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Autore: Bloody_Schutzengel    19/09/2015    1 recensioni
[Primo capitolo della serie: Sotto mille ciliegi]
Anno ****, mese di Agosto, quindicesimo giorno.
Lo stato di Kintou viene stravolto da un violento colpo di stato da parte di estremisti detti Rivoluzionari, che attuano un macabro e violento regime di ferro nella parte orientale del paese. La parte occidentale, invece, è popolata ancora da creature magiche, sacerdotesse e dalla natura. E' chiamata Terra Pura ed è sotto tiro dal generale salito al potere che vuole emulare violentemente i costumi delle popolazioni d'Oltremare, industrializzate e moderne all'esterno ma sanguinose e ingiuste all'interno.
Yoko è una semplice ragazza di Kintou Shuto, la capitale di Kintou Est, che a causa di vari eventi, si troverà ad entrare nell'esercito della morte della città, pur di sfuggire all'esecuzione pubblica. Tra le file, Yoko dovrà affrontare i suoi compagni, tutti uomini, le battaglie, le campagne militari ma soprattutto il vero e proprio generale, del quale è oggetto di desideri perversi e omicidi allo stesso tempo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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• Capitolo 25 •
Convalescenza


 

 

1) Modo di dire “grazie” in giapponese che, aggiungendo il “gozaimasu”, diventa formale.
 
 
 
 
Labbra contro labbra.
Entrambe non si schiusero per lasciar spazio ad una bacio più appassionato o violento. Erano solo lì, fermi, aspettando che uno di loro aprisse gli occhi e si staccasse, magari buttando a terra l’altro o opponendo resistenza.
Nulla di tutto ciò accadde.
Yoko poteva avvertire il confortevole calore del corpo del generale contro il suo, nella notte gelida, sebbene non fosse attaccato al suo. Quella situazione le infieriva calma ma insicurezza allo stesso tempo. Era certa di essere confusa, brevemente, ma almeno una piccola certezza campeggiava dentro di lei. Una certezza che nascondeva tanti punti interrogativi che si andarono a mescolare con i tanti altri che già le affollavano i pensieri, facendoli bruciare i brama di sapere.
Ma non in quel momento.
In quel momento Yoko non pensò a nulla, la sua mente si svuotò completamente, e con gli occhi chiusi, lei vedeva bianco, poi nero, vedeva prima luce e subito dopo eccola immersa nell’oscurità e nel caos. L’immagine di lei, che tanto cercava di fare, senza successo, per stare alla larga da quello, che all’improvviso si ritrovava le proprie labbra unite a quelle altre, senza una motivazione, tra l’altro.
Non se lo chiese subito, ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Lui che l’aveva sempre bramata con gli occhi della lussuria e della violenza: perché un tale individuo avrebbe dovuto concedersi un gesto tanto timido, ma allo stesso tempo forte e gentile? Era atipicamente dolce.
Il corpo di Yoko non stava ad ascoltare i suoi pensieri, che ora le dicevano di sottrarsi a tale pazzia e ora le sussurravano di non muoversi per prima. No, le sue gambe si muovevano da sole, con la poca forza che rimaneva loro, per distaccarsi dal generale, come se quella carne avesse saputo che era tutto uno sbaglio. Uno sbaglio enorme che ora era stato commesso e che non doveva ripetersi mai più.
“Hm…” Mugolò Yoko, tentando di allontanarsi e, ancora una volta, il generale la sorprese, poiché la lasciò andare, senza fare resistenza, sebbene continuasse a guardarla come pieno d’ira e rancore che, probabilmente, non serbava per lei in particolare.
Le sue mani esili non fecero quindi fatica a toccare il petto del generale delicatamente, per poi allontanarsene.
I suoi occhi, si facevano stranamente sempre più pesanti, e la divisa dell’altro le sembrava bollente, non seppe per quale motivo. Tutte le preoccupazioni non le si presentarono in mente, si lasciò solamente andare, facendo lentamente crollare le sue gambe sotto il proprio peso e cadendo a terra senza far rumore. Una volta col viso a contatto con la gelida pietra sottostante, non riuscì ad avvertirne la temperatura, come fosse stata la stessa del suo corpo. Doveva essere preoccupata, ma invece, continuò a tenere gli occhi socchiusi per cercare la presenza del generale che era già scomparso tra i boschi sulla via di casa.
Quando le palpebre le si serrarono, non avvertì che qualcun altro era giunto per salvarla.
Passarono minuti e minuti apparentemente interminabili, poi, improvvisamente, iniziò a riacquistare i sensi.
Pur non vedendo nulla, poteva sentire un corpo caldo, morbido come una pelliccia, avvolgerla e portarla via. Sentiva il vento freddo della notte sui pochi punti che non le erano stati coperti, permettendo al gelo di infiltrarsi nell’umida divisa. Sentiva i passi veloci, quasi silenziosi di quella presenza che la stava salvando, ne sentiva il profumo e ne avvertiva la dolcezza e la determinazione. Si disse che doveva essere senza dubbio una donna, che forse l’aveva avvolta in qualche calda pelliccia per tenerla al caldo.
Sentì improvvisamente di essere immersa in dell’acqua tiepida, che al contatto sembrò bollente. Si lasciò andare, ancora svenuta, in quel liquido confortevole, che la avvolse interamente, fino all’ultimo capello, dopodiché, non ricordò più nulla.
 
