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Autore: lilJEyre    01/09/2015    2 recensioni
A volte la bellezza sta nel ghiaccio del Nord, nel mare della Norvegia, negli occhi dolci di chi non conosciamo e che mai ci vedranno. In un cielo che non conosciamo, ma che impariamo ad amare.
A volte la vita è dura, ma trova sempre il modo di farsi perdonare.
A volte abbiamo solo bisogno di amare e di essere amati.
(...) Le sue mani scesero sul mio collo, sulle spalle, facendomi venire la pelle d’oca sulla nuca. Poi, ancora, scesero nell’ incavo del mio collo, sulle orecchie e infine tra i capelli.
L’unico rumore percettibile era lo scoppiettio del fuoco, accompagnato dal il mio respiro corto.
Uno strano calore s’irradiò dal centro del mio petto in tutte le parti del mio corpo, facendo vibrare ogni mia terminazione nervosa. Affondò il viso fra i miei capelli ed inspirò.
«Il profumo di lavanda è anche il mio preferito.» mormorò allontanandosi.
Le fiamme del camino ballavano e si riflettevano nei suoi occhi vitrei. (...)
(...) Le sopracciglia erano unite in una linea retta, le labbra dischiuse. Pensai che se la mitologia scandinava fosse stata reale, Thor, figlio di Odino, avrebbe avuto il suo volto.
«Grazie…»
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo uno



 

 

    Quando scesi dall’aereo che mi portò da Los Angeles a Trondheim, un brivido mi attraversò la schiena, penetrandomi nelle ossa. Sapevo delle basse temperature dell’Europa del Nord… ma immaginarle è molto diverso dal conoscerle. Avevo vissuto a Los Angeles per cinque anni, ero nata e vissuta a Tucson, Arizona. Perciò, quando l’aria fredda e pungente norvegese di metà Novembre mi colpì in pieno viso, sentii i muscoli facciali immobilizzarsi.
    Linn la mia compagna di viaggio, si voltò sorridendo. «Freddo, Iris?»
    Scossi il capo, stringendomi nel cappotto e digrignando i denti. «Ho quasi caldo.» ironizzai tremando.
    Lei aprì la bocca per ribattere, ma non emise alcun suono, perché una voce maschile chiamò il suo nome. Mi voltai e vidi un uomo alto, dai capelli biondi e grandi occhi verdi, esattamente come quelli di Linn.
    «Papà!» esclamò lei, lasciando cadere la valigia sul pavimento e correndo verso l’uomo poggiato ad una jeep verde, fuori dall’aeroporto.
    Sì, Linn era mia collega norvegese che, due mesi prima mi aveva invitata all’anniversario dei suoi genitori. L’invito, certo, mi era stato fatto in circostanze particolari.
    Lavoravo in uno show televisivo, come giornalista e, di tanto in tanto, inviata per sciocche rubriche. Avevo rinunciato a una delle due settimane di vacanza concessemi annualmente, per passare del tempo in Norvegia, con Linn. Mi era sembrata una buona idea, un modo per dimenticare ciò che due mesi prima era accaduto, per quanto difficile ancora potesse apparirmi.
    Prima che potessi lasciarmi andare a ricordi dolorosi, Linn si voltò verso me, facendo oscillare i corti capelli biondo platino, come fosse l’onda di un ruscello.
    «Papà, ti presento la mia collega e cara amica, Iris.»
    L’uomo di mezz’età, dalla mandibola squadrata e larghe spalle solide,  mi sorrise e rividi nei suoi occhi la stessa luce che brillava in quelli di Linn.
    Mi porse la mano. «Harald. Harald Karlsen.»
    L’afferrai e la strinsi con forza. «Iris Bennet.»
    «Benvenuta a Trondheim, Iris.» sorrise, prima di salire sulla jeep.


