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Autore: Blakie    08/09/2015    2 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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and well be good capp 3 nvi

And we'll be good
capitolo 3

 


Sciogliere l'abbraccio con Daryl fu come ritornare coi piedi per terra, in due entità di nuovo separate e distinte.
Fu lui il primo a scostarsi, facendo scivolare le mani dalle mie spalle lungo le braccia e chiudendo delicatamente le dita attorno ai miei gomiti, allontanandomi con gentilezza. Anche se mi sentivo leggermente spaesata, riuscii comunque a chiedermi se avesse interrotto l'abbraccio perché, più di tanto, non sopportava il contatto fisico, o perché le persone intorno a noi erano stati spettatori di quel ritrovarsi carico di emozione. Forse era preoccupato di quello che avrebbero potuto pensare.
Fece un passo indietro, per darmi modo di respirare e riprendermi i miei spazi; alla luce di quello che avevo capito di provare per lui, adesso mi veniva difficile guardarlo in faccia senza provare un latente senso di imbarazzo. Mi sforzai di alzare lo sguardo per captare la sua espressione: era molto simile a quella che avevo scorto quella volta in cui era scoppiato a piangere davanti a quella vecchia baracca, con la differenza che sulle sue labbra aleggiava un sorriso appena accennato. Gli occhi erano pieni di sollievo e... qualcos'altro.
Sorridere a mia volta fu spontaneo, nonostante le lacrime e nonostante fossimo ancora al centro dell'attenzione.
Avrei potuto dirgli almeno un “ciao”, o qualcosa del genere, ma nessun saluto avrebbe retto il confronto con quello che i nostri occhi si stavano dicendo: così rimasi in silenzio a sorridergli, mentre lui sorrideva a me.
«Hai visto, Daryl? È viva e vegeta, come vi avevo promesso», intervenne Aaron, sorridendo e porgendo a Daryl la balestra che aveva lasciato cadere.
Daryl si voltò verso di lui, tornando diffidente e riprendendosi l'arma, senza dire nulla. Dentro di me mi venne da ridere, perché Daryl era stato l'unico che, evidentemente, era riuscito a imporsi per tenere con sé l'arma con cui aveva varcato i cancelli.
«Quanto hai faticato per convincerli?», domandai al mio amico, sorridendo a trentadue denti. Ero talmente felice che non riuscivo a crederlo. Mi guardai attorno, beandomi di nuovo della visione dei loro volti, rendendomi conto di quanto il corridoio fosse diventato improvvisamente affollato e stretto.
«Parecchio», rispose Rick al posto di Aaron. «Forse, senza la foto, non avremmo creduto che fossi davvero qui ad aspettarci».
Maggie mi affiancò, circondandomi i fianchi con un braccio. «Quando ti ho vista in quella foto, quando ho letto... non potevo crederci», sussurrò, baciandomi una tempia.
Misi la testa contro la sua spalla. «Lo sapevo che Aaron vi avrebbe trovati, prima o poi. Non ho mai perso la speranza». Sentii lo sguardo indecifrabile di Daryl su di me.
Deanna, che fino a quel momento aveva assistito al tutto con discrezione ed un sorriso ampio, si avvicinò a noi. «Né la determinazione: sapeste quanto ho faticato per riuscire a trattenerla qui dentro», esclamò la donna, accarezzandomi il capo con affetto.
«Non la ringrazierò mai abbastanza per questo, Deanna», disse mia sorella, stringendomi un po' di più a sé.
Deanna sorrise ma cambiò argomento. «Dammi del tu, Maggie. Immagino che avrete molto da raccontarvi, ma prima permetteteci di mostrarvi le vostre nuove abitazioni, così potrete darvi una rinfrescata e mettervi a vostro agio».
C'era qualcosa di diverso negli sguardi di ognuno di loro: diffidenza, certo, ma li trovavo molto più rilassati e ben disposti di come si sarebbero trovati in qualsiasi altra situazione. Forse, il fatto che io fossi ad Alexandria da un mese e più e che ci vivessi bene li rincuorava e li faceva sentire più sicuri. Sperai che, almeno per una volta, Rick potesse sentirsi al sicuro, assieme a Carl, Judith e a tutti noi.
Mi furono presentati gli sconosciuti che erano entrati assieme a Daryl: padre Gabriel, un prete che li aveva accolti in una cappella in cui erano rimasti per qualche tempo; Abraham, Eugene e Rosita, altri sopravvissuti che Glenn aveva incontrato poco dopo essere scappato dalla prigione, assieme a Tara, una ragazza che faceva parte del gruppo del Governatore. Mi si strinse il nodo in gola e capii che lei era stata semplicemente una pedina nelle mani di quel mostro, quando mi abbracciò e mi chiese scusa con la voce spezzata. Poi, fu il mio turno di abbracciare Sasha quando venni a sapere della morte di Bob. Furono degli scambi davvero veloci, in confronto a tutto ciò che era successo, perciò rimandammo i racconti a più tardi.
Alla mia famiglia vennero assegnate due grandi abitazioni, che si trovavano nel mio stesso viale, solo qualche casa dopo. Avrei voluto che Maggie e Glenn stessero da me, ma purtroppo la mia casetta non era abbastanza grande per tutti e tre. In quel momento, realizzai che Deanna non aveva voluto darmi un'abitazione con una camera in più per non provocarmi ulteriore dolore nel caso l'altra camera fosse rimasta vuota.
