And
we'll be good
capitolo
3
Sciogliere
l'abbraccio con Daryl fu come ritornare coi piedi per terra, in due
entità di nuovo separate e distinte.
Fu lui il primo a
scostarsi, facendo scivolare le mani dalle mie spalle lungo le
braccia e chiudendo delicatamente le dita attorno ai miei gomiti,
allontanandomi con gentilezza. Anche se mi sentivo leggermente
spaesata, riuscii comunque a chiedermi se avesse interrotto
l'abbraccio perché, più di tanto, non sopportava il
contatto fisico, o perché le persone intorno a noi erano stati
spettatori di quel ritrovarsi carico di emozione. Forse era
preoccupato di quello che avrebbero potuto pensare.
Fece un passo
indietro, per darmi modo di respirare e riprendermi i miei spazi;
alla luce di quello che avevo capito di provare per lui, adesso mi
veniva difficile guardarlo in faccia senza provare un latente senso
di imbarazzo. Mi sforzai di alzare lo sguardo per captare la sua
espressione: era molto simile a quella che avevo scorto quella volta
in cui era scoppiato a piangere davanti a quella vecchia baracca, con
la differenza che sulle sue labbra aleggiava un sorriso appena
accennato. Gli occhi erano pieni di sollievo e...
qualcos'altro.
Sorridere a mia volta fu spontaneo, nonostante le
lacrime e nonostante fossimo ancora al centro dell'attenzione.
Avrei
potuto dirgli almeno un “ciao”, o qualcosa del genere, ma
nessun saluto avrebbe retto il confronto con quello che i nostri
occhi si stavano dicendo: così rimasi in silenzio a
sorridergli, mentre lui sorrideva a me.
«Hai visto, Daryl? È
viva e vegeta, come vi avevo promesso», intervenne Aaron,
sorridendo e porgendo a Daryl la balestra che aveva lasciato
cadere.
Daryl si voltò verso di lui, tornando diffidente e
riprendendosi l'arma, senza dire nulla. Dentro di me mi venne da
ridere, perché Daryl era stato l'unico che, evidentemente, era
riuscito a imporsi per tenere con sé l'arma con cui aveva
varcato i cancelli.
«Quanto hai faticato per convincerli?»,
domandai al mio amico, sorridendo a trentadue denti. Ero talmente
felice che non riuscivo a crederlo. Mi guardai attorno, beandomi di
nuovo della visione dei loro volti, rendendomi conto di quanto il
corridoio fosse diventato improvvisamente affollato e
stretto.
«Parecchio», rispose Rick al posto di Aaron.
«Forse, senza la foto, non avremmo creduto che fossi davvero
qui ad aspettarci».
Maggie mi affiancò, circondandomi
i fianchi con un braccio. «Quando ti ho vista in quella foto,
quando ho letto... non potevo crederci», sussurrò,
baciandomi una tempia.
Misi la testa contro la sua spalla. «Lo
sapevo che Aaron vi avrebbe trovati, prima o poi. Non ho mai perso la
speranza». Sentii lo sguardo indecifrabile di Daryl su di
me.
Deanna, che fino a quel momento aveva assistito al tutto con
discrezione ed un sorriso ampio, si avvicinò a noi. «Né
la determinazione: sapeste quanto ho faticato per riuscire a
trattenerla qui dentro», esclamò la donna,
accarezzandomi il capo con affetto.
«Non la ringrazierò
mai abbastanza per questo, Deanna», disse mia sorella,
stringendomi un po' di più a sé.
Deanna sorrise ma
cambiò argomento. «Dammi del tu, Maggie. Immagino che
avrete molto da raccontarvi, ma prima permetteteci di mostrarvi le
vostre nuove abitazioni, così potrete darvi una rinfrescata e
mettervi a vostro agio».
C'era qualcosa di diverso negli
sguardi di ognuno di loro: diffidenza, certo, ma li trovavo molto più
rilassati e ben disposti di come si sarebbero trovati in qualsiasi
altra situazione. Forse, il fatto che io fossi ad Alexandria da un
mese e più e che ci vivessi bene li rincuorava e li faceva
sentire più sicuri. Sperai che, almeno per una volta, Rick
potesse sentirsi al sicuro, assieme a Carl, Judith e a tutti noi.
Mi
furono presentati gli sconosciuti che erano entrati assieme a Daryl:
padre Gabriel, un prete che li aveva accolti in una cappella in cui
erano rimasti per qualche tempo; Abraham, Eugene e Rosita, altri
sopravvissuti che Glenn aveva incontrato poco dopo essere scappato
dalla prigione, assieme a Tara, una ragazza che faceva parte del
gruppo del Governatore. Mi si strinse il nodo in gola e capii che lei
era stata semplicemente una pedina nelle mani di quel mostro, quando
mi abbracciò e mi chiese scusa con la voce spezzata. Poi, fu
il mio turno di abbracciare Sasha quando venni a sapere della morte
di Bob. Furono degli scambi davvero veloci, in confronto a tutto ciò
che era successo, perciò rimandammo i racconti a più
tardi.
Alla mia famiglia vennero assegnate due grandi abitazioni,
che si trovavano nel mio stesso viale, solo qualche casa dopo. Avrei
voluto che Maggie e Glenn stessero da me, ma purtroppo la mia casetta
non era abbastanza grande per tutti e tre. In quel momento, realizzai
che Deanna non aveva voluto darmi un'abitazione con una camera in più
per non provocarmi ulteriore dolore nel caso l'altra camera fosse
rimasta vuota.
Le case erano bellissime e spaziose come mi
aspettavo, e fu una gioia vedere i loro volti pieni di sorpresa,
sconcerto e diffidenza davanti alle imponenti stanze che si trovarono
davanti agli occhi. L'unico che non mostrò nemmeno il minimo
accenno di stupore fu, ovviamente, Daryl: entrò in entrambe le
case, guardandosi a malapena intorno, con lo sguardo indurito dalle
sopracciglia aggrottate. Non rimase presente nemmeno il tempo di
assegnarsi ad una camera da letto, perché scese le scale in
compagnia della fedele balestra e uscì nel portico della casa
che avrebbe diviso con Rick e i suoi figli, Michonne, Carol, Maggie e
Glenn.
