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Autore: White Trash    09/09/2015    1 recensioni
«E poi, diavolo, guardami in faccia quando ti parlo!»
Bill si fermò, quasi paralizzato e, con una lentezza inquietante, si voltò lentamente verso il rasta, gli occhi semi ricoperti dalla frangia.
«Sono cieco, razza di coglione».
Genere: Drammatico, Romantico, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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si do letteralmente alla fuga.
Era incazzato.
Era fottutamente incazzato.


Lo spiacevole episodio con Friedrich, a pensarci, non era esattamente la causa scatenante, quanto più quello che accadde dopo.
Sapeva che non doveva uscire da solo a quell’ora, ma Bill era testardo e quando si innervosiva reagiva d’istinto, non poteva farci niente. E ora stava scappando da un maniaco che aveva una voce familiare, ma non ne era sicuro.
Ed era quella la cosa che più faceva incazzare Bill, il non essere sicuro di qualcosa.
Poteva sbagliarsi, perché non lo vedeva;  poteva darsi ragione, ma sapeva che la sua era solo un’ ipotesi.
La sua maledizione, semplicemente, era basata sul fatto che pensasse troppo, persino quando scappava da un ipotetico malintenzionato.


Fu solo quando il moro arrivò davanti  alla porta di casa che si costrinse a non pensare: aveva sbagliato, era stata solo una… svista. Poteva dirlo?
Sì, poteva dirlo.
Entrò in casa cercando di fare il meno rumore possibile, ma le unghiette di Rania ticchettavano sul pavimento e quel povero cane doveva essere proprio l’unico, quella sera, a non dover essere sgridato.
Fortunatamente Jutta aveva il sonno pesante e Bill riusciva a sentire il suo russare dal piano di sotto. In realtà, persino in Nuova Zelanda l’avrebbero sentita, ma quello non era il momento adatto per darsi al sarcasmo.
Passò l’indice della mano destra contro la parete dell’atrio, tanto per essere sicuro di star prendendo la giusta direzione e, dopo pochi secondi lasciò andare il contatto, avviandosi spedito per le scale.
Giunto in camera sua, con Rania al seguito, si distese con ancora le scarpe ai piedi e la matita sugli occhi sul morbido e grande letto, chiudendo per un momento gli occhi.
Dei lampi giallognoli o meglio una matassa di bollicine giallognole, gli si parò davanti e, una volta riaperti gli occhi, questi scomparvero lentamente.
E no, non stava accadendo un miracolo, semplicemente era un fenomeno che gli accadeva spesso quando chiudeva gli occhi ed era particolarmente stressato.


Ad ogni modo, dopo essersi concesso venti minuti di pace interiore decise, per decenza, di cambiarsi e di struccarsi, evitando così una sfuriata della madre il giorno successivo, non appena avrebbe visto lo scempio nerastro sulla federa del cuscino del figlio.
Si alzò lentamente, non curandosi  del continuo trillare del suo telefono. Di sicuro era Friedrich che cercava di scusarsi tramite i suoi soliti messaggini di Whatsapp, ma il moro era già abbastanza incazzato, non aveva voglia di litigare. Per messaggio ancora meno, poi.
Entrò in bagno e con calma si struccò gli occhi, poi si sciacquò la faccia. Il giorno dopo avrebbe avuto un dannatissimo mal di testa, lo sapeva. Gli capitava sempre, dopo il forte nervosismo.
In effetti sì, il carattere di Bill era abbastanza particolare e non dei migliori, ma non poteva farci nulla. Le troppe operazioni lo avevano cambiato, le persone lo avevano cambiato, il mondo lo aveva cambiato.
Perciò se la sua pazienza era giunta ad un punto  di non ritorno, la colpa di certo non era solo sua.
Sospirò rumorosamente mentre si  sfilava di dosso i pantaloni, dopo aver scalciato rabbiosamente le scarpe. Aveva piuttosto freddo, perciò evitò di togliersi la maglietta e decise di usarla come pigiama.
Uscì dal bagno mentre si legava i capelli e con suo grande sollievo il telefono aveva cessato di squillare.
Si lasciò ricadere sul materasso, infilandosi sotto le lenzuola, afferrò il suo IPhone e la sintesi lo avvertì di 23 notifiche, tutte da parte di Friedrich.
Imprecò sottovoce, spegnendo il cellulare e posandolo nel primo cassetto, evitando stavolta di gettarlo come aveva fatto con le scarpe. Quell’affare valeva più di lui, per la miseria!