Le case erano bellissime e spaziose come mi aspettavo, e fu una gioia vedere i loro volti pieni di sorpresa, sconcerto e diffidenza davanti alle imponenti stanze che si trovarono davanti agli occhi. L'unico che non mostrò nemmeno il minimo accenno di stupore fu, ovviamente, Daryl: entrò in entrambe le case, guardandosi a malapena intorno, con lo sguardo indurito dalle sopracciglia aggrottate. Non rimase presente nemmeno il tempo di assegnarsi ad una camera da letto, perché scese le scale in compagnia della fedele balestra e uscì nel portico della casa che avrebbe diviso con Rick e i suoi figli, Michonne, Carol, Maggie e Glenn.
«Gli serve tempo», spiegò Carol, sorridendo serafica a Deanna e ad Aaron per spezzare il silenzio imbarazzato che era sceso quando Daryl era uscito.
Noah, che avevo già avuto modo di presentare alla mia famiglia – era difficile non notare tutte quelle persone entrate e poi uscite da casa mia – mi rivolse un sorriso di incoraggiamento; chissà che espressione avevo assunto. Preoccupata, sicuramente.
Terminammo il giro delle case e li lasciai tranquilli a sistemarsi, rinfrescarsi e prendere confidenza con l'ambiente; l'unico che non cedette alla voglia di farsi una bella doccia rilassante fu proprio Daryl.
Lo trovai ancora appoggiato alla colonna in legno del portico, intento a trafficare con la balestra, mentre uscivo da quella che ormai era casa di Maggie – e, beh, anche sua.
«Ti hanno lasciato la balestra», notai, per non rimanere lì in piedi davanti a lui a fissarlo in silenzio come un'idiota.
Lui alzò lo sguardo, con un'espressione perplessa stampata in volto. «E?».
Mi strinsi nelle spalle. «Beh, è strano, Nicholas non è il tipo da fare sconti».
«Chi è Nicholas?», domandò con tono piuttosto disinteressato, tornando a pulire la sua amata balestra.
«Il coglione che sta all'ingresso dei cancelli», spiegai, con tono irrisorio.
Non appena udì la mia offesa, alzò la testa di scatto, con un sorriso sardonico sulle labbra. «Non ti ricordavo così volgare, Greene», affermò, alzando un ginocchio e poggiandoci sopra l'avambraccio e facendo penzolare la mano, guardandomi divertito. Mi sentii avvampare dall'imbarazzo e temetti di aver esagerato, ma non riuscii a trattenere un sorriso.
«Non ti ricordavo così... - feci una pausa per squadrarlo dalla testa ai piedi, fingendo di cercare l'aggettivo – nero, Dixon. Perché non vai a farti una doccia? Ti farebbe bene», ribattei, canzonatoria.
Lui grugnì, sciogliendo la posa e riprendendo in mano la balestra. «Sto benissimo così».
«No, davvero, se le altre sono occupate puoi venire da me».
Accadde nello stesso momento: io sbiancai, rendendomi conto dell'implicazione maliziosa che avrebbe potuto avere la mia proposta, e Daryl mi guardò a occhi spalancati, sorpreso.
Stavo dispiegando le labbra per balbettare qualche giustificazione, ma lui non si lasciò scappare l'occasione di farmi morire di imbarazzo, ovviamente.
«Sei persino diventata sfacciata», ne convenne, ironico. Il suo sorriso derisorio mi fece desiderare di sprofondare o di piantargli qualcosa in fronte, ero indecisa.
Gli rivolsi l'occhiata più furiosa che riuscivo a fare, scendendo velocemente gli scalini con passo pesante, per chiudermi in casa mia e buttare la chiave. «Vai al diavolo, Dixon!», mi congedai, mentre sentivo il suo sorrisetto idiota perforarmi la schiena.
Meglio stronzo che morto, meglio stronzo che morto, ripetei tra me per provare a convincermene, mentre mi asciugavo i capelli e mi preparavo per cenare assieme alla mia famiglia. La doccia non era servita più di tanto a farmi passare le fitte di imbarazzo che mi scuotevano lo stomaco tutte le volte che ripensavo - o meglio, che il mio cervello mi faceva ripensare - allo scambio con Daryl.
Non avrei dovuto permettere alla mia bocca di scollegarsi dal cervello e farmi fare una figura simile, che diavolo mi era venuto in mente? Proporgli di fare una doccia. A casa mia. Per un secondo, il mio cervello mi fece apparire il flash di un Daryl nudo sotto il getto caldo della doccia alle mie spalle, senza che potessi impedirlo. Mi sentii sprofondare di nuovo dalla vergogna. Forse era la consapevolezza di ciò che provavo per lui ad amplificare qualsiasi emozione lo riguardasse; in ogni caso, ero fregata.
Seriamente, come mi era saltato in testa di...
innamorarmi - facevo persino fatica a pensarla, quella parola - di Daryl Dixon?
Era assurdo. Daryl era troppo grande per me, in fatto di età, certo, ma anche di mentalità: non si sarebbe mai sognato lontanamente di vedermi come qualcosa di diverso da una stupida ragazzina lagnosa che doveva essere salvata in continuazione. Mi era bastato stare separata da lui per un attimo, alla casa funeraria, per farmi rapire da quelli del Grady. E poco importava che fossi riuscita a fargli cambiare idea sulla bontà delle persone, ero ancora troppo poco per lui.
Avrei potuto considerarmi fortunata se i suoi occhi non mi avessero più vista come "un'altra ragazza morta", ma come quella che era riuscita a scappare da chi la teneva prigioniera e che era riuscita ad arrivare a Washington viva. Non avrei potuto aspirare ad altro, e andava bene così.
Daryl non si riteneva degno di essere amato da qualcuno, né si rendeva conto di quanto le persone del gruppo gli volessero bene: era questa l'impressione che avevo sempre avuto. L'unica cosa sulla quale non aveva da ridire era il suo valore come arciere, cacciatore e sopravvissuto, ma per il resto non si considerava una gran persona:
che idiota, pensai, con un sorriso.