 
Si sentiva ancora intorpidita, incapace di percepire completamente ciò che era attorno a lei. Come se fosse stata in una bolla, sentiva un suono impastato, confuso, lieve e disordinato, ma capì lo stesso che si trattava di una voce: la voce della foresta.
Sentiva il suono della natura, più nitidamente: sentiva gli uccelli, il vento che faceva suonare le foglie e quel dolce silenzio pacifico.
Pian piano, cominciò ad aprire gli occhi, vedendo annebbiato, poi i particolari cominciarono a farsi vedere un po’ di secondi più tardi, quando le iridi nocciola potevano riconoscere che non si trovava in un luogo familiare: era mattino.
Si sentiva quasi nuda: indossava solamente un kimono che, dovutamente al suo recente passato, le sembrava ormai uno dei vestiti più osceni che avesse potuto mai indossare. Era verde, di seta, senza decorazioni, ma la teneva a caldo.
La prima cosa che vide fu un raggio di luce, che spostandosi leggermente per via dei movimenti terrestri, spariva e ricompariva tra le stecche di legno che costituivano un balconcino più in là. Era per terra, avvolta tra una pelliccia ed una coperta imbottita di seta, su un pavimento di legno più chiaro di quello del palazzo, coperto qua e là da tappeti color dei fiori di ciliegio. Si girò, per mettersi a pancia all’aria e guardare il soffitto, pur mettendoci un po’, poiché essendo reduce da una sottospecie di congelamento, si sentiva ancora stordita e non ricordava bene cosa fosse successo.
Anzi, non ricordava nulla della notte precedente.
Il soffitto era fatto di quella che doveva essere paglia, mista a travi di legno, spiovente e rustico: doveva essere una piccola abitazione di qualche abitante del villaggio, pensò subito. Per qualche motivo, aveva dovuto soccorrerla e portarla in salvo in quel semplice luogo accogliente.
Tuttavia, non riusciva a ricordare il perché.
Improvvisamente, sentì il lieve rumore di quelli che dovevano essere passi. Passi calmi ma decisi, che non le incutevano timore, al contrario del suono terrificante dei tacchi degli stivali del generale che ora rimbombavano nella sua testa, con l’immagine di sfondo buia del corridoio del palazzo dov’era stata rinchiusa. Sentendo che si facevano più vicini, tentò di rimettersi le coperte addosso, per non infastidire il padrone di casa.
I passi si fermarono.
“So che sei sveglia.”
Una voce dolce, una voce di una donna, dolce e composta. Non era per  nulla familiare, ovviamente. Si scoprì la testa pian piano, mettendosi a sedere per avere una chiara visuale di colei che le era davanti: era abbastanza alta, tanto quanto il generale e doveva avere sui vent’anni. Indossava un kimono elaborato, bianco e decorato con fiori rosa e gialli, con una fascia del medesimo colore ed un cordone rosso sopra di essa. I lunghi capelli le coprivano la schiena, ricadendo davanti, folti, lisci, separati con una riga laterale e color castano ramato: un colore davvero inusuale per un abitante di Kintou, come il suo d’altronde. Le mani delicate si misero dei ciuffi dietro l’orecchio, per non permettere loro di coprirle il volto, mentre con l’altra reggeva un grande piatto con sopra quella che doveva essere una caraffa di tè e dei bicchieri con piattini. Aveva gli occhi grandi come i suoi, castani quasi color dell’oro, che brillavano sotto i raggi di luce che filtravano tra le assi di legno del soffitto. Sembrava quasi un angelo venuto in suo soccorso.
“Ecco, io…”
“Vuoi del tè?” Yoko non seppe cosa rispondere, essendo comunque in casa di un’estranea che non conosceva neppure. Non sapendo che fare, annuì, confusa.
La donna le si sedette accanto, in ginocchio, poggiando il piatto col tè per terra e versandone un po’ in entrambe le tazze, nel silenzio generale, in cui la curiosità di Yoko non faceva che fissarla di scatto ogni tanto. Lei sembrava averlo notato, ma non per questo ebbe una reazione brusca: sorrise e continuò ciò che stava facendo.
Arigatou gozaimasu1
Dopo pochi minuti di silenzio, in cui la ragazza bevve qualche sorso, mentre Yoko mostrava sempre più curiosità nei suoi confronti, l’altra cominciò a parlare.
