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Autore: lilJEyre    07/09/2015    2 recensioni
A volte la bellezza sta nel ghiaccio del Nord, nel mare della Norvegia, negli occhi dolci di chi non conosciamo e che mai ci vedranno. In un cielo che non conosciamo, ma che impariamo ad amare.
A volte la vita è dura, ma trova sempre il modo di farsi perdonare.
A volte abbiamo solo bisogno di amare e di essere amati.
(...) Le sue mani scesero sul mio collo, sulle spalle, facendomi venire la pelle d’oca sulla nuca. Poi, ancora, scesero nell’ incavo del mio collo, sulle orecchie e infine tra i capelli.
L’unico rumore percettibile era lo scoppiettio del fuoco, accompagnato dal il mio respiro corto.
Uno strano calore s’irradiò dal centro del mio petto in tutte le parti del mio corpo, facendo vibrare ogni mia terminazione nervosa. Affondò il viso fra i miei capelli ed inspirò.
«Il profumo di lavanda è anche il mio preferito.» mormorò allontanandosi.
Le fiamme del camino ballavano e si riflettevano nei suoi occhi vitrei. (...)
(...) Le sopracciglia erano unite in una linea retta, le labbra dischiuse. Pensai che se la mitologia scandinava fosse stata reale, Thor, figlio di Odino, avrebbe avuto il suo volto.
«Grazie…»
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo tre

 

 

 

    A svegliarmi il mattino successivo fu Linn. Aprii di scatto gli occhi quando sentii un tonfo sul letto e sobbalzai sul materasso.
    «Oddio!» esclamai guardandomi attorno, spaventata. Quando incontrai il suo viso, mi lasciai ricadere sul materasso, coprendomi il viso con le mani.
    «Ti odio» mugugnai.
    «No, non è vero» rispose lasciandosi cadere sul cuscino accanto al mio, alla mia destra.
    «Oh, sì» ribattei scoprendomi un occhio e guardandole il volto felice.
    «Muoio di fame. Vestiti, così andiamo a fare colazione.»
    «Ho sonno» mi lamentai coprendomi il viso con il cuscino. «Che ora è?»
    «Le nove.»
    «Le nove?» chiesi guardandola scioccata. «Mi sono addormentata due ore fa!»
    «Su andiamo, non puoi dormire tutto il giorno!»
    «Ma io ho sonno, Linn» sbuffai affondando il viso nel cuscino.
    «Oh, non farmi usare le maniere forti!» esclamò, ma io non mi mossi di un solo millimetro, chiusi gli occhi e mi preparai a cadere ancora fra le braccia di Morfeo.
    «Iris!» esclamò poggiando spingendomi con i piedi verso il bordo del letto. Spalancai gli occhi e strinsi fra le mani la pesante trapunta, attutendo così la caduta sul pavimento.
    «Sei impazzita?» chiesi spalancando la bocca.
    «Forse. Su, via, vestiti.» disse facendomi segno verso il bagno, agitando le mani in aria.
    «Sì, sei pazza» risposi roteando gli occhi e dirigendomi verso il bagno mentre lei si adagiava sul letto, sospirando ed incrociando le mani sul ventre. E, per un momento, con la mente ritornai a quel giorno che, inconsapevolmente, mi avrebbe cambiato la vita.

    «Non posso crederci, Linn, non posso crederci» singhiozzai soffiandomi il naso ed asciugandomi le lacrime.
    «Oh, tesoro…»
    «Mi ha tradita con Anna» singhiozzai affondando il viso in un cuscino del suo divano.
    «Mi dispiace così tanto. E’ solo un idiota, tesoro, non ti merita di certo.»
    «Cosa faccio adesso? Devo cercare casa… non posso permettermi di stare in albergo!» dissi prendendo un altro fazzoletto.
    «Oh, andiamo, starai da me, ovvio!» disse lei sorridendomi.
    Abbozzai un sorriso, asciugandomi le ultime lacrime.
    «Ascolta, hai bisogno di allontanarti da Los Angeles.»
    Alzai il capo guardandole oltre un velo di lacrime.
    «Devo tornare a casa per l’anniversario dei miei genitori. Potresti venire.»
    Sbattei più volte le palpebre. «Linn… tu sei norvegese.»
    Annuì energicamente col capo, facendo oscillare i corti capelli biondo platino. «Esatto.»
    «La Norvegia. E’ fredda» mormorai.
    «Ti piacerà, Iris, fidati di me» sorrise e i grandi occhi verdi s’illuminarono.
    «Dovrei chiedere a Larry i gironi di vacanza previsti per… per la luna di miele» quelle parole, uscitemi a fatica, mi fecero dolere il cuore, scoppiai di nuovo in lacrime.
    «Oh, tranquilla, quell’uomo stravede per te. E poi mi deve un favore» disse alzandosi per andare in cucina.
    Quando tornò, parlo ancora. «Sì, ti serve una pausa» , mi cinse le spalle con le braccia e accarezzandomi i capelli.
    La guardai negli occhi abbozzando un sorriso mesto. «La Norvegia.»
    «Sì, Iris, la Norvegia.»

