Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    20/09/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

52. Lecito e Proibito

 

 

Diari di Italia

 

Io non volevo dire quelle cose. Lo giuro, non volevo.

Il fratellone Francia aveva ragione su di me, aveva ragione sul mio comportamento, aveva ragione su tutto, ma in quel momento ero così spaventato per quello che stava capitando, così in pena per quello che era successo a Germania, che non riuscivo a sentire nient’altro se non quello che mi dicevano la mia testa e il mio cuore, non badando a nemmeno una parola di quello che mi consigliavano le persone che mi stavano vicino e che volevano solo il mio bene. Forse le cose sarebbero potute andare in modo diverso, se io avessi dato ascolto al fratellone o a tutti quelli che cercavano davvero di aiutarmi.

Appena le cose hanno iniziato ad andare male, ho sentito come, non lo so, una specie di bum! dentro di me che mi ha fatto tornare in mente tutto quello che era successo l’ultima volta. Ho sentito il cuore affogare nel panico e nella tristezza, era una sensazione bruttissima e molto, molto dolorosa. Per questo mi sono spaventato così tanto, per questo ho iniziato a mettermi pian piano le mani davanti agli occhi e attorno alle orecchie, non volendo né vedere né sentire nulla se non quello che mi diceva Germania. Non si trattava solo di non infrangere più le promesse fatte, non si trattava del mio onore, non si trattava di me. Quello che feci da quel momento in poi era tutto solo per Germania, perché la paura di perderlo di nuovo era troppo forte. Più forte di quella di perdere me stesso.

 

.

 

Precipitarono dal cielo e ricaddero dentro la sala di comando sparati come chicchi di grandine.

Danimarca fece mulinare le braccia come per aggrapparsi all’aria, le dita inarcuate come uncini graffiarono il muro lasciando sottili linee bianche scavate nell’intonaco. Picchiò il fianco contro la parete, venne sbalzato di lato e cadde di pancia sbattendo il mento e il petto. Emise un forte tossito strozzato e soffiò una nuvoletta di fiato denso e impolverato sul pavimento. Norvegia gli piovve sulla schiena. Il corpo di Danimarca si tese e tornò rigido con un gemito. “Ghn!” Norvegia rotolò giù dalla sua schiena, si appese con un braccio al muro, per restare con le spalle dritte, e si massaggiò la testa tenendo la fronte bassa.

Un gridolino più acuto accompagnò la discesa di Belgio. Belgio sbatteva le braccia come un uccellino che spicca il volo. Cadde sulle ginocchia, spalancò i palmi sul pavimento, e si piegò con il fianco a terra. Il viso contratto in un’espressione dolorante e il nastro disfatto tra le ciocche di capelli scompigliati. Olanda precipitò vicino a lei, cadde seduto. I lembi della sciarpa si ammosciarono sui suoi fianchi come ali che si richiudono sul dorso. Scosse il capo tenendo gli occhi strizzati per il dolore del contraccolpo e sfregò una mano dietro il collo, infilando le dita sotto le pieghe della sciarpa.

Francia cadde fra Belgio e Danimarca. Sbatté la nuca sulla parete, strizzò gli occhi, e il colpo lo scaraventò in avanti, con la guancia spremuta a terra e i palmi aperti sul pavimento.

Germania cadde per ultimo.

Scivolò lungo l’aria della camera e precipitò in ginocchio davanti al tavolo di comando. Quando premette le ginocchia a terra e aprì i palmi sul pavimento, per parare la caduta, il tavolo emise un suono scricchiolante come un tozzo di pane secco che si spezza. Germania chinò le spalle in avanti, piegò i gomiti e sfiorò terra con la fronte, riprendendo fiato a grandi e rauche boccate. Una nuvoletta di aria tiepida e umida si gonfiava a ogni respiro tra la sua bocca e il pavimento.

Il tavolo scricchiolò di nuovo. Il suono si propagò lungo la superficie di legno e diede un forte schiocco che estese un boato lungo le pareti della stanza. Il tavolo si spezzò in due. La crepa lo attraversò come un ramo di fulmine, fece sprofondare le due estremità che tornarono a unirsi sul pavimento.

Un lungo scroscio metallico, come una pioggia di sfere d’acciaio che precipitano su piastrelle di marmo, fece vibrare il suolo. Gli aerei erano caduti scivolando dal tavolo spezzato in due. Un modellino rimbalzò a terra, sbatté su un’ala, sulla coda, cadde sul fianco e si fermò a sfioro di una mano di Germania.

Il diluvio metallico cessò. Si udirono altri tre lievi ticchettii – gli ultimi caccia che rotolavano a terra – e poi il silenzio.

Danimarca si girò su un fianco, allungò una mano scavalcando il busto e si massaggiò la schiena. Contrasse le labbra in un ghigno di dolore e stropicciò la fronte. Un lamento stridente gli uscì dalle labbra. “Merda, che male.”

Belgio si diede una piccola spinta sulle mani, si impennò sulle ginocchia, e cadde a sedere. Le gambe piegate sotto di lei, i capelli sparpagliati sul viso, e il nastrino disfatto piovente sulle spalle. Chiuse un pugnetto davanti alle labbra e diede due piccoli colpi di tosse. “State tutti bene?” Tossì di nuovo. Una nuvoletta di polvere si aprì davanti alla sua bocca.

Norvegia scrollò il capo, liberandosi dalla polvere, e si diede una grattata dietro all’orecchio. Le dita sfiorarono un punto della testa sopra la nuca, e Norvegia emise un sibilo strozzato. Una smorfia di dolore lo fece impallidire.

Francia scollò il viso dal pavimento e infilò le dita tra i capelli. Massaggiò una tempia, si tirò sulle ginocchia, e rivolse uno sguardo rassicurante a Belgio. La guancia sulla quale aveva sbattuto era diventata rossa.

Oui, chérie.”

“Io non sto bene per niente,” si lamentò Danimarca. “Mi sono preso una botta nel – aaah! Di nuovo allacciato!”