A parte l'imbarazzo dovuto alle sue battutine e a tutte le mie paturnie su ciò che provavo per lui, non mi sentii a disagio quando lo salutai appena arrivata a casa sua, dove Maggie e gli altri stavano già iniziando a preparare tutto per la cena. Ero passata dalla dispensa comune per prendere quello che mancava, trasportando il tutto in una cesta piuttosto pesante. Si alzò dallo stesso angolo in cui si era seduto quel pomeriggio, nel portico, e mi chiesi se fosse rimasto lì da allora.
«Da' qua», disse in modo disinteressato, liberando le mie braccia da quel peso. Gli aprii velocemente la porta per aiutarlo e lo seguii non appena entrò, facendomi precedere in cucina. C'era un familiare viavai tra la cucina e l'enorme sala da pranzo: erano tutti lì, puliti, rinvigoriti, belli come non mai. Ai miei occhi, quella scena si presentò come il ritratto perfetto della felicità, ed ero talmente persa a godermela che a malapena mi accorsi dell'abbraccio di benvenuto di Maggie. Da quando ci eravamo ritrovate, sembrava che avesse il bisogno costante di abbracciarmi o anche solo toccarmi, per assicurarsi che fossi davvero lì con lei.
«Ehi!», esclamò per attirare la mia attenzione. Era radiosa.
«Uh, ciao Mag! Ho portato dalla dispensa comune quello che vi serviva», dissi, ricambiando l'abbraccio con un sorriso e indicando il cesto che Daryl aveva posato sulla penisola della cucina. Carol ci stava già rovistando dentro, mentre qualcuno era già ai fornelli ed altri si stavano occupando di apparecchiare la tavola. Quella sera saremmo stati solo e soltanto noi, senza Aaron, Deanna o chiunque altro, proprio come un tempo. Persino Noah aveva rifiutato con un sorriso, per permettermi di passare del tempo tra di noi: lo avevo minacciato promettendogli che, la prossima volta, non mi sarebbe sfuggito. Gli unici "sconosciuti" che si sarebbero seduti a quel tavolo erano Abraham e gli altri, ma capii che ormai facevano parte del gruppo e la cosa non mi dispiaceva.
Non fu la cena luculliana che avremmo potuto preparare nel mondo di prima, dato che il cibo di cui disponevamo era razionato equamente, ma fu lo stesso tutto perfetto.
Con il chiacchiericcio intorno a me che riempiva la stanza, mi persi un paio di volte nei miei pensieri,  assolutamente incredula del fatto che fossi davvero lì con loro, perché era tutto troppo bello per essere vero. Quando tornavo alla realtà, incrociavo gli occhi di Daryl, a qualche posto di distanza dal mio, che mi fissavano indecifrabili. Che si stesse preccupando per me?
«Beth, devi ancora dirci per bene cos'è successo dopo che ti sei separata da Daryl», intervenne Carl ad un certo punto, mettendo fine alle micro-conversazioni sparse per la tavolata.
«In realtà non mi sono separata da lui», precisai, lanciando un'occhiata al diretto interessato. Per un momento, mi venne il dubbio che davvero avesse pensato di essere stato lasciato indietro. Era forse impazzito? «Mi hanno rapita, dopo che siamo stati attaccati dai vaganti in quella casa funeraria. Non ricordo molto bene com'è successo, ricordo solo che mi sono risvegliata in un ospedale, da sola. Per fortuna io e Noah siamo riusciti a scappare: quel dannato posto era una prigione, avrei preferito mille volte rimanere con Daryl», conclusi, senza preoccuparmi di cosa avrei potuto far intendere con quelle parole. Sentivo lo sguardo preoccupato di Maggie su di me.
«Quel
fottuto posto è pieno di pazzi ingenui che non sanno un cazzo di come sta andando il mondo», mi corresse Daryl, prendendomi in contropiede.
Voltai il viso verso di lui con uno scatto, con gli occhi spalacati dalla sorpresa. «Come... Come fai a saperlo?!», domandai, esterrefatta.
«Buona parte di noi è venuta a cercarti, ma non ti abbiamo trovato. Siamo arrivati lì perché Daryl e Carol sono riusciti a trovare una tua traccia», spiegò Rick. Venni scossa da un brivido, quando mi resi conto del rischio immane che avevano corso solo per trovare me. Ero atterrita, completamente senza parole. Mi ci volle un grande sforzo per aprire di nuovo bocca.
«Come avete fatto a uscire vivi da lì? Cos'è successo?», domandai con la voce tremante. Maggie mi prese la mano e la portò sulla sua coscia, per poi stringerla, mentre il mio sguardo orbitava da Rick, Daryl e Carol.
Fu quest'ultima a rispondere. «Siamo arrivati e abbiamo chiesto di te. C'era una ragazza piuttosto giovane al comando, abbiamo parlato un po'».
Analizzai la sua frase, capendo subito che non era di Dawn che stava parlando: anche se non era vecchia era comunque adulta, vicina ai quaranta, e non le si poteva certo addebitare la nomea di "ragazza piuttosto giovane". Inoltre, era impossibile parlare con lei senza puntarsi qualcosa addosso a vicenda.
«Vi ha detto il suo nome?», domandai, impaziente.
«Shepherd, il nome non me lo ricordo», rispose Carol, ma il nome non importava. Mi bastava il cognome per capire che la leadership di Dawn era stata finalmente rovesciata.
Mi lasciai andare ad un lungo sospiro di sollievo, che non passò inosservato. «Che c'è?», domandò Daryl, burbero.