    Sulla strada per andare a casa dei Karlsen, dato che non vivevano in città, ma in un agglomerato di case fuori Trondheim, che contava circa di mille abitanti.
    La radio trasmetteva una canzone in una lingua a me sconosciuta, certamente norvegese, ed il sole sfiorava arancione l’orizzonte. Il ciglio della strada era ricoperto di neve e vederla, lì, bianca come cotone, mi fece fremere e battere il cuore di gioia.
    «Non avevo mai visto la neve.»
    Linn si voltò, sorridente. «Bella, vero?»
    «Sì.» soffiai.
    «Non hai mai visto la neve?» tuonò la voce di Harald.
    Scossi il capo, «mai» e tornai a guardarla.
    «Vengo dal deserto dell’Arizona. Lì non nevica mai.»


    «Sai, Richard, mi piacerebbe tanto vedere la neve.»
    «Potremmo andarci in viaggio di nozze. Potremmo andare a sciare.»
    «Lo faresti sul serio?»
    «Tutto ciò che vuoi, piccola. Tutto ciò che vuoi.»

    Mi morsi il labbro inferiore, ignorai le voci di Linn ed Harald, che parlavano fra loro - d’altronde non capivo una sola parola- e guardai il cielo scurirsi, mentre il mare diventava una distesa sempre più scura.
    «Ti chiediamo scusa, Iris.» disse Harald.
    «Cosa? Perché?» chiesi confusa.
    «E’ così tanto che non parlo norvegese e… mi sono lasciata andare.» continuò Linn. «E’ stato involontario.»
    «Oh, no, non preoccupatevi. Sono totalmente rapita da… tutto questo.» mormorai indicando il paesaggio oltre il vetro del finestrino. Linn mi aveva raccontato che, lì in Norvegia, i bambini sin dalla tenera età, imparavano a parlare in inglese.
    «Ti avevo detto che ti sarebbe piaciuta.»
    Sorrisi, guardando il mare. «Sì, è vero.»