Danimarca levò le braccia al soffitto a pugni chiusi e fece cigolare i fili d’acciaio. Due scintille d’argento nacquero dai polsi, dove le catene stringevano creando due bracciali rossi sulla pelle, e scivolarono lungo il profilo dei cavi fino a sparire alle spalle di Danimarca.

Danimarca sgranò gli occhi. Un’ondata di panico gli fece vacillare le pupille, lo rese più bianco di un lenzuolo.

Belgio lanciò un’occhiata al suo pugnetto ancora chiuso davanti alle labbra, e rigirò il polso. Una luce d’argento lo attraversò disegnando un circolo attorno al braccio.

“Oh, è vero.” Belgio inarcò le sopracciglia in un’espressione triste. “Siamo di nuovo legati.”

Francia sollevò un braccio, la manica della giacca scivolò all’indietro svelando il bagliore metallico che brillava attorno al suo polso. Sospirò e abbassò la fronte. Le ciocche dei capelli in disordine gli fluirono sulle guance nascondendogli l’espressione sconsolata dipinta sul volto.

Danimarca scosse le braccia e digrignò i denti. “Non è possibile, di nuovo!” Infilò due dita sotto il bracciale sulla mano sinistra, irrigidì le falangi dandogli la forma ad amo, e strattonò il cavo per tre volte. I segni rossi che aveva tatuati sulla pelle si allargarono, le catene entrarono più a fondo nella carne, facendo trasudare minuscole goccioline di sangue. Danimarca emise un grugnito di frustrazione. Avvicinò il polso alla bocca e addentò il filo, facendolo scricchiolare tra i molari. Inarcò il collo, gettò il capo all’indietro, e strinse i denti. “Eddai, slacciati, brutto...”

“Mi stai tirando.” Olanda gli lanciò un’occhiata di ghiaccio. Il suo braccio era teso verso Danimarca. I due cavi erano intrecciati.

Danimarca aprì la bocca tenendo il filo d’acciaio sorretto dall’arcata dentale inferiore. Ricambiò con uno sguardo di fuoco. “Tu stai tirando me!”

“R-ragazzi, forse ci siamo ingarbugliati,” intervenne Belgio. La ragazza raccolse due dei cavi arrotolati davanti alle sue ginocchia e li sollevò davanti al petto. Ne soppesò uno, lo tirò leggermente, e il nodo che teneva i due fili allacciati si strinse emanando un sibilo stridente, come il suono di una corda di violino che si tende. Un’espressione perplessa comparve sul viso di Belgio. “Credo che dovremmo stare tranquilli e provare a scioglierceli.”

“Ci sto provando. Ci sto provando!” Danimarca tornò ad addentare il suo cavo con uno schiocco, e strattonò la presa. Sottilissimi rivoli di sangue colarono dagli angoli della bocca. “Ma non riesco a sciogliergli se questo mi continua a tirare – ghnn ~!”

Il cavo di Norvegia si allacciò attorno al suo collo, Norvegia piegò il gomito e tirò verso di sé. Danimarca divenne viola in viso, tese un braccio verso l’alto come per guadagnare una manciata d’aria, e gli occhi si gonfiarono come quelli di un pesce fuor d’acqua.

Belgio si posò una mano sul petto e tese il braccio libero verso Norvegia.

“No, aspetta, Norvegia, non strangolarlo, poverino.”

Olanda districò due dei fili che si erano ingarbugliati attorno ai suoi polsi. Gli occhi bassi, una lieve smorfia di disapprovazione storta sulle labbra che sfioravano la sciarpa. “Lascia che lo faccia.”

Germania abbassò le palpebre. Il brusio di voci divenne un sottile ronzio che gli attraversava il cranio da parte a parte, come la punta di un trapano in funzione.

Aprì le mani a terra, schiudendo i pugni, e la punta dell’indice raggiunse il modellino che era rotolato vicino a lui. Lo raccolse. La mano si serrò portando il piccolo caccia all’interno del palmo. Germania strinse i pugni a terra. Schiena, braccia e mani tremarono. Le ali e le eliche del modellino gli penetrarono nella carne del palmo e la mano bruciò come se Germania stesse stringendo una brace accesa.

Fuoco vivo gli ardeva in petto. Le fiamme scendevano lungo il corpo e andavano a bruciare nello stomaco, annodandogli le viscere.

Francia si diede una scossa al capo per riprendersi dalla botta della caduta. Si scostò un filo di capelli e lo sguardo gli cadde sul corpo di Germania, piegato e tremante, sepolto dall’ombra del tavolo spezzato davanti a lui. Le lampade ai lati della camera erano tutte fulminate tranne una. La luce ancora viva sfarfallò, mise al buio la figura di Germania, e lo fece tornare immerso nel riverbero polveroso che galleggiava sopra gli avanzi della tavolata da combattimento.

Francia socchiuse gli occhi, si diede una spinta sulle ginocchia, e si sollevò da terra. Mosse un piede, la gamba ebbe un cedimento. Francia strinse i denti, ignorò il dolore al ginocchio, familiare come se avesse ancora un proiettile incastrato nella rotula, e camminò verso Germania.

Dietro di lui, le voci degli altri quattro si stavano calmando.

Belgio tese altri tre fili e fece passare un cavo sopra l’altro. “Ecco, questo va qua.” Ne tirò uno che le strinse sul polso. Lo mollò subito. “Questo è il mio.” Il secondo filo che le passava tra le dita si allungava verso il braccio di Olanda. Belgio lo sollevò sopra la testa. “Alza il braccio, fratellone, così ti libero da questo.”

Francia fermò il passo appena immerse il piede nell’ombra di Germania. Infilò le mani nelle tasche della giacca, senza far toccare i polsi irritati agli orli di stoffa, e piegò il capo di lato. Stese un sorriso smaliziato e una ciocca di capelli gli finì davanti a un occhio.

“Irritato?”

Germania strinse la mandibola, fece stridere i denti.