«Gli serve tempo», spiegò Carol,
sorridendo serafica a Deanna e ad Aaron per spezzare il silenzio
imbarazzato che era sceso quando Daryl era uscito.
Noah, che avevo
già avuto modo di presentare alla mia famiglia – era
difficile non notare tutte quelle persone entrate e poi uscite da
casa mia – mi rivolse un sorriso di incoraggiamento; chissà
che espressione avevo assunto. Preoccupata, sicuramente.
Terminammo
il giro delle case e li lasciai tranquilli a sistemarsi, rinfrescarsi
e prendere confidenza con l'ambiente; l'unico che non cedette alla
voglia di farsi una bella doccia rilassante fu proprio Daryl.
Lo
trovai ancora appoggiato alla colonna in legno del portico, intento a
trafficare con la balestra, mentre uscivo da quella che ormai era
casa di Maggie – e, beh, anche sua.
«Ti hanno lasciato
la balestra», notai, per non rimanere lì in piedi
davanti a lui a fissarlo in silenzio come un'idiota.
Lui alzò
lo sguardo, con un'espressione perplessa stampata in volto. «E?».
Mi
strinsi nelle spalle. «Beh, è strano, Nicholas non è
il tipo da fare sconti».
«Chi è Nicholas?»,
domandò con tono piuttosto disinteressato, tornando a pulire
la sua amata balestra.
«Il coglione che sta all'ingresso dei
cancelli», spiegai, con tono irrisorio.
Non appena udì
la mia offesa, alzò la testa di scatto, con un sorriso
sardonico sulle labbra. «Non ti ricordavo così volgare,
Greene», affermò, alzando un ginocchio e poggiandoci
sopra l'avambraccio e facendo penzolare la mano, guardandomi
divertito. Mi sentii avvampare dall'imbarazzo e temetti di aver
esagerato, ma non riuscii a trattenere un sorriso.
«Non ti
ricordavo così... - feci una pausa per squadrarlo dalla testa
ai piedi, fingendo di cercare l'aggettivo – nero, Dixon. Perché
non vai a farti una doccia? Ti farebbe bene», ribattei,
canzonatoria.
Lui grugnì, sciogliendo la posa e riprendendo
in mano la balestra. «Sto benissimo così».
«No,
davvero, se le altre sono occupate puoi venire da me».
Accadde
nello stesso momento: io sbiancai, rendendomi conto dell'implicazione
maliziosa che avrebbe potuto avere la mia proposta, e Daryl mi guardò
a occhi spalancati, sorpreso.
Stavo dispiegando le labbra per
balbettare qualche giustificazione, ma lui non si lasciò
scappare l'occasione di farmi morire di imbarazzo, ovviamente.
«Sei
persino diventata sfacciata», ne convenne, ironico. Il suo
sorriso derisorio mi fece desiderare di sprofondare o di piantargli
qualcosa in fronte, ero indecisa.
Gli rivolsi l'occhiata più
furiosa che riuscivo a fare, scendendo velocemente gli scalini con
passo pesante, per chiudermi in casa mia e buttare la chiave. «Vai
al diavolo, Dixon!», mi congedai, mentre sentivo il suo
sorrisetto idiota perforarmi la schiena.
Meglio
stronzo che morto, meglio stronzo che morto,
ripetei tra me per provare a convincermene, mentre mi asciugavo i
capelli e mi preparavo per cenare assieme alla mia famiglia. La
doccia non era servita più di tanto a farmi passare le fitte
di imbarazzo che mi scuotevano lo stomaco tutte le volte che
ripensavo - o meglio, che il mio cervello mi faceva ripensare - allo
scambio con Daryl.
Non avrei dovuto permettere alla mia bocca di
scollegarsi dal cervello e farmi fare una figura simile, che diavolo
mi era venuto in mente? Proporgli di fare una doccia. A casa mia. Per
un secondo, il mio cervello mi fece apparire il flash di un Daryl
nudo sotto il getto caldo della doccia alle mie spalle, senza che
potessi impedirlo. Mi sentii sprofondare di nuovo dalla vergogna.
Forse era la consapevolezza di ciò che provavo per lui ad
amplificare qualsiasi emozione lo riguardasse; in ogni caso, ero
fregata.
Seriamente, come mi era saltato in testa di...
innamorarmi
- facevo persino fatica a pensarla, quella parola - di Daryl
Dixon?
Era assurdo. Daryl era troppo grande per me, in fatto di
età, certo, ma anche di mentalità: non si sarebbe mai
sognato lontanamente di vedermi come qualcosa di diverso da una
stupida ragazzina lagnosa che doveva essere salvata in continuazione.
Mi era bastato stare separata da lui per un attimo, alla casa
funeraria, per farmi rapire da quelli del Grady. E poco importava che
fossi riuscita a fargli cambiare idea sulla bontà delle
persone, ero ancora troppo poco per lui.
Avrei potuto considerarmi
fortunata se i suoi occhi non mi avessero più vista come
"un'altra ragazza morta", ma come quella che era riuscita a
scappare da chi la teneva prigioniera e che era riuscita ad arrivare
a Washington viva. Non avrei potuto aspirare ad altro, e andava bene
così.
Daryl non si riteneva degno di essere amato da
qualcuno, né si rendeva conto di quanto le persone del gruppo
gli volessero bene: era questa l'impressione che avevo sempre avuto.
L'unica cosa sulla quale non aveva da ridire era il suo valore come
arciere, cacciatore e sopravvissuto, ma per il resto non si
considerava una gran persona: che
idiota,
pensai, con un sorriso.