“Ti trovi qui perché un ragazzo fantasma che ho salvato da alcuni spetti maligni, mi ha chiesto di aiutarti implorandomi. Ho sentito la tua anima e ti o trovata semi svenuta a terra, su un picco di roccia della Laguna di Cristallo. Ti ho portato qui perché riposassi e riprendessi le forze.” La guardò dolcemente, mentre nella mente di Yoko balenò, appena aver sentito la sua descrizione, l’immagine di Tohma che veniva aggredito dagli spettri e la sua espressione si fece molto preoccupata…
“Io… Ecco… il ragazzo sta bene?” Chiese impaziente.
“Tranquilla: gli yurei non possono lasciare di nuovo il mondo dei vivi se non trovando la luce.” Le scappò un pacato sorriso. “Tu come ti senti?”
“Ora mi sento meglio… posso chiedere se…”
“Prego!” La incoraggiò gentilmente la donna, mentre Yoko la guardò di scatto, sentendosi sempre più piccola e a disagio.
“Perché… ero su quella roccia? Non riescoa ricordare… potreste dirmi tutto quello che mi è successo, che voi sappiate… Ve ne sarei grata…”
“Oh, non c’è bisogno di tutta questa formalità, cara! Come ti chiami?” Yoko guardava basso, tanto che l’altra dovette abbassarsi un po’ senza scomporsi, per incontrare i suoi occhi. Mortificata, alzò lo sguardo.
“I-io sono Kurai Yoko…”
“Yoko, io non so come tu sia arrivata su quella collina, io ti ho trovato che eri congelata, eri bianca e rigida. Ho dovuto trasportarti qui, o avresti potuto non farcela. Ti ho fatto fare un bagno d’acqua tiepida in modo che il corpo ritornasse alla temperatura normale… eri andata in ipotermia. Dopo, ti ho messo a letto con questa pelliccia e questa coperta per non farti prendere freddo… c’è mancato poco, ma ora stai bene, no?” La sua voce sembrava una melodia dolce, di quelle che le cantava la mamma prima di andare a letto, quando era ancora una bambina. Ciò rassicurava Yoko, che cercò di sembrare meno rigida, ma che allo stesso tempo, stava lentamente cominciando a ricordare cos’era successo su quella roccia.
Il generale…
“Vi ringrazio… davvero, io… devo tornare all’acc-“
No, non poteva rivelarle di essere un soldato. Anche se questo, forse l’aveva già intuito dai suoi vestiti… “… Devo tornare a casa, grazie, ma…”
“Puoi darmi del tu e guardarmi negli occhi, non preoccuparti: non ti mangio mica. Non puoi tornare a casa adesso, Yoko. Ti sei appena alzata dopo essere stata faccia a faccia con una morte per ipotermia… Tra qualche giorno ti lascerò andare, ma ora non puoi.”
Yoko annuì sconfortata, guardando poi fuori dal balconcino, godendosi da lontano la vista degli alti alberi sempreverdi della foresta che con il loro smeraldo davano vita al paesaggio invernale. Voleva vedere il generale. Voleva ricordare in ogni minimo dettaglio quel momento di distrazione, quel calore, quell’affetto inaspettato. Voleva capire. Voleva delle risposte alle sue mille domande… Doveva andarsene al più presto. “Ad ogni modo, dobbiamo spostarci, questo è un rifugio momentaneo. Ti porto a casa mia.” Le sorrise, alzandosi e sparecchiando le tazze da tè, con spirito e forza di volontà che le si leggevano negli occhi.
Passarono alcuni minuti di silenzio, durante i quali Yoko cercò i suoi abiti per spogliarsi del kimono verde, senza chiedere a quella donna di cui non sapeva nemmeno il nome. Tuttavia, non sarebbe mai stata abbastanza sicura da chiederglielo… dopotutto era una persona più grande di lei con la quale non sentiva di poter parlare come con un’amica. Trovò la divisa: era stata piegata, con tutto ciò che s’era portata con sé quella notte avvolto tra gli indumenti sistemati con cura. Yoko non credette che quella ragazza dovesse essere tanto stupida da non conoscere tale divisa. Sapeva che lei era a conoscenza del simbolo di Kintou Shuto, non poteva essere diversamente. Eppure, non le aveva fatto domande a riguardo, le sorrideva come si fa con un semplice ospite bisognoso d’aiuto, ignorando il suo passato o i suoi scopi. In poche parole, pensò che l’aveva accudita incondizionatamente. E questo solo perché gliel’aveva chiesto Tohma…?
“Ahm… Scusa...!” non seppe come rivolgersi nel migliore dei modi a quella ragazza, che però non se ne importò minimamente e venne da lei composta come sempre.
“Come posso aiutarti, Yoko?”
“Ehm… ecco… posso chiederti qual è il tuo nome…?” E dallo sguardo basso, s’alzarono solo le iridi, in uno sguardo al massimo dell’innocenza.
“Forse è meglio che questo tu non lo sappia…” Le sorrise, mettendole una mano sulla testa e guardandola negli occhi.
Che sapesse qualcosa che doveva rimanere all’oscuro di Yoko…?
 
