Just a game?
Di nuovo una stanza
familiare. Non la stessa, un letto più grande, un soffitto più
basso, ma ugualmente poco illuminata e familiare; anzi, ancora più
familiare. Di nuovo.
Vi è
un’altra camera in basso, unita alla superiore da una scala in legno. Vi
è luce lì, e ombre che si muovono rapide. Le mani premute sulle
sue spalle, lo spingi di scatto lontano dalla scala, al di sotto della quale
un’ombra – anch’essa familiare, tutto lo è e niente lo
è – passa e sembra scivolare via. Lo spingi verso l’interno,
come se temessi che qualcuno possa scoprirvi. E cosa ci sarebbe di male? E come
fanno loro a non accorgersi di voi?
Lui ti fissa con occhi
grandi, languidi, divertiti, gli angoli della bocca sottile incurvati
leggermente all’insù, un sorriso vago ma all’apparenza
sincero. Tu ricambi lo sguardo allo stesso modo, o almeno, è ciò
che tenti di fare. Non stare lì a meditarci su, questo non è il
momento di pensare.
Dapprima vi studiate
brevemente ma con attenzione, alla maniera dei lupi prima di un incontro
ravvicinato, poi d’un tratto avanzate l’uno verso l’altro
– i vostri respiri, anelanti, come unico sottofondo musicale – e
teste si inclinano, visi si sfiorano, e infine… infine, una volta unite
le vostre labbra, le braccia intrecciate, i vostri corpi che incombono
alternativamente l’uno sull’altro, non sai più dove finisci
tu e inizia lui. Tenero e esigente allo stesso tempo, lui sembra volerti
risucchiare, avvolgere, in una caverna umida e calda. D’improvviso, il
calore aumenta, si espande ovunque, come fiamme incontrollabili e
inarrestabili, finché tutto diventa incandescente…