Sospirò per la seconda volta e si  raggomitolò maggiormente fra le calde lenzuola, sistemandosi di fianco, come faceva sempre mentre dormiva.
Fu solo quando avvicinò il naso al petto che un odore familiare andò a punzecchiargli un’area semi addormentata del suo cervello.
Aveva già sentito quell’odore.


“Che cazzo?” mugolò Bill, ma la troppa stanchezza lo fece crollare.
Quello del moro, fu un sonno senza sogni.
 

*

 
 
“Non mi ricordo un cazzo”
 Tom si risvegliò con tale frase messa quasi in ripetizione nel suo cervello.
 “Non mi ricordo un cazzo, e devo pisciare.”


Erano le quattro del pomeriggio, ma per il rasta sembravano le sei del mattino. Aveva un terribile mal di testa, aveva un alito orribile e un cadavere sarebbe stato più sexy di lui, in quel momento.
A volte si chiedeva perché fosse così coglione, ma poi scrollava le spalle e non ci pensava più.
E in effetti pensare gli costava un’enorme fatica, ma mai quanto quella di doversi alzare dal letto.
Come se non bastasse inciampò non appena accennò a muovere i primi passi dopo l’esagerata sbronza.
Sperava almeno di non aver preso l’aids, comunque.
Si lasciò invadere dall’acqua bollente della doccia che lo fece riprendere piuttosto bene e, non appena si fu asciugato, il mal di testa era quasi scomparso. Si sentiva la testa pesante, ma con un paio di farmaci a casaccio il problema sarebbe stato risolto.
Si vestì in fretta, fortunatamente per lui era domenica, perciò non aveva troppo lavoro da fare, a parte disegnare un paio di tatuaggi ed abbellirli, avendo solo un disegno base a sua disposizione.
Stranamente Andreas non lo chiamò, e neppure Gustav né Georg lo fecero.
Evidentemente avevano passato un Sabato sera più scellerato del suo, pensò mentre scendeva le scale scalzo.
Di colazione non voleva nemmeno sentirne parlare, perciò decise che sarebbe stato meglio cominciare i disegni, così da avere il resto della giornata libera.
Prima però entrò in cucina, sua madre era già uscita. Lesse velocemente il post-it attaccato al frigorifero e storse il naso non appena i suoi occhi si posarono su parole come ‘bacon’ e ‘mangia tutto’.


Si limitò invece a sciogliere un’ aspirina in un bicchiere e per passare il tempo osservava le bollicine frizzare nell’acqua, la cosa quasi lo divertiva.
Dio, era così coglione!
Fu solo con il ticchettio delle unghiette di Scotty e il suo improvviso abbaiare che a Tom quasi non venne un infarto.


“Cazzo, Scotty! M’hai fatto prendere un colpo, non abbaiare così  di prima mattina, spudorato!” , disse Tom esasperato, mentre mandava giù l’aspirina.
E quando poggiò la mano destra sulla grossa testa del cane, ecco che un pensiero rivolto a dei capelli neri e un cane gli sfiorò la mente.