Serrò con più forza la mano che stringeva il modellino, fili di sangue uscirono dalle dita, e scagliò il pugno contro una delle estremità del tavolo che si era spezzato. Le nocche sbatterono sull’area azzurra del Mare del Nord, fecero vibrare tutto il frammento di tavolo. Una crepa a forma di saetta si aprì sotto le nocche di Germania, attraversò l’area di mare divisa in rettangoli tratteggiati, divise in due la scritta ‘North Sea’, e fece schioccare il legno.

Francia sfilò una mano dalla tasca, districò il cavo d’acciaio dal palmo, e passò le dita fra i capelli. “Com’è che si dice in questi casi?” Sfilò la mano dalle ciocche e fece schioccare le dita. “La sconfitta brucia.”  

Germania socchiuse le palpebre e gli rifilò un’occhiataccia affilata come il filo di una lama, da sopra la spalla.

Francia arricciò la punta del naso, strinse la mano sull’anca, e inclinò di poco il fianco di lato. Aggrottò le sopracciglia. “Dovresti ringraziarci, ti abbiamo dato l’occasione di imparare qualcosa, oggi.”

Germania tornò a stringere i pugni a terra. Un’elica del modellino si incrinò sotto la sua morsa. “Se credete...” Fece strisciare un ginocchio a terra e posò il piede sul pavimento. Si diede una spinta, si rialzò, e fece due passi vacillanti verso un’estremità del tavolo spezzato. Si voltò verso Francia. Aprì la mano che non stringeva il modellino e la sbatté sul petto. “Se credete che sarà questo a spingermi a tirarmi indietro, allora avete solo sprecato energie.”

“Non volevamo spingerti a tirarti indietro,” esclamò Francia. Fece un passo avanti. La fronte corrugata e le palpebre lievemente infossate, color fumo, gli segnavano il viso di stanchezza. “Come potremmo farlo?” Fermò il passo, strinse i pugni sui fianchi. Le mani che si irrigidivano fecero tendere i cavi attorno ai polsi, un sibilo metallico attraversò il profilo delle manette. “Sei tu che controlli noi, non il contrario. Quello che volevamo era solo metterti faccia a faccia con la realtà dei fatti e farti rendere conto di quello che ti sta accadendo intorno.”

Un violento brivido scosse Germania attraversandogli la spina dorsale. Germania strinse i denti, gettò lo sguardo di lato, in ombra, e fece un passo verso l’angolo del tavolo impennato al cielo. I piedi si incrociarono, strisciavano dalla fatica, e Germania incespicò, aggrappandosi allo spigolo incrinato dalla crepa del suo pugno. Piegò le spalle in avanti, i capelli in disordine sulla fronte gli nascosero la luce furente degli occhi.

Belgio allungò d’istinto un braccio, come per alzarsi ad aiutarlo, ma il cavo d’acciaio le trattenne il polso. 

Francia sospirò, abbassò le spalle. Le pieghe sulla fronte si rilassarono, le sopracciglia caddero piatte.

“Per quanto tempo pensi che potrai andare avanti in questa maniera?” gli chiese. Sbatté piano le palpebre, rivolgendogli un’occhiata apprensiva. “Tu combatti per frustrazione, Germania. Sono solo la rabbia e il risentimento a guidarti in guerra, e questo si sente.” Sollevò un piede, la punta dello stivale passò sopra un frammento di tavolo che era volato via, e lo sospinse lungo il pavimento. Francia fece un passo avanti. “Ti autodistruggerai, se continui così.” Si fermò davanti a Germania. Raddrizzò la schiena allargando le spalle. “Quanto tempo credi che ti ci vorrà prima di perdere totalmente il controllo di te stesso?”

Germania fece di nuovo stridere i denti, sopprimendo un ringhio nel petto.

Staccò una mano dallo spigolo del tavolo, strinse il pugno, e lo gettò di lato. Gli occhi volarono su Francia.

“Non me lo faccio dire in faccia da qualcuno che ha perso contro di me.”

Francia prese un respiro, indignato, e alzò anche lui la voce. Tornò scuro in viso, i capelli cadenti sulle guance.

“Sì, è vero, ho perso contro di te,” innalzò le braccia tenendo i gomiti piegati verso il basso, “e ora mi ritrovo così.”

I cavi stridettero, si tesero. Le manette attorno ai polsi si strinsero raschiando la fibra d’acciaio contro la pelle rossa e screpolata sotto le maniche.

Belgio abbassò gli occhi dalla scena, si strinse nelle spalle, e strisciò all’indietro sulle ginocchia. Si fermò solo quando sentì il suo fianco premere contro quello di Olanda.

Francia e Germania tenevano gli occhi incollati. Due paia di scintille color ghiaccio che bruciavano come fuoco. Francia sollevò di poco le palpebre inferiori. Traballarono, gonfie e nere di stanchezza, e lo sguardo cedette.

Francia abbassò la fronte. “Anche io so cosa vuol dire sentirsi letteralmente bruciare per una sconfitta.” Il tono di voce era calato.

Si strinse un polso con pollice e medio della mano opposta e massaggiò la pelle bruciante sotto il filo del cavo.

“Quella volta ti ho detto...” Francia risollevò gli occhi. Un abbaglio di avvilimento gli rese lucide le iridi. “Ti ho detto che mi facevi pena, te lo ricordi?”

Germania ebbe un sussulto. Il pugno gettato sul fianco allentò la presa, uno spasmo attraversò il braccio fino alla spalla.

Danimarca e Norvegia si scoccarono uno sguardo interrogativo. Danimarca piegò un sopracciglio fino alla radice del naso, non capendo a cosa si riferisse.

Francia sollevò le spalle mostrando il petto infuori. Gli occhi tornarono a luccicare di determinazione. “Ma non sto cercando di aiutarti per salvare solo te. Adesso non sei coinvolto solo tu e non è solo per te che mi preoccupo.” Spiegò un braccio sul fianco e aprì il palmo. Prese un forte respiro. “Adesso che c’è di mezzo anche –”

Un lungo fracasso trascinato, come il suono di un catenaccio che viene sganciato e fatto scivolare via dalla serratura, si intromise nella stanza aprendo un sottile bagliore alle spalle di tutti, dall’entrata della camera.