 
Sullo sfondo notturno blu, oscuro eppure tanto affascinante, si stagliavano quelle silhouette nere degli alberi che tendevano sempre più verso l’alto, verso l’infinito. Un infinito terrificante, cosparso di nebbia e voci maligne.
Le urla di intensificavano sempre di più, come se fossero potute arrivare fino alle stelle, eppure nessuno sembrava sentirle.
Tohma pensò per un momento di poter essere ancora vivo, perché nonostante allora fosse un fantasma errante nei boschi, quei soldati d’ombra gli incutevano timore: il timore di morire. Eppure uno spettro non dovrebbe aver ragione di avere la pelle d’oca di fronte a tale situazione, essendo già passato all’altro mondo. Chissà perché, però, per lui non fu così facile.
Quelle ombre in divisa nera di Kintou Shuto lo divoravano dall’interno, come se lo stessero mangiando interamente a partire dall’anima.
Non era neanche capace di combatterli, dato che, a differenza loro, sembrava sempre non poter interagire con alcun essere fatto di carne ed ossa ma, a quel punto, neanche d’ombra. Sembrava come se fosse diventato un’inerme spettatore agli orrori del mondo, che non poteva toccare ma poteva essere trafitto, che non poteva ferite, benché potesse essere ferito, che poteva urlare, senza essere sentito.
Delle lacrime cominciarono a colare giù  dalle sue guance, tra grugniti d’agonia e dolore, frutto della resistenza a quei demoni che sembravano volessero impossessarsi di lui, o di ciò che di lui era rimasto: un’anima eterea.
Improvvisamente, tra la nebbia nera e quegli occhi rossi minacciosi, Tohma riuscì a vedere una sagoma diversa dalle altre, sfocata tra quegli individui che sebbene gli fossero familiari, non riusciva a dire chi potessero essere per via della confusione e del terrore.
Lasciatelo stare.” Una voce autoritaria, femminile, mai sentita prima, squarciò quella nebbia oscura, che si dileguò nella fredda aria notturna, lasciando una brezza di vento gelido che persino Tohma avvertì. Sebbene non avesse la vista offuscata da nulla, non poteva ancora distinguere chiaramente i lineamenti di quella donna che doveva essere davanti a sé, percependone solo il dolce profumo. Sentiva l’erba scricchiolare sotto i piedi di lei, che ora era proprio dinanzi a Tohma e che lo guardava con curiosità ma allo stesso tempo con distacco e preoccupazione. Il ragazzo provò a rialzarsi in piedi ed in poco tempo, si ritrovò di nuovo fluttuante ma coi piedi per terra.
“T-Tu chi sei? S-Sei colei che penso che tu sia…?”
“Sì, caro. Ti sei perso?” La voce dolce e rassicurante della donna inondarono di improvvisa speranza il cuore di Tohma.
“Ti prego… Aiutala… Trovala… Una mi amica è in questa foresta. E’ vittima di uno spietato generale che la tiene prigioniera nel suo esercito. Aiutala a scappare… ma ti prego, non fare il mio nome, non dirle nulla…”
“Perché non dovrei… sei suo amico no?”
“Tu non puoi capire…”
“Invece capisco benissimo. Farò come mi hai detto… Ora va e sta’ attento agli spiriti neri. Ho un brutto presentimento…”
Una volta scomparso Tohma, il kimono rosa decorato da fiori continuò a svolazzare nel vento notturno, mentre i suoi occhi fissavano il cielo stellato.
“Non è possibile…”
 
