Se l’esperienza insegna, gli anni passano e non si scordano, non c’è tempo che possa sconfiggere il dolore e la fuga da tutto ciò che hai sempre amato servono a qualcosa, questo qualcosa sarà impedire alla storia di ripetersi.
La storia non si ripeterà.

 

|---|

 

“Devo vedere Harry.” 
Peter osserva la rigida donna bionda al banco informazioni prima di aggiungere: “Osborn. Harry Osborn.”
“Ha un appuntamento?”
Peter si rende conto troppo tardi che non lo ha, che l’unico motivo per cui è alla Oscorp è una telefonata di Harry che non gli da alcuna garanzia con la donna dalla crocchia di sottili fili d’oro più stretta di quella di Minerva McGranitt e che quest’ultima lo sta squadrando come se fosse una fastidiosa macchia di unto sul lucido pavimento immacolato dell'azienda.
“Non… ho… un appuntamento.”
“Il Signor Osborn è a conoscenza della sua visita?”
“…Sì! Vede, lui mi ha chiamato..”
“Mi scusi Signor…” il telefono aziendale si illumina, silenzioso come il nulla, sembra che la donna abbia ricevuto una scarica elettrica. Il suo volto cambia. Le dita laccate di rosso sfiorano la scrivania trasparente. Perché il telefono non esiste, non materialmente. E’ un tocco sull’immensa superficie touch ad alta sensibilità. 
Accetta la chiamata con una serietà che le grava sugli zigomi.
Non parla. Non pronuncia una parola.
Peter sa che è perché la persona che la donna sta ascoltando parlare non glielo permette.
Un altro tocco e: “Signor Parker, il Signor Osborn la attende.”
“Centesimo piano, giusto?”
Il sorriso sornione che dona alla donna bionda scheggia persino il suo volto serio e distaccato. 
Due mondi così diversi, neanche Peter sa cos’è precisamente accaduto quel giorno di parecchi anni fa. Nessuno ci credeva. Nessuno ci crede neanche adesso. La differenza è che prima loro ci credevano alla loro amicizia. 
Peter prova a bussare, dopo aver salito novantanove piani con un ascensore di vetro più veloce di uno shattle, ma la voce pungente del proprietario della Oscorp sbatte ai vetri della porta chiusa. 
Non è un mio problema, sono io che prendo le decisioni qui dentro e ho appena deciso che lo voglio fuori dalla Oscorp entro cinque minuti. Due se continuate a ripetermi tutti di quanto utile sia stato per questa azienda che dovrà fare a meno di lui se non vuole che io faccia a meno di lei e la venda al primo acquirente che mi offre gli occhiali della nuova collezione di Armani.”
Peter si fa di lato proprio mentre un possente uomo in giacca e cravatta rischia di travolgerlo. È il doppio di Harry e il suo volto è stralunato, rapido e impegnato.
Il tipico volto compresso di qualcuno che preferirebbe trovarsi rinchiuso in una gabbia con una tigre affamata ricoperto di salsa Barbecue piuttosto che fare da paziente mediatore fra Harry Osborn e qualcuno che vuole disobbedire a Harry Osborn. 
La porta si apre nuovamente prima che le nocche di Peter possano toccarla. 
“Finalmente. Entra.”
“Come sapevi che ero di sotto?” 
Peter si sposta giusto per assicurarsi che la cravatta color uva dell’uomo non gli schiaffeggi un orecchio.
“Beh vediamo… dopo la mia telefonata ci avresti impiegato circa due minuti per decidere se venire o no. Scelto il sì avresti preso la metropolitana alla stazione più vicina e visto che la Oscorp è nel terzo distretto di New York una di esse si ci ferma praticamente davanti. Contando all’incirca altri sei minuti di viaggio andiamo a otto. Mariah, la bionda attraente al piano terra, ti avrebbe certamente trattenuto per.. cinque minuti? Diciotto. Diciotto minuti.” Harry da un’occhiata elegantemente distratta all’orologio che ha al polso. “Ho sbagliato di un minuto." Inarca un sopracciglio. "Ci hai messo tre minuti a decidere se venire o no.”