Si girarono contro il portellone. Lo spazio di luce tra lo stipite e l’anta d’acciaio si allargò, sollevò un rumore cigolante, di ingranaggi stridenti e poco oliati, e la lama di luce gialla divise la stanza in due parti. Il fascio di luce esterna si tese lungo il pavimento, corse di fianco a Olanda – era il più vicino alla porta – e strisciò fra i piedi di Francia, arrampicandosi lungo la superficie spezzata del tavolo.

Le pupille di Germania si restrinsero come punte di spillo per l’abbaglio improvviso. Germania si portò un braccio davanti agli occhi e arretrò, restando nell’ombra. Francia socchiuse le palpebre, non distolse lo sguardo dal portellone semiaperto, e si fece ombra con il fianco della mano. I segni di stanchezza che gli circondavano le orbite si fecero più neri e profondi sotto il tocco della luce.

Il portellone strisciò, emise un suono più intenso e profondo, e si fermò a metà dell’apertura. Una piccola ed esile sagoma nera tese le braccia, finì di spingere l’anta d’acciaio, e si accasciò con le spalle sullo stipite. Le braccia ciondolarono verso il basso, il capo si chinò in avanti. La luce esterna incorniciava la figura facendola somigliare a un ritaglio di carta nera incollato su sfondo giallo.

La sagoma si mosse, prese respiri affannosi. Il corpo tremava di fatica, abbandonato contro il muro.

“Germania...” Affannò rapidi e profondi sospiri. Il corpicino continuava a vibrare, faceva brillare i bottoni e le fibbie cuciti sulla giacca.  

Belgio si sporse da dietro il fianco di Olanda, rivolse lo sguardo verso l’alto. Danimarca e Norvegia tornarono a guardarsi. Visi di pietra, Danimarca era ancora leggermente rosso sulle guance per essere rimasto senza fiato.

La figura rotolò verso l’interno, si tenne aggrappata alla parete con entrambe le mani.

“Dove...” Riguadagnò fiato. “Dove sei? Stai be –”

Un raggio di luce passò di striscio sul viso di Italia, rivolto all’interno della camera. Il riverbero gli colorò la guancia di un color sabbia, gli sfiorò l’orecchio facendo risplendere una scintilla castana sulla punta del ciuffo arricciato sopra la spalla. Italia restò con la bocca socchiusa, ma smise di respirare. Le mani strinsero, bianche e tremanti, contro lo stipite a cui era aggrappato. Italia spalancò le palpebre. Le immagini del tavolo da battaglia spaccato in due, con le estremità interne unite sul fondo del pavimento, della cascata di modellini scintillanti sparsi sulle piastrelle, dei frammenti del bancone con ancora incollati gli spazi di mappa frammentata, si riflessero nei suoi occhi affogati nel panico.

Il labbro inferiore di Italia tremò. Italia prese un sospiro che gli fece vibrare la gola.

“Germania,” sibilò.

Germania si tolse il braccio da davanti gli occhi, lo fece scendere sul petto. Sbatté le palpebre per riabituarsi alla luce e mise a fuoco l’immagine di Italia, comparsa davanti alla raggiera di luce.

“I-Italia?”

Italia prese un sospiro di stupore e di sollievo, al suono di quella voce.

Germania fece un piccolo passo zoppicate in avanti, si tolse dall’ombra reggendosi all’orlo del tavolo rotto, e si mise di fianco a Francia. Sollevò di poco la fronte. Lo sguardo sciupato incrociò quello di Italia.

Italia slargò gli occhi. Le palpebre si gonfiarono di lacrime vacillanti.

“Germania.”

Si gettò dentro la camera, due pezzi di tavolo e un modellino finirono travolti dalla sua corsa, rotolando sul pavimento, e si buttò su Germania. Allargò le braccia, fece l’ultima falcata con un salto, e si lanciò contro il suo petto, stringendo la presa dietro le spalle. Germania arretrò di due passetti per il contraccolpo, schiuse il pugno che reggeva ancora il modellino di caccia e l’aereo gli scivolò dalle dita. Cadde al suolo con un sonoro cling.

Le braccia di Italia strinsero dietro le spalle, il petto premette contro il suo, e il fianco gli toccò una ferita sul costato. Germania raggelò, trattenne un gemito tra i denti.

Italia si scollò subito, ricadendo con i piedi a terra.

“Ah! Scusami, scusami. Non l’ho fatto apposta.”

Germania stropicciò gli occhi, sciogliendo via il nodo di dolore che gli premeva sul fianco. Riprese fiato, il dolore svanì come un’onda che si ritira nel mare.

Italia abbassò la fronte, una luce afflitta gli appannò gli occhi. Fece correre le mani fino alle spalle di Germania e gli poggiò la guancia sul petto.

“Ti ho fatto tanto male?”

“No.” Germania scosse il capo. Inspirò a fondo, facendo muovere il viso di Italia premuto sul suo petto. “Non è nulla.”

Italia strinse la presa sulle sue spalle, chiuse gli occhi e affondò il viso nella sua giacca. Un lieve tremolio gli corse lungo la schiena, lo fece singhiozzare. Italia voltò una guancia e guardò verso la parete da dove proveniva la luce.

“Voi state tutti bene?”

Danimarca fece roteare gli occhi, abbandonò le spalle al muro, ed emise un grugnito di affermazione.

Belgio sollevò un palmo e gli sorrise. “Tutto okay.”

Italia sfregò il viso sul petto di Germania, si voltò sull’altra guancia, e si rivolse a Francia.

“Fratellone?”

Francia sollevò il mento. Fece sventolare una ciocca di capelli dietro la spalla, svelando un orecchio, e gli strizzò un occhiolino. “In forma come se avessi duecento anni di meno.”

Italia stese un tiepido sorriso, limitandosi a sollevare gli angoli delle labbra.

Abbassò gli occhi. Spinse un piede all’indietro e urtò contro uno dei caccia caduti dal tavolo. Il modellino sbatté contro un altro aereo a cui mancava un’ala, e sollevò un tintinnio metallico.