 
Il tragitto attraverso la foresta fu parecchio tortuoso, soprattutto pieno di salite su colline, rocce e passaggi tra alberi stretti. Era praticamente una scalata tra le montagne, che tolse ore ed ore di viaggio alle due, di cui una non sembrava minimamente avvertire la stanchezza. Era un paesaggio sempre boschivo, tuttavia, presentava molto più terreno roccioso e ripido, che attraversarono attraverso gole e scale di pietra, inoltrandosi nel cuore della foresta. Il verde si mescolava col grigio, col blu e il nero delle rocce, poi ancora con l’azzurro degli spicchi di cielo ed ancora con il verde acqua di quello che doveva essere un piccolo ruscello o fiumiciattolo che sinuoso attraversava le rocce riflettendo quell’arcobaleno naturale. Stranamente, il kimono di quella donna non si smosse neanche di un po’, non si sporcò né stracciò come un normale indumento di quel genere avrebbe fatto…
“Ci siamo, manca poco…” disse lei, avventurandosi con le sue mani di porcellana tra gli irti rami della foresta che offrivano passaggi ardui da attraversare per chiunque avesse persino avuto una katana con sé. Tuttavia, dalla voce non traspariva il minimo senso di affaticamento, come se avesse avuto una forza immane, d’animo e fisica. Come se non fosse stata del tutto umana.
“Eccoci!”
Yoko venne colpita da un ramo spostato, senza emettere fiato, ma una volta riaperti gli occhi, si ritrovò davanti ad uno spettacolo senza precedenti…
Davanti a lei si stagliava un’enorme valle, costellata di rocce aguzze ed alte che si stagliavano sempre più in alto, come barriere naturali, collegate da residui di liane e piante che pendevano da ponti di corda costruiti tra una roccia e l’altra. Era tutto contornato da alberi di ciliegio: non ne vedeva uno da anni, Yoko, e l’emozione che provò in quel momento sembrava voler dire al suo cuore di lasciarsi andare, di lasciar perdere tutto e piangere, sfogarsi, sentendo che forse aveva raggiunto la libertà, solo guardando quel piccolo angolo di paradiso. C’era un piccolo sentiero in pietra, ricavato dalla stessa natura, dal quale si poteva ammirare, camminando, un lago che avvolgeva una roccia massiccia rispetto alle altre e più bassa, sulla quale si ergeva quello che doveva essere un tempio, con tanto di Torii e lampade sacre. Nell’acqua si alternavano piccoli pezzi di terra verde, più alti e più bassi, in modo che il dislivello suggerito dalla natura potesse formare piccole cascate che producevano un suono celestiale, assieme a quello degli uccelli bianchi che svolazzavano in gruppo a pelo d’acqua ber prenderne un po’. Prima del ponte che collegava il sentiero di roccia al santuario, c’era una grossa pietra, su cui c’erano incisi ideogrammi troppo antichi perché Yoko potesse comprenderne il significato: forse avevano a che fare con la sacralità del luogo, o forse…
Ma, se quella era la sua casa, ed era un Tempio, quella donna era una divinità?
“Ahm! Ecco…!” Yoko seguì l’altra, che la precedette avviandosi sul ponte di roccia. Ella si girò, sempre col suo fare pacato, con un’espressione che stava ad indicare il permesso di poterle parlare.
“V…Voi… questa è la vostra casa, quindi… voi…”
La donna si girò del tutto, fermandosi, lasciando che Yoko potesse aggrapparsi alla pietra dell’incisione, intimorita dalla sua gentilezza per qualche motivo. Un vento dall’aria divina soffiò, facendo ondeggiare i suoi capelli e il suo kimono maestoso. Sfoggiando un sorriso fiero ma allo stesso tempo pacata, si mise una dolce mano sul petto, poi aggiunse l’altra, raggomitolandosi leggermente su sé stessa, in una posizione poco solenne, quasi di vergogna, ma dalla quale non traspariva altro che semplicità ed umiltà.
“Io sono la sacerdotessa Nami, protettrice della Terra Pura.”
 