«Non sapete a cosa siete riusciti a scampare... Quando io e Noah siamo fuggiti, l'ospedale era sotto il controllo di un'altra donna, Dawn Lerner. Era convinta che qualcuno sarebbe arrivato a salvarli, un giorno, e noi eravamo costretti a stare lì perché ci avevano salvato la vita, perciò avevamo un debito nei loro confronti. Era la donna peggiore che potessi incontrare. Se ci fosse stata lei al vostro arrivo, sarebbe andata a finire peggio», spiegai, senza nascondere l'angoscia nella mia voce.
Glenn, accanto a me, mi accarezzò la nuca. «Sinceramente dubito che Dawn sarebbe stata una minaccia più grande rispetto a tutto quello che abbiamo passato», disse come battuta, anche se il sorriso era abbastanza forzato.
«Perché?», domandai, interdetta.
Ciò che mi raccontarono fu qualcosa al limite dell'orrore, dell'umanità, della ragione. Avevano più o meno tutti seguito le rotaie al limitare del bosco - sul momento non ricordai se anche io e Daryl ci fossimo mai arrivati - e alla fine di esse, secondo i messaggi che si trovavano in giro, avrebbe dovuto esserci questa comunità di accoglienza, chiamata Terminus.
Terminus altro non era che un covo di cannibali, che si approfittavano della disperazione dei sopravvissuti per attirarli in trappola e cibarsene, come i ragni fanno con le mosche. Mi raccontarono che Carol li aveva salvati tutti, al che mi voltai verso di lei e le rivolsi un'occhiata colma di riconoscenza: era una donna meravigliosa, forte, la donna che avrei voluto essere io. Dopo aver distrutto quell'angolo di inferno, si erano rifugiati nella cappella di Padre Gabriel, dove i cannibali superstiti li avevano trovati e minacciato di nuovo la loro sicurezza. Erano riusciti ad eliminarli una volta per tutte, ma non erano riusciti ad evitare che si cibassero di Bob - mi venne un conato a pensare a ciò che quel povero uomo aveva dovuto subire - quando lui in realtà era già stato morso: era così che Sasha lo aveva perso.
Mi raccontarono anche che Abraham era determinato ad arrivare a Washington perché Eugene aveva detto di avere in mano la cura per l'epidemia, anche se in realtà non era vero. L'uomo, durante quel racconto, si limitò a scolarsi tutta la bottiglia di birra che era rimasta sul tavolo, per poi alzarsi e uscire, grugnendo e tirando fuori il pacchetto di sigarette per fumare sotto al portico. Mi rabbuiai anche io, quando venni a scoprire che Maggie, nel frattempo, non si era minimamente curata di venirmi a cercare, ma aveva preferito partire con Abraham e gli altri per venire a Washinghton e salvare il mondo. Cercai di fare un respiro profondo e cancellare il rancore che provai in quell'attimo, ripetendomi che non era importante e che, ad ogni modo, ora eravamo insieme. Ma fu difficile, perché da quando ci eravamo separati, il mio pensiero era stato trovarli tutti quanti, mia sorella al primo posto, invece lei non era stata dello stesso avviso.
Tutto ad un tratto, la sua mano intrecciata alla mia iniziò a darmi fastidio, e mascherai un gesto stizzito con l'alzarmi per andare in bagno. Mi sciacquai la faccia, decisa a sorvolare e tornai da loro facendo finta di nulla.
Mi spiegarono brevemente tutta la fatica e le dimostrazioni che erano costate ad Aaron per convincerli del fatto che mi trovavo davvero ad Alexandria, ad aspettarli. La prova inconfutabile, come avevo sperato, arrivò quando Daryl riconobbe ciò che stava dietro il post scriptum, e capì che nessun altro, nemmeno Aaron, poteva capire a cosa si riferisse il mio messaggio. Il gruppo poteva non fidarsi di Aaron, ma si fidava ciecamente di Daryl. Gli offrii un sorriso, che provocò un'espressione perplessa sul suo viso.
Il cuore mi si riempì di gioia, quando realizzai che non aveva dimenticato tutto quello che avevamo condiviso e che non fosse rimasto indifferente ai miei segnali. Sapevo benissimo di non avere con lui la stessa connessione che poteva vantare Carol, ma per me era già qualcosa.
Qualcosa di infinitamente prezioso.
La cena si concluse quando Judith iniziò a piangere per la stanchezza, così, mentre Rick preparava la bambina per la notte a la poneva nel box del salotto, il resto di noi si attivò per sparecchiare e sistemare la cucina e le stoviglie.
Rimasi leggermente interdetta quando Michonne mi avvertì del fatto che, quella prima notte, preferivano dormire tutti insieme nell'ampio soggorno. Ma bastò un secondo, perché mi ritornò in mente che io avevo fatto lo stesso la prima notte – beh, le prime sette notti – che avevo passato qui, perciò non potevo proprio biasimarli. Michonne era un po' incerta, come se accamparsi tutti insieme nel salotto fosse una dimostrazione di scarsa fiducia nei miei confronti: le sorrisi e mi offrii di darle una mano per stendere il sacchi a pelo e qualsiasi cosa fosse utile per dormire sul pavimento e che poi avrei dormito con loro.
Rimanemmo svegli un'altra oretta e mezza, ma gli altri erano veramente stanchi, così a turno si prepararono per andare a dormire, mentre io facevo una corsa a casa mia per prendere i pantaloncini e la maglietta che usavo come pigiama.
Quando tornai, l'unico che non si era cambiato per dormire era Daryl: se ne stava vicino alla culla di Judith, accomodato alla seduta della finestra e osservava il buio di fuori, come se le persone intorno a lui non esistessero. Capii che si sarebbe sistemato lì per dormire perciò, senza farmi notare troppo dagli altri – alcuni erano già coricati e altri aspettavano il proprio turno per il bagno chiacchierando in cucina – e con la scusa di controllare Judith mi avvicinai a lui.