Le labbra di Italia tremarono di nuovo, negli occhi tornò l’alone di panico. Italia deglutì. “Cosa ti è successo?” Sollevò gli occhi, incrociando quelli di Germania. “Mi avevano detto della battaglia di Londra, e il generale mi ha detto che era meglio se non venivo qui perché stavi combattendo, ma io...” Strinse le braccia attorno alle spalle di Germania. La presa tremava, vacillante e insicura. Italia posò la fronte sul suo sterno e guardò in basso. “Che...” Si morse il labbro. Trattenne il dolore nel petto. “Che cosa ti hanno fatto?” sibilò.

Dall’altro capo della camera, Danimarca sbuffò. Fece roteare gli occhi e si appoggiò con il gomito sul ginocchio piegato. “Ha perso, ecco cosa gli hanno fatto,” borbottò.

Belgio gli lanciò un’occhiata di supplica scuotendo la testa, che non servì. Italia non aveva sentito.

Francia lanciò prima una rapida occhiata alla parete dove erano ancora seduti Danimarca, Norvegia, Belgio e Olanda, presi a districare i nodi dei loro cavi. Tornò a guardare Italia, prese un piccolo respiro per incoraggiare se stesso, e fece un passo avanti.

“Credo che tu possa capire da solo quello che è successo.”

Italia ruotò gli occhi verso quelli di Francia. Sbatté le palpebre due volte, con aria confusa.

Francia reclinò lievemente il capo verso la spalla. Gli rivolse uno sguardo paterno. “Siete in pericolo, Italia.”

Italia sbarrò gli occhi. La bocca cadde socchiusa e lì rimase. Un sospiro di panico passò attraverso le labbra. “Cosa?” Le dita strinsero sulla giacca di Germania sotto le scapole.

“Germania non è riuscito a sconfiggere Inghilterra,” disse Francia, “e ora dovrete fare i conti con le conseguenze.”

“Non...” Germania si spinse verso Francia, le braccia di Italia lo trattennero sul busto e lo sorressero quando una gamba cedette per il dolore al ginocchio. Germania abbassò la fronte contratta dal dolore, era pallido in viso, ma tenne gli occhi rivolti a Francia. “Non ci saranno...” Riprese avide boccate di fiato. Le braccia di Italia si allargavano e si stringevano a ritmo del suo petto. “Conseguenze,” disse Germania, in un ultimo impeto.

Italia lo aiutò a rialzare le spalle, lo strinse sul busto e lo guardò negli occhi, scuotendo la testa. Lo sguardo lo implorava di non fare sforzi. Germania si appese allo spigolo del tavolo e restò a schiena inarcuata. Le dita rigide serrate sull’orlo del banco facevano scricchiolare il legno.

Italia sfilò le braccia dai suoi fianchi e giunse le mani davanti al petto, come in preghiera.

“Fratellone Francia.” Fece un passo verso di lui. “Ti prego, dimmi... dimmi cosa sta succedendo.” Piegò le sopracciglia in un’espressione pietosa. Gli occhi luccicavano, le labbra tremarono verso il basso. “Perché Germania è ferito?” Strozzò un singhiozzo. Socchiuse le palpebre e giunse le mani sopra al cuore. La voce uscì in un sibilo. “Perché non lo avete aiutato?”

Francia socchiuse le palpebre e rivolse lo sguardo al pavimento, volgendo la guancia a Italia. I segni di stanchezza sulle occhiaie e sulla pelle sciupata del viso gli donavano un’aria afflitta e abbattuta.

“È ora che inizi anche tu a renderti conto della posizione in cui ti trovi, Italia,” gli disse piano.

Italia trattenne il respiro. “Io...” Le mani sul petto strinsero. “Io so dove sono.” Spostò un piede all’indietro ma non completò il passo. “Sono vicino a Germania, il posto dove ho sempre voluto stare.”

Francia scosse il capo. “No, Italia.” Si avvicinò, sollevò le braccia e gli strinse delicatamente le guance fra i palmi. Lo guardò negli occhi, in quelle larghe pupille ricolme di panico e angoscia. Italia aveva il viso freddo. “Tu ora stai brancolando nel buio, ti senti smarrito, confuso e spaventato, dopo tutto quello che ti è successo negli ultimi anni, e così ti tieni disperatamente attaccato al luogo che senti più sicuro per te.” Francia spinse i pollici verso gli zigomi di Italia, gli contenne i tremolii del viso. “Ma non è Germania il luogo a cui appartieni,” gli disse con tono più dolce. Sollevò una mano dalla guancia e gli pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Una nazione appartiene solo a se stessa.”

“Io non...” Italia scosse il capo con violenza, si sottrasse dalla carezza di Francia. “Non è vero che io sono in pericolo con Germania. Perché...” Risollevò gli occhi. Grossi grumi di lacrime traballavano in bilico sulle palpebre inferiori, gli annacquavano lo sguardo. “Perché mi dite tutti la stessa cosa?” Restrinse gli occhi. Grosse scie di pianto si sciolsero, corsero lungo il viso, ed entrarono nelle labbra piegate dal dolore. “Perché non volete che io sia felice?”

Francia posò lo sguardo sui polsi di Italia. I deboli e opachi riflessi delle spesse catene d’acciaio emisero un abbaglio da sotto l’orlo delle maniche. Francia tornò a guardarlo in viso, corrugando leggermente le sopracciglia.

“Perché noi riusciamo a vedere cose che tu non riesci fronteggiare proprio perché ti rifiuti di vederle.”

Italia si morse il labbro inferiore, le lacrime scivolarono tra i denti, e gettò lo sguardo di lato.

Germania sollevò la fronte, i suoi occhi brillarono nell’ombra, cercarono il viso di Francia. “Cosa ti fa credere di essere tu quello che sa cos’è meglio per Italia?”

Francia arricciò la punta del naso, emise un piccolo sbuffo e piegò un fine sorriso. “Sensibilità innata.” Sollevò un sopracciglio. Incupì il tono di voce. “Dovresti saperlo.”

