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Autore: arya_stranger    02/09/2015    4 recensioni
«Mi avvicinai al letto lentamente, con la reverenza di un suddito che si avvicina al trono del suo signore. Intravidi il profilo del corpo di Frank sotto il lenzuolo leggero. [...]
Mi era sempre piaciuto contemplarlo mentre dormiva. [...] Mi immaginavo di poter penetrare nei suoi pensieri e sbirciare i suoi sogni. Osservare il frutto del suo sonno sarebbe stato il dono più prezioso della mia intera esistenza e oltre. Non avevo la minima idea di cosa avrei potuto scorgervi. Forse ricordi della sua infanzia filtrati da esperienze recenti? Mondi fantastici in cui era un cavaliere pronto alla battaglia?»
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Gerard è riuscito a salvare Frank e, dopo essere tornato indietro nel tempo per sfuggire alla morte una seconda volta, vede la persona che ama di più al mondo felice, e capisce che gli ultimi sprazzi di tristezza che Frank aveva erano colpa sua. Tenta il suicidio, ma a salvarlo è lo stesso Frank, che però non lo riconosce subito.
Quando tutti i tasselli del puzzle combaciano, Frank capisce chi è il ragazzo che ha appena salvato da morte certa.
Ma la vita prosegue e non risparmia nessuno.
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[seguito di "The Afterglow" >>> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2496183&i=1]
Genere: Drammatico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Second Chance'
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13

Here comes the darkness
It's eating at my soul
Now that the spark has
Gone out of control




 
 
(Bianca POV)


 
Una fitta pioggia cadeva sulle strade di Londra, ormai ininterrottamente da due giorni, o forse più. Sembrava che il cielo stesse riversando tutta la sua tristezza sul mondo, sotto forma di grosse lacrime che colpivano con la loro violenza tutto ciò che incontravano sul loro cammino.
Mancavano solo otto giorni allo scadere della missione, e dopo sarei tornata indietro nel tempo per evitare la mia morte. Tuttavia non avevo ancora ricordato come ero morta. Ero riuscita a recuperare alcune memorie della mia vita passata, ma quella che mi premeva maggiormente ricordare, scappava continuamente dalla mia mente.
Era tardo pomeriggio, e avevo lasciato Ed ai fornelli, intento a preparare la cena. Io avevo bisogno di uscire, nonostante la pioggia incessante. Certe volte quella casa diventava semplicemente troppo opprimente per rimanervi dentro. Stare intorno ad Ed non rendeva per niente le cose più semplici. La sua presenza mi ricordava continuamente quale era il mio compito, quale era la vera ragione per cui mi trovavo in quel luogo.
Il sole era ormai tramontato, e una premurosa oscurità abbracciava tutto ciò che incontrava. Anche il mio corpo era stato avvolto dalle ombre della notte, e dalla pioggia, insieme a loro.
I miei vestiti era già tutti completamente bagnati, e un freddo pungente di insinuava fino alla mia pelle, penetrando anche nelle ossa, congelandole.
Cominciai a battere i denti convulsamente, senza poterli controllare. Affondai ancora di più le mani dentro le tasche del cappotto impregnato d’acqua, cercando di riscaldarle un po’. Ogni tentativo di alzare la mia temperatura corporea fu pressoché inutile, così decisi di tornare indietro, verso casa.