Appoggiai con delicatezza una mano al bordo della culla e mi chinai leggermente per guardare la piccola dormire beatamente.
«Non ti prepari per andare a dormire come gli altri, Daryl?», domandai con un lieve sorriso, senza smettere di ammirare la tenerezza della piccola Judith.
«Sono già a nanna, mamma; grazie. Fatti gli affari tuoi», rispose piatto, appoggiando il gomito sul ginocchio e mordicchiandosi l'unghia del pollice della mano destra.
«Hai intenzione di dormire qui?», domandai, guardandolo finalmente in faccia. Anzi no, visto che il suo viso era voltato e gli occhi ancorati a ciò che c'era fuori dalla finestra. «Starai scomodo», aggiunsi, cercando di dimostrarmi gentile nonostante la sua rispostaccia.
«Preferisci forse che dorma con te?», ribatté, seccato. Lo sapevo che aveva tutta l'intenzione di mettermi in imbarazzo nello stesso modo in cui l'aveva fatto quello stesso pomeriggio.
Non dovevo dargli la soddisfazione di abboccare alla sua provocazione. «No, il mio sacco a pelo è troppo piccolo per tutti e due. E poi devi ancora farti una doccia», controbattei senza guardarlo, sistemando velocemente la copertina di Judith e raddrizzandomi. Lui mi guardò con un'espressione illeggibile sul volto, e si mise a fissarmi; sostenni lo sguardo per qualche istante, cercando di dare un significato a quel nostro scambio silenzioso.
«Buonanotte Daryl», dissi, voltandogli poi le spalle e raggiungendo mia sorella in cucina.
Poco dopo, quando fummo tutti sistemati nel proprio giaciglio, chi per terra e chi sui tre divani, e Rick spense le luci, ci impiegai davvero poco a crollare: tutte le emozioni di quel giorno unite alla stanchezza che mi aveva provocato lavorare coi bambini, mi fecero addormentare praticamente subito, sprofondando in un sonno profondo.
Riaprii gli occhi nel buio del salotto qualche ora dopo, il silenzio che faceva da sottofondo ai respiri lenti e regolari della mia famiglia: dormivano tutti. Mi stropicciai gli occhi che ero appena riuscita ad aprire a fatica, cercando di non muovermi troppo per non svegliare Maggie che, stesa accanto a me, dormiva beatamente tra le braccia di Glenn.
I miei occhi appesantiti cercarono l'unica fonte di luce, ovvero la finestra alla mia destra, che faceva entrare l'illuminazione del lampione nel vialetto, attutendo il buio con spiragli di luce sparsi per il salotto. Con molta fatica, il mio cervello processò che la piccola seduta della finestra era vuota, quando in realtà avrebbe dovuto esserci Daryl, che l'aveva occupata quando era stato il momento di andare a dormire.
Mi sedetti, sforzandomi di guardarmi intorno per vedere se, magari, avesse solo cambiato posto, vinto dalla scomodità di quel piccolo spazio in cui si era costretto a dormire, ma mi sembrò di non riconoscerlo in mezzo agli altri.
Stando attenta a non svegliare nessuno, mi alzai in piedi con cautela e scavalcai Carol e Michonne, andando a recuperare la mia felpa e i miei stivali. Feci un salto in cucina a bere un bicchiere d'acqua, avanzando a tentoni nel buio e beandomi poi della luce che emetteva il frigo aperto. Non ci fu nemmeno bisogno di riflettere su dove potesse essere andato Daryl perché, da dove ero posizionata io, riuscii a vederlo oltre il vetro della finestra, seduto per terra nell'angolo del portico che, ormai, poteva considerarsi suo. Il suo viso era illuminato appena dal tizzone acceso e arancione della sigaretta.
Raggiunsi la porta di ingresso, ma prima di uscire, indossai la giacca e presi il giubbotto di pelle che avevano dato a Daryl, ma che lui si era limitato ad appendere all'attaccapanni. Sicuramente stava gelando lì fuori, coperto solo dal gilet smanicato con le ali che era la sua firma.
Aprii piano la porta, richiudendola altrettanto piano alle mie spalle. Mi aspettai qualche commento infastidito, o uno sbuffo seccato, invece si limitò a sollevare il volto verso il mio per guardarmi. Anche se era buio, i suoi occhi ebbero effetto ugualmente e mi sentii arrossire sotto il suo sguardo. Aspirò e liberò il fumo, togliendosi la sigaretta dalla bocca per parlare e tenendola tra l'indice e il pollice.
«Te l'ho detto che saresti stato scomodo», esordii con un sorriso, avanzando verso di lui e sedendomi al suo fianco, il giubbotto stretto al petto. Cercai di non arricciare il naso per l'odore di fumo e respirare solo con la bocca.
«Quello non c'entra», ribattè in tono neutro. «Non avevo più sonno».
Lo osservai attentamnte, provando a capire cosa si celasse dietro la sua improvvisa insonnia; nello stesso istante, cercavo di mantenere la calma davanti alla consapevolezza che quella fosse la prima volta che ci ritrovavamo soli e così vicini da prima che ci separassero. Mi ritornarono in mente le nostre confessioni da ubriachi nella vecchia catapecchia a cui avevamo dato successivamente fuoco, e tutta quella situazione sembrava essersi replicata lì ad Alexandria, con la sola differenza che, quella volta, ero al suo fianco.
«Devi rilassarti. Nessuno vi farà del male qui dentro», cercai di rassicurarlo, mentre lui buttava via la sigaretta, premendola per terra e lanciandola poi oltre la colonna del porticato.
«Immagino che la tua proverbiale prudenza ti abbia spinto a fidarti subito di questa gente, non è vero?», domandò sarcastico, senza guardarmi.