    Quando uscii dal bagno, indossavo un jeans scolorito e un maglioncino rosso. Linn inclinò il capo. «Non hai niente di più sexy? Oggi ti portiamo in città.»
    «Ehi, comodità ed efficienza. E poi sono sexy anche in pigiama» ironizzai facendole una smorfia.
    Sospirò. «Certo, tigre. Coraggio, andiamo. Sto morendo di fame.»



    Quando entrai in cucina, al tavolo era seduto Alexander, il viso rivolto verso la vetrata, attirato dalla luce fievole dell’alba che filtrava attraverso le nuvole grige. Nel suo piatto delle uova e delle salsicce, nel grande bicchiere di vetro del succo di frutta.
    Il pavimento scricchiolò sotto i nostri piedi ed Alexander girò la testa di scatto, verso la porta.
    «Elna?»
    «No, mi spiace» trillò Linn avvicinandosi a lui e baciandogli il capo.
    «Oh, ciao, Linn.»
    Mi schiarii la gola. «Buon giorno» mormorai arrossando e portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
    «Buon giorno, Iris» disse lui, mentre un angolo delle sue labbra si sollevava verso l’alto.
    Sentii il sangue fluire alle guance, osservando il suo viso illuminato dalla luce del giorno. I suoi capelli erano chiari, non come quelli di Linn, più simili a quelli di Harald, tra il castano ed il biondo. La pelle sembrava morbida, mi chiesi come sarebbe stata al tatto e la barba appena incolta, chiara anch’essa, mi fece pensare ai nordici vichinghi dei film, belli da mozzare il fiato… esattamente come Alexander. Fu strano, fu come vederlo davvero per la prima volta. Tutto sul suo viso era armonioso, tutto s’accordava con le larghe spalle e i muscoli affusolati del braccio che risaltavano sotto il maglioncino celeste.
    «Uova e salsicce!» esclamò Linn guardando in padella.
    Alexander sorrise. «Sì, sono calde. Elan le ha fatte poco fa. Qui ci sono anche le frittelle ai mirtilli.»
    «Sei consapevole che oramai le fa solo perché ti fanno impazzire?» disse Linn in un risolino.
    «Sì, lo so» rispose lui, mentre io prendevo posto al tavolo. Intanto Linn versava le uova e le salsicce nel piatto, per poi poggiarle sul tavolo.
    «Ti prendo un bicchiere?» chiese Alexander.
    «Oh, se mi dite dove sono posso prenderlo io.»
    «No, faccio io» rispose.
    «Vive qui da due anni, Iris, ormai ha imparato a memoria la piantina della casa.»
    Alexander rise. «Simpatica.»
    «Sai che ti voglio bene» disse con fare dolce.
    «E’ per questo che sei ancora viva.»
    «Simpatico.»
    Osservai Alexander avanzare fino alla credenza accanto alla porta, dietro di me, aprire una portella e prendere un grande bicchiere di vetro. Nel porgermelo, le sue dita sfiorarono le mie e il ricordo della sera precedente, di quel contatto così intimo ed inaspettato, mi fece venire la pelle d’oca.
    Mi versai del succo di frutta e presi una frittella.
    «Vieni con noi, oggi? Sei in vacanza, no?»
    «Dove andate?»
    «In città» rispose Linn con ovvietà, mentre si sedeva.
    «Okay.»
    «Perché sei in vacanza, vero? Mi avevi promesso che non avresti lavorato mentre ero qui.»
    Lui rise e mi parve la risata più dolce che avessi mai sentito. «Certo.»
    Ammonii tutte quelle considerazioni, che mi vorticavano in testa, come le foglie mosse in mulinelli dal venti autunnale.
    «Di cosa ti occupi?» chiesi curiosa, dopo aver mandato già un boccone di carne.
    «Sono un avvocato. Lavoro con un amico, in città» rispose con voce roca.
    «A Boston era un importante avvocato. Di quelli che difficilmente perdono una causa.»
    Il respiro di Alexander si fece sempre più profondo, mentre chinava appena il capo. «Preferirei non parlare di Boston, Linn» mormorò e nella sua voce c’era del dolore, era quasi palpabile nell’aria attorno a lui.
    «Oh, mi dispiace, Alex… non volevo…» sussurrò lei mordendosi il labbro inferiore.
    «Scusatemi» aggiunse lui con foce atona, prima di alzarsi e dirigersi a passo lento verso la porta.
    E fu strano, quel suono, che mi parve d’avvertire echeggiare nella mia testa: il suo passo leggero e lento, le spalle curve sotto il peso di un qualcosa di invisibile, mi fece pensare ad un vaso di vetro che s’infrangeva al suolo.



