CAPITOLO 1
La tempesta pareva aver esaurito la
sua forza, lasciando
dietro di se odore di terra bagnata e rivoli d’acqua che
scendevano dalle folte
chiome delle querce a ogni soffio di vento.
Sal, fermo sull’uscio, scrutava il cielo che si andava
rischiarando a est. Le
nuvole che per due interi giorni avevano riversato sul bosco la loro
furia,
costringendolo ad attendere al riparo di quel vecchio rifugio per
cacciatori,
ora lasciavano il posto a un cielo terso.
Il tempo perfetto per raccogliere l’Aqom, pensò, e
volendo
anche qualche fungo per la zuppa del pranzo. Avvolse le spalle ancora
robuste
nel mantello e uscì.
L’aria del mattino era fredda, anche troppo per le sue ossa,
ma l’aver perso ben
due giorni lo spinse fuori dal caldo riparo offerto dal rifugio. Con la
destra
stringeva un cestino di vimini mentre con la sinistra tentava di tenere
chiuso
un mantello che mostrava un tenace desiderio di aprirsi a ogni soffio
di vento.
«Forse non ho più l’età per
queste cose» si disse mentre l’ennesima folata gli
riversava addosso il carico d’acqua delle fronde di un
albero. Si chinò quando
vide un ciuffo dell’erba che stava cercando. Tastando con la
mano intorpidita
dal freddo una delle numerose tasche del mantello tirò fuori
il piccolo
coltello da erborista e lo raccolse, riponendolo nel lato destro del
cesto.
Il bosco umido al mattino era comunque uno spettacolo incantevole, e il
richiamo della natura silvestre lo affascinava ora come
vent’anni fa.
Quei boschi erano il luogo più caro che avesse.
Lì aveva imparato dal suo
mentore il mestiere, lì aveva conosciuto la vita nelle sue
gioie più grandi
come nelle più grandi sofferenze. Conosceva quei boschi
anche meglio delle
tasche della sua tunica, e tornare, anche se di rado, in quei luoghi
gli
destava una dolce malinconia.
Ogni anfratto, ogni asperità gli ridestavano dolci ricordi.
A passo lento si
diresse verso l’antica costruzione in pietra, verde come le
foglie dell’edera
che l’aveva ormai circondata e quasi del tutto coperta,
chinandosi di tanto in
tanto a raccogliere altre foglie di prezioso Aqom, oltre a qualche
fungo
pregiato. Sal trovava cesta a due scomparti che gli aveva donato il
Duca
alquanto comoda, riuscendo a raccogliere in un solo contenitore erbe
diverse
senza che si sfiorassero tra di loro.
A est un sole faceva capolino tra le cime degli alberi. Presto il
calore dei
suoi raggi lo avrebbe avvolto in un tiepido abbraccio, asciugando il
terreno
intorno e le sue vecchie ossa.
Giunto ai piedi del megalite avvolto dal rampicante, lo
toccò con la sinistra,
recitando una preghiera al dio Drago imparata dal suo mentore anni
prima. Non
era certo un popolano ignorante lui, di quelli che rivestono di
significato
ogni gesto e parola imparati al tempio da vecchi chierici in toghe
sontuose,
più per scaramanzia che per reale devozione.
Eppure quell’enorme scultura, fatta di una pietra che non
aveva visto da
nessun’altra parte, un gigante in mezzo al nulla, forse un
estremo baluardo di
qualche popolo ormai scomparso pure dalle leggende, ridestava in Sal
una
spiritualità e un senso di contatto con l’universo
altrimenti estraneo alla sua
natura.
Come ogni volta percepì il tepore contenuto in quelle rocce,
quando con due
dita tracciò il segno del Drago.
Terminato quel breve rituale riprese il suo cammino, deviando verso
nord col
preciso intento di scalare la collinetta e osservare il bosco da un
punto
sopraelevato. Dopo pochi passi però un suono, come un flauto
che debolmente tiene
una sola nota, lo spinse a voltarsi.
Fino a quel mattino l’erborista pensava che i suoi occhi
avessero visto tutto
ciò che c’era da vedere, ma nulla in tutta la sua
non breve vita lo aveva
preparato allo spettacolo che gli si presentò. Il cestino
gli cadde dalle mani,
e il suo contenuto rovinò nella terra bagnata, quando vide
che il rampicante si
stava ritraendo dalla struttura megalitica, ricacciato da una luce
bianca che
andava aumentando di intensità.
