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Autore: Aleena    07/09/2015    1 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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CAPITOLO VI
LA LUCE DEL SOLE



 
  Rakarth strisciava lungo un tunnel troppo stretto per essere usato dalle guardie in servizio.
I rumori alle sue spalle erano ovattati dal rombo di una cascata sotterranea, che saltava per dieci metri fino al lago che aveva appena attraversato – ma Rakarth dubitava che i cacciatori di Jaracas potessero arrivare fino a lì.
Aveva scelto la via più lunga, quella che riteneva fosse la scelta meno probabile, perché sarebbe stato facile perdersi nel labirinto di tunnel. Erano gallerie scavate dai nani in cerca d’oro, più di duecento anni addietro; molti di questi passaggi erano ciechi, altri ancora finivano su strapiombi che, un tempo, dovevano essere collegati l’un l’altro da passerelle. Rakarth aveva mandato a mente ogni singola svolta, ripassando con ossessione il percorso anche durante le lotte nell’arena. Una distrazione che gli era costata qualche ferita, certo, ma che ora dava sicurezza ai suoi movimenti, nonostante il buio impenetrabile.
Non si era arrischiato a portare delle luci: in parte perché voleva poter avvistare il luccichio del sole da lontano, in parte perché sapeva che Jaracas avrebbe intuito le sue intenzioni.
Jaracas. Col senno di poi era stato stupido affrontarlo, ma ormai era fatta.
Aveva avuto fisso nella testa il pensiero della superficie da quella notte con lo schiavo muscoloso tanto che, sempre più spesso durante le pause, si era ritrovato a scavare fra i tomi della biblioteca personale di Jaracas alla ricerca di informazioni. Non che gli fosse piaciuto quello che aveva trovato: a quanto pareva la luce del sole era in grado di bruciare la pelle degli Ilythiiri fino forse ad arderli vivi – ma c’era la notte, no? Un periodo di buio luminoso, più congeniale a un albino della completa oscurità del sottosuolo.
La curiosità era sempre stata un suo vizio, mescolata con l’idea di superiorità, e questa combinazione le aveva fatto vincere la prudenza, quella notte. Aveva ancora la scena nella testa: le sue mani chiare infilate nei capelli neri di Jaracas che dettavano il ritmo della bocca di lui sul suo membro e l’immagine di una distesa liscia e rocciosa attorno a sé, completamente vuota. Lei che correva e la pressione sulla pelle sensibile del pene che aumentava e diminuiva al ritmo delle sue mani – un miscuglio che l’aveva eccitata come nient’altro fino a quel momento.
Era venuto nella bocca di Jaracas e l’aveva tenuto lì, incollato, fino a che anche l’ultimo brivido dell’orgasmo si era spento. Poi s’era girato, aprendo le gambe e lasciando che l’altro si spingesse con ferocia dentro di lui, che perdesse il controllo.
Sarebbe stato più facile soggiogarlo, dopo.
Il trucco nero che portava agli occhi era caduto sul cuscino, tracciando linee nette, e lei aveva gridato mentre faceva andare la sua mano su e giù, cercando ancora quel piacere di cui non era mai sazia.
Jaracas era venuto dentro di lui molto dopo Rakarth. Non aveva emesso un singolo suono e si era staccato immediatamente, lasciando i segni rossi dei denti sulla sua schiena. Gli piaceva morderlo, e Rakarth non si opponeva: ogni volta che la sua bocca lo toccava qualcosa in lei si accendeva.
Aveva aspettato che quel residuo di dolore che il sesso gli lasciava alle natiche si spegnesse prima di girarsi di lato. Allora aveva pronunciato le parole che l’avevano portato lì, ora.
«Voglio andare in superficie.» aveva detto, inspirando beata l’aria satura dell’odore del sesso. Jaracas le si era avvicinato e l’aveva fissato con occhi gelidi e feroci, che contrastavano col sorriso.
«Mai.»
«Non credo tu abbia capito. Non ti sto chiedendo il permesso, ma i mezzi. Avrò bisogno di schiavi fedeli che sappiano predisporre un campo e muoversi per…»
«Mai!» aveva ruggito Jaracas, fulminandolo con la sua gelida ferocia. E Rakarth aveva capito che quella appena infranta era l’ennesima illusione. Aveva allora baciato Jaracas e aveva annuito, mostrando una sottomessa dolcezza che la ripugnava più di qualunque altra cosa avesse mai fatto.
Non aveva più sollevato l’argomento, ma si era segretamente preparata per essere lì, in quel momento, a poche ore di viaggio dalla libertà.