“Che cazzo?” borbottò Tom, scuotendo la testa.
“Dannata sbornia, non berrò mai più!” sbuffò sonoramente, pattando ancora l’animale che intanto sembrava gradire le sue attenzioni.
“Amico, mi piacerebbe rimanere qui ad anchilosarmi la mano, ma devo lavorare”
Si allontanò di poco e l’animale, a malincuore, sembrò recepire il messaggio.
 Si avviò così a passo spedito verso la soffitta adibita a studio e si ci chiuse all’interno, il silenzio sembrò placargli del tutto il mal di testa.
 Si sedette alla scrivania, tirando fuori i due disegni per il tatuaggio, poi accese la lampada.
Non doveva far altro che trasformare una normale rosa in una composizione floreale in modo verticale e trasformare un occhio in… qualcosa di più affascinante.

 “Che cazzo?” ripeté di nuovo Tom, il pensiero di una voce incazzata gli sfiorò di nuovo la mente, ma poi si ritrasse, quasi come un onda contro gli scogli.
Trattenne per un attimo il respiro, poi impugnò la matita.
 Disegnò un taglio sensuale, ciglia lunghe, mascara e malinconica tenebra.
 

*

 
Le vacanze di Natale erano alle porte e il freddo era schifosamente pungente.
Bill se ne accorse non appena uscì dalla porta, accompagnato da Gordon.
Doveva andare a scuola e Rania non stava bene, perciò il moro a malincuore dovette essere accompagnato da suo padre.
 Una delle cose che odiava maggiormente, infatti era proprio la scuola: quell’edificio orribile con quella puzza inconfondibile di plastica e polvere, luogo dove i migliori rincoglioniti di Berlino si riunivano, come tante pecore al pascolo.


“Papà, credo di avere il ciclo, posso tornare a casa?”
Borbottò Bill ironico, mentre si lasciava ricadere contro lo schienale dell’auto.
 Gordon rise, ma nella sua risata aleggiava qualcosa di triste, che Bill captò all’istante. Decise, però, di far finta di niente.
 La sua classe era invasa da puttane e da trogloditi che no, non lo prendevano in giro, semplicemente lo ignoravano. Bill era invisibile, non esisteva e se qualcuno si fosse accorto di lui, si sarebbe ricordato della sua cecità ed ecco che la amnesia sarebbe ritornata.


 I suoi insegnanti, poi?
Un gruppo di frustrati, demotivati e incoerenti, a suo avviso.
 Ma la persona che proprio non riusciva a sopportare era quello pseudo insegnante di sostegno che gli avevano mandato.
Il moro si era rifiutato di imparare il braille, ma la cosa non incideva affatto, dato che usava perfettamente il computer. Per materie come la matematica e altre cazzate simili (Bill proprio non le sopportava), ecco che appariva il fantomatico insegnante di sostegno pronto ad aiutarlo.
 Peccato che le cose non funzionavano affatto così.
Il suo professore era un incapace, nonché la causa del suo pessimo rapporto con la classe.
Le cose andavano talmente male che i suoi compagni amavano lui e non Bill. In poche parole, veniva invitato il professore alle feste e non Bill, e se quest’ultimo cercava di lamentarsi per gli appunti scritti male o per altro, ecco che tutta la classe gli andava contro, difendendo a spada tratta il suo insegnante.
A volte Bill si chiedeva se lo stipendio lo prendesse per lui o per gli altri.
Per non parlare poi delle gite in cui Bill non andava ed al posto suo andava il professore.
Il moro ricordò di quando, durante un suo attacco di nervosismo, si lamentò con la classe del fatto che, un insegnante di sostegno sarebbe dovuto andare in gita solo se l’alunno per cui prendeva i soldi ogni mese avesse partecipato al viaggio d’istruzione. Ricordò anche di come fu attaccato da quei geni dei suoi compagni che, come al solito, difendevano il “povero insegnante”.
Quest’ultimo, comunque basti sapere che con Bill era di una falsità tremenda e, nel profondo, sapeva dell’odio che Bill provava per lui.
Ma il moro non poteva fare niente perché, tra l’altro, il caro insegnante era anche iper protetto dall’altrettanto caro preside.