    Lasciammo l’auto in un parcheggio custodito, scesi e feci il giro dell’auto raggiungendo Linn e Alexander, che portava Ruth al guinzaglio.
    «Allora, cosa vogliamo fare?» mi chiese Linn in un sorriso smagliante.
    «Beh, ti ricordo che sei tu quella del posto» osservai, facendo sorridere Alexander.
    «Potremmo portarla al Folk Museum» suggerì Alexander voltando lo sguardo verso noi.
    «Ottima idea» constatò Linn. «Ti piacerà?»
    «Di cosa si tratta?» chiesi portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Il contatto della mano gelata con la punta dell’orecchio mi fece rabbrividire.
    «Vedrai. E copriti» mi ammonì Linn con sguardo truce, mentre si incamminava verso l’uscita del parcheggio.
    Sospirai.
    «Linn ha ragione, Iris. Fa molto freddo e il sole qui non è mai del tutto alto. Non indossi cappellino e guanti?» chiese Alexander alzando un sopracciglio.
    Dalla tasca del mio capotto tirai fuori i guanti in pile, ma mi resi conto di aver dimenticato il berretto di lana. «Accidenti» sibilai.
    «Cosa c’è?» chiese allarmato Alexander chinando appena la testa.
    «Credevo di aver preso il berretto…»
    Lui sorrise. «Puoi prendere il mio» disse tirando fuori un berretto di lana grigia dalla tasta del giubbotto imbottito.
    «No, serve a te» dissi scuotendo il capo.
    «Non abituato alle basse temperature. Tu no. E poi ho il cappuccio. Non preoccuparti per me» disse con fare dolce, porgendomi il suo berretto.
    Sentii il sangue affluire alle guance e posai lo sguardo sulla sua mano, imbarazzata. «Grazie».
    «Ehi, voi due, volete muovervi?»
    «Mi sa che ci conviene affrettarci» dissi cominciando a camminare.
    Subito Ruth si mise ritta sulle quattro zampe pronta a partire.
    «Andiamo, piccola» sussurrò con voce roca e per un attimo ebbi la sensazione che Alexander parlasse con me.

 