La strada era completamente immersa nel buio, solo un paio di lampioni rischiaravano la via.
Intravidi il giardino dove io e Gerard ci eravamo baciati per la prima volta, e una sensazione calda mi invase lo stomaco. Decisi di avvicinarmi, e di addentrarmi nel giardino deserto.
I giochi infestavano come fantasmi il luogo, e l’erba bagnata era leggermente scivolosa. Mi immaginai che i bambini fortunati, quelli con un’infanzia felice e dei genitori premurosi, andassero lì ogni giorno a giocare. Io non avevo avuto quel privilegio. La mia famiglia aveva sempre e solo pensato che la mia educazione dovesse essere fondata su rigide regole e maltrattamenti sia fisici che psicologici. Mia mamma non mi aveva mai portato a giocare con i miei compagni di classe dopo scuola. Forse lei avrebbe voluto, ma mio padre lo avrebbe sicuramente impedito. Lui era un pastore anglicano, e mi chiedevo chi gli avesse permesso di proseguire la sua carriera. Si supponeva che un fedele, un credente come lui, non picchiasse la figlia. Quando ero cresciuta avevo scovato metodi per evitare di essere sottoposta a quei maltrattamenti. Tuttavia quando quelli fisici erano finiti, erano arrivati in modo massiccio quelli psicologici.
Prima di morire frequentavo il liceo. Ero una ragazza piuttosto intelligente e me la cavavo bene. Ma non me ne vantavo per niente.
Il mio sogno era quello di iscrivermi alla facoltà di filosofia. Non conoscevo veramente il motivo di questa mia attrazione verso quella materia, ma non appena avevo cominciato a studiarla mi aveva conquistata.
Avevo espresso a mio padre la mia passione per quella disciplina e anche l’idea di iscrivermi alla facoltà di storia e filosofia. Non riuscii nemmeno a finire il mio discorso che uno schiaffo aveva raggiunto la mia guancia sinistra. Non ricordo cosa accadde dopo, il ricordo si era interrotto a quel punto.
Per mio padre la filosofia era solo una perdita di tempo.
Vidi davanti a me uno scivolo rosso. Non vi ero mai salita sopra, mai in tutta la mia vita, e ormai avevo diciassette anni. Forse non ne avrei mai più avuto l’occasione…
Cercai le scalette di legno e le salii due per volta. Quando arrivai in cima, mi sedetti all’inizio dello scivolo rosso. Rimasi qualche secondo ferma, quasi ridendo di me per quello che stavo facendo. Mi lasciai cadere, e mi resi conto che i miei fianchi passavano a malapena dallo stretto scivolo. Quando arrivai in fondo e fui nuovamente coi piedi per terra, mi lasciai scappare un sorriso.
Era davvero strano ritrovarsi a sperimentare esperienze che si dovrebbero provare a sette anni quando se ne hanno diciassette. Ma certe volte la vita gioca brutti scherzi, e ti porta via pezzi della tua esistenza. A me era stata portata via tutta l’infanzia.
Mi voltai, e vidi le altalene. Mi avvicinai e scelsi quella a destra. Mi sedetti e afferrai le catene con forza. Cominciai a dondolare lentamente, dandomi la spinta con le gambe. Iniziai a muovermi sempre più velocemente fino a quando non fui quasi parallela con il terreno. Non avevo voglia di fermarmi.
La pioggia batteva forte sulle mie guance, quasi le volesse ferire.