“Che vi prenda un cancro”, sputò Bill ripensando a tutto ciò, mentre Gordon parcheggiava.
Quest’ultimo alzò un sopracciglio, guardando Bill.
“Cos’è che hai detto, figliolo?”, chiese.
“Io? Nah, niente, blateravo. Andiamo, papà”. Detto questo il moro aprì la portiera, venendo rigettato al freddo e  al gelo. Si sistemò con fare vanitoso i capelli, poi si abbassò la giacca di pelle, giacca fra l’altro leggera, ma non avrebbe mai ammesso di star letteralmente morendo di freddo.
Ad ogni modo Gordon decise di non fare commenti e si avvicinò al figlio che, in risposta avvicinò la mano al suo fianco destro. Si avviarono così verso la scuola: il moro sentiva il vociare degli studenti ancora fuori dal cancello e, mentre  passava dinanzi a loro, si strinse impercettibilmente nelle spalle, sussurrando il solito mantra fino a quando il padre non lo accompagnò in classe:

 

 “Non guardatemi, non guardatemi, cazzo, cazzo, cazzo, non guardatemi”.
E in effetti nessuno lo guardava. E se qualcuno lo faceva, lo faceva per pochi secondi. E comunque Bill non se ne sarebbe accorto.
La classe era deserta, come al solito. Il moro preferiva essere il primo ad entrare, perché sì, non lo avrebbe mai ammesso, ma era così. A scuola diventava più debole di quanto in realtà non fosse.
E la cosa lo faceva estremamente incazzare.
Salutò freddamente Gordon e fece cadere rabbiosamente la sua tracolla nera sul banco.
Il suo posto era il primo della fila di destra, proprio contro il muro.
Gli insegnanti avevano cercato di farlo spostare, perché dicevano che quel posto era troppo “isolato”.


“Anche l’ultimo banco è isolato, eppure quelli dell’ultimo banco vengono cagati”, rispondeva Bill, quando qualcuno cercava di farlo spostare.
Si sistemò nel banco e, come faceva sempre, poggiò la tempia contro il pugno chiuso della mano sinistra, tenendosi la testa, in modo che i capelli gli coprissero metà viso, così da non far trasparire né il suo nervosismo ne i suoi occhi chiusi.
E non perché Bill tenesse gli occhi chiusi, ma perché durante alcune lezioni, si dava al sonno o, per meglio dire, a coma più profondo, anche se solitamente quella posizione doveva essere intesa come posizione del “non rompetemi il cazzo, razza di decerebrati”.
E in effetti quella posizione funzionava, tranne quando si trattava di due persone, tra cui…

 


“Bill, ciao! Ma come, non sei fuori con gli altri?”
La voce squillante di Günter ruppe la simulazione yoga di Bill che, in un certo senso si stava mano a mano calmando.
Alzò per un paio di secondi lo sguardo, poi ritornò nella sua posizione precedente e si limitò a scrollare le spalle, parlando fra i denti: “No, sto bene qua”.
“Ancora non ti ha investito un pullman?” voleva in realtà dirgli il moro, ma si trattenne per miracolo.
Come suo solito, il caro insegnante di sostegno non si curò affatto del tono aspro del ragazzo e anzi, continuò più allegro di prima, con quel suo tono di finta apprensione, preceduto da un altrettanto, nonché solito, sospiro drammatico.


“Ma Bill, sei da solo, vuoi che ti porti dai tuoi compagni?”
“ No”.
“Vuoi che li chiami così vengono da te?”
“No” .
“Ti va di fare una passeggiata per il corridoio, allora?”
“No, caz… No, sto bene da solo, ho mal di testa”, il tono del moro era più che elettrico.
Un ennesimo sospiro da parte di Günter, che fece per ribattere, ma poi un insieme di urla gli fece dimenticare del tutto Bill.