A parte l'imbarazzo dovuto alle sue
battutine e a tutte le mie paturnie su ciò che provavo per
lui, non mi sentii a disagio quando lo salutai appena arrivata a casa
sua, dove Maggie e gli altri stavano già iniziando a preparare
tutto per la cena. Ero passata dalla dispensa comune per prendere
quello che mancava, trasportando il tutto in una cesta piuttosto
pesante. Si alzò dallo stesso angolo in cui si era seduto quel
pomeriggio, nel portico, e mi chiesi se fosse rimasto lì da
allora.
«Da' qua», disse in modo disinteressato,
liberando le mie braccia da quel peso. Gli aprii velocemente la porta
per aiutarlo e lo seguii non appena entrò, facendomi precedere
in cucina. C'era un familiare viavai tra la cucina e l'enorme sala da
pranzo: erano tutti lì, puliti, rinvigoriti, belli come non
mai. Ai miei occhi, quella scena si presentò come il ritratto
perfetto della felicità, ed ero talmente persa a godermela che
a malapena mi accorsi dell'abbraccio di benvenuto di Maggie. Da
quando ci eravamo ritrovate, sembrava che avesse il bisogno costante
di abbracciarmi o anche solo toccarmi, per assicurarsi che fossi
davvero lì con lei.
«Ehi!», esclamò per
attirare la mia attenzione. Era radiosa.
«Uh, ciao Mag! Ho
portato dalla dispensa comune quello che vi serviva», dissi,
ricambiando l'abbraccio con un sorriso e indicando il cesto che Daryl
aveva posato sulla penisola della cucina. Carol ci stava già
rovistando dentro, mentre qualcuno era già ai fornelli ed
altri si stavano occupando di apparecchiare la tavola. Quella sera
saremmo stati solo e soltanto noi, senza Aaron, Deanna o chiunque
altro, proprio come un tempo. Persino Noah aveva rifiutato con un
sorriso, per permettermi di passare del tempo tra di noi: lo avevo
minacciato promettendogli che, la prossima volta, non mi sarebbe
sfuggito. Gli unici "sconosciuti" che si sarebbero seduti a quel tavolo
erano Abraham e gli altri, ma capii che ormai facevano parte del
gruppo e la cosa non mi dispiaceva.
Non fu la cena luculliana che
avremmo potuto preparare nel mondo di prima, dato che il cibo di cui
disponevamo era razionato equamente, ma fu lo stesso tutto
perfetto.
Con il chiacchiericcio intorno a me che riempiva la
stanza, mi persi un paio di volte nei miei pensieri, assolutamente
incredula del fatto che fossi davvero lì con loro, perché
era tutto troppo bello per essere vero. Quando tornavo alla realtà,
incrociavo gli occhi di Daryl, a qualche posto di distanza dal mio,
che mi fissavano indecifrabili. Che si stesse preccupando per
me?
«Beth, devi ancora dirci per bene cos'è successo
dopo che ti sei separata da Daryl», intervenne Carl ad un certo
punto, mettendo fine alle micro-conversazioni sparse per la
tavolata.
«In realtà non mi sono separata da lui»,
precisai, lanciando un'occhiata al diretto interessato. Per un
momento, mi venne il dubbio che davvero avesse pensato di essere
stato lasciato indietro. Era forse impazzito? «Mi hanno rapita,
dopo che siamo stati attaccati dai vaganti in quella casa funeraria.
Non ricordo molto bene com'è successo, ricordo solo che mi
sono risvegliata in un ospedale, da sola. Per fortuna io e Noah siamo
riusciti a scappare: quel dannato posto era una prigione, avrei
preferito mille volte rimanere con Daryl», conclusi, senza
preoccuparmi di cosa avrei potuto far intendere con quelle parole.
Sentivo lo sguardo preoccupato di Maggie su di me.
«Quel
fottuto
posto è pieno di pazzi ingenui che non sanno un cazzo di come
sta andando il mondo», mi corresse Daryl, prendendomi in
contropiede.
Voltai il viso verso di lui con uno scatto, con gli
occhi spalacati dalla sorpresa. «Come... Come fai a saperlo?!»,
domandai, esterrefatta.
«Buona parte di noi è venuta
a cercarti, ma non ti abbiamo trovato. Siamo arrivati lì
perché Daryl e Carol sono riusciti a trovare una tua traccia»,
spiegò Rick. Venni scossa da un brivido, quando mi resi conto
del rischio immane che avevano corso solo per trovare me. Ero
atterrita, completamente senza parole. Mi ci volle un grande sforzo
per aprire di nuovo bocca.
«Come avete fatto a uscire vivi
da lì? Cos'è successo?», domandai con la voce
tremante. Maggie mi prese la mano e la portò sulla sua coscia,
per poi stringerla, mentre il mio sguardo orbitava da Rick, Daryl e
Carol.
Fu quest'ultima a rispondere. «Siamo arrivati e
abbiamo chiesto di te. C'era una ragazza piuttosto giovane al
comando, abbiamo parlato un po'».
Analizzai la sua frase,
capendo subito che non era di Dawn che stava parlando: anche se non
era vecchia era comunque adulta, vicina ai quaranta, e non le si
poteva certo addebitare la nomea di "ragazza piuttosto giovane".
Inoltre, era impossibile parlare con lei senza puntarsi qualcosa
addosso a vicenda.
«Vi ha detto il suo nome?»,
domandai, impaziente.
«Shepherd, il nome non me lo ricordo»,
rispose Carol, ma il nome non importava. Mi bastava il cognome per
capire che la leadership di Dawn era stata finalmente rovesciata.
Mi
lasciai andare ad un lungo sospiro di sollievo, che non passò
inosservato. «Che c'è?», domandò Daryl,
burbero.
«Non sapete a cosa siete riusciti a scampare...
Quando io e Noah siamo fuggiti, l'ospedale era sotto il controllo di
un'altra donna, Dawn Lerner. Era convinta che qualcuno sarebbe
arrivato a salvarli, un giorno, e noi eravamo costretti a stare lì
perché ci avevano salvato la vita, perciò avevamo un
debito nei loro confronti. Era la donna peggiore che potessi
incontrare. Se ci fosse stata lei al vostro arrivo, sarebbe andata a
finire peggio», spiegai, senza nascondere l'angoscia nella mia
voce.