“Sei terrificante.”
“Oh, grazie. Beh, devo esserlo, altrimenti qui i muri ci cadono addosso… e farò in modo che li prendano in testa!” Dice ad alta voce sperando che lo senta l’intero corpo impiegati della Oscorp. 
“Loro e la loro nauseante puzza sotto il naso…”
Il più giovane non risponde. Peter ha già vissuto questi momenti, quando Harry diceva qualcosa che non si aspettava, o faceva qualcosa che non riusciva a veder legata a lui, ma lui la faceva lo stesso e sembrava tremendamente giusta sulla sua lingua tagliente o nelle sue mani indecifrabili, così tanto da fargli chiedere sempre: 'quante facce può avere un dado? E arriverò mai a conoscerle tutte?'
“Sei tornato al tuo posto, in ogni caso.”
“In ogni caso… mi piace. 'In ogni caso' mi fa sembrare estremamente capace, non trovi?”
“Stai dicendo che non lo sei? Harry Osborn sta ammettendo ad alta voce la sua incapacità nel fare qualora?”
“Harry Osborn sta dicendo” e qui Harry si ferma. Si ferma e ascolta i muri, come se loro potessero ascoltare lui di rimando, e sussurrare alle sue spalle, “che non sarà così facile questa volta.”
“Qual è il problema?”
“Felicia.”
“Eh? Felicia?”
“No, Felicia!”
“Felicia?”
“Signor Osborn.”
“Aaah Felicia…”
“Buongiorno Peter.”
“Felicia chiamami Jonathan. Spero per lui che Menken stia prendendo un taxi in questo preciso istante." 
“Menken?” Peter continua a guardare la giovane assistente del Signor Osborn. Quel vestito blu notte che indossa non è per niente corto, non è scollato, non ha pizzi o veli che lascino intravedere la pelle chiara ma Peter la trova comunque troppo provocante nel modo sottile in cui aderisce all'esile corpo della ragazza.
“Credevo fosse stato arrestato…”
“E io credevo fosse dal creatore. A quanto pare è più resistente di quanto pensassimo.”
Harry continua a parlare. Parla e dice qualcosa. Felicia annuisce. Parla e sembra un fiume in piena senza argini. 
Parla e Peter non lo ascolta.
Era un plurale. 
Quell’insulso “pensassimo” era un plurale. 
Perché? Perché non può fare come Harry, che gira intondo alla scrivania premendo tasti e sfiorando vetri senza che l’uso di quella parola scalfisca minimamente la sua aurea di lussuosa impassibilità? 
Perché a lui non interessa. 
Lui è oltre. 
Niente di nuovo, niente di importante. Non vale la pena fermarsi su certi dettagli. 
Sono solo dettagli, dopotutto.
Ma Peter continua a non ascoltarlo, riflettendo sul fatto che il suo ex migliore amico è plasmato da dettagli fino a quando non viene gettata una busta da lettera sulla lucida superficie dinnanzi a lui. E’ chiusa.
“Sai cos’è questo?”
Peter alza le mani in automatico.“Qualunque cosa sia non sono stato io, non uso carta da cinque dollari a foglio per mandare cartoline.”
“Questo” c’è da preoccuparsi quando Harry inizia a diventare meno ‘Harry’ e più ‘Osborn’, “è un invito. Sai di chi?”
“Le interrogazioni di geometria quantistica erano meno impegnative.”
“Della Camera Nazionale della Moda Italiana, organizzatrice di uno dei più prestigiosi eventi di sempre. Sai cosa significa?”
Peter fa per parlare, giusto per fargli credere che stia tentando di rispondere, di rendersi utile alla conversazione che Harry sta costruendo da solo. 
“Vogliono provocarmi! giocare sporco. Innalzare trincee di falsa tranquillità dietro le quali spiare il vero pericolo: Wall Street.”