Svoltò a sinistra in un tunnel che sapeva di funghi e chiuso. Nuvole di polvere gli danzarono attorno quando si tirò in piedi, cercando di mettere a fuoco qualcosa nel buio. Era il tratto più pericoloso, quello: passava accanto a un vecchio fortino nanico, talvolta presidiato dagli uomini degli schiavisti. Rakarth non prevedeva di arrivare abbastanza vicino da farsi scoprire, ma era meglio non sfidare la sorte.
La Dea è capricciosa.
Allargò le braccia fino a toccare, con la punta delle dita, le pareti irregolari e taglienti, e rimase così fino a quando non sentì le dita della destra incontrare il vuoto. Svoltò ancora e quello che vide le fece saltare il cuore in gola.
La luce non era simile a niente che avesse visto fino a quel momento. Scivolava in raggi d’oro e carminio che pulsavano lievemente, seguendo forse i capricci di una brezza o degli alberi di cui aveva letto. Era in alto rispetto alla sua posizione, ma illuminava la porzione di tunnel in pendenza. Concedendosi un ghigno di vittoria, Rakarth prese a correre verso quel traguardo.
Ignorò quella voce che la metteva in guardia sul fatto che il tunnel non fosse segnato, o che quel sole potesse bruciargli gli occhi: ce l’aveva fatta! E, per la Dea, l’aveva messa in culo a tutti quelli che la ritenevano una sciocca. Ignorò anche la prudenza, e questo le fu fatale.
Il sibilo di qualcosa che volava nell’aria – un insetto, forse? – la colpì, seguito da una puntura lieve che, lentamente, irradiò il suo dolore a tutto il corpo. La vista prese a tremare, confondendo ombre e luci in un caleidoscopio folle. Arrancò, cercando ancora di raggiungere la libertà che quel riverbero rappresentava, ma era come camminare nell’acqua, il suo corpo era pesante e non rispondeva alla sua volontà. Chiuse gli occhi per allontanare quella nebbia una volta, e un’altra ancora, più a lungo.
Il bagliore divenne più forte e il caldo la avvolse, ferendo la pelle delicata. Improvvisamente vigile e carico di una gioia soddisfatta, lo jaluk aprì gli occhi per vedere il mondo di superficie e l’astro che lo faceva soffrire.
Non era la luce del sole, ma le fiamme del camino.
Il misero inganno bruciò il volto di Rakarth, arse la pelle, gli straziò gli occhi e i capelli. Un urlo rauco gli abbandonò la gola stretta in un laccio mentre le mani annasparono in aria, in cerca della pietra su cui puntellarsi per spingersi indietro. La trovò, ma una mano gli afferrò la nuca e lo tenne premuto sui carboni ardenti.
«Ti è passata la voglia di correre, Rakarth?» domandò Jaracas vicino al suo orecchio. Rakarth cercò di aprire la bocca per ribattere ma non ci riuscì: aveva il volto ustionato in più punti e perfino respirare era un’agonia. Con la coda dell’occhio scorse la roccia grezza di un focolare da cucina e delle figure sfocate.
Tante, troppe figure.
«Che cosa ho sbagliato, spiegamelo? Ti ho dato una bella stanza, schiavi a volontà e bei vestiti che soddisfacessero la femmina che è in te. Hai avuto trucchi, gioielli… ti ho dato perfino il culo. È così che mi ripaghi? Scappando?» Jaracas aveva una nota folle e sofferente nella voce. Tremava violentemente, facendo bruciare ampie chiazze del viso di Rakarth – che si dimenò con violenza, cercando di sfuggire all’inferno che lo avvolgeva. «No, non ci provare. Ora stai zitto e mi ascolti bene, e cerca di farlo entrare in quel tuo cervellino da pazzo. Tu. Appartieni. A. Me. Ti è chiaro? Sei mio. E farai quello che dico se non vuoi finire in una gabbia di mezzo metro fra una lotta e l’altra. Hai capito?»
Rakarth gridò di dolore. Pezzi di pelle carbonizzati lasciarono gli angoli della bocca e le labbra.
«Hai capito, schiavo?» domandò Jaracas, avvicinandolo ancor più alle fiamme prima di tirarlo via con uno strattone violento, scaraventandolo su un pavimento meravigliosamente gelido. «Portatolo nella sua stanza. I drow sono una razza forte e si riprenderà in fretta, ma fate in modo che il suo viso ritorni bello come prima. Alcuni giocatori vengono solo per vedere questo fenomeno da baraccone truccato.»


 

Piccolo Spazio-Me: solo un minuto per scusarmi, in realtà. Mi spiace per il ritardo con cui, pur avando la storia già scritta, ho aggiornato: quest'estate non ho avuto praticamente mai Internet e col cellulare non è pensabile tentare di inserire una storia :D Spero che chi la seguiva non si sia arreso e che il caldo dell'estate non abbia bruciato la voglia di sapere cosa succederà a Rakarth. Fatemi sapre cosa ne pensate mi raccomando: i commenti sono sempre ben graditi :)
A presto (e questa volta per davvero)! 

PS: l'immagine è presa in prestito dalla galleria deviantArt di K-Koji che vi invito a visitare.

 
  
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