Glenn, accanto a me, mi accarezzò la nuca.
«Sinceramente dubito che Dawn sarebbe stata una minaccia più
grande rispetto a tutto quello che abbiamo passato», disse come
battuta, anche se il sorriso era abbastanza forzato.
«Perché?»,
domandai, interdetta.
Ciò che mi raccontarono fu qualcosa
al limite dell'orrore, dell'umanità, della ragione. Avevano
più o meno tutti seguito le rotaie al limitare del bosco - sul
momento non ricordai se anche io e Daryl ci fossimo mai arrivati - e
alla fine di esse, secondo i messaggi che si trovavano in giro,
avrebbe dovuto esserci questa comunità di accoglienza,
chiamata Terminus.
Terminus altro non era che un covo di
cannibali, che si approfittavano della disperazione dei sopravvissuti
per attirarli in trappola e cibarsene, come i ragni fanno con le
mosche. Mi raccontarono che Carol li aveva salvati tutti, al che mi
voltai verso di lei e le rivolsi un'occhiata colma di riconoscenza:
era una donna meravigliosa, forte, la donna che avrei voluto
essere io. Dopo aver distrutto quell'angolo di inferno, si erano
rifugiati nella cappella di Padre Gabriel, dove i cannibali
superstiti li avevano trovati e minacciato di nuovo la loro
sicurezza. Erano riusciti ad eliminarli una volta per tutte, ma non
erano riusciti ad evitare che si cibassero di Bob - mi venne un
conato a pensare a ciò che quel povero uomo aveva dovuto
subire - quando lui in realtà era già stato morso: era
così che Sasha lo aveva perso.
Mi raccontarono anche che
Abraham era determinato ad arrivare a Washington perché Eugene
aveva detto di avere in mano la cura per l'epidemia, anche se in
realtà non era vero. L'uomo, durante quel racconto, si limitò
a scolarsi tutta la bottiglia di birra che era rimasta sul tavolo,
per poi alzarsi e uscire, grugnendo e tirando fuori il pacchetto di
sigarette per fumare sotto al portico. Mi rabbuiai anche io, quando
venni a scoprire che Maggie, nel frattempo, non si era minimamente
curata di venirmi a cercare, ma aveva preferito partire con Abraham e
gli altri per venire a Washinghton e salvare il mondo. Cercai di fare
un respiro profondo e cancellare il rancore che provai in
quell'attimo, ripetendomi che non era importante e che, ad ogni modo,
ora eravamo insieme. Ma fu difficile, perché da quando ci
eravamo separati, il mio pensiero era stato trovarli tutti quanti,
mia sorella al primo posto, invece lei non era stata dello stesso
avviso.
Tutto ad un tratto, la sua mano intrecciata alla mia
iniziò a darmi fastidio, e mascherai un gesto stizzito con
l'alzarmi per andare in bagno. Mi sciacquai la faccia, decisa a
sorvolare e tornai da loro facendo finta di nulla.
Mi spiegarono
brevemente tutta la fatica e le dimostrazioni che erano costate ad
Aaron per convincerli del fatto che mi trovavo davvero ad Alexandria,
ad aspettarli. La prova inconfutabile, come avevo sperato, arrivò
quando Daryl riconobbe ciò che stava dietro il post scriptum,
e capì che nessun altro, nemmeno Aaron, poteva capire a cosa
si riferisse il mio messaggio. Il gruppo poteva non fidarsi di Aaron,
ma si fidava ciecamente di Daryl. Gli offrii un sorriso, che provocò
un'espressione perplessa sul suo viso.
Il cuore mi si riempì
di gioia, quando realizzai che non aveva dimenticato tutto quello che
avevamo condiviso e che non fosse rimasto indifferente ai miei
segnali. Sapevo benissimo di non avere con lui la stessa connessione
che poteva vantare Carol, ma per me era già qualcosa.
Qualcosa
di infinitamente prezioso.
La cena si concluse quando Judith
iniziò a piangere per la stanchezza, così, mentre Rick
preparava la bambina per la notte a la poneva nel box del salotto, il
resto di noi si attivò per sparecchiare e sistemare la cucina
e le stoviglie.
Rimasi leggermente interdetta quando Michonne mi
avvertì del fatto che, quella prima notte, preferivano dormire
tutti insieme nell'ampio soggorno. Ma bastò un secondo, perché
mi ritornò in mente che io avevo fatto lo stesso la prima
notte – beh, le prime sette notti – che avevo passato
qui, perciò non potevo proprio biasimarli. Michonne era un po'
incerta, come se accamparsi tutti insieme nel salotto fosse una
dimostrazione di scarsa fiducia nei miei confronti: le sorrisi e mi
offrii di darle una mano per stendere il sacchi a pelo e qualsiasi
cosa fosse utile per dormire sul pavimento e che poi avrei dormito
con loro.
Rimanemmo svegli un'altra oretta e mezza, ma gli altri
erano veramente stanchi, così a turno si prepararono per
andare a dormire, mentre io facevo una corsa a casa mia per prendere
i pantaloncini e la maglietta che usavo come pigiama.
Quando
tornai, l'unico che non si era cambiato per dormire era Daryl: se ne
stava vicino alla culla di Judith, accomodato alla seduta della
finestra e osservava il buio di fuori, come se le persone intorno a
lui non esistessero. Capii che si sarebbe sistemato lì per
dormire perciò, senza farmi notare troppo dagli altri –
alcuni erano già coricati e altri aspettavano il proprio turno
per il bagno chiacchierando in cucina – e con la scusa di
controllare Judith mi avvicinai a lui.
Appoggiai con delicatezza
una mano al bordo della culla e mi chinai leggermente per guardare la
piccola dormire beatamente.