 
L’atmosfera al campo base era pressappoco sempre la stessa, con gli esploratori che andavano e tornavano da missioni di ricognizione per scrutare ogni angolo della foresta nel raggio di qualche centinaio di metri per volta. L’esercito era ormai pronto al suo dovere ed ogni soldato aveva ormai il brutto presentimento di ciò che stava per accadere.
Tra la folla che andava e veniva, il cibo, le provviste e le armi, gli oggetti necessari a completare una base militare degna di tale nome: era tutto pronto, mancavano solo gli ordini.
Heizo si faceva strada tra i soldati, con un’aria diversa: sembrava più tranquillo, sicuro di sé, meno aggressivo, come se sapesse che nessuno avrebbe potuto fermarlo, come se avesse avuto la certezza di essere invincibile, per qualche ragione. Forse era l’assenza del generale che gli procurava questa calma, che si trasformava in attrito in presenza dell’altro. Gli stivali pestavano la terra scandendo i passi ben marcati, sebbene non potessero essere uditi per via del trambusto dell’accampamento.
Improvvisamente, si accorse di alcune voci che venivano dal lato del campo volto verso il percorso per la foresta e vi si avvicinò, notando con dispiacere ciò che temeva.
“Signor generale!”
Un ghigno irritato comparve sul suo viso, nascosto dal cappello, mentre la mano corse al manico della katana, ma non la sfoderò, poiché non era ancora il caso, pensò.
Intanto, l’altro, con il suo solito fare violento ed autorevole, si tolse di dosso i soldati che continuavano a tempestarlo di domande, come per esempio, cosa fosse andato a fare nella foresta per ritornare a quell’ora del mattino.
Eppure, pensava di aver pianificato tutto per il meglio…
Heizo si recò di nascosto in una tenda più scura, lontana e nascosta, coperta da un albero cresciuto male che pendeva verso destra, formando una rilassante ombra per coloro che vi abitavano. Entrò.
“Signor Heizo, signore…” I volti dei soldati, cupi, biancastri e tetri, sembrarono leggermente turbati alla vista di quell’espressione minacciosa che avevano davanti.
“Avete svolto l’incarico?” Chiese, aspettandosi un silenzio tombale e poche parole balbettate, come al solito. “Come mi aspettavo.” Sfoderò la katana con un movimento repentino e terrificante, minacciando il collo di uno dei soldati. “Perché. Parla prima che io ti sgozzi. Poso ucciderti tutte le volte che voglio, io, sai?” Sibilò nel suo orecchio, guardando intanto gli altri.
“Non l’abbiamo trovato, mio signore…” Ancora nulla. “… Ma, abbiamo trovato qualcun altro…”Heizo sorrise malignamente. Il ragazzo tremante fu lasciato andare, mentre il vice si mise a sedere.
Raccontami, allora…chi?”
 