    Guardavo estasiata gli edifici risalenti al 1600, piccole case in legno, non molto distati le une dalle altre. La neve ricopriva i tetti spioventi e le piccoli travi che rivestivano esternamente le pareti, soffermandosi sulle pareti laterali, come fossero piccoli batuffoli di cotone. L’aria era fredda e pungente, tanto che dovetti proteggere le labbra con un burro di cacao. Sentivo la punta del naso gelata e la sfregai con i guanti, sperando si riscaldasse. Invano.
    Mentre camminavamo lungo i vialetti spalati dalla neve e ricoperti da grandi pietre, osservavo Alexander con la coda dell’occhio. Si mordeva     l’interno della guancia sinistra, una mano nella tasca dei jeans, l’altra giocherellava con il guinzaglio di Ruth, che camminava a passo d’uomo. Annusava per terra, camminando così sinuosamente e lentamente che sembrava essere connessa direttamente ad Alexander, come se i loro movimenti fossero sincronizzati. Sorrisi guardandoli.
    Mi chiesi cosa stesse pensando, cosa gli passasse per la testa, quale fosse la sua storia, ma non l’avrei mai chiesto. Nemmeno a Linn.  Eppure desideravo fortemente saperlo, volevo sapere chi fosse quell’uomo dagli occhi vitrei e persi, dalla voce roca e dal sorriso caldo.
    A farmi riemergere dall’oceano di pensieri in cui mi ero imbattuta, fu il cellulare.
    Lo tirai fuori dalla borsa che portavo a tracolla. Quando lessi il display sentii un brivido percorrermi lungo la schiera.
Richard. Deglutii faticosamente e una vertigine mi fece barcollare, tanto che persi l’equilibrio e caddi verso destra, aggrappandomi al braccio sinistro di Alexander che ebbe un sussulto.
    «Iris?» chiese afferrandomi un braccio con l’altra mano.
    «Io…» soffiai «scusami, ho… perso l’equilibrio.»
    «Iris, tutto bene?» sentii Linn avvicinarsi e afferrarmi per l’altro braccio.
    Cercai di rimettermi in piedi, ma le gambe mi tremavano. «Ho bisogno solo di sedermi un attimo» soffiai senza guardare nessuno in volto.
    «Avanti, vieni qui» disse Linn accompagnandomi su una panchina lì vicino. I pesanti jeans non attutirono il contatto con la pietra fredda. Tremai.
    «Il tuo cellulare, squilla ancora» solo allora, quando Alexander pronunciò quelle parole mi resi conto di aver fatto cadere il cellulare nella neve.
    «L’ha trovato Ruth» continuò, come a rispondere ad una mia muta domanda.
    «Grazie» risposi alzando lo sguardo sul suo viso, illuminato da un flebile sorriso.
    «Chi è?» chiese Linn sbirciando il display. Il suo viso impallidì, poi i suoi muscoli facciali si contrassero in una smorfia di rabbia.
    «Stai bene?» si limitò a dire.
    Annuii. «Sì, è tutto okay» sorrisi flebilmente. Presi dalla borsa una bottiglietta d’acqua e ne bevvi un sorso.
    Alexander impassibile rimase in piedi davanti a noi, con Ruth che a sui piedi ansimava appena. Il suo viso era imperscrutabile. Mi chiesi cosa stesse pensando. Avrei voluto passare una mano sulla sua fronte e distenderne i muscoli. Fui sorpresa da me stessa a pensarlo.
    «Sono solo un po’ stanca» dissi guardando Linn, ma dal suo sguardo capii che non aveva abboccato. Face roteare un dito in aria e sussurrò “dopo”.     Annuii.
    Linn scattò in piedi. «Avanti, finiamo il giro. Possiamo entrare anche in un’abitazione, sai? Sarai una vichinga per oggi».
    Feci un risolino, «non vedo l’ora.»

    «Richard, Richard Benson.»
    «Iris Bennet.»
    «E’ un piacere conoscerti, Iris. Un nome incantevole per una donna incantevole.»
    «Qualcosa mi dice che sono in presenza di un Don Giovanni.»
    «Oh, no. Conosco solo le buone maniere. Sei in presenza di un gentiluomo.»
    «Affabile.»
    «Non trovi anche tu che sia una delle feste di compleanno più noiose delle storia?»
    «Ma non dirlo alla festeggiata.»
    «In realtà… non la conosco. Sono venuto con un amico.»
    «Un imbucato.»
    «Non mi definirei proprio così.»
    «Perché non lasciamo questa festa noiosa e ci andiamo a prendere un drink al bar all’angolo?»
    «Offri tu.»
    «Oh, Iris, dimentichi che sono un gentiluomo.»

 