«Non ti prepari per andare a
dormire come gli altri, Daryl?», domandai con un lieve sorriso,
senza smettere di ammirare la tenerezza della piccola Judith.
«Sono
già a nanna, mamma; grazie. Fatti gli affari tuoi»,
rispose piatto, appoggiando il gomito sul ginocchio e mordicchiandosi
l'unghia del pollice della mano destra.
«Hai intenzione di
dormire qui?», domandai, guardandolo finalmente in faccia. Anzi
no, visto che il suo viso era voltato e gli occhi ancorati a ciò
che c'era fuori dalla finestra. «Starai scomodo»,
aggiunsi, cercando di dimostrarmi gentile nonostante la sua
rispostaccia.
«Preferisci forse che dorma con te?»,
ribatté, seccato. Lo sapevo che aveva tutta l'intenzione di
mettermi in imbarazzo nello stesso modo in cui l'aveva fatto quello
stesso pomeriggio.
Non dovevo dargli la soddisfazione di abboccare
alla sua provocazione. «No, il mio sacco a pelo è troppo
piccolo per tutti e due. E poi devi ancora farti una doccia»,
controbattei senza guardarlo, sistemando velocemente la copertina di
Judith e raddrizzandomi. Lui mi guardò con un'espressione
illeggibile sul volto, e si mise a fissarmi; sostenni lo sguardo per
qualche istante, cercando di dare un significato a quel nostro
scambio silenzioso.
«Buonanotte Daryl», dissi,
voltandogli poi le spalle e raggiungendo mia sorella in cucina.
Poco
dopo, quando fummo tutti sistemati nel proprio giaciglio, chi per
terra e chi sui tre divani, e Rick spense le luci, ci impiegai
davvero poco a crollare: tutte le emozioni di quel giorno unite alla
stanchezza che mi aveva provocato lavorare coi bambini, mi fecero
addormentare praticamente subito, sprofondando in un sonno
profondo.
Riaprii gli occhi nel buio del salotto qualche ora dopo,
il silenzio che faceva da sottofondo ai respiri lenti e regolari
della mia famiglia: dormivano tutti. Mi stropicciai gli occhi che ero
appena riuscita ad aprire a fatica, cercando di non muovermi troppo
per non svegliare Maggie che, stesa accanto a me, dormiva beatamente
tra le braccia di Glenn.
I miei occhi appesantiti cercarono
l'unica fonte di luce, ovvero la finestra alla mia destra, che faceva
entrare l'illuminazione del lampione nel vialetto, attutendo il buio
con spiragli di luce sparsi per il salotto. Con molta fatica, il mio
cervello processò che la piccola seduta della finestra era
vuota, quando in realtà avrebbe dovuto esserci Daryl, che
l'aveva occupata quando era stato il momento di andare a dormire.
Mi
sedetti, sforzandomi di guardarmi intorno per vedere se, magari,
avesse solo cambiato posto, vinto dalla scomodità di quel
piccolo spazio in cui si era costretto a dormire, ma mi sembrò
di non riconoscerlo in mezzo agli altri.
Stando attenta a non
svegliare nessuno, mi alzai in piedi con cautela e scavalcai Carol e
Michonne, andando a recuperare la mia felpa e i miei stivali. Feci un
salto in cucina a bere un bicchiere d'acqua, avanzando a tentoni nel
buio e beandomi poi della luce che emetteva il frigo aperto. Non ci
fu nemmeno bisogno di riflettere su dove potesse essere andato Daryl
perché, da dove ero posizionata io, riuscii a vederlo oltre il
vetro della finestra, seduto per terra nell'angolo del portico che,
ormai, poteva considerarsi suo. Il suo viso era illuminato appena dal
tizzone acceso e arancione della sigaretta.
Raggiunsi la porta di
ingresso, ma prima di uscire, indossai la giacca e presi il giubbotto
di pelle che avevano dato a Daryl, ma che lui si era limitato ad
appendere all'attaccapanni. Sicuramente stava gelando lì
fuori, coperto solo dal gilet smanicato con le ali che era la sua
firma.
Aprii piano la porta, richiudendola altrettanto piano alle
mie spalle. Mi aspettai qualche commento infastidito, o uno sbuffo
seccato, invece si limitò a sollevare il volto verso il mio
per guardarmi. Anche se era buio, i suoi occhi ebbero effetto
ugualmente e mi sentii arrossire sotto il suo sguardo. Aspirò
e liberò il fumo, togliendosi la sigaretta dalla bocca per
parlare e tenendola tra l'indice e il pollice.
«Te l'ho
detto che saresti stato scomodo», esordii con un sorriso,
avanzando verso di lui e sedendomi al suo fianco, il giubbotto
stretto al petto. Cercai di non arricciare il naso per l'odore di
fumo e respirare solo con la bocca.
«Quello non c'entra»,
ribattè in tono neutro. «Non avevo più sonno».
Lo
osservai attentamnte, provando a capire cosa si celasse dietro la sua
improvvisa insonnia; nello stesso istante, cercavo di mantenere la
calma davanti alla consapevolezza che quella fosse la prima volta che
ci ritrovavamo soli e così vicini da prima che ci separassero.
Mi ritornarono in mente le nostre confessioni da ubriachi nella
vecchia catapecchia a cui avevamo dato successivamente fuoco, e tutta
quella situazione sembrava essersi replicata lì ad Alexandria,
con la sola differenza che, quella volta, ero al suo fianco.
«Devi
rilassarti. Nessuno vi farà del male qui dentro», cercai
di rassicurarlo, mentre lui buttava via la sigaretta, premendola per
terra e lanciandola poi oltre la colonna del porticato.
«Immagino
che la tua proverbiale prudenza ti abbia spinto a fidarti subito di
questa gente, non è vero?», domandò sarcastico,
senza guardarmi.