E a Peter piace così. 
Nonostante tutto i gesti di quest’uomo sono ancora fin troppo familiari. Il suo domandarsi e rispondersi in solitudine per il semplice gusto di portare avanti da solo la conversazione ma il gusto di avere Peter vicino che annuisce e sembra assente ma in realtà si beve ogni parola sarcastica, priva di gioia, velenosa che esce dalla bocca del suo interlocutore dagli occhi azzurri. 
Perché è giusto così.
“Faccio… fatica a inquadrare la metafora filo-storica ma… ancora non capisco qual è il problema. Tu sei tornato sulla tua, lasciamelo dire, magnifica sedia in pelle, le azioni della Oscorp vanno a meraviglia –ho letto un quotidiano- e basta il tuo cognome per far piovere oro. Era scontato che la Camera.. di.. qualcosa… ti invitasse.”
Perché Harry non ha mai smesso di parlare con Peter di cose che Peter non capiva perché lontane anni luce dal suo mondo, eppure lui gliene parlava lo stesso, e sorrideva dello sforzo di Peter di comprendere, di calmarlo e consigliarlo, di essergli amico.
“Era scontato che invitasse me, non che invitasse te.”
Peter ci mette un tantino più del dovuto a capire, ma basta un’occhiata allarmata al suo nome scritto in bella grafia obliqua in inchiostro rosso sulla busta per provocargli un attacco di panico violento quanto un terremoto subacqueo.
“Al… Signor Peter… Parker” legge come se non fosse il suo nome e cognome. “Non… non ti hanno invitato?”
“Ah certo che mi hanno invitato!” sbotta Harry, impaziente di gestire la surreale situazione sotto un solo controllo: il suo. 
“Ma quella busta porta il tuo nome, quindi devi esserci anche tu.”
Non se ne parla
Peter scuote energicamente il capo, prima di aprire la spessa carta color crema e inorridire riga dopo riga di fine scrittura color porpora. O sangue.
'La preghiamo di prender parte… saremmo lieti di averla… Settimana della Moda… Milano.'
E se pensa che il peggio sia che la sua anonima identità sia stata impressa come un marchio infuocato sullo stesso invito fatto ad uno come Harry Osborn, in cima alla catena economica mondiale, quando alza lo sguardo si rende conto che al peggio, signori miei, non c’è limite. 
Harry sorride.
E Peter capisce qual è il problema. 
Perché il diciottenne timido e impacciato impegnato a salvare il mondo tutte le sere con un coraggio che non vedresti nei suoi capelli spettinati conosce ogni sorriso del ventenne sicuro di sé e dalla piega tornata magicamente perfetta sulla fronte pallida. 
Peter conosce ogni suo sorriso e automaticamente conosce ogni sua arma, perché i sorrisi di Harry sono questo: armi. 
E lui li sfoggia tutti come splendenti, acuminate, armi. Tutte rigorosamente resi efficienti dal viso attraente e Peter vorrebbe svanire, sprofondare nei cento piani della Oscorp e venire squadrato ancora dalla donna bionda con la crocchia di ferro piuttosto che guardare quel viso che sorride così dannatamente bene. 
Perché Peter sa che quando Harry Osborn sorride, le cose automaticamente prendono fuoco.
“No… no. Harry… no. Non iniziare… non lo farò mai.”
“Cosa, indossare un vestito elegante e sorseggiare champagne con dei VIP?”
“Lasciare a te il controllo del vestito elegante e dello champagne!”
“E’ fra una settimana, a Milano. Se pensi di riuscire a trasformare Peter Parker, il neo-diplomato occhialuto fotografo di Spider-man, amante delle Converse e dei maglioni XXL in un giovane invitato a un evento stile Grande Gatsby nella capitale della moda fa’ pure. Non sarò certo io a fermarti.”