 
Una strada battuta da una forte pioggia. Un gatto che cerca qualcosa da mangiare fra i rifiuti. Una ragazza che cammina senza una meta; mette lentamente un piede davanti all’altro, incerta, come se avesse paura di cadere. Il temporale che infuria le bagna tutto il corpo, i capelli le si incollano al viso, nascondendole gli occhi. Cerca di scostarsi qualche ciocca dalla fronte, e nel tentativo di alzare un po’ lo sguardo, l’acqua le invade la bocca. Tossisce un po’, e poi sputa per terra, passandosi la manica della felpa sulla bocca.
Continua a camminare, come se volesse arrivare da qualche parte, ma come se allo stesso tempo ancora non conoscesse la direzione giusta da prendere.
Un singhiozzo strozzato le esce a fatica dalla gola. Forse vorrebbe piangere, ma anche quella semplice azione che le permetterebbe di sfogarsi un po’ è troppo faticosa.
Si passa una mano sul viso, e poi abbandona il braccio lungo il fianco.
Scorge in lontananza un’insegna luminosa. Forse un locale, o un negozio ancora aperto. Segue la luce, come fosse la sua unica ancora di salvezza. Cerca di camminare più velocemente, per arrivare il prima possibile a destinazione, perché adesso una destinazione ce l’ha. Ma deve subito rallentare, perché un forte giramento di testa la fa barcollare. Alza le mani davanti a sé, come a cercare un appiglio, qualcosa a cui possa tenersi per evitare di cadere. Ma non trova niente, se non altra pioggia che le offusca la vista. Inciampa sui suoi stessi piedi e cade in ginocchio. Evita di sbattere il viso per terra sporgendo le mani avanti, e piantandole saldamente sull’asfalto bagnato. Rimane qualche secondo in quella posizione, immobile. Poi sente un dolore sfocato alle mani e alle ginocchia. Striscia fino al marciapiede e riesce a mettersi seduta. La prima cosa che nota sono i jeans strappati all’altezza del ginocchio. La pelle è stata scorticata e qualche sassolino si è insinuato sotto la cute. Ma quasi non sente dolore, come se ormai fosse insensibile a qualsiasi cosa. La stoffa lacerata dei pantaloni si sta lentamente impregnando di sangue.
Poi si osserva le mani. Anche quelle hanno risentito del forte sconto con l’asfalto, ma mai quanto le ginocchia.
Cerca di sollevarsi e tornare in piedi facendosi leva con le mani. Rimane qualche secondo immobile per testare l’equilibrio, e poi torna a camminare, seguendo la luce intermittente dell’insegna.
Un paio di minuti ed è davanti all’ingresso di un minuscolo market aperto anche di notte. Rimane un po’ incerta davanti alla porta, poi decide di entrare. Dietro la cassa è seduto un uomo sulla cinquantina. Non appena la vede entrare posa gli occhi su di lei e la squadra da capo a piedi. Si sofferma sulle ginocchia piene di sangue e sulla scia d’acqua che sta lasciando dietro di sé. Poi torna a farsi gli affari suoi.
La ragazza si addentra nel piccolo negozio. Non sa esattamente la ragione per cui vi è entrata. Forse vuole semplicemente riscaldarsi un po’. Non c’è nessuno oltre a lei.
Infila le mani nelle tasche dei pantaloni e della giacca, per controllare se vi sia rimasto qualche spicciolo. Conta velocemente le monete che riesce a scovare e arriva a cinque sterline.
Pensa di comprare dell’acqua ossigenata e della garza per le ferite alle ginocchia. Comincia a vagare per il piccolo negozio alla ricerca di quei due prodotti, che con i soldi che ha riuscirà sicuramene ad acquistare. Cammina fra gli scaffali con le mani infilate nelle tasche dei jeans, calpestando il pavimento così lentamente che quasi non produce alcun rumore. Sembra quasi una presenza, uno spirito senza un vero corpo fatto di carne. Solo il sangue, ormai secco sulle ginocchia, la tradiscono. Lei non è un fantasma, è fatta di carne, e la carne si danneggia facilmente.
Scorge lo scaffale che stava cerca. Afferra una bottiglietta di acqua ossigenata e un rotolo di garza. Riesce a tenere tutto in una mano. Controlla di aver preso tutto il necessario per curare le ferite e poi si dirige mestamente alla cassa.