Germania tornò a chiudere la morsa d’acciaio attorno al tavolo. Le giunture delle dita e il legno del tavolo scricchiolarono come chicchi di grano che vengono calpestati.

Francia divenne buio in viso, l’espressione fredda e severa.

“Tu stanne fuori, comunque. Sto parlando con Italia, non con te.” Tornò a rivolgersi a Italia, gli prese le spalle e lo spinse ad avvicinarsi. “Ascolta.” Italia zampettò a passo insicuro verso di lui. Francia piegò la schiena e avvicinò il viso a quello di Italia. La voce assunse un tono implorante. “Non è ancora tardi per salvarti e tornare indietro. Se tu...”

“No!” Italia scosse le spalle, si strappò via dalla presa. “No, voi,” lo sguardo tornò a riempirsi di ansia e smarrimento, gli occhi si svuotarono, divennero bui, “voi volete solo che,” tremò, la voce stridula, “che io scappi di nuovo.” 

Francia scosse il capo. “No, Italia, noi –”

“Voi siete i nemici di Germania...” Italia arretrò. Le mani ferme sul petto tremavano come il suo sguardo. “E volete solo portarmi via da lui perché così potete usarmi per sconfiggerlo.”

Francia aggrottò la fronte. Un lampo di incredulità gli balenò tra gli occhi. “Non è così, Italia. Lo vedi, stai sragionando. Se tu –”

“Voi...” Italia fece altri due passi indietro, si avvicinò a Germania. “Voi volete solo fare del male a me e a Germania.” La sua voce tremava, aveva paura delle parole che gli uscivano dalla sua stessa bocca. “Se tu sei un suo nemico, fratellone, allora anche io sono un tuo nemico.”

Danimarca e Norvegia si lanciarono occhiate stranite, restarono in silenzio, nel buio. Belgio abbassò lo sguardo che era diventato lucido come uno specchio d’acqua. I capelli in disordine le nascosero gli occhi pieni di dolore.

Italia si appese al braccio di Germania. Strinse forte le dita, strizzò le palpebre e altre lacrime sgorgarono dagli occhi, rigandogli le guance rosse. Sfregò la fronte contro la spalla di Germania e singhiozzò.

“Voi volete portarmi via da Germania e costringermi a combattere contro di lui.”

Germania si irrigidì.

Le ultime parole di Italia gli riempirono la testa, fecero eco nelle orecchie, e lo riportarono indietro, scavando nei ricordi.

  

♦♦♦

 

30 agosto 1940, Vienna

 

La porta si richiuse, accompagnata dalla mano di Italia che era uscito per ultimo. Il corridoio del palazzo assorbì la loro parlantina, la voce di Prussia risaltava sulle altre, rauca e graffiante come una strofinata su carta vetrata.

Romania era rimasto chiuso nella stanza. Solo lui e Germania.

Percorse con lo sguardo l’altezza dell’anta da cima a fondo, scorrendola con occhi spenti, opachi. Una ciocca di capelli fulvi gli scivolò da dietro l’orecchio e gli toccò la palpebra destra con la punta. Profonde e scure occhiaie circondavano le orbite, la pelle bianca, dal colorito smorto sfumava in tonalità grigie più vicino agli zigomi e alle fossette nelle guance. Romania sospirò. Stette fermo davanti alla porta, le spalle ammosciate.

Ruotò la coda dell’occhio. Germania non aveva ancora parlato da quando lo aveva trattenuto.

Romania inspirò. “Cosa vuoi ancora?” disse con voce flebile. Strinse i pugni sui fianchi. Un primo brivido di irritazione gli corse lungo la schiena.

I passi di Germania fecero eco sulle pareti di pietra, dietro di lui. Romania seguì la sua camminata con la coda dell’occhio, senza voltarsi. Voleva dargli le spalle.

Germania giunse le mani dietro la schiena, si avvicinò al bordo del tavolo dove prima erano stati seduti Romania e Ungheria, e sfiorò con l’indice il fascicolo di documenti in bilico sullo spigolo. Inclinò il capo, indicò una delle sedie con un’alzata di sopracciglia.

“Siediti.”

Romania sentì il brivido di rabbia crescere, penetrare le vertebre e fargli tremare la spina dorsale. Serrò di più i pugni, le unghie entrarono nei palmi, ma non uscì sangue. La pelle bruciava, le mani andavano a fuoco.

Voltò il capo con uno scatto, tornò a fissare la porta. “No.” Fece scattare gli angoli della bocca verso il basso. I canini punsero la carne delle labbra. “Sto bene in piedi.”

Germania inspirò a sua volta e ingrossò la voce. “Siediti.” Non lo aveva urlato, ma Romania sobbalzò come se gli avesse sparato un colpo di rivoltella dietro l’orecchio.

Il brivido di rabbia che correva tra le vertebre divenne più freddo e viscido. Divenne un brivido di paura.

Romania voltò lo sguardo, restrinse le palpebre in modo da nascondere la luce di timore che gli era balenata tra gli occhi. Le pupille vacillavano. Incrociò lo sguardo con Germania e restrinse le sopracciglia, aggrottando la fronte. La punta acuminata del canino, lucida e scintillante contro l’angolo del labbro inferiore, l’ombra attorno agli occhi fitta e accentuata dalle occhiaie di stanchezza.

Germania prese lo schienale di una delle sedie e la scansò dal tavolo, invitandolo una seconda volta a sedersi con un’alzata di mento. Occhi freddi e appuntiti come schegge di ghiaccio raggelarono l’aria della stanza. Romania tremò di freddo, riuscendo quasi a vedere le bianche nuvolette di condensa che si gonfiavano uscendo dalle sue labbra.

Distolse gli occhi da Germania. Rilassò le mani, sciolse la tensione dei pugni, e abbassò le palpebre. Non poteva fare altro. Si voltò lentamente, riattraversò la stanza arrivando alla sedia che Germania gli porgeva. Le loro spalle si sfiorarono, i tessuti delle giacche emisero un ruvido e leggero suono di sfregamento. Romania storse le labbra, gettò lo sguardo di lato, e si sedette. Viscidi e appiccicosi brividi di disgusto si erano arrampicati lungo tutta la spalla sfiorata da Germania, era come aver immerso l’intero braccio in un secchio ripieno di gelida bava di lumaca.