“E tu di trasformazioni ne sai qualcosa in più degli altri, vero?”
Peter si sente offeso. Il tono di Harry era un'accusa al suo essere un semplice neo-displomato che tenta di farsi ammettere a un college? Non è colpa sua se lui non ha ereditato il mondo. Da quanto in qua Harry lo guarda dall'alto in basso? Da quando si è trasformato in uno snob elitario con lui? Dov'è il suo Harry, sarcastico e protettivo?
Adesso è solo preludio di tempesta.
“Tutti si trasformano Peter, solo che io sono più bravo a farlo. E' per questo che si nota di più.”
E’ come se tutto il suo corpo… quella posa vagamente piegata, quella penna che si rigira ossessivamente fra le dita, la giacca bianca e il jeans scuro… il fondoschiena poggiato al lato della scrivania... fossero campanelli d’allarme pronti a scoppiare, spie rosso acceso che incendiano gli espressivi occhi di Peter, tondi e castani da bambino intelligente e discreto.
E Peter se lo chiede se è così che fanno gli squali prima di attaccare. 
Indovinano i punti che sanguineranno di più? Si può sanguinare più di così
Peter non ci crede. La sua gola è una ferita apert, ogni parola è uno sforzo in più, ogni accenno di quel che era una sofferenza, ogni briciola di ciò che sarebbe potuto essere una condanna. 
Non ha niente da perdere, solo il mondo intero. Ma agirà da diciottenne ferito. Da semplice essere umano che ha perso la donna che amava. 
Ne ha bisogno.
E se ne pentirà. Se ne pentirà l’attimo dopo averlo detto. Ma se tanto gli da tanto e l’anima vuole sanguinare, Peter vuole che sia più rosso.
“Provi una tale soddisfazione quando ne parli… sei così fiero di te stesso e di ciò che sei diventato… mi dai il voltastomaco, Harry Osborn.”
BLACKOUT. 
Nei suoi occhi, sul nero del pavimento, sui vetri immensi. 
New York continua a brillare, ma la Oscorp si spegne.
“Peter.”
“Harry…”
“La Oscorp non può spegnersi…”
“E’ appena successo!”
“Me ne sono accorto testa di ragno! Aspettami qui.”
Peter può vederlo anche nel buio latente grazie ai suoi sensi amplificati. L'oscurità è solo lieve penombra ai suoi occhi. E adesso per Harry è la stessa. identica. cosa. 
Il proprietario della Oscorp si allontana nel lungo corridoio. Da qualche parte la sua ombra si unisce a quella sottile di qualcun altro. Una donna. Dai lisci capelli di pece.
“Cosa diamine è successo? La nostra centrale è la lampadina dell’intera città, com’è possibile che noi siamo senza luce mentre lì fuori non ha tremolato neanche un lampione?”
“Signor Osborn non è la luce… è l’elettricità.” 
La chiara voce di una donna squarcia il nero. “Per qualche strano motivo è concentrata tutta nella centrale idroelettrica e non accenna a muoversi. Come se fosse controllata da-“
“-qualcuno.”
Peter non ha bisogno di sentire altro. 
Harry non ha bisogno di tornare nel suo ufficio per sapere che non Peter non sarà lì.
Gli basta trovare un paio di blue Jeans ammassati sul pavimento come in una caduta scomposta e fare 2+2 per capire che qualcuno gli ha mentito.
E che Peter non può fare a meno di fare l’eroe.
Il ‘Signor Osborn’ dell’attraente ragazza si tramuta in un veloce “Harry, cosa facciamo?’ quando gli compare alle spalle.
“Dai ordine di accendere tutte le luci d’emergenza, poi predi dell’acqua. Ci troviamo alla centrale idroelettrica fra dieci minuti e assicurati che nessuno ti segua. Svelta Felicia.”
Felicia non si pone domande. Sa di non avere il tempo di darsi risposte. 
Gira sui tacchi e scompare velocemente. Dopotutto non vede, ma conosce la Oscorp a memoria.

