Il terzo ed ultimo capitolo di "Shades", di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Shades
di
Overlook, 2015©
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Capitolo III (Epilogo) - Qualcosa
Era una di quelle giornate che si definiscono qualunque. La primavera bussava alle porte della città e Bulma, scoperte le gambe ai primi timidi raggi di sole pomeridiano, s'era abbandonata alla dolce nenia intonata dal venticello sulle sponde dell'amaca, ben distesa tra le palme troneggianti nel vasto giardino. Avrebbe voluto eccome, assopirsi beata, dopo tutto quel duro lavoro in laboratorio, ma l'andirivieni lento ed inquieto dell'alieno che una cinquantina di metri avanti percorreva il selciato, sguardo a terra e braccia conserte, la stava come innervosendo; era incuriosita dal ritorno ad una postura più ferma, più caratteristica da parte di Vegeta, ma al contempo il fatto che fossero trascorsi i mesi e lui ancora non si fosse minimamente espresso sulla questione riguardante il rimanere con lei ed il loro figlio oppure no, le stava letteralmente mandando in pappa il cervello.
Molte, moltissime volte era incappata in tale quesito, in quell'interrogativo che alla fine dei conti esigeva soluzione solo da lei e neppure poteva essere obbiettiva, quella risposta che Bulma tanto si crogiolava nel darsi. Lei non era Vegeta e neppure s'era mai convinta a porgli una simile domanda, non dopo che,atterrita, aveva assistito totalmente impotente alla disfatta rovinosa del principe dei saiyan, prima ancora dell'uomo in lui.
I mesi s'erano rincorsi in un gioco pericoloso e sfinente, rallentando di fronte a quel passo deciso, ma spoglio dell'usuale carisma di cui era stato sempre carico. Gli occhi d'ebano che abitualmente traboccavano di orgogliosa alterigia, ora nella stessa espressione assumevano un ruolo meno egoistico, una parte meno pressante. Riassumevano il protrarsi infinito di un'inquietudine spaventosa, di una tensione raggelante sin nelle ossa.
Non v'era stato Sole che fosse tramontato, senza che nell'aere non si fosse respirato il tanfo occludente di parole non dette, risposte non date. Non v'era stata Luna che fosse risorta nel buio, senza che in quelle due stanze non si fosse udito il cigolio assordante di domande non poste, di sguardi ritratti.
Ogni ciclo degli astri portava con sè la sensazione che il tempo non stesse trascorrendo, bensì continuasse imperterrito a riavvolgersi, ancora e ancora, al pari di una vecchia pellicola cinematografica attorno al rullo, in una piccola sala deserta di un cinema abbandonato all'improvviso.
Cosa non riusciva più a quadrare?
Troppe volte l'aveva sorpreso ad osservarla muto ed immobile, ma con un'altra luce negli occhi. Non più quella di sdegnosa ed impaziente attesa che finisse di sistemare la camera gravitazionale o che si liberasse degli ultimi vestiti che aveva addosso. Pareva piuttosto una rinnovata curiosità, quasi non l'avesse mai vista all'opera tra bulloni e lamiere o la stesse languidamente immaginando nuda. Non aveva un bel niente da immaginare, arrossiva lei ammettendolo tra sè e sè, l'aveva già avuta dinanzi in ogni maniera possibile, eppure le pupille non bruciavano di stizza o di intorbidimento. La bocca non si increspava arrogante e le braccia non finivano orgogliosamente conserte. Tutto era sinistramente placato, di primo acchito e a Bulma era quasi venuto da pensare che quella altro non fosse che una riproduzione in cera o cartongesso dell'uomo che, irriducibilmente, onestamente, amava con tutta sè stessa.
Bastava però che lei lo riportasse brusca tra le quattro mura della realtà - "Oh, ciao, Vegeta, scusami, non mi ero accorta fossi qui. Ti serve qualcosa?" - , per far sì che chiunque avesse premuto il tasto Pause sull'allure dell'alieno, svelto si correggesse con il Play: Lui spostava di scatto lo sguardo, lo induriva insieme al tono di voce, prima di liquidarla con uno scocciato "Nulla".