    Quando scesi dall’auto, il freddo pungente mi fece ancora una volta rabbrividire nel cappotto. Linn mi aveva detto poco della sua famiglia, maledettamente poco e restai confusa e leggermente scioccata alla vista della grande casa in legno scuro, dal lungo viale in pietra e dalle betulle che la circondavano.
    «Tu vivi qui?»
    «No, a Los Angeles.»
    Mi voltai, alzando un sopracciglio. «Tu hai vissuto qui?»
    «Forse.» rispose facendo spallucce e camminando a passo svelto lungo il viale.
    Sorrisi, scuotendo appena la testa e quando sentii la sicura della jeep scattare, mi voltai incontrando la figura di Harald, in una mano la mia valigia, nell’altra quella di Linn.
    «Oh, lasci che l’aiuti.» dissi cortesemente tendendo la mano verso la mia valigia.
    Lui rise, incamminandosi verso la casa. «Discendiamo dai vichinghi, abbiamo potenza in noi.»
    Mi morsi l’interno della guancia e lo seguii verso casa.
    «Mi scusi, signor Karlsen, posso chiederle di cosa si occupa?»
    «Oh, chiamami Harald. Io e mia moglie siamo medici. Lei è una psichiatra, io chirurgo cardiotoracico. Linn non ha mai parlato di noi?»
    Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Non molto.»
    «Uhm.»
    Pochi secondi dopo, salimmo le scale della veranda, ed entrammo in casa, avvertii immediatamente il calore. Il calore del fuoco che scricchiolava nel camino, del legno scuro del soffitto, del legno chiaro delle pareti, dei tappeti dai mille colori, delle fotografie di famiglia. Fu strano, ma riuscii ad avvertire l’allegria, la gioia del ritrovarsi, come fossero mille carezze sul viso. In quella casa, mentre Linn teneva stretta fra le braccia una piccola donna dai capelli bianco latte, respirai odore di famiglia, di felicità.
    Incontrai due occhi azzurri chiari come l’acqua del mar dei caraibi, incastonati in un viso rotondo e labbra che sorridevano dolcemente.
    «Devi essere Iris.» disse la donna.
    Sentii irrazionalmente il sangue fluire alla guance, mentre mi sfilavo i guanti e porgevo la mano alla donna dalla statura minuta. Ma lei la ignorò, allargò le braccia e mi strinse a sé, quasi togliendomi il fiato.
    «Io sono Elna.» disse allontanandosi e stringendomi le spalle con le mani sottili. «E’ un piacere conoscerti.»
    Era piccola, esattamente come la signora anziana che Linn stringeva ancora a sé. Più basse di me, che a malapena sfioravo il metro e sessantotto, così diverse da Linn che era più alta di me di almeno dieci centimetri.
    Sorrisi. «E’ un piacere anche per me.»
    Linn si allontanò dalla signora anziana e si voltò sorridente verso me. «Lei è mia nonna Bretta.»
    «Ma tu puoi chiamarmi nonna Britt.» rise con voce roca e sottile. Mi abbracciò e la strinsi con delicatezza, come se il solo toccarla avrebbe potuto ridurla in mille pezzi. La sua pelle era morbida e chiara, ricoperta da una miriade di sottili rughe, che portavano con esse i dolori e la gioie di una vita.
    «Oh, ma guardati… sei bellissima.» disse Bretta sfiorandomi i capelli con fare dolce.
    «Dov’è Alex?» chiese Linn alla mamma che intanto stava aiutando Harald a sfilarsi la giacca.
    «E’ uscito a fare una passeggiata.» mormorò la nonna avanzando sul divano.
    «Da solo?» chiese sorpresa Linn.
    «No, è con Ruth. E’ nei paraggi.» rispose Elna, mentre io mi sfilavo il cappotto, che Harald si offrì di appendere all’ingresso.
    Avrei voluto chiedere di fossero Alex e Ruth, ma non mi sembrava particolarmente educato, così, lasciai stare. L’avrei chiesto a Linn quando saremmo state sole.
    «Com’è andato il viaggio?» chiese Elna spostando lo sguardo da me a Linn, da Linn a me.
    «Stancante.»
    «Sì, molto.»
    «Oh, andiamo, Elna, figlia mia, lasciale riposare un po’.» disse Britt accarezzando la guancia della nipote.
    «Oh, giusto, scusate!» esclamò la donna scuotendo il capo ed agitando la mani in aria.
    «Vieni, cara, ti accompagno nella tua stanza.» disse Elna prendendomi a braccetto e conducendomi per la scale. Il primo piano aveva un lungo e largo corridoio, grande quasi la mia cucina a Los Angeles. La mia camera era l’ultima, in fondo, preceduta da altre tre camere. Da quanto appresi più tardi, la mansarda fungeva da ulteriore camera.
    «Riposati, fra un’ora sarà pronta la cena.» sorrise Elna, prima che Harald mi porgesse la valigia.
    «Grazie.» mormorai. Lui fece un cenno col capo.
    «Dov’è il bagno?»
    «In camera.»
    «Oh. Oh
    «La mia camera è questa!», la testa di Linn fece capolino dalla prima stanza sulla destra, ma chiuse la camere prima che potessi dire qualcosa.
    Portai la valigia dentro e mi avvicinai alla porta. Elna ed Edvard si dirigevano verso la scala, stretti l’uno all’altra. Quella visione, carica d’amore e dolcezza, mi causò una fitta in pieno petto.
    Cercai di non lasciare che i ricordi m’invadessero la mente, ma… il mio tentativo fu vano.

    «Sono andato a letto con un’altra. E non avrei mai voluto farlo.»