 

|---|

 

E quando arriva alla centrale, dopo dieci minuti esatti -perché quei corridoi sono immensi e la mancanza di luce crea sempre il panico- il casino.
L’esatto, preciso e logico casino che ti lascia interdetto: il silenzio.
Un silenzio perfetto. Impassibile. Impossibile da scalfire. 
Il silenzio che ti urla dentro. Il silenzio dei film horror. Il silenzio che non è silenzio, ma tensione narrativa. 
E la tensione si condensa in parole sulle belle labbra di Harry, e l’elettricità vibrante nell’aria glielo conferma: “Sovraccaricamento elettrica… sei vivo.” 
E l’elettricità diventa caos. 
E il caos Felicia che viene spinta a terra dal corpo del suo capo proprio mentre uno scoppio di luce e stelle ribalta il nero. 
“Cosa.. cosa è stato?! Che riflessi…”
“Felicia, ora ascoltami: collega l’acqua alla cisterna e sparisci di qui." ordina a un palmo dal suo viso. "Non chiamare nessuno, solo vai via.”
Harry si solleva tirandosela dietro. Il suo corpo è troppo leggero. 
“Harry… non cacciarti nei guai, d’accordo?”
“Felicia, vai.”
La chioma di pece ballonzola. Si allontana con rapidità. 
Harry avverte poco dopo i tacchi dirigersi verso l’uscita del tetto. La notte non è priva di stelle ma un’altra fuga elettrica le surclassa per dieci secondi buoni.
Harry li conta, uno per uno, prima di lanciarsi nelle profondità del labirinto intrico di ferro e metallo e corrente della centrale di acqua e energia. 
Corre alla cieca all’inizio, sa che potrebbe fare più in fretta. Solo non riesce ad ammettere di sentire ogni minuscola particella di elettricità intorno a lui muoversi, come se stesse vedendo ad occhi aperti la loro danza chimica. 
I sensi sono così… così, che se cadesse un cellulare al primo piano della torre lo sentirebbe distintamente. 
Il silenzio vibra come un cobra prima di attaccare.
Ma se un cellulare cade, lui non lo sente. 
L’elettricità che pensa di testa propria e si getta sul tuo migliore amico o ex migliore amico o chiunque esso sia non te lo permette. 
Ad Harry gli ha schiaffeggiato forte il viso, molto più forte di quanto abbia fatto Peter al Ravencroft, molto più forte di quanto avrebbe pensato. 
Quando l’elettricità in persona vuole distruggerlo, stando possente e invincibile come Zeus che ha il potere del mondo nelle mani e i fulmini negli occhi innaturali e collerici, Harry non ci riflette nemmeno. Non ci pensa nemmeno. E non da
a nessun altro
dentro di lui il tempo di pensarci. E’ più solo, più cattivo. 
Ma nessuno tocchi quell’uomo in tuta rossa e blu.
“MAX non farlo!”
Si ci butta in mezzo alla battaglia e a loro due e a quel filo rosso che non s’arresta. E l’elettricità neanche. 
Max non fa in tempo a fermarla.
La scienza non sa come fermarla.
Harry deve farlo ora. 
Peter eviterà il primo colpo ma il suo corpo è intrappolato in una zona ad alta conducibilità. Intrappolato come un ragno nella tela.
Peter tira indietro Harry, con quella prontezza di riflessi che costringe Felicia a fare un salto indietro, rivelando la presenza che non ha mai davvero ubbidito Harry. 
Harry gli cade addosso, artigliando fra le mani la pompa ad idro-pressione. La pressione è quella di una cascata in caduta libera. La cisterna contiene oltre dieci litri d’acqua.
E Harry glieli sta per scaraventare tutti contro.
Glieli scaraventa contro. 
L’elettricità assassina delle mani di Max viene bruscamente deviata, cozza come un flipper impazzito fra la centrale, sobbalza nel cielo, incendia il nero, svanisce nell’occhio della luna.