Altrettante volte s'era trovata ad indietreggiare il più lentamente e silenziosamente possibile, col cuore che le scoppiava in petto e i grandi occhi azzurri umidi, nel momento in cui, in procinto d'entrare nella cameretta del figlio, aveva scorto Vegeta assiso sul divano di fronte al lettino con le sbarre. Non faceva nulla. Non sorrideva, non imprecava, non cercava il figlio, nè lo respingeva. Se ne stava lì, ad occhi chiusi e braccia conserte, in un'espressione assorta e severa al tempo stesso, ignorando bellamente mugolii e tentativi d'avvicinamento da parte del frugoletto, che alla fine si arrendeva sempre al ricadere col sederino sul materasso e decidere quindi di assopirsi. Per comprendere meglio quanto tempo effettivamente trascorresse lì dentro con il figlio, se così poteva dirsi, aveva provato ad appostarsi dietro alla porta della propria stanza, lo sguardo ben puntato sul quadrante dell'orologio da polso che non toglieva nemmeno per andare a letto. Il più delle volte finiva anch'ella per arrendersi di fronte a tanta adrenalinica attesa, allora usciva allo scoperto e varcava la soglia, accorgendosi basita che di Vegeta non v'era più nemmeno il muschiato profumo.
Un vero peccato che per gran parte della giornata lei fosse costretta tra le mura dei laboratori senza molte possibilità di fuga o di intervallo, perchè avrebbe potuto constatare che il saiyan aveva cominciato a prorogare le proprie assenze di svariate ore, tornando abbastanza malconcio da far intendere chiaramente che i muscoli voluttuosi, la natura aliena ed indomita, avevano finalmente ripreso, pian piano, a guizzare impetuosi nell'animo.
Una doccia, un cambio pulito ed un'imperscrutabilità da maestri; al rientro a casa di Bulma, Vegeta pareva essersi fatto scivolare l'ennesima giornata addosso, senza aver reagito alle stilettate che la realtà costantemente gli sferrava ai fianchi, sottoforma di incubi dal volto di un ragazzo coi capelli lillà e di frustrazione, dai contorni aguzzi come i ciuffi della zazzera di quel fantasma insolente.
Non a Bulma. Non con lei era mai capitato, non a lei aveva avuto occasione di imputare una qualsivoglia colpa, giacchè la donna irriverentemente bellissima, ma assai petulante, che aveva abbandonato in quella stessa dimora tempo addietro, dal suo rientro presso la Capsule Corporation pareva essersi trasfigurata in un'affascinante madre premurosa e sensibilmente contenuta.
Che in buona parte questo fosse dato dal fatto che la presenza di lui, lì, le aveva acceso il fuoco dello speranzoso dubbio, dentro, lui lo immaginava; ma che ancor più alla base vi fosse l'ormai piena consapevolezza di un amore impavido, stoico, irriducibile, irrefrenabile e sconfinato, ciò doveva ancora arrivargli, doveva ancora picconare quella corazza calcarea e d'altronde, anche all'interno di quella stessa armatura, qualcosa, da parte sua, stava lentamente spianando la via.
***
"Ehi, Bulma".
Credette di aver avuto un'allucinazione auditiva, quando quella voce, proprio quella, le giunse alle orecchie. L'incedere inquieto sul selciato s'era effettivamente interrotto e adesso Vegeta era fermo, le dava le spalle, le mani s'erano rifugiate all'interno delle tasche dei pantaloni e il capo era inclinato all'insù, quasi a voler timidamente sfidare il cielo con lo sguardo.
"Di' un po', quanto tempo ti ci era voluto, l'ultima volta, per costruire la camera gravitazionale?".
Il respiro le si mozzò in gola e il sorso di limonata appena assaporato finì per corroderle il setto nasale. Si precipitò nella direzione del saiyan, scalza, la gonna corta e svolazzante a renderla ancora più gioviale e i capelli raccolti in un piccolo fermaglio alto sulla nuca a farne davvero l'eterna ragazzina che sperava sempre d'apparire.
"S-stai dicendo sul... Stai dicendo sul serio, Vegeta? Vuoi che ti ricostruisca la stanza gravitazionale, riprenderai ad allenarti!?" - Le labbra s'inclinarono in un sorriso commosso e le ciglia fremettero cariche di stille acquose - "Vegeta... Questo... Questo vuol dire che... Che rimani, allora?".
Il voltarsi verso di lei e l'invertire la propria traettoria affiancandola con l'ombra d'un sorrisetto in volto le fecero perdere un battito.
"È sempre tutto una scoperta, su questo pianeta. Non sapevo che una sola, semplice domanda, significasse l'invito a porne altre mille".
-Fine-