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Autore: Adeia Di Elferas    28/08/2015    6 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Te s'è ben bela...” stava dicendo la serva, mentre spazzolava i capelli i capelli di Caterina.
 La bambina rivolse a lei i suoi occhi verdi ramati di castano e le sorrise, conquistandola una volta di più.
 “L'è tròpa bela...” annuì la seconda serva, che stava intanto preparando i vestiti che la figlia del Duca avrebbe indossato quella mattina.
 Faceva un gran freddo, ma a Caterina non dispiaceva stare ancora qualche momento mezza svestita a farsi rimirare dalle sue serve, che parevano trovarla tanto bella da non riuscire a trattenere – come ogni mattina – i complimenti.
 “L'è bela me la so mama.” constatò quella che teneva in mano la spazzola, annuendo con una gravità quasi comica.
 “Madona Lucrezia l'è la pusé bela dona de Milàn.” concordò la seconda, invitando con una mano la piccola ad avvicinarsi per farsi vestire.
 Caterina era in brodo di giuggiole, perché le piaceva troppo sentire i servi parlare bene non solo di lei, ma anche delle sue madri. Specialmente di Lucrezia che, ormai l'aveva ben capito, non aveva poi tutti questi diritti di starsene a palazzo con loro.
 Non aveva quasi mai sentito, però, buone parole rivolte a suo padre e questo la turbava ogni giorno di più.
 Quando era più piccola, non faceva troppo caso a quel fatto, anche perché quando c'era sua nonna Bianca Maria, era lei che convogliava tutte le buone parole della servitù e dei soldati.
 Poi, col tempo e con la scomparsa della donna, gli elogi si erano spostati tutti su di lei e sulle sue madri, lasciando ancora una volta a Galeazzo Maria il ruolo di grande escluso.
 “Al sarà propi n'om furtunà, l'om ca ta spusa.” ridacchiò la serva che la stava vestendo, dandole un buffetto sulle gambe, facendola ridere.
 Caterina aveva sentito parlare di matrimoni fin da quando era nata e aveva anche capito che per persone del suo rango il matrimonio era spesso solo un patto formale e solo pochi erano fortunati come era stata sua nonna, sposata per convenienza con un condottiero di cui era follemente innamorata, o come suo padre, che aveva trovato non solo una donna che lo amava incondizionatamente – ovvero Lucrezia – ma anche una moglie che lo adorava e che sarebbe stata pronta a tutto per lui, cioè Bona.
 A molti capitavano matrimoni infelici, che erano da vedersi solo come contratti e formalità, anche se a volte, com'era accaduto a sua zia Elisabetta, le conseguenze dell'accordo erano tragiche.
 Per cui sentire come le serve ridevano a immaginarla sposa non la toccavano più di tanto. Sua nonna le diceva spesso che, una volta giunto il momento, avrebbe dovuto accettare il marito che il padre le avrebbe trovato, e di buon grado e senza lamentarsi, perché era già tanto se Galeazzo Maria l'aveva riconosciuta, pur essendo illegittima.
 Con ciò, l'ipotesi di un matrimonio le sembrava tanto remota che quegli sberleffi affettuosi le facevano solo piacere, lasciandola libera di immaginare un futuro radioso e ricco di amore e fortuna.

 “Deve ringraziare che non è passata davanti al mio naso, o a quest'ora la sua testa sarebbe appesa a una picca nella mia camera!” sbottò Galeazzo Maria, la cui furia, seppur piena e implacabile, appariva opaca e oscurata da un qualcosa che gli rendeva pesante il passo.
 “Come la vostra signoria di certo sa – cominciò Simonetta, con l'amaro in bocca all'idea della collera che stava per scatenare – non possiamo permettere un naufragio dei patti con Girolamo Riario. Devo forse ricordarvi che egli è nipote di...”
 “Non mi devi ricordare un accidente!” Gli occhi del Duca erano tanto spalancati che sarebbero di certo usciti dalle loro orbite, se non fosse stato che di tanto in tanto egli si chiudeva a forza le palpebre con la mano, nella speranza di placare il terribile mal di testa che lo stava tormentando dalla sera prima.
 Cicco Simonetta sospirò e attesa, prima di dire altro. Conosceva fin troppo bene il figlio della compianta Bianca Maria Visconti e quindi capiva quando era il momento di dargli corda e quando quello di colpire.
 Adesso era il momento di dargli corda.
 Galeazzo Maria, infatti, boccheggiò un paio di volte, grigio in viso e tutto storto, immagine sbiadita di quello che era in battaglia o in corteo.
 Il cancelliere lasciò che nell'uomo i pensieri filassero uno dietro l'altro e trovassero un loro senso logico. Non voleva essere lui a portarlo all'unica conclusione ovvia, di cui, per altro, avevano già parlato tempo addietro, quando erano in cerca di una pretendente e la giovane figlia di Gabriella Gonzaga non era ancora stata presa in considerazione.
 Galeazzo Maria era arrivato da tempo alla conclusione giusta, ma la rifiutava a tal punto da fingersi stupido: “Se ci rifiutassimo, in cosa... Cosa ci succederebbe?”
 Cicco Simonetta aggrottò la fronte e si finse paziente, perché lo stava conducendo laddove voleva, nell'angolo logico in cui avrebbe sferrato il colpo finale portandolo ad accettare l'inaccettabile: “Se i Riario, o meglio, i Della Rovere, venissero delusi da noi...” cominciò, parlando molto lentamente: “Ovviamente la crisi di Imola è la causa di ogni nostro male. Si è trattato di un errore molto leggero, che avete fatto per inesperienza, ma non per questo ci sarà meno fatale. Ci troveremmo contro la chiesa e Imola stessa e non oso pensare a come reagirebbero i veneziani, sempre pronti a ledere la vostra famiglia, Duca.”
 Stringendo al petto la sua solita cartelletta di cuoio, Cicco cominciò a guardare l'orizzonte, un punto lontano, come se potesse vedere ciò che descriveva: “Sollevazioni popolari e sicari a ogni angolo. Non ci sarebbe al mondo un posto sicuro per uno Sforza... Una terribile guerra, poi, ci trascinerebbe sul lastrico e in breve resteremmo senza uomini e senza Ducato. I soldi del papa sono molti e possono comprare lame molto affilate... E non crediate che i Gonzaga si dimenticheranno delle pressioni fatte a Gabriella... Le useranno come pretesto e in breve pure loro si schiereranno coi nostri nemici...”
 “Ho capito.” lo zittì Galeazzo Maria, sedendosi pesantemente dietro alla scrivania del cancelliere, che era invece in piedi, vicino alla finestra, illuminato, attraverso la finestra chiusa da pergamena, dal malevolo sole d'inizio inverno.
 “Davvero, avete capito?” chiese Cicco Simonetta, non persuaso, per via del tono troppo calmo del suo padrone.
 Galeazzo Maria, con un improvviso senso di nausea si sforzò una volta di più di negare l'evidenza: “Avremo tutti contro, ma siamo forti, possiamo farcela.”
 Cicco Simonetta scosse il capo: “No, Duca. Ci serve una moglie per Girolamo Riario, questa è l'unica soluzione. E sapete meglio di me che al momento in casa Sforza esiste una sola pretendente accettabile.”
 Galeazzo Maria ora sentiva la bocca dello stomaco aprirsi e chiudersi ed era certo di essere sul punto di vomitare, mentre, guardando implorante il cancelliere – come se egli potesse davvero fare qualcosa per toglierlo da quella situazione – sussurrò: “No. Caterina no. Oh, al diavolo, Simonetta! Lei no...!”

   
 
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