«Tutto il contrario», lo smentii,
porgendogli il giubbotto; lui lo afferrò, ma lo ripose accanto
a sé, dal lato opposto al mio. «C'è voluta una
settimana prima che dormissi nel mio letto e altre due prima che
smettessi di chiudermi a chiave in camera», raccontai,
facendomi più vicino a lui. Il mio gomito toccò il suo
braccio: se quel contatto lo infastidì non lo diede a vedere.
«La prima notte io e Noah abbiamo dormito in salotto,
esattamente come voi».
Iniziò a fissarmi, serio, come
se stesse studiando ciò che gli avevo appena raccontanto:
nemmeno nell'ultima sera insieme, seduti al tavolo della cucina della
casa funeraria, eravamo così fisicamente vicini; il suo
sguardo era così intenso e pericolosamente vicino.
Ero a
distanza di idiozia dalle sue labbra ruvide e invintanti, perciò
interruppi il contatto visivo, tossicchiando imbarazzata. Anche lui
volse lo sguardo altrove.
«Non eri tu quella che credeva che
esistessero ancora brave persone?», domandò
retoricamente, quasi come se fosse sulla mia stessa lunghezza d'onda,
come se i suoi pensieri lo avessero portato a rievocare ciò
che stavo pensando io.
«Essere prudente non denota una
mancanza di fiducia nel prossimo», mi giustificai. «Ero
da sola, Daryl», sussurrai tristemente, osservando le ginocchia
che tenevo strette al petto.
«Eri col tuo amico», mi
ricordò.
«Eravamo solo in due».
«Anche
quando siamo scappati dalla prigione eravamo solo in due»,
ribatté, infastidito.
«Non è
la stessa cosa».
«Sì invece, i numeri non
cambiano».
«Non è la stessa cosa»,
ripetei.
«Perché?!», esclamò
spazientito e con una punta di esasperazione nella voce.
Rimasi in silenzio qualche istante, prima di parlare.
«Lui non è te».
Non ebbe nemmeno il coraggio di
guardarmi in faccia dopo quella che lui, sicuramente, considerava
come una “stronzata sentimentale” o qualcosa del genere.
«Pfff, che risposta del cazzo», sbottò.
Infatti.
Mi
formicolarono le dita, e mi voltai con uno scatto verso di lui. «Sarà
anche una risposta del cazzo, ma io - calcai sul pronome – almeno
rispondo chiaramente alle domande, a differenza tua!»,
esclamai, cercando di tenere un tono di voce basso.
«Cosa
vorresti dire?», chiese, sulla difensiva. Stava stringendo un
pugno.
«Voglio dire che non hai nemmeno avuto il coraggio di
rispondermi come si deve in quella stupida casa funeraria, ma ti sei
limitato a mugugnare e a fissarmi quando ti ho chiesto perché
hai cambiato idea sulla bontà delle persone!».
Si
irrigidì di colpo, arretrando leggermente e guardandomi con
gli occhi socchiusi in una fessura arcigna e fredda. Lo guardai con
lo sguardo eloquente di chi avrebbe accettato una risposta anche in
quel momento, anche se molto dopo, non importava.
«Parli
troppo, Greene», si lamentò invece, poggiandosi con la
schiena contro la palizzata del portico.
Io non dissi nulla,
rimanendo immobile per qualche istante; poi, cogliendolo di sorpresa,
mi alzai e feci per allontanarmi da lui e rientrare in casa. Non ne
fui in grado, perché si sporse verso di me e mi afferrò
per un polso, trattenendomi. Abbassai lo sguardo verso di lui, senza
il minimo cambio di espressione: dentro, invece, mi sentivo bruciare
e il cuore batteva all'impazzata. Eccolo, il Daryl Dixon che mi aveva
abbracciato il pomeriggio prima.
Sospirai, sforzandomi di
trattenere un sorriso. Mi voltai appena, cercando il suo sguardo con
la coda dell'occhio: era intenso e indecifrabile, come al solito.
Con
un movimento leggero del braccio mi liberai dalla sua presa delicata,
intrecciando subito dopo le mie dita con le sue per sollecitarlo ad
alzarsi.
«Vieni, ti faccio visitare Alexandria»,
dissi, con un tono dolce ma che non ammetteva repliche.
Daryl
rimase per qualche momento a osservarmi, con le nostre dita
intrecciate, ma poi sciolse la presa con uno sbuffo e si alzò
in piedi, tirandosi dietro il giubbotto e infilandoselo. Quando si
apprestò a prendere anche la balestra, lo fermai.
«Non
ti serve quella, Daryl. Prova a fidarti», sussurrai, con un
sorriso.
Seppur con incertezza, la prese e aprì un istante
la porta per appoggiarla al muro vicino all'attaccapanni,
affiancandosi poi a me che lo aspettavo giù dagli scalini del
portico.
Iniziammo a camminare lentamente tra le vie di
Alexandria, in quella notte fredda ma tranquilla, come se fosse un
piccolo tour improvvisato solo per lui, la persona che più di
tutti aveva mostrato un rifiuto sin dal primo giorno. Gli mostrai
l'ambulatorio, la casa di Pete, la scuola dove dalla mattina prima
avevo iniziato a lavorare, il guardaroba collettivo, la biblioteca,
la piccola cappella, il laghetto, la cisterna d'acqua. Lui ascoltò
tutto il tempo i miei racconti, senza proferire quasi mai parola, con
qualche «mmmh-mmmh» di asserimento per farmi capire che
mi stava seguendo.
Quando arrivammo vicino alla dispensa, mi venne
un'idea.
«E in questo deposito si trova la dispensa, la più
importante fonte di cibo di tutta Alexandria, nonché l'unica.
Dovremmo dare un'occhiata, non credi?», domandai, con un
sorriso furbo che Daryl non riuscì a interpretare. Ad
Alexandria vigeva la fiducia reciproca, per questo luoghi come la
dispensa non venivano mai chiusi a chiave e sempre per questo entrai
nella struttura senza alcun problema. Il lampione collocato dietro
quella costruzione faceva entrare abbastanza illuminazione, perciò
non accesi la luce, anche se avanzai con cautela e con Daryl dietro
di me.