Cerca di non alzare mai lo sguardo mentre arranca verso la cassa, e fissa lo strano pavimento che si ritrova davanti. Sono delle strane mattonelle quadrate con un disegno geometrico in bianco e nero.
Arriva di fronte alla cassa, e poggia tutto sopra il bacone. Solo in quel momento alza lo sguardo. Il commesso la guarda appena, senza preoccuparsi di chiederle se stia bene o se abbia bisogno di qualcosa.
Porge all’uomo tutte le monete che si era trovata in tasca ed esce velocemente dal negozio, senza nemmeno curarsi di prendere il resto.
In meno di un secondo è nuovamente in mezzo alla strada. Fortunatamente non piove più, ma nell’aria aleggia l’umido che la pioggia ha rilasciato.
Comincia a camminare con lentezza, come aveva fatto fino a quel momento. Sta cercando un posto comodo dove sedersi e medicare le ferite. Dopo qualche minuto trova un piccolo giardino pubblico e vi si addentra. Si siede sulla prima panchina in cui si imbatte e si tira su i jeans fin sopra al ginocchio. Apre la bottiglia di acqua ossigenata e pulisce le ferite. Una volta  che il sangue è stato lavato via, nota che i tagli erano meno gravi di quello che erano sembrati all’inizio. Avvolge comunque entrambe le ginocchia con qualche strato di garza e poi tira giù i pantaloni.
Si chiede cosa mai potrebbe fare a quell’ora della notte, dopo essere scappata di casa a causa dell’ennesima litigata con i suoi genitori. Il punto è che suo padre non si limita a sgridarla o ad esporle la sua opinione. Assolutamente no: il suo obiettivo è quello di farla sentire in colpa. Di farla sentire inferiore e inutile, così che lei obbedisca senza protestare. Ma a lei non riesce semplicemente sottostare agli ordini di un padre dispotico. Non vuole che lui plasmi la sua vita come più gli piace. Lei vuole costruirsi un’esistenza che la soddisfi e di cui darsi il merito. Ma suo padre non lo permette.
Si alza dalla panchina, lasciando per terra tutto l’occorrente con cui si è pulita le ferite. Affonda i piedi nell’erba del giardino, forse un po’ troppo alta.
Poi sente delle voci. Uno schiamazzio. Non riesce subito a vederli, ma dal rumore che fanno devono essere almeno cinque. E probabilmente tutti uomini. Le voci si avvicinano sempre di più, ma lei non riesce a fare niente. Rimane immobile.
Spuntano da dietro un albero. Sono tre uomini, e non hanno più di trenta anni ciascuno.
In un primo momento non la notano, poi uno del gruppo tira una gomitata all’uomo accanto a lui e indica la ragazza in mezzo al giardino.
Si avvicinano a lei lentamente, come se quello che stanno per fare fosse la cosa più legittima al mondo.
“Ehi” le fa uno non appena si trova davanti a lei. Ma la ragazza non apre bocca. Adesso la paura l’ha immobilizzata definitivamente.
I tre le si avvicinano sempre di più, fino a che quasi non la sfiorano.
“Come ti chiami?” le domandano. Uno dei tre prende una ciocca dei suoi capelli fra le dita e li accarezza.
“B-Bianca” risponde insicura. Non riesce a capire dove abbia trovato la forza e il coraggio per pronunciare il suo nome. Forse il terrore stesso l’ha spinta ad obbedire a quell’uomo.
“Che bel nome” ammicca uno dei tre. “E che ci fai qui da sola?”
Lei scuote la testa terrorizzata. Quasi si sente il cuore scoppiare. Sta cercando in tutti i modi di non piangere. Non vuole mostrarsi debole di fronte a quegli uomini. Cerca di trattenere le lacrime, ma gli occhi le bruciano in una maniera incredibile, e non sa quanto riuscirà a resistere.
“Forse dovrebbe stare un po’ insieme a noi finché non torna a casa” propone uno. “Qualche malintenzionato potrebbe darle fastidio se rimane qui tutta sola.”
Dal gruppetto si alzano delle risate, che di allegro non hanno niente. La ragazza non riesce più a trattenere le lacrime e una goccia d’acqua salata le scorre lungo lo zigomo, fino alla guancia, finché non si ferma sul mento. Nessuno si accorge di quella piccola debolezza che si è lasciata scappare.