“Professor Günter!” dissero i compagni di Bill in coro, attorniandolo.
“Ha cambiato taglio di capelli?”
“Prof, questo completo le sta benissimo!”
Bill riusciva a sentire solo stralci delle loro conversazioni e, una volta che la professoressa di italiano entrò in classe, tutti si sedettero ai loro posti.
Nessuno si sedette accanto a Bill.
Quest’ultimo, allora poggiò la tracolla sulla sedia accanto a sé, ritornando nella sua solita posizione.
Il professor Günter, nel frattempo si era seduto fra i suoi compagni intento a parlare di una partita di calcio, dimenticandosi del tutto di Bill.
Il nervosismo del moro crebbe durante l’ora di inglese.


La nuova insegnante madrelingua, infatti, era particolarmente famosa per trattare il moro come un vero e proprio autistico, con rispetto parlando per gli autistici.
Quel giorno, manco a farlo apposta gli si avvicinò e gli prese entrambe le mani, come faceva di solito. Sì, perché secondo lei, se non avesse afferrato le mani di Bill, quest’ultimo non sarebbe riuscito a sentirla.
“Oggi sei felice?” gli chiese, con quel suo accento inglese odiosissimo.
Non per dire, ma Bill preferiva l’accento americano, molto più figo.
Quest’ultimo assunse di proposito una faccia schifata alla sua domanda, ma la professoressa sembrò non notarlo.
Si limitò così a scrollare le spalle, come faceva di solito quando non aveva voglia di discutere.
Ma la donna non si arrese, così tirò fuori dal suo vasto repertorio di regalini, degli adesivi di Winnie The Pooh ed un cartoncino con la lettera B.
La porse a Bill che afferrò il tutto con sole due dita, piagnucolando quasi per l’esasperazione.
“Tutto per renderti felice, Bill!” esordì la professoressa, che subito venne affiancata da Günter.
“Stamattina vogliono proprio farmi esplodere i coglioni”, piagnucolò fra sé e sé Bill, mentre borbottava dei ringraziamenti per nulla convincenti.


“Uh, Bill, come sono belli questi adesivi, vuoi attaccarteli sul diario?”
“No, grazie” lo liquidò subito, gettando adesivi e resto nella tracolla.
Insomma, il carattere del moro non era dei migliori, ma persino un cretino avrebbe capito che quei trattamenti gli davano sui nervi.
Bill non era ritardato, era solo cieco. Mangiava, beveva, camminava ed imprecava come tutti. Forse, per l’ultima cosa, più di qualcun altro.


E il professor Günter? Non faceva altro che aumentare, con i suoi trattamenti, l’aura di finta debolezza e diversità del ragazzo.
Il fatto che era cieco era talmente grave per gli altri che persino il fatto che si truccasse passava in secondo piano.
Solo durante i primi giorni di scuola, il professor Günter chiamò (senza chiedere a Bill, ovviamente) uno psicologo che finse di fare un discorso generale alla classe quando, era estremamente palese che si riferisse solo ed esclusivamente a Bill.
Il risultato?
Quest’ultimo era diventato ancora più diverso per i suoi compagni, ed il suo handicap sempre più evidente.
Per quanto riguardava la sanità mentale di Bill?
Era sanissimo, solo perennemente scazzato quando metteva piede in quella sottospecie di zoo adibito a bordello chiamato “scuola”.
La campanella trillò e Bill prese un grosso respiro, tirando fuori di malavoglia il panino che Jutta gli aveva preparato.
Come al solito nessuno si preoccupò di chiamarlo ad uscire, né lui accennava ad alzarsi. Mantenne invece quell’aria scostante che da un paio d’anni aveva imparato a mostrare.
Perché Bill ci aveva provato, aveva provato a fare amicizia, ma le cose non erano cambiate. Perciò, se fare amicizia con quella gente significava rimanere da soli mentre gli altri si chiudevano a riccio durante una conversazione, tanto valeva che il moro si desse alla meditazione per evitare di squartare tutti, bidelli compresi.