«Come hai avuto modo di notare, ad ogni famiglia di
Alexandria è destinato un certo quantitativo di alimenti e c'è
una razione equamente spartita per ogni categoria di cibo, mi
segui?», spiegai a Daryl, mentre mi aggiravo per le mensole in
modo da trovare ciò che mi serviva.
«Sì,
quindi?», rispose lui, laconico.
Mi voltai verso di lui, che
mi osservava appoggiato allo stipite dell'arco che separava quella
parte di dispensa dal resto. «Alcuni alimenti sono più
“rari” di altri, forse perché non fondamentali
alla sopravvivenza», continuai, aprendo il freezer e
lasciandomi scappare un «bingo!», soddisfatta, quando
vidi le barrette di cioccolata impilate e avvolte nella carta
argentata in fondo al congelatore.
Afferrai una tavoletta e la
spezzai a metà, conservandone una e rimettendo l'altra al suo
posto.
«Io e Noah non siamo molto soddisfatti della razione
di cioccolata che ci spetta, perciò ogni tanto cerchiamo di
arrangiarci a modo nostro», conclusi con un sorrisetto e
ponendogli un'eventuale metà della tavoletta.
Le labbra di
Daryl si piegarono in un sorriso sottile e appena accennato, ma che
arrivò ai suoi occhi con un guizzo divertito. Riuscii a
scorgere tutto, nonostante il buio. «Quindi uno dei tuoi
passatempi preferiti qua dentro è derubare le scorte di
cioccolata assieme al tuo amico?», domandò, addentandone
un pezzo e masticando rumorosamente.
Risi, compiaciuta. «Beh,
non c'è molto altro da fare qui», mi difesi,
appoggiandomi al congelatore e mangiando la mia parte.
Non mi
sfuggì la velocità con cui aveva fatto sparire il suo
pezzetto di cioccolata, così non appena finii il mio,
incrociai le braccia al petto e lo guardai con un sorrisetto
ironico.
«Da quanto non mangiavi cioccolata?»,
domandai, divertita.
Smise di leccarsi le dita, mentre il suo viso
diventava una maschera neutra ed i suoi occhi si allacciarono ai
miei. Tossicchiò, pulendosi le dita nel tessuto dei jeans e
borbottando. «Da un po'», disse, cercando di trattenere
un sorriso.
Mentre stavo per ribattere, il mio sguardo passò
sullo scaffale vicino a Daryl, e venne attirato da qualcosa che
catturò la mia attenzione: le mie labbra si dispiegarono in un
sorriso divertito e avanzai verso la mensola, allungando una
mano.
«Oh, qui hanno qualcosa di tuo», dissi,
afferrando il barattolo di latta e rigirandomelo tra le mani.
Quando
lo guardai, Daryl aveva uno sguardo perplesso, che scomparve non
appena gli misi davanti al naso ciò che avevo trovato.
«Zamponi!», esclamai, rievocando quella volta alla casa
funeraria in cui aveva reclamato gli zamponi dicendo che erano suoi.
Mi lasciai andare ad una risata leggera, continuando a porgegli il
barattolo e a guardarlo negli occhi, senza smettere di sorridere.
Lui
invece, rimase serio. Abbassò lo sguardo su ciò che
tenevo in mano e lo prese lentamente, portando poi il braccio lungo
il corpo, con il barattolo ancora stretto tra le mani. E poi, come
già tante volte era accaduto in quelle poche ore, allacciò
gli occhi ai miei, serissimo, senza dire nulla e, senza che potessi
prevederlo, iniziò ad avanzare verso di me.
Mi bloccai sul
posto, senza riuscire a scostare il mio sguardo dal suo, come se ne
fossi completamente ipnotizzata e quel volto immerso nelle ombre
avesse il potere di paralizzarmi.
Era come se fosse più
facile, per lui, muoversi al buio ed agire, perché il suo
passo era sicuro così come il suo sguardo. Anche io,
nonostante i suoi occhi mi intimidissero, mi sentivo più a mio
agio: in quella piccola dispensa l'aria si era fatta carica di
elettricità, e non so se fossero i miei sentimenti per lui e
le conseguenti reazioni ai suoi gesti a farmi leggere ciò che
stava succedendo in un modo totalmente sbagliato. Si fermò che
le punte delle nostre scarpe quasi si toccavano, il suo corpo
vicinissimo e il suo calore che si mischiava al mio. E quello
sguardo... era tutto così intimo, nascosto, discreto. Come se,
una volta rimasti soli, fosse più facile avere a che fare
l'uno con l'altra, e in mezzo agli altri fossimo due persone diverse
e con un legame altrettanto diverso.
Daryl non la smetteva di
fissarmi mettendo alla prova i miei nervi e, nonostante avessi la
gola improvvisamente secca, riuscii a bisbigliare: «cosa
c'è?».
Lui, in tutta risposa, sollevò la mano
ed il braccio liberi e mi circondò le spalle, mentre la mano
con cui stringeva il barattolo l'appoggiò al congelatore
dietro di me e si sostenne nel momento in cui si sbilanciò
verso di me per abbracciarmi in modo goffo.
«Per te»,
sussurrò, a voce talmente bassa che, per un momento, credetti
di essermelo solo immaginata.
Quella frase voleva dire tutto e
niente ed espressa così fuori contesto, inizialmente, fu di
difficile interpretazione. Nonostante il suo corpo contro il mio
fosse una fonte di distrazione, dopo una giornata così non
potei non arrivare quasi subito a cosa significassero quelle due
semplici parole.
Come poteva essere il contrario, se in ogni suo
gesto, parola o comportamento avevo trovato qualche rimando agli
ultimi giorni che avevamo passato insieme prima di essere separati?
Quella era semplicemente la risposta chiara e concisa alla domanda
che gli avevo posto infinito tempo prima: «perché hai
cambiato idea?»