Romania piegò le spalle in avanti, avvicinò la sedia al tavolo con una spinta dei piedi e la sua immagine si riflesse sul legno di mogano tirato a lucido. Il profumo di cera d’api gli pizzicò la punta del naso. Romania strinse i pugni sulle gambe, nella stessa posizione che aveva mantenuto durante la riunione, e rimase rigido, immobile, a spalle basse.

Germania si mosse dietro di lui. Il suono schioccante dei passi lungo il pavimento scandiva il lento scricchiolio degli stivali che si tendevano e si rilassavano sotto i movimenti dei polpacci.

“La parte di regione che ti è stata tolta non è uno dei tuoi centri vitali,” disse Germania. “Inoltre, non ti è nemmeno stata portata via con la forza durante il corso di una battaglia.”

Il rumore delle suole singhiozzava a tratti sulle piastrelle, copriva il suono frusciante della divisa che si sfregava durante la lenta camminata.

“Non corri il rischio di scomparire, se è questo che ti preoccupa.”

Germania passò di nuovo dietro Romania. Romania sentì l’aria fredda spostarsi dietro il suo orecchio, sollevare brividi che gli pizzicavano la nuca come artigli ghiacciati. Germania si voltò, la pelle degli stivali emise un suono più profondo, e riprese a camminare alle sue spalle.

Romania deglutì un groppo di saliva. Serrò i pugni sulle gambe, la pelle gemette per lo sforzo, le nocche divennero bianche. Il suo viso riflesso sulla superficie del tavolo si contrasse in una piega di rabbia.

“Tu e Ungheria siete entrambi membri dell’Asse,” riprese Germania, “e spartizioni interne all’alleanza non rappresentano pericoli fisici per nessuno di voi.”

Romania abbassò la fronte con uno scatto, si strinse nelle spalle. Questa volta, sentì il suono viscido e scivoloso delle unghie che entravano nella carne dei palmi.

“Credi sul serio che sia quello a preoccuparmi?”

Germania si fermò.

Romania seguì lo spostamento d’aria dietro di lui, Germania si era bloccato alla sua sinistra.

Romania non smise di guardare la sua stessa immagine riflessa, lievemente storta e più scura in viso. Aggrottò le sopracciglia e si chiuse nelle spalle. Un piccolo sbuffo gli fece arricciare la punta del naso. “Ormai ho capito anche da solo come funzionano i vostri giochetti.”

Aspettò. Germania non disse nulla, non si mosse di una virgola.

Romania aprì e richiuse i pugni, con meno forza. I palmi bruciavano.

“Secondo la storiellina che avete raccontato a me e a Ungheria, è tutta una mossa strategica volta solo a impadronirvi dei miei pozzi petroliferi.” Scrollò le spalle. La voce si era calmata. “E di conseguenza a guadagnare il monopolio sulle riserve di carburante, ottenendo così un vantaggio schiacciante sui nemici.”

“Dove sarebbe l’inganno, secondo te?”

Squish, squish, squish...

Riprese la camminata scricchiolante che faceva vibrare l’aria come una corda di violino.

Romania gettò la coda dell’occhio dietro di lui, senza sollevare la fronte. Aspettò che Germania si voltasse e riprendesse a camminare in senso opposto, prima di rispondere. Le sottili unghiette ghiacciate scivolarono via dal suo collo, il tocco se ne andò seguendo Germania, e Romania prese un respiro più forte.

“Quella dei pozzi è solo una scusa, vero? E non di certo messa in piedi solo per abbindolare un pesce piccolo come me.”

La camminata continuava. Lenta, calma, regolare.

Germania gli passò nuovamente dietro la schiena, e un’altra ondata di brividi assalì il corpo di Romania come una zaffata di vento invernale, con i fiocchi di neve che ti colpiscono le spalle, entrano sotto il colletto della maglia e pungono la pelle come una pioggia di spilli da cucito.

Romania deglutì. Il suo corpo si irrigidì, le palpebre si restrinsero, la luce degli occhi si accese, i canini premettero sulle labbra. “Tu stai pianificando di muovere gli eserciti nel mio ter –” Si bloccò. Fece roteare gli occhi al soffitto, sollevandoli per la prima volta. “Nel mio ex territorio, in modo tale da affacciarti su Russia per invaderlo con più facilità.”

Passo. Rumore di cuoio che scricchiola, di suola che batte sulle piastrelle e di tessuto che sfrega su altra stoffa. Altro passo, più deciso.

“Io e Russia abbiamo firmato un trattato, ormai esattamente un anno fa. Non avrei motivo di –”

Romania sbatté i pugni sul tavolo. “Smettila di prendermi in giro!”

Il vibrare del tavolo fece sobbalzare le gambe di legno, raggiunse gli orli, fece tremare il fascicolo posato su un angolo. Un foglio si staccò dalla cartella e piovve sul pavimento, affianco alla sedia rimasta vuota.

Romania inspirò forte facendo passare l’aria fra i denti. Solo quando lui e il tavolo smisero di tremare si accorse che Germania aveva smesso di camminare.

Romania abbassò le spalle, il petto premette sul bordo del tavolo davanti a lui. Aprì e richiuse i pugni, placando il prurito che gli bruciava i palmi e le dita. Le unghie dei mignoli graffiarono il legno.

Arricciò le labbra, prese un altro piccolo respiro dal naso, e riprese a parlare. Voce lenta e pacata. “Conosco la storia di quel trattato.” Romania emise un debole singhiozzo di risata. Il riflesso degli occhi sul lucido del tavolo si intristì, annacquandosi. “Cosa pensavi, che non avessi anche io cercato spiegazioni? Dopo...”

Una stretta al cuore gli fece mancare il fiato e le parole.

Romania tornò a stringere i pugni e gettò lo sguardo al pavimento, a palpebre strizzate. Si rifiutò di guardare Germania e si rifiutò di guardare se stesso.