“Bill, non esci a fare intervallo?”
Günter si avvicinò, assieme alla cara insegnante di madrelingua.
Bill si guardò attorno con fare teatrale, come per dire
“Non vedi che se ne sono andati tutti, razza di cretino?”
Ma Günter fece finta di niente. Fu invece l’inglese a prendere la parola.
“Bill, ma tu la sera, esci? C’è qualcuno che ti porta fuori?”
Chiese, cercando di afferrargli di nuovo le mani.
Il moro non rispose, nella sua testa l’allarme rosso stava scattando.
Capì che nel frattempo il professor Günter era uscito quando lo sentì dire ad un gruppetto dei suoi compagni: “Ragazzi, dai, portate Bill fuori con voi!”
“Ok, ora mi avete rotto i coglioni”

 


Il moro si alzò, tremava dalla testa ai piedi mentre strattonava via, con rabbia le mani da quelle dell’insegnante di madrelingua.
“Ma porca puttana, perché cazzo non uscite tutti a farvi un giro invece di esasperarmi l’anima? Tu!”
Indicò la madrelingua, il tono di voce alto, quasi isterico.
“I pacchi postali si portano, ok? Io faccio quel cazzo che mi pare, non sono un ritardato, hai capito? Non so nella tua fottutissima terra d’origine dove, tra l’altro, potresti ritornare, ma qui i ciechi fanno corsi di orientamento, perciò se ho voglia di andare a troie una sera, ci vado senza che nessuno debba ‘portarmi’!”, urlò il moro, evidenziando bene l’ultima parola. Era partito e non si sarebbe calmato così facilmente.
Nel frattempo le urla avevano attirato un gruppo di ragazzi anche di altre classi, che origliavano incuriositi e, allo stesso tempo, divertiti.
“Quei cazzo di adesivi li usano alle elementari, nel caso non lo avessi capito, siamo in un liceo e finitela tutti di trattarmi come un alieno, perché non lo sono!”
Il professor Günter nel frattempo era entrato, e Bill se ne accorse, voltandosi verso di lui o, per lo meno, credeva.
“E tu”, riprese con un ringhio.
“Smettila di fare il pietoso del cazzo, perché io non me la bevo, al contrario di quest’ammasso di deficienti che formano questa fottuta classe. Se non esco all’intervallo è perché nessuno si degna di chiedermelo e, se me lo chiedono è perché voi insegnanti dite loro di chiedermelo! Sono cieco, dannazione, non scemo! E dato che la falsità mi fa schifo più delle vostre schifosissime vite, vi pregherei, uno ad uno, di sparire dalla mia vista, chiaro?” disse, ridendo ironico alle ultime parole, mentre il tono di voce si faceva sempre più alto, le lacrime che minacciavano di scendere da un momento all’altro.
Chiuse perciò gli occhi, non voleva piangere davanti a quegli idioti.
“Ora io me ne ritorno a casa e so che dopo questa sfuriata tutti mi criticherete, perché oh, io ho trattato male il povero professor Günter, protettore della patria! Beh, sapete che vi dico? Me ne sbatto il cazzo di quello che dite, come a voi sbatte il cazzo del fatto di  star isolando e trattando da ritardato un vostro compagno di classe”.


Detto ciò, Bill batté una mano contro il banco e nessuno sembrò accennare a parlare.
Nel frattempo, due ragazzi provenienti dal piano superiore, assistettero interessati al mini spettacolino isterico di “quel ragazzo che non ci vedeva”.
“Gustav, hai sentito?” sussurrò Georg, alzando un sopracciglio.
L’amico annuì, poggiando una mano sulla spalla dell’altro.
“Già, ogni tanto succede qualcosa di interessante! Dai, andiamocene, voglio comprarmi qualcosa al distributore”.

 

 

 

Note finali:

 

Voglio ringraziare tutte coloro che stanno seguendo e recensendo la storia, leggere i vostri pareri mi fa bene!

Questo capitolo è stato molto complicato da scrivere, perciò se fa pena, non fatevi scrupoli a dirmelo. U.u

Per il resto, Bill è un personaggio strano, siamo tutti d’accordo su questo, ma Günter? Cosa ne pensate di lui?

Fatemi sapere!

 

Al prossimo capitolo. :3

   
 
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