Uno dei tre le avvolge le spalle con un braccio, e cominciano a trascinarsela dietro. Ma in quella stretta non c’è niente di affettuoso, quell’abbraccio è freddo, possessivo, perverso. Quell’abbraccio è fatale.
Escono dal giardino, e dopo pochi passi la ragazza si rende conto che sono ubriachi fradici. La paura iniziale le aveva impedito di accorgersene, ma adesso che è riuscita a riacquisire un po’ di lucidità l’ha capito. Nota anche che uno di loro ha una bottiglia mezza vuota di liquore in mano. Ogni tanto se la passano e ne bevono un sorso.
Parlano fra di loro gridando, sbraitando e ridendo scompostamente. Lei cerca di non ascoltare ciò che dicono, perché nel caso in cui stessero discutendo del suo destino, lei non lo vuole conoscere.
Non può scappare: la stretta che la incatena è troppo forte e salda.
Non riesce più a capire in che zona della città la stiano portando, ma è più buia del posto in cui l’hanno trovata. Le strade e anche le case sembrano deserte, e i lampioni sono pochissimi.
“Che ne dici di fare un giochino, tesoro?” chiedono ridendo sguaiatamente. Per un momento pensa di rispondere che non ha nessuna intenzione di giocare con loro, di qualunque gioco si tratti, ma poi decide che forse è meglio tacere.
Non le rivolgono più la parola finché non raggiungono un vicolo sporco e oscuro. È stretto e occupato quasi interamente da cassonetti dell’immondizia. Sente qualcosa muoversi fra i rifiuti. Forse topi o qualche altro animale in cerca di cibo. La poca luce che riesce ad arrivare fino a quel cunicolo degradato proviene da un lampione situato sulla strada principale. Ma la poca luminosità è appena sufficiente per distinguere i contorni delle figure di quei tre uomini che ormai l’hanno circondata.
Quello che teneva la bottiglia di birra in mano, ormai prosciugata, la getta dentro uno dei cassonetti della spazzatura.
“Sei così carina” le sussurra uno attorcigliandosi una ciocca dei capelli della ragazza attorno alle dita.
Lei cerca di scansarsi, ma lui le afferra il braccio. “Tranquilla, tesoro.”
La ragazza cerca di assumere un’espressione sicura di sé e combattiva, ma il terrore che le attanaglia lo stomaco è pronto ad esplodere da un momento all’altro.
“Lasciatemi andare” supplica cercando di ostentare determinazione.
La sua frase non fa altro che produrre una risata disarmonica nei tre uomini, piuttosto divertiti dal suo coraggio.
“Certo che ti lasceremo andare.” Altre risate si sollevano dalle bocche dei tre. “Ma solo dopo che ci saremo un po’ svagati.”
Uno l’afferra per le spalle, con una forza inaspettata. “Distenditi per terra” le ordina perentorio.
La ragazza rimane ferma al suo posto. “No” sibila fra i denti.
Un altro uomo arriva al fianco di quello che le aveva parlato fino a quel momento. L’afferra per la vita e la spinge violentemente per terra. Sbatte la testa sull’asfalto unto e incrostato di sporcizia, e quasi perde i sensi. Il dolore alla testa è così forte che non riesce a rimanere pienamente cosciente. Calde lacrime cominciano a scorrerle sul viso, ma non c’è nessuno ad asciugarle.
Non riesce a percepire chiaramente cosa le sta accadendo intorno. La testa le pulsa in modo innaturale, e per un momento pensa che il cervello le possa scoppiare.
Sente le mani di qualcuno addosso, sicuramente uno degli uomini. O forse più di uno. Non riesce a capire cosa stiano facendo, ma poco dopo un freddo viscerale la assale. Si rende conto di essere nuda.
Si abbandona a se stessa. Non si sforza più di rimanere cosciente. Vuole morire.
Il suo tentativo fallisce quando dell’altro dolore si aggiunge al suo corpo ormai straziato.
Prima di cadere definitivamente in un nero senza fine, realizza con chiarezza quello che sta accadendo. Stanno abusando di lei, senza che lei possa fare niente per impedirlo. Senza che nessuno possa fare niente per impedirlo.