«Tutto il contrario», lo smentii, porgendogli il giubbotto; lui lo afferrò, ma lo ripose accanto a sé, dal lato opposto al mio. «C'è voluta una settimana prima che dormissi nel mio letto e altre due prima che smettessi di chiudermi a chiave in camera», raccontai, facendomi più vicino a lui. Il mio gomito toccò il suo braccio: se quel contatto lo infastidì non lo diede a vedere. «La prima notte io e Noah abbiamo dormito in salotto, esattamente come voi».
Iniziò a fissarmi, serio, come se stesse studiando ciò che gli avevo appena raccontanto: nemmeno nell'ultima sera insieme, seduti al tavolo della cucina della casa funeraria, eravamo così fisicamente vicini; il suo sguardo era così intenso e pericolosamente vicino.
Ero a distanza di idiozia dalle sue labbra ruvide e invintanti, perciò interruppi il contatto visivo, tossicchiando imbarazzata. Anche lui volse lo sguardo altrove.
«Non eri tu quella che credeva che esistessero ancora brave persone?», domandò retoricamente, quasi come se fosse sulla mia stessa lunghezza d'onda, come se i suoi pensieri lo avessero portato a rievocare ciò che stavo pensando io.
«Essere prudente non denota una mancanza di fiducia nel prossimo», mi giustificai. «Ero da sola, Daryl», sussurrai tristemente, osservando le ginocchia che tenevo strette al petto.
«Eri col tuo amico», mi ricordò.
«Eravamo solo in due».
«Anche quando siamo scappati dalla prigione eravamo solo in due», ribatté, infastidito.
«Non è la stessa cosa».
«Sì invece, i numeri non cambiano».
«Non è la stessa cosa», ripetei.
«Perché?!», esclamò spazientito e con una punta di esasperazione nella voce.
Rimasi in silenzio qualche istante, prima di parlare. «Lui non è te».
Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia dopo quella che lui, sicuramente, considerava come una “stronzata sentimentale” o qualcosa del genere. «Pfff, che risposta del cazzo», sbottò.
Infatti.
Mi formicolarono le dita, e mi voltai con uno scatto verso di lui. «Sarà anche una risposta del cazzo, ma io - calcai sul pronome – almeno rispondo chiaramente alle domande, a differenza tua!», esclamai, cercando di tenere un tono di voce basso.
«Cosa vorresti dire?», chiese, sulla difensiva. Stava stringendo un pugno.
«Voglio dire che non hai nemmeno avuto il coraggio di rispondermi come si deve in quella stupida casa funeraria, ma ti sei limitato a mugugnare e a fissarmi quando ti ho chiesto perché hai cambiato idea sulla bontà delle persone!».
Si irrigidì di colpo, arretrando leggermente e guardandomi con gli occhi socchiusi in una fessura arcigna e fredda. Lo guardai con lo sguardo eloquente di chi avrebbe accettato una risposta anche in quel momento, anche se molto dopo, non importava.
«Parli troppo, Greene», si lamentò invece, poggiandosi con la schiena contro la palizzata del portico.
Io non dissi nulla, rimanendo immobile per qualche istante; poi, cogliendolo di sorpresa, mi alzai e feci per allontanarmi da lui e rientrare in casa. Non ne fui in grado, perché si sporse verso di me e mi afferrò per un polso, trattenendomi. Abbassai lo sguardo verso di lui, senza il minimo cambio di espressione: dentro, invece, mi sentivo bruciare e il cuore batteva all'impazzata. Eccolo, il Daryl Dixon che mi aveva abbracciato il pomeriggio prima.
Sospirai, sforzandomi di trattenere un sorriso. Mi voltai appena, cercando il suo sguardo con la coda dell'occhio: era intenso e indecifrabile, come al solito.
Con un movimento leggero del braccio mi liberai dalla sua presa delicata, intrecciando subito dopo le mie dita con le sue per sollecitarlo ad alzarsi.
«Vieni, ti faccio visitare Alexandria», dissi, con un tono dolce ma che non ammetteva repliche.
Daryl rimase per qualche momento a osservarmi, con le nostre dita intrecciate, ma poi sciolse la presa con uno sbuffo e si alzò in piedi, tirandosi dietro il giubbotto e infilandoselo. Quando si apprestò a prendere anche la balestra, lo fermai.
«Non ti serve quella, Daryl. Prova a fidarti», sussurrai, con un sorriso.
Seppur con incertezza, la prese e aprì un istante la porta per appoggiarla al muro vicino all'attaccapanni, affiancandosi poi a me che lo aspettavo giù dagli scalini del portico.
Iniziammo a camminare lentamente tra le vie di Alexandria, in quella notte fredda ma tranquilla, come se fosse un piccolo tour improvvisato solo per lui, la persona che più di tutti aveva mostrato un rifiuto sin dal primo giorno. Gli mostrai l'ambulatorio, la casa di Pete, la scuola dove dalla mattina prima avevo iniziato a lavorare, il guardaroba collettivo, la biblioteca, la piccola cappella, il laghetto, la cisterna d'acqua. Lui ascoltò tutto il tempo i miei racconti, senza proferire quasi mai parola, con qualche «mmmh-mmmh» di asserimento per farmi capire che mi stava seguendo.
Quando arrivammo vicino alla dispensa, mi venne un'idea.
«E in questo deposito si trova la dispensa, la più importante fonte di cibo di tutta Alexandria, nonché l'unica. Dovremmo dare un'occhiata, non credi?», domandai, con un sorriso furbo che Daryl non riuscì a interpretare. Ad Alexandria vigeva la fiducia reciproca, per questo luoghi come la dispensa non venivano mai chiusi a chiave e sempre per questo entrai nella struttura senza alcun problema. Il lampione collocato dietro quella costruzione faceva entrare abbastanza illuminazione, perciò non accesi la luce, anche se avanzai con cautela e con Daryl dietro di me.