    Il vecchio pavimento in legno scricchiolava sotto i miei scarponcini, i miei passi riecheggiavano nella piccola stanza spartana, illuminata dalla fioca e calda luce di lampade elettriche, mentre il sole, dopo solo poche ore, si abbassava verso l’orizzonte, gettando il villaggio nell’0scurità.
    «Abbiamo poco tempo, fra un po’ il museo chiuderà. E noi potremo andare a pranzo.»
    «E’ bello sapere che il tuo appetito non passa mai, Linn», disse sorridendo Alexander.
    «Ah, Alex, non credo potrà mai accadere. Questo posto mette appetito.»
    Il mio stomaco brontolò sonoramente, sia Linn che Alex si zittirono.
    «Non credo tu sia l’unica, Linn.»
    «E’ vero, questo posto mette fame» dissi avvampando leggermente di rossore.
    «E’ l’aria gelida» rispose Alexander avanzando nella stanza.
    Linn mi fu subito vicino. «Ti porto nel mio ristorante preferito. Stufato di alce. Vedrai che buono.»
    Arricciai il naso e lei mi diede un pizzicotto.
    Continuai a guardarmi intorno, ad osservare le pareti di legno scuro e invecchiato, i letti di fortuna addossati ad esse, un tavolo traballante e un tavolino ricavato da una botte.
    «Vivevano davvero in case come queste?»
    «Sì» esordì Alexander, «questa è una ricostruzione, permettono ai visitatori di entrare. Nelle case abitate secoli fa, si può solo sbirciare, ma non è possibile entrarvi.»
    Sentii la sua figura dietro di me, statuario e imponente. Il suo respiro era calmo ed appena percettibile.
    «Non avevano freddo?» sussurrai.
    «No. Guarda», disse. Mi poggiò una mano sulla spalla e la fece scorrere lungo il braccio, fino ad afferrare il mio polso. Lo sollevò e mi avvicinò la mano alla parete di legno. Era calda.
    «Il legno è un ottimo isolante termico. Non c’è una casa fatta in pietra da queste parti», continuò con voce bassa.
    Fece scivolare la sua mano, che scomparve dal mio campo visivo. Con la coda dell’occhio vidi Linn sulla porta. Mi agitai sul posto, imbarazzata.
    «E’ ora di andare, stanno per chiudere. Ed io ho fame» disse Linn raggiante. Il mio campanello d’allarme suonò, qualcosa mi diceva che avrebbe fatto un incursione nella mia camera. Cercai di non pensarci. Mancava ancora qualche ora al rientro.



    La macchina avanzava nel buio , durante la strada del ritorno e la radio trasmetteva un programma in norvegese che faceva molto ridere Linn, meno Alexander, che non riuscivo a vedere. Lo sentivo accarezzare Ruth, che poggiava la testa sulle sue gambe.
    Ripensai al pranzo, allo stufato di alce che, con mio grande stupore, era squisito. Era vero. Ero lì solo da un giorno, ma avvertivo sempre un dolce languorino. Eccetto l’ora successiva al pasto.
    Alexander non aveva parlato molto, durante la giornata. Sembrava si estraniasse, di tanto in tanto, perso in un mondo di pensieri a noi sconosciuto.     Pensai che avesse tanto da dire, tanto da a raccontare, ma tanta paura di esporsi. Pensai subito che forse mi sbagliavo, che forse era una mia impressione, o volevo solo che fosse così. Pensare a lui, alla sua riservatezza, forse mi serviva a non pensare al dolore che mi portavo costantemente nel cuore, rinchiuso in quel cassetto che custodiva tutti i sogni di un futuro infranto. Mi venne in mente la chiamata ignorata di Richard. Mi chiesi cosa volesse. Ma non volevo sentire la sua voce, le sue scuse o la sua rabbia.
    Non avevo idea di cosa avrei fatto della mia vita. Non ero ancora riuscita a trovare un appartamento. Avevo dovuto annullare il matrimonio e spiegare cosa era successo alla mia famiglia. Una famiglia all’antica. Tutto questo aveva distrutto mia madre che ogni giorno mi chiamava per assicurarsi che stessi bene.
    Erano tre giorni che Richard non mi chiamava o non mi mandava messaggi. Spesso lo avevo trovato sotto casa ad aspettarmi ed una volta Linn dovette chiamare la polizia perché non voleva farmi entrare in casa. Credevo non mi avrebbe fatto del male… eppure, mi aveva terrorizzato…