A bocca aperta recitò mentalmente una preghiera, troppo
stupito e spaventato
per fare anche solo un passo. Al centro de
Mènhudè apparve un piccolo globo
luminoso, come un fuoco fatuo bianco. Lentamente crebbe
d’intensità, Gli
occhi neri dell’uomo erano attirati dallo
spettacolo di luci che gli si presentava. Dopo pochi secondi, che
all’erborista
sembrarono ore, la luce sembrò prendere forma in una figura
di donna, vestita
di una tunica viola stretta in vita da una corda argentata. Poi il
suono e la
luce cessarono contemporaneamente, e la donna si accasciò
per terra, sparendo
dalla sua vista. Molto lentamente paura e superstizione cedettero il
posto alla
curiosità. La mente razionale dell’uomo
ricacciò il timore atavico dell’ignoto,
e Sal mosse alcuni passi incerti verso il punto in cui era avvenuto il
prodigio. Notò che i rampicanti stavano miracolosamente
riconquistando terreno,
come se la natura, fattasi da parte per far posto alle energie arcane
di cui
era stato testimone ora reclamasse ciò che nei secoli aveva
faticosamente
conquistato. Perso nella lotta interna tra timore e sete di conoscenza
Sal
avanzava lentamente tra l’intrico del sottobosco, quando un
gemito lo spinse ad
affrettare il passo e a salire i gradini del megalite chiamato
Mènhudè, finché
non si trovò di fronte a una donna riversa su una
piattaforma sopraelevata,
verde come il resto della struttura. Aveva capelli lunghi e neri,
tenuti
insieme da una coroncina argentata come la cinta. Ma ciò che
fece tremare il
cuore del vecchio fu la pelle: le braccia e le spalle nude erano
ricoperte da
una raccapricciante fitta rete di tagli ancora sanguinanti, come se un
torturatore si fosse divertito a disegnare usando il corpo della donna
come
tela e un pugnale per pennello. Quando le si avvicinò la
donna spalancò gli
occhi e disse “Alyn». Quindi svenne. Sal, ripresosi
dallo shock, prese dalla
cinta la bisaccia piena d’acqua e ne versò il
contenuto sulla donna, per
ripulirla dal sangue fresco. Dove l’acqua detergeva la pelle
non vide nessuna
ferita fresca, piuttosto cicatrici di vecchia data, ormai perfettamente
rimarginate. “Un mistero dentro a un mistero”
pensò, mentre completava l’opera
di detersione. Era stato testimone di un evento prodigioso e tremendo,
ma non
se la sentiva di cedere all’impulso di fuggire e lasciare la
donna sola nel
freddo autunnale del bosco. Si caricò in spalla la donna,
meravigliandosi della
sua leggerezza, e si avviò verso il rifugio.
Gli occhi rivolti allo specchio
d’acqua sembravano non
accorgersi dello spettacolo di luci e colori che andava tingendo il
lago. I
riflessi arancio e oro sul lago all’alba avrebbero per lo
meno dovuto
accecarla, se non rapirla in una sensazione di stupita ammirazione,
come ogni
altra mattina. Eppure stamane era diverso. Guardava senza vedere, persa
in un
turbamento che mai più avrebbe dovuto coglierla.
«Ci siamo» La voce accanto a lei la
ridestò, come da un sogno.
«Avevo sperato che ci fossimo lasciati alle spalle molto
tempo fa tutto questo»
«In realtà lo abbiamo sempre saputo. Fin dal
fallimento di Artemia. Ora tutto
potrà essere di nuovo messo in gioco. Ora potremo rimediare
a tutto» La nuova
arrivata era esultante.
«Lo spargimento di sangue sarà immenso. Di
nuovo» le rispose «il suolo del
Kejnar sarà di nuovo rosso. E noi dovremo tornare a essere i
carnefici. Per cui
ti chiedo, Amirha, c’è sul serio da gioire per
questi presagi? Dobbiamo
esultare per il ritorno del Nihar?» Una lacrima scese da
quegli occhi neri
screziati d’oro, e lentamente scivolò sul bel
volto nero come l’ebano.
«Trattieni le lacrime per quando ce ne sarà
davvero bisogno, Lea, potrebbe non
essere necessario versarle»
La voce adamantina proveniva dalle loro spalle, ma non ebbero bisogno
di
voltarsi per sapere chi fosse stato a parlare.
«non essere ingenuo, Kafhi, il Nihar non ha mai portato
notizie di gioia per la
nostra terra» La voce di Lea appariva melodiosa, in contrasto
con i sentimenti
che trasparivano dal suo volto. «ricorda l’ultima
volta che ne ha calcato il
suolo» Poi chiuse gli occhi e aggiunse sotto voce
“le guerre del cielo non
dovrebbero interessare il mondo terreno»
«Sta volta sarà diverso»
L’uomo poggiò la mano esile sulla spalla di Lea,
lo
sguardo fisso sugli occhi di Amirha. «La Spada Spezzata si
è destata»