Max sbatte da qualche parte, Peter fa di tutto per alzarsi, vi giuro, di tutto ed Harry fa di tutto per tenerlo inchiodato al suolo. 
L’acqua li sommerge, la pressione del getto li getta di nuovo a terra. E’ gelido.
Harry cerca di allontanare il becco dell’acqua, Peter cerca di allontanare Harry per capire cosa diamine sta succedendo, e si guardano negli occhi sul sottofondo dei tacchi di Felicia che gira la valvola risparmiando il tetto della Oscorp dal diventare una piscina balneabile e borbottando qualcosa che somiglia molto ad un contrariato “uomini”.
E il silenzio si riattacca alle stelle, e Peter scoppia a ridere dinnanzi a quegli occhi azzurri, come non faceva da mesi, come non faceva da una vita. Non indossa la maschera, caduta qualche metro più in là e i suoi capelli sembrano un porcospino confuso dagli aculei spettinati e la risata è candida ed è vera e raggiunge il cielo. 
Harry non la segue.
Ma sorride, piano, circospetto, ma sorride e non è una minaccia, un avvertimento, una scintilla su benzina pronta a dare ogni cosa in pasto alle fiamme, ma solo un sorriso. Semplice. Anche banale per gli standard di Harry. Il sorriso più banale e vero che abbia mai fatto. Banale, vero e qualcos altro.
Qualcos altro che né l’uno né l’altro possono prendersi il lusso di analizzare adesso perché ora è Max ad aver bisogno d’aiuto, ed Harry si solleva. E non si era reso conto del freddo della notte prima che il suo corpo fosse stato stretto contro quello di Peter.
L’alto uomo di puro potere si erge a fatica in tutta la sua altezza, fradicio e indebolito. Le mani emanano sinistre scariche perlate. 
Stringe un pugno e Harry alza le mani. In fretta. Non c’è neanche più il tempo di rimanere interdetti. Prevede tutto, sente tutto. 
“Cosa.. cosa è stato?! Che riflessi…”
“Harry… perché?”
“Ho dovuto farlo Max, ci stavi arrostendo..” allora era vivo. Era vivo per davvero. Potente e pericoloso come sei mesi fa. Bugiardi. 
“Comunque… lui è Peter-“
“Lui è Spider-man” la sua voce sfrigola come olio su gas, “e voglio fargli rimpiangere di essersi messo fra me e il controllo di questa città. E credevo lo volessi anche tu.”
“Lui è… Spider-man… ed è anche Peter… e mi serve. Ci serve.”
“Cosa… di cosa stai parlando? Hai dimenticato cosa ci ha fatto?!”
“No, ah ti assicuro che non potrei dimenticarlo neanche volendo... ma abbiamo bisogno di lui.” 
Max vuole capirci di più. Felicia vuole capirci di più, ora perfettamente visibile nel suo vestito blu elettrico. Ironico. 
Harry vuole smetterla di parlare. 
Ma capisce ben presto che non ha scelta. 
Fa un passo indietro, trova la mano di Peter. Non ha bisogno di voltarsi. Era solo un passo dietro di lui. 
“Io ho bisogno di lui.”
La gola graffia.
Non le piacciono queste parole.
Il silenzio non può tacere, eppure non appena Osborn serra le labbra Dillon si pietrifica, Hardy inarca un sopracciglio, poi li inarca entrambi calcolando somme invisibili e Parker non crede alle proprie orecchie. 
Anche se è un trucco, anche se è una strategia, anche se sta fingendo, non crede alle proprie orecchie. 
E sdrammatizza, anche a costo che un tacco di Felicia gli venga conficcato nello stomaco, perché non si può sostenere tanto in una sola sera.

“Però… Felicia, sembra che tu e Max indossiate lo stesso vestito.”








-Angolo Autore-
La terza persona mi ucciderà. O io ucciderò lei.
Grazie a tutti per le visite al primo capitolo, ve ne sono davvero grata. 
Pachiderma Anarchico.


(Banner creato dalla bravissima HilaryC)

  
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