«Come hai avuto modo di notare, ad ogni famiglia di Alexandria è destinato un certo quantitativo di alimenti e c'è una razione equamente spartita per ogni categoria di cibo, mi segui?», spiegai a Daryl, mentre mi aggiravo per le mensole in modo da trovare ciò che mi serviva.
«Sì, quindi?», rispose lui, laconico.
Mi voltai verso di lui, che mi osservava appoggiato allo stipite dell'arco che separava quella parte di dispensa dal resto. «Alcuni alimenti sono più “rari” di altri, forse perché non fondamentali alla sopravvivenza», continuai, aprendo il freezer e lasciandomi scappare un «bingo!», soddisfatta, quando vidi le barrette di cioccolata impilate e avvolte nella carta argentata in fondo al congelatore.
Afferrai una tavoletta e la spezzai a metà, conservandone una e rimettendo l'altra al suo posto.
«Io e Noah non siamo molto soddisfatti della razione di cioccolata che ci spetta, perciò ogni tanto cerchiamo di arrangiarci a modo nostro», conclusi con un sorrisetto e ponendogli un'eventuale metà della tavoletta.
Le labbra di Daryl si piegarono in un sorriso sottile e appena accennato, ma che arrivò ai suoi occhi con un guizzo divertito. Riuscii a scorgere tutto, nonostante il buio. «Quindi uno dei tuoi passatempi preferiti qua dentro è derubare le scorte di cioccolata assieme al tuo amico?», domandò, addentandone un pezzo e masticando rumorosamente.
Risi, compiaciuta. «Beh, non c'è molto altro da fare qui», mi difesi, appoggiandomi al congelatore e mangiando la mia parte.
Non mi sfuggì la velocità con cui aveva fatto sparire il suo pezzetto di cioccolata, così non appena finii il mio, incrociai le braccia al petto e lo guardai con un sorrisetto ironico.
«Da quanto non mangiavi cioccolata?», domandai, divertita.
Smise di leccarsi le dita, mentre il suo viso diventava una maschera neutra ed i suoi occhi si allacciarono ai miei. Tossicchiò, pulendosi le dita nel tessuto dei jeans e borbottando. «Da un po'», disse, cercando di trattenere un sorriso.
Mentre stavo per ribattere, il mio sguardo passò sullo scaffale vicino a Daryl, e venne attirato da qualcosa che catturò la mia attenzione: le mie labbra si dispiegarono in un sorriso divertito e avanzai verso la mensola, allungando una mano.
«Oh, qui hanno qualcosa di tuo», dissi, afferrando il barattolo di latta e rigirandomelo tra le mani.
Quando lo guardai, Daryl aveva uno sguardo perplesso, che scomparve non appena gli misi davanti al naso ciò che avevo trovato. «Zamponi!», esclamai, rievocando quella volta alla casa funeraria in cui aveva reclamato gli zamponi dicendo che erano suoi. Mi lasciai andare ad una risata leggera, continuando a porgegli il barattolo e a guardarlo negli occhi, senza smettere di sorridere.
Lui invece, rimase serio. Abbassò lo sguardo su ciò che tenevo in mano e lo prese lentamente, portando poi il braccio lungo il corpo, con il barattolo ancora stretto tra le mani. E poi, come già tante volte era accaduto in quelle poche ore, allacciò gli occhi ai miei, serissimo, senza dire nulla e, senza che potessi prevederlo, iniziò ad avanzare verso di me.
Mi bloccai sul posto, senza riuscire a scostare il mio sguardo dal suo, come se ne fossi completamente ipnotizzata e quel volto immerso nelle ombre avesse il potere di paralizzarmi.
Era come se fosse più facile, per lui, muoversi al buio ed agire, perché il suo passo era sicuro così come il suo sguardo. Anche io, nonostante i suoi occhi mi intimidissero, mi sentivo più a mio agio: in quella piccola dispensa l'aria si era fatta carica di elettricità, e non so se fossero i miei sentimenti per lui e le conseguenti reazioni ai suoi gesti a farmi leggere ciò che stava succedendo in un modo totalmente sbagliato. Si fermò che le punte delle nostre scarpe quasi si toccavano, il suo corpo vicinissimo e il suo calore che si mischiava al mio. E quello sguardo... era tutto così intimo, nascosto, discreto. Come se, una volta rimasti soli, fosse più facile avere a che fare l'uno con l'altra, e in mezzo agli altri fossimo due persone diverse e con un legame altrettanto diverso.
Daryl non la smetteva di fissarmi mettendo alla prova i miei nervi e, nonostante avessi la gola improvvisamente secca, riuscii a bisbigliare: «cosa c'è?».
Lui, in tutta risposa, sollevò la mano ed il braccio liberi e mi circondò le spalle, mentre la mano con cui stringeva il barattolo l'appoggiò al congelatore dietro di me e si sostenne nel momento in cui si sbilanciò verso di me per abbracciarmi in modo goffo.
«Per te», sussurrò, a voce talmente bassa che, per un momento, credetti di essermelo solo immaginata.
Quella frase voleva dire tutto e niente ed espressa così fuori contesto, inizialmente, fu di difficile interpretazione. Nonostante il suo corpo contro il mio fosse una fonte di distrazione, dopo una giornata così non potei non arrivare quasi subito a cosa significassero quelle due semplici parole.
Come poteva essere il contrario, se in ogni suo gesto, parola o comportamento avevo trovato qualche rimando agli ultimi giorni che avevamo passato insieme prima di essere separati? Quella era semplicemente la risposta chiara e concisa alla domanda che gli avevo posto infinito tempo prima: «perché hai cambiato idea?»