“Toglietevi dalle scatole, voialtri.” Disse a bassa voce il generale ai pochi rimasti, per poi procedere a grandi passi, oltrepassando il vice, che non degnò nemmeno di uno sguardo, per raggiungere il carro delle provviste, salendo sugli scalini di legno. Tutti i soldati si radunarono attorno a lui, che, con lo sguardo più convinto che mai, aveva l’aria di dover fare un discorso importante. Dentro di sé, sentiva una sensazione orribile, odiandosi ancora di più di quanto non facesse già, reputandosi un mostro, un essere infimo e crudele, non degno di una vita, una vita che s’era costruito con forza e viltà, aggrappandosi agli specchi, per raggiungere il potere. Una scalata verso un’inutile vittoria senza un fine particolare, se non egoistico, puramente sconosciuto. In poche parole, perché lo stava facendo? Perché stava facendo tutto quello? Per chi?
La notte, quella notte, il significato di quel gesto e di quella fuga. Dovendo ascoltare i suoi meandri più oscuri dell’anima, avrebbe voluto ripeterlo, ancora ed ancora, ma era un mostro.
Ed i mostri non possono amare né essere amati da nessuno. Era così che aveva vissuto fino ad allora, con quella convinzione, e difficilmente avrebbe cambiato idea. Se l’unica scelta di salvezza che hai, tra un filo di ragnatela, o cadere nell’abisso, pensò, non sarebbe mai stato così debole da aggrapparsi a qualcosa di tanto precario.
“Ascoltatemi bene, tutti voi.” Ruggì con tutto il fiato che aveva in corpo, sentendosi stranamente debole. Cercò di non darlo a vedere. “Siamo venuti qui, invadendo questo luogo per uno scopo preciso, non è così?!”
“Sì, signor generale!”
“In quanto vostro capo, generale, punto di riferimento e signore, vi comunico che da ora, possiamo procedere con i nostri piani. I soldati che sono andati in ricognizione, hanno scoperto un villaggio non molto distante da qui, ma ben nascosto tra gli alberi. Quello sarà il primo obiettivo!”
Un urlo di assenso si levò tra la folla di militari.
“Poi passeremo ai Templi!” L’unico che non urlò, tra la folla, fu Heizo, che, pur essendo chiaramente visibile agli occhi del generale, se ne andò, infiltrandosi tra le tende e poi tra gli alberi.
“Poi ci prenderemo tutta Kintou!” Ancora grida d’accordo, volarono fin sopra le nuvole.
Il capo non disse nulla, avvertendo una leggera fitta all’addome. Una volta rilasciata quella sottospecie di assemblea, scese a fatica dal carro, guardando per terra ed iniziandosi a preoccupare. Sperava che non fosse come temeva…
“Generale, si sente bene?” Un soldato lo notò e vedendolo in difficoltà, da matricola, cercò di aiutarlo.
“Ti pare che io stia male, nullità? Sparisci e non rompere, ho da fare.” Il ragazzino, lo sguardò spaventato: aveva gli occhi di un cane rabbioso che gli stava ringhiando contro. “Via!” Ringhiò, per poi avvertire un’altra fitta, poi un’altra ed ancora altri dolori, simili a crampi e a pugnalate. Sentiva il suo corpo venir meno, la vista offuscarsi, finché, una volta all’entrata della sua tenda, non svenne.
Il tonfo attirò i suoi seguaci, che, preoccupati, cercarono si soccorrerlo, trascinandolo dentro. Ci volle poco affinché il suo ardente spirito testardo non decise che non era quello il momento di svenire. Aprì gli occhi sforzandosi come non mai, accusando dolori indescrivibili ed iniziò a sudare.
“È stato avvelenato?!”
“Chi è il cane che l’ha fatto?!”
“Uscite fuori.” Tentò di dire invece lui, guardando male i tre uomini che erano nella sua tenda.
“Signor generale, è malato, dobbiamo spogliarla e-“
“NON VI AZZARDATE A TOCCARMI!!” Un urlo disumano, mancava solo che gli occhi diventassero rossi per la rabbia. Una rabbia provocata visibilmente da un terrore per qualche cosa di misterioso, che gli altri non potevano sapere.
“Ma…”
“VIA HO DETTO!!” Fu il suo ultimo ordine, prima di sprofondare nella convalescenza.
 

 


 
• Note dell’autrice 
 
 
 
Bentornati a tutti da queste luuuunghe vacanze! Come ve la siete passata?
Dai, un po’ me le meritavo anche io, no?
E si riprende con la storia che, con l’entrata del nuovo personaggio (anche se non si direbbe) comincerà a dare un po’ di risposte ai mille nostri punti interrogativi! Preparatevi al peggio, mi raccomando!
Inoltre: novità!
Ho creato una pagina
Facebook, perché se ho da dirvi qualcosa riguardo il proseguo o gli aggiornamenti della storia, non potendolo fare qui pubblicandoli capitolo avviso (non si può), lo farò lì sopra! Vi do il link! https://www.facebook.com/Bloody-Schutzengel-1500391153615704/timeline/

- Maniaca esibizionista. -
E’ tornata anche Fred, come vedete…


-Bloody Schutzengel
   
 
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