“Dopo che mi avete separato da Moldavia, ho cercato in ogni modo di estrapolare qualche piccolo cavillo che mi permettesse di riaverlo con me.” Socchiuse le palpebre gonfie e nere, gli occhi erano ancora lucidi. Scrollò le spalle. “Ovviamente non ho trovato nulla che potesse rivendicare il suo controllo, ma ho letto attentamente ogni punto del trattato. E lì c’è scritto...”

Sollevò gli occhi. Sobbalzò sulla sedia, le parole gli morirono in bocca.

Germania era davanti a lui, in piedi dietro al tavolo, spalle larghe e mani giunte dietro la schiena. Sguardo di pietra rivolto a Romania.

Romania deglutì un groppo di saliva che si era accumulato tra le guance. Andò giù a fatica, la gola si era seccata.

Romania scosse il capo e riprese un po’ di colorito sulle guance. Tornò il caldo formicolio al petto, e il rovente bruciore sui pugni. Romania sollevò una mano e puntò l’unghia dell’indice contro il petto di Germania.

“C’è scritto chiaramente che tu non dovresti nemmeno toccare i territori del sud-est europeo.” Riappoggiò il braccio sul tavolo, spinse il peso sul gomito piegato, e premette le nocche serrate sulla guancia. Sguardo imbronciato e distante. “A quanto vedo, invece, sei parecchio interessato a noi.”

Ruotò gli occhi verso l’alto senza spostare il capo.

Germania inarcò un sopracciglio verso il basso e gli lanciò una frecciatina gelata che gli trafisse il cranio.

Romania tornò a guardare in disparte, il volto più bianco, le fiamme negli occhi più oscillanti, ma le stesse profonde e scure pieghe di rabbia sul viso. Schiuse il pugno steso sul tavolo e tamburellò le unghie sulla superficie.

“Tu sei uno che prende ogni cosa che fa con la massima cura e precisione, prestando attenzione quasi maniacale a ogni più piccolo particolare.” Romania scrollò le spalle. “C’è pur sempre il sangue di Prussia dentro di te.” Fermò le dita, le unghie tirarono via quattro sottilissimi riccioli di legno dal tavolo. Sollevò gli occhi, andando incontro allo sguardo di Germania. Questa volta non cedette. “Non riesco a immaginare che ti sia sfuggito questo dettaglio, dunque la risposta è una sola,” tornò a puntargli l’indice addosso, “lo stai facendo apposta.”

Un sottile raggio di luce passò tra i due. Il fascio attraversò il petto di Germania, formò un velo di barriera luminosa tra lui e Romania. Sottilissimi granelli di polvere galleggiavano dentro la lama dorata.

Romania inspirò, chiuse gli occhi, e spinse di più le nocche contro la guancia. “‘Perché Germania rischierebbe di fare infuirare Russia?’ mi sono chiesto.” Socchiuse le palpebre. Le sottili linee dorate delle iridi scintillarono tra le ciglia. “E così ho capito: non hai paura delle conseguenze, anzi, è proprio lì il punto.” Tamburellò le unghie sul tavolo solo una volta. Era un movimento più secco e nervoso rispetto a quelli di prima. “Tu stai pianificando l’invasione di Russia a partire dalle mie terre, e se Russia dovesse accorgersi di qualcosa, anzi, è certo che se ne accorgerà non appena gli eserciti saranno entrati nel territorio che non dovresti nemmeno sfiorare, tu userai proprio la scusa dei giacimenti petroliferi come giustificazione.” Romania aprì la mano e spianò l’aria davanti a sé. “E così potrai agire indisturbato per una futura invasione.”

Germania fece un rapido movimento con le sopracciglia. Gli occhi fermi, attenti, ma senza ombra di allarme.

Romania voltò lo sguardo di lato, batté piano i polpastrelli sul tavolo, sollevando un suono più denso e ottuso rispetto a quello emanato dalle unghie. Restrinse le sopracciglia. Le palpebre chiuse, stropicciate, divennero ancora più nere. “Ci hai abbindolato per bene facendoci credere di star semplicemente manipolando dei territori già sotto il tuo comando, in realtà il tuo piano è sempre stato quello di invadere Russia.” Fermò le dita, piegò le falangi. Le unghie graffiarono sottilissime linee più chiare sul tavolo. “Non escludo che tu avessi già in mente questa ipotesi quanto voi due avete firmato il trattato di non belligeranza di un anno fa.”

L’aria si caricò di una densa e sfrigolante elettricità statica. L’atmosfera nella stanza divenne più calda, umida, difficile da respirare. Romania la sentiva scoppiettare sugli angoli di pelle scoperti, pizzicare come piccole scosse a ripetizione che penetrano nella carne e percorrono i nervi.

Romania ruotò gli occhi verso Germania, piano.

Il ramo di elettricità si tese tra i loro sguardi con uno schiocco.

La voce di Romania divenne più bassa. “Non mi dici niente?” disse con un sospiro.

Germania rimase a guardarlo per qualche istante. La sua espressione non era cambiata, proprio come una maschera.

La calda luce che rischiariva la stanza si abbassò, divenne rossa, e scese su metà del viso di Germania, lasciandolo in penombra. Solo gli occhi scintillavano come prima.

Romania esitò per un istante. Socchiuse le palpebre e le riaprì di colpo come avesse ammiccato. Di nuovo un brivido gli percorse la schiena fino alla base del collo.

Germania allargò le spalle, inspirò, e rilassò i muscoli. Prese lo schienale della sedia vuota e la portò dietro di sé. “Ponendo il caso che la tua teoria sia esatta.” La trascinò più avanti, facendo strusciare le gambe di legno sulle piastrelle e si sedette di fronte a Romania. Romania allontanò il busto dall’orlo del tavolo e raddrizzò le spalle senza nemmeno pensarci. Pugni sul tavolo.

Germania poggiò i gomiti sul ripiano e intrecciò le dita, nascondendo la bocca dietro il fianco delle mani giunte davanti al viso. “Come spereresti di agire di conseguenza?”

Romania sbatté