    Spalancai gli occhi ed la tazza che stringevo fra le mani, s’infranse al suolo.
    «Diamine!» sibilai chinandomi a raccogliere i pezzi di ceramica. Urlai di dolore quando mi tagliai un polpastrello, così mi alzai di scatto portando il dito sotto il getto d’acqua fredda del lavabo della cucina.
    «Hai sentito ciò che ho detto?» chiese ancora lui.
    «Sì.» risposi con voce atona, prima di chiudere l’acqua.
    «E non hai nulla da dire?» chiese sorpreso.
    Mi morsi il labbro, prima di voltarmi.
    «Vuoi che cominci a strillare, Richard? Vuoi che ti lanci i vestiti dalla finestra? Che ti riversi una valanga di parolacce? Che pianga?»
    Non rispose, il suo sguardo era eloquente.
    Mi portai una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Ho solo un domanda, Richard.» dissi avanzando verso lui.
    «Tutto ciò che vuoi, amore mio.» mormorò premendo il palmo della mano sul mio viso.
    «Perché?»
    «Non lo so.»
    «Non è una risposta valida. Perché?» ripetei guardandolo con espressione seria.
    «Forse… forse perché fra noi… ecco… è tutto così perfetto....»
    Corrugai la fronte. «E’ colpa mia.»
    «No, non dico questo, piccola… solo…»
    Indietreggiai di un paio di passi. «Sai cosa farò adesso, Richard?»
    «Cosa?»
    «Andrò in camera da letto e farò le valigie. E sai perché? Perché sei un lurido idiota che non ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità.» sputai. «E sai cosa succederà dopo? Dopo potrai ficcarti questo stupido anello –mi sfilai il piccolo diamante dall’anulare- in un posto che non è tanto difficile da immaginare. E non tentare di chiamarmi –lo dissi cercando di trattenere la lacrime, di controllare al voce incrinata-, non seguirmi, non chiedere di me a lavoro, ai miei amici. Non frequentare il mio locale preferito, non guardarmi il quel maledetto telegiornale.»
    Corsi in camera ed afferrai una valigia riposta sotto il letto.
    «Cosa? No, ti prego, Iris, parliamone! Possiamo risolvere tutto.»
    Quando la sbattei con un tonfo sordo su letto, lo guardai in cagnesco senza rispondere alle sue parole.
    «Ti prego, amore.»
    «Non chiamarmi amore.» scandì bene le parole mentre afferravo delle t-shirt dall’armadio e le riponevo in valigia senza piegarle. «Tu non hai idea di cosa sia l’amore. Sei andato a letto con un’altra!» sibilai con rabbia.
    «E’ successo solo una volta e noi possiamo superare tutto. Anche Anna è tanto pentita e…»
    Fu udire quel nome che fece cadere il mio cuore nel burrone, già traballante sul ciglio. «Anna?»
    Richard capì di aver detto probabilmente troppo e si portò una mano dietro la nuca. Un gesto che faceva spesso quando non sapeva come rimediare al danno fatto.
    «Anna?» chiesi mentre le lacrime cominciavano a bruciarmi gli occhi.
    «Ti prego, Iris…»
    «Tu… io… come avete potuto? Sei andato a letto con la mia migliore amica! Con Anna!» gridai dirigendomi in bagno, per prendere il beautycase.
    «Mi dispiace così tanto… ma ti prego con andare via!»
    In quel momento mi sentii doppiamente tradita, doppiamente ferita, come se due pugnali affilati mi avessero colpito in pieno petto. La vita che fino ad allora mi ero costruita lì, a Los Angeles, stava scomparendo, sfuggendomi dalla mani, come portatami via da una folata di vento. La famiglia che avevo intenzione di costruirmi, divenne solo un’immagine sfocata
    Le mani cominciarono a tremarmi, mentre gli occhi mi si velavano immancabilmente di lacrime di rabbia.
    Afferrai la borsa ed uscii dalla camera, ignorando le suppliche di Richard. Quando sentii la sua mano afferrare il mio polso non potei controllare il mio braccio. Infatti, le mie nocche, strette attorno al palmo, si scontrarono con il suo naso, macchiandosi così di sangue. Il dolore che provai alle dita, non era nulla in confronto al senso di liberazione di rivalsa nei confronti di Richard.
    «Non provare mai più a toccarmi, brutto idiota.» ringhiai scuotendo la mano in aria, come a voler scacciare il dolore.
    «Puoi mandare la mia roba da Linn.» sibilai uscendo e sbattendo la porta dell’appartamento… quell’appartamento che per due anni era stato il mio posto sicuro.