Per
te. Sei tu che mi hai fatto cambiare idea.
Anche
se avevo capito dal primo istante quale fosse il responso, fu
incredibile sentirselo dire, ancora di più se pensavo che era
stato Daryl a esporsi così tanto.
L'orgoglioso, distaccato
e burbero Daryl Dixon.
L'unica cosa che riuscii a fare fu
affondare il volto nel suo petto e stringere le braccia attorno alla
sua vita, stringendomi contro di lui, mentre il mio cuore, il mio
corpo e la mia mente si animarono di emozioni tanto forti e luminose
che sentii l'elettricità sprizzare da ogni mio poro. Inspirai
a fondo il suo odore, incredula del fatto che tutto quello stesse
succedendo davvero e ancora più consapevole dei miei
sentimenti per lui. Ero troppo felice per farmi domande sul cosa lo avesse spinto a quei gesti – per lui –
tanto eclatanti.
«Mi sei mancato così tanto mentre
non c'eri, Daryl Dixon», sussurrai, nascondendo il sorriso
nella sua camicia.
La sua presa attorno alle mie spalle aumentò
appena, per poi allentarsi subito dopo, mentre sbuffava simulando una
risata, allontanandosi da me.
«Sei ubriaca anche stavolta?»,
domandò, facendo un passo indietro.
Dissimulai l'imbarazzo
ridacchiando a mia volta, portandomi un ciuffo di capelli dietro
l'orecchio. «Certo che no», risposi timidamente.
Non
senza un certo impaccio, convenimmo che fosse ora di tornare a casa,
così uscimmo dalla dispensa, guardandoci intorno non appena
fummo fuori. Il cielo cominciava a schiarirsi a poco a poco, di
sicuro l'alba era vicina; camminammo fianco a fianco, in silenzio,
fino a casa sua. Quando vide che non lo seguivo su per gli scalini,
si voltò a guardarmi con uno sguardo interrogativo. Infilai le
mani nelle tasche della giacca, piegando la testa prima da un lato e
poi da un altro, facendo scricchiolare il collo.
«Credo che
andrò a dormire a casa, il pavimento è un po' scomodo.
E poi non voglio svegliare Carol o Michonne inciampandoci sopra».
Tutto ad un tratto, il sonno si fece sentire, gravando sulle mie
palpebre e sulle mie spalle. Eppure, non mi ero mai sentita così
sveglia.
«Giusto. Dirò io a Maggie che sei tornata a
casa tua», disse in tono neutrale – cioé, il suo
solito tono. «Beh, buonanotte», aggiunse,
voltandosi.
«Ehi, Daryl», lo chiamai a voce un po'
troppo alta, prima che entrasse in casa. Si girò verso di me
con la mano già sulla maniglia della porta, in attesa. «Perché
domani non passi da me? Voglio darti una sistemata ai capelli»,
proposi, sperando che dicesse di sì.
Aggrottò le
sopracciglia e arricciò le labbra, per niente allettato dalla
proposta. «Scordatelo!», berciò, enfatizzando il
tutto con un movimento brusco del braccio che non stringeva la
maniglia.
Sorrisi angelica, incurante della sua risposta. «Bene,
è questo lo spirito. Ti aspetto da me per le tre»,
stabilii, iniziando a incamminarmi verso casa. Ignorando le sue
numerose proteste, quando fui ancora più lontana mi voltai,
aggiungendo: «ah, mi raccomando: devi venire da me pulito,
perciò fatti una bella doccia!».
«Sei una
seccatura, ragazzina!», sbottò a voce alta, prima di
sparire dentro casa accompagnato dalle mie risate.
________________________________________________________
Angolo
autrice.
Finalmente
ce l'ho fatta, questo capitolo è stato veramente infinito da
scrivere e mi dispiace di essere in leggero “ritardo”, ma
ho avuto un mini-blocco. Perché io sono così: non
scrivo per giorni, fisso per settimane una pagina che non vuole
sapere di essere riempita e poi, boom, tutto d'un colpo completo il
capitolo in una giornata. Vallo a capire il mio cervello...
Comunque,
ci siamo: possiamo ufficialmente dare il via al rapporto tra i nostri
due amorucci! È incredibilmente difficile provare a costruire
caratteri e situazioni rimanendo fedele/rifacendosi alle poche
situazioni che sono state ricreate nel telefilm, ci ho provato
veramente in ogni modo e spero che il risultato sia abbastanza
buono.
In questo caso ho odiato veramente l'italiano, che ha
veramente tolto molto ad un dialogo che, tra loro due, è
importantissimo: esatto, la famosa risposta sul perché Daryl
ha cambiato idea sull'esistenza delle brave persone.
“What
changed your mind?” è stato tradotto in italiano con
l'odioso – per me – “perché hai cambiato
idea?”, la cui risposta è veramente troppo lunga per uno
di poche parole come Daryl.
Mentre in inglese avrei potuto
cavarmela così:
“What changed your mind?”
“You.”
in italiano mi è uscito quel maledetto
“per te” che non ha veramente senso e toglie tutta la
poesia della risposta laconica in perfetto stile Dixon.
Vabeh,
prima o poi mi riprenderò, non preoccupatevi, ahahah!
È
l'una e mezza di notte e sto per crollare, ma volevo veramente
aggiornare il capitolo perché è passato molto tempo e
non volevo farvi aspettare oltre. Domattina controllerò gli
eventuali errori, intanto ringrazio veramente di cuore le sette
persone che hanno recensito lo scorso capitolo (vi risponderò
presto, giuro!) che sono state veramente di una gentilezza estrema,
chi ha aggiunto la mia storia alle seguite/preferite e anche chi ha
letto soltanto.
Rinnovo l'invito a passare sul mio tumblr per
scambiare quattro chiacchiere e vedere tutto ciò che riguarda
questa storia (http://blakieefp.tumblr.com),
mi farebbe piacere!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi
aspetto al prossimo aggiornamento!
Un bacio,
Blakie