    Era sera, ero rimasta a lavoro sino a tardi. Linn mi aveva mandato un sms, scrivendomi che mi aspettava sulla piccola veranda dell’appartamento in cui viveva, con una bottiglia di chardonnay e crostini con burro e salmone.
    Quando scesi dall’auto, davanti all’ingresso, seduto sui gradini dell’edificio, vidi Richard. Indossava un abito di grigio, di quelli che usava in ufficio, la cravatta ancora annodata, ma tanto lenta da sbottonare i primi due bottoni della camicia.
    Mi bloccai, sgranando gli occhi.
    «Iris, amore mio…» esordì quando mi vide avanzare, udendo il rumore dei tacchi sulla asfalto.
    «Cosa vuoi, Richard?» risposi impassibile.
    «Ti prego, tesoro, torna a casa. Torna da tuo marito.»
    Udendo quelle parole sentii la rabbia ribollirmi nella vene ed il dolore invadere il mio cuore. «Tu non sei mio marito.»
    «Manca solo una settimana al matrimonio.» rispose alzandosi. Quando avanzò verso di me, barcollò.
    «Sei ubriaco?» chiesi inarcando un sopracciglio.
    «Solo un bicchierino.»
    «Vattene a casa, Richard. E’ finita. Il matrimonio è stato annullato» dissi incrociando le braccia al petto, quasi volessi tenere insieme i cocci.
    «No, no. Non posso lasciarti andare via!» esclamò parandosi avanti.
    L’odore di alcool mi colpi in pieno viso e feci un passo indietro.
    «Amore, io ti amo… ti prego, torna a casa» supplicò afferrandomi un polso.
    «Lasciami, Richard. Non toccarmi» dissi strattonando il braccio, ma lui non mollò la presa.
    «Non posso… io ti voglio.»
    «Non sono un oggetto, razza di idiota. Lasciami andare!» urlai strattonando più forte.
    «Lasciala andare Richard!» esclamò Linn sulla soglia del portone.
    «Fatti gli affari tuoi, europea. Tornatene da dove sei venuta!» esclamò lui voltandosi verso di lei, barcollando.
    «Lasciala, Richiard!» esclamò ancora e fece per avvicinarsi, ma quando lui si voltò verso di me gli tirai un pugno in pieno viso. Pero l’equilibrio e cadde sulla strada.
    «Entriamo, Linn», mi affrettai a dire dirigendomi verso i gradini. Ma prima che potessi salire, lo sentii afferrarmi le spalle e strattonarmi indietro.
    «Tu non puoi  lasciarmi!» urlò. Mi fece girare e il viso che mi ritrovai dinanzi non era quello di cui mi ero innamorata tre anni prima. Era quello di uomo duro, crudele, pericoloso. I suoi occhi erano iniettati di rabbia, quella rabbia che non ammette ritorsioni. Avvicinò il suo viso al mio, cerandomi di baciare, io cercai di allontanarlo, ma la presa era troppo forte, le sue dita erano affondate nella mia pelle.
    «Lasciami!»
    «Tu sei mia, non puoi lasciarmi!»
    D’un tratto mollò la presa e cadde a terra. Privo di sensi. Con il fiato corto e terrorizzata vidi Linn con un asta di legno in mano. La sua figura si fece offuscata, come se fossimo immerse nell’acqua. Mi resi conto di piangere solo quando le lacrime ti toccarono le labbra dischiuse.
    «Oh, Iris, presto. Entriamo in casa. Andrà tutto okay. Ci sono io» disse circondandomi le spalle con un braccio e sorreggendomi.
    In casa mi fece sedere sulla poltrone mi sfilò le scarpe. Mi coprì con una coperta e mi preparò una tisana. Non so per quanto tempo rimasi immobile, catatonica, a fissare il muro di fronte a me. Sorseggiavo la tisana solo perché era Linn che mi ricordava di farlo.


    Quella sera, più tardi arrivò la polizia ed io feci un’ordinanza restrittiva. Ma le chiamate continuarono. Prima dieci volte al giorno, poi piano piano diminuirono fino ai tre giorni precedenti, quando cessarono. Ricevere quella chiamata, quel pomeriggio, anche se a migliaia di miglia di distanza, mi fece gelare il sangue.
    «Iris?» sobbalzai e mi voltai verso Linn che mi guardava con aria interrogativa e preoccupata. «Siamo arrivati» disse.
    Solo allora mi accorsi che la macchina si era fermata davanti alla grande casa e che Alexander si stava dirigendo verso la porta d’ingresso.
    «Pensavi a Richard, vero?»
    Deglutii.
    «Sei al sicuro qui, Iris. Non può farti del male. Non può più farti del male. Era solo una telefonata. Vedrai che smetterà anche di chiamare. E lo sa che se si avvicina a te finisce in carcere»
    Annuii debolmente e sentii le lacrime pungermi gli occhi. «Sì» soffiai. «Sono al sicuro.»
    Eppure più che una constatazione, alle mie orecchie parve più un misero e patetico autoconvincimento.   
    Mille e mille miglia.
    Ero al sicuro.

   
 
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