Per te. Sei tu che mi hai fatto cambiare idea.
Anche se avevo capito dal primo istante quale fosse il responso, fu incredibile sentirselo dire, ancora di più se pensavo che era stato Daryl a esporsi così tanto.
L'orgoglioso, distaccato e burbero Daryl Dixon.
L'unica cosa che riuscii a fare fu affondare il volto nel suo petto e stringere le braccia attorno alla sua vita, stringendomi contro di lui, mentre il mio cuore, il mio corpo e la mia mente si animarono di emozioni tanto forti e luminose che sentii l'elettricità sprizzare da ogni mio poro. Inspirai a fondo il suo odore, incredula del fatto che tutto quello stesse succedendo davvero e ancora più consapevole dei miei sentimenti per lui. Ero troppo felice per farmi domande sul cosa lo avesse spinto a quei gesti – per lui – tanto eclatanti.
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon», sussurrai, nascondendo il sorriso nella sua camicia.
La sua presa attorno alle mie spalle aumentò appena, per poi allentarsi subito dopo, mentre sbuffava simulando una risata, allontanandosi da me.
«Sei ubriaca anche stavolta?», domandò, facendo un passo indietro.
Dissimulai l'imbarazzo ridacchiando a mia volta, portandomi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. «Certo che no», risposi timidamente.
Non senza un certo impaccio, convenimmo che fosse ora di tornare a casa, così uscimmo dalla dispensa, guardandoci intorno non appena fummo fuori. Il cielo cominciava a schiarirsi a poco a poco, di sicuro l'alba era vicina; camminammo fianco a fianco, in silenzio, fino a casa sua. Quando vide che non lo seguivo su per gli scalini, si voltò a guardarmi con uno sguardo interrogativo. Infilai le mani nelle tasche della giacca, piegando la testa prima da un lato e poi da un altro, facendo scricchiolare il collo.
«Credo che andrò a dormire a casa, il pavimento è un po' scomodo. E poi non voglio svegliare Carol o Michonne inciampandoci sopra». Tutto ad un tratto, il sonno si fece sentire, gravando sulle mie palpebre e sulle mie spalle. Eppure, non mi ero mai sentita così sveglia.
«Giusto. Dirò io a Maggie che sei tornata a casa tua», disse in tono neutrale – cioé, il suo solito tono. «Beh, buonanotte», aggiunse, voltandosi.
«Ehi, Daryl», lo chiamai a voce un po' troppo alta, prima che entrasse in casa. Si girò verso di me con la mano già sulla maniglia della porta, in attesa. «Perché domani non passi da me? Voglio darti una sistemata ai capelli», proposi, sperando che dicesse di sì.
Aggrottò le sopracciglia e arricciò le labbra, per niente allettato dalla proposta. «Scordatelo!», berciò, enfatizzando il tutto con un movimento brusco del braccio che non stringeva la maniglia.
Sorrisi angelica, incurante della sua risposta. «Bene, è questo lo spirito. Ti aspetto da me per le tre», stabilii, iniziando a incamminarmi verso casa. Ignorando le sue numerose proteste, quando fui ancora più lontana mi voltai, aggiungendo: «ah, mi raccomando: devi venire da me pulito, perciò fatti una bella doccia!».
«Sei una seccatura, ragazzina!», sbottò a voce alta, prima di sparire dentro casa accompagnato dalle mie risate.


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Angolo autrice.
Finalmente ce l'ho fatta, questo capitolo è stato veramente infinito da scrivere e mi dispiace di essere in leggero “ritardo”, ma ho avuto un mini-blocco. Perché io sono così: non scrivo per giorni, fisso per settimane una pagina che non vuole sapere di essere riempita e poi, boom, tutto d'un colpo completo il capitolo in una giornata. Vallo a capire il mio cervello...
Comunque, ci siamo: possiamo ufficialmente dare il via al rapporto tra i nostri due amorucci! È incredibilmente difficile provare a costruire caratteri e situazioni rimanendo fedele/rifacendosi alle poche situazioni che sono state ricreate nel telefilm, ci ho provato veramente in ogni modo e spero che il risultato sia abbastanza buono.
In questo caso ho odiato veramente l'italiano, che ha veramente tolto molto ad un dialogo che, tra loro due, è importantissimo: esatto, la famosa risposta sul perché Daryl ha cambiato idea sull'esistenza delle brave persone.
“What changed your mind?” è stato tradotto in italiano con l'odioso – per me – “perché hai cambiato idea?”, la cui risposta è veramente troppo lunga per uno di poche parole come Daryl.
Mentre in inglese avrei potuto cavarmela così:
“What changed your mind?” “You.”
in italiano mi è uscito quel maledetto “per te” che non ha veramente senso e toglie tutta la poesia della risposta laconica in perfetto stile Dixon.
Vabeh, prima o poi mi riprenderò, non preoccupatevi, ahahah!
È l'una e mezza di notte e sto per crollare, ma volevo veramente aggiornare il capitolo perché è passato molto tempo e non volevo farvi aspettare oltre. Domattina controllerò gli eventuali errori, intanto ringrazio veramente di cuore le sette persone che hanno recensito lo scorso capitolo (vi risponderò presto, giuro!) che sono state veramente di una gentilezza estrema, chi ha aggiunto la mia storia alle seguite/preferite e anche chi ha letto soltanto.
Rinnovo l'invito a passare sul mio tumblr per scambiare quattro chiacchiere e vedere tutto ciò che riguarda questa storia (
http://blakieefp.tumblr.com), mi farebbe piacere!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi aspetto al prossimo aggiornamento!
Un bacio,
Blakie

   
 
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