    Rimasi ferma, lì, a fissare il vuoto per alcuni istanti, o forse minuti, mentre lasciavo che la vane speranze riposte nell’amore di un uomo, che non aveva esitato a calpestare il mio cuore, venissero a galla e sentii l’irrefrenabile desiderio di acqua calda, la necessità di rilassare i muscoli contratti. Così mi voltai ed entrai in camera, chiudendo la porta di legno chiaro. La stanza era a dir poco meravigliosa. Il letto matrimoniale si trovava sul lato destro, mentre la porta del bagno, sul lato sinistro. Davanti a me, una grande finestra. Ma l’oscurità era tanto fitta, che nemmeno le stelle o la luna illuminavano il profilo della distesa d’erba e delle conifere in lontananza. Quel buio pesto non mi piacque, così chiusi le tende arancioni e mi lasciai cadere sul letto. Chiusi un momento gli occhi, ma il richiamo della doccia era troppo forte, così mi legai i capelli ed una volta entrata in bagno –dai muri color panna e mobili bianchi- lasciai che l’acqua calda mi sciogliesse i muscoli ed i nervi tesi dalle ore di voli.
    Una volta uscita mi avvolsi il corpo con un asciugamano bianco. Pulii lo specchio dalla condensa e guardai la mia immagine riflessa nello specchio.         La luce era talmente soffusa che entrambi i miei occhi, sotto le altre sopracciglia castane, apparivano dello medesimo colore. Le iridi apparivano entrambe grigi, quando di solito, in una di esse si poteva scorgere uno spruzzò di mare, nell’altra d’erba appena tagliata, ma entrambe miste ad un celo plumbeo e terso.
    Mi passai del burro di cacao sulle labbra piene e mi spazzolai energicamente i denti, prima di asciugare i lunghi capelli castani che, lisci, mi ricaddero oltre le spalle. Mi vestii e, mentre mi allacciavo gli scarponcini, sentii qualcuno bussare alla porta.
    Quando aprii Linn mi attendeva sorridente, poggiata al muro, stretta in un vestito nero di lana.
    «Pronta? Muoio di fame.» sorrise.
    Annuii e la seguii. Mentre scendevamo le scale, mi ricordai la domanda lasciata in sospeso. «Linn?»
    «Sì?»
    «Chi sono….», ma non riuscii a terminare la domanda che Linn corse giù per le scale.
    «Alex!» esclamò in un gridolino.
    Quando scesi l’ultimo gradino, la vidi con le braccia strette al collo di un uomo persino più alto di Harald, che probabilmente sfiorava il metro e novanta, dai capelli chiari e viso rettangolare. Aveva le labbra sottili distese in un sorriso, gli occhi chiusi. Ai suoi piedi un cane, con lingua penzolante, ansimava.
    «Mi sei mancato.» mormorò lei.
    «Mi sei mancata anche tu.» ridacchiò lui e fui sorpresa da quando gradevole al mio udito risultò la sua voce. Era roca, bassa, ma non scura, ed il suo tono era carico di dolcezza.
    Lei sciolse l’abbraccio e lui chinò appena il capo.
    «Alex,» disse prendendogli la mano, «permettimi di presentarti la mia amica, Iris.»
    Alzai gli occhi su Linn ed il suo sguardo era luminoso.
    «Iris, lui è mio cugino Alexander.» disse con tono orgoglioso. Il mio sguardo dal suo viso si spostò sulla sua mano che mi porgeva quella grande del cugino. Mentre l’afferravo alzai lo sguardo su sul viso e quando incontrai il suo il fiato mi si mozzò.
    Un paio di occhi azzurro ghiaccio.
    Due occhi vitrei che cercavano un’immagine che mai avrebbero trovato.

 

   
 
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