 
“Bianca. Bianca.”
Mi risvegliai lentamente, come se non avessi nessuna voglia di aprire gli occhi e vedere ciò che mi circondava. Qualcuno stava chiamando il mio nome insistentemente. Riuscii a riconoscere a chi appartenesse quella voce: Ed.
Schiusi lentamente le palpebre, così da abituarmi alla forte luce bianca che mi circondava.
Ero distesa su qualcosa di morbido: un letto. E delle lenzuola profumate avvolgevano dolcemente il mio corpo.
Quando fui in grado di vedere chiaramente l’ambiente in cui mi trovavo, capii che ero in una stanza d’ospedale. E non appena ripresi pienamente coscienza un forte mal di testa mi assalì.
“Che cazzo è successo?” riuscii a borbottare al vuoto, sperando che Ed mi sentisse. Era seduto vicino al letto su cui era distesa, su una sedia rossa.
“Sei uscita di casa dicendo che volevi fare una passeggiata…”
“Sì” lo interruppi bruscamente. “Questo lo ricordo. Sono arrivata in un giardino pubblico e ho cominciato a dondolare sull’altalena.”
Mi resi conto di quando infantile risultasse la mia dichiarazione. Ma Ed parve non farci caso e continuò a spiegarmi.
“Non tornavi a casa” disse. “Ho provato a chiamarti, ma poi mi sono reso conto che avevi lasciato il cellulare a casa. Così sono venuto a cercarti e ti ho trovata riversa a terra sull’erba del giardino pubblico.”
Annuii. Adesso ricordavo cosa era accaduto. Ero caduta dall’altalena, e l’impatto mi aveva sicuramente fatto perdere i sensi.
“Ti ho portato all’ospedale e ti hanno fatto una risonanza magnetica. Hai una piccola commozione. Niente di grave. Ma devi stare a riposo per un po’.”
“Per quanto tempo sono rimasta senza sensi?” chiesi.
“Un paio di ore. Al massimo tre” rispose. “Adesso devo chiamare un dottore. Devono visitarti.”
Ed uscì dalla stanza camminando lentamente con le mani in tasca. Dopo qualche minuto arrivò un uomo con indosso un camice bianco. Mi fece qualche domanda su quello che fosse accaduto e io risposi velocemente. Non avevo voglia di parlare con uno sconosciuto. Mi lasciai visitare passivamente e chiesi che ore fossero. Mi rispose che era quasi mezzanotte, e che Ed mi aveva portato all’ospedale alle nove di sera.
“Quando posso tornare a casa?”
Il medico ci pensò un istante. “Nel primo pomeriggio” annunciò. “Passerai la notte qui, e la mattina sarai sottoposta a qualche esame. Se tutto è nella norma portai tornare a casa dopo pranzo.”
Lo ringraziai educatamente e rimasi sola.
Avevo appena ricordato la mia morte e non sapevo più cosa pensare se non che era stata una morte schifosa. Non credevo che il ricordo sarebbe durato così a lungo, ma pensai che la perdita di coscienza dovuta alla caduta avesse favorito il recupero di quella memoria perduta e di conseguenza anche la sua lunghezza.
Il primo pensiero che aveva attraversato la mia mente non appena mi ero risvegliata era che dovevo raccontarlo a Gerard. Non sarebbe stato facile rivivere quei momenti, ma a lui lo dovevo. Ero in debito con Gerard per ogni mio singolo respiro. Non sapevo come l’avrebbe presa. Anche io, come lui, per tutto quel tempo avevo pensato di essermi suicidata e a dire la verità l’avevo anche sperato. Sarebbe stato un elemento in comune che ci avrebbe solo uniti di più. Invece ero stata stuprata da tre uomini in un cunicolo abitato da topi. Non ricordavo cosa fosse successo dopo, ma non era difficile da immaginare. Molto probabilmente, dopo aver soddisfatto i loro desideri perversi, mi avevano lasciato lì, da sola e nuda. Forse ero morta congelata, forse i topi avevano banchettato con il mio corpo esamine. Forse entrambe le cose.
Un conato di vomito riscosse il mio corpo non appena materializzai quell’immagine nella mia mente.
Ed entrò nella stanza, distraendomi e facendo in modo che riuscissi a sconfiggere la nausea.
“Come stai?” domandò sedendosi nuovamente sulla sedia che aveva occupato fino a poco tempo prima.
Alzai le spalle noncurante. “Solo un po’ di mal di testa e tanta stanchezza.”
“Dovrai stare a riposo in questi giorni” cominciò senza che io capissi dove volesse andare a parare. “Così ho chiesto il permesso di terminare la tua missione in anticipo.”
“E…?”
“Hanno accettato. Hai superato la missione e fra una settimana tornerai indietro nel tempo.”
Ero combattuta fra il sollievo e la tristezza. Sollievo per aver finalmente concluso quella missione che mi avevano affidato. Tristezza per non poter condividere quel sollievo con Gerard.
Ed mi sorrideva soddisfatto e per un momento pensai che mi stesse nascondendo qualcosa.
“C’è qualcos’altro?” gli chiesi sospettosa.
Lui scosse la testa e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di crackers.
“Non hai cenato” spiegò porgendomeli.
Li mangiai lentamente, mentre Ed mi guardava di soppiatto. Era stranamente allegro, e non ne riuscivo davvero a capire la ragione.
Finii il mio pasto e Ed mi porse una bottiglietta d’acqua. Tornai a pensare alla mia morte. A come quelle mani mi avevano toccata e spogliata. A come avevano violentato il mio corpo senza nessuna pietà.
“Ed” lo chiamai dopo aver bevuto un sorso d’acqua. “Voglio diventare una Guida.”



 

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Angolino dell'autrice:


Ciao a tutti ♥

Siamo davvero alla fine di quest'avventura. Manca solo un capitolo, che sarà dal punto di vista di Gerard, e l'epilogo. Spero di non deludervi e di trasmettervi qualcosa con le mie parole.
Ringrazio la mia piccola Rachi, che ha diligentemente betato il capitolo e che con i suoi consigli riesce sempre e farmi tornare sulla retta via della scrittura.

Ci sentiamo fra due settimane circa con il quattordicesimo capitolo.


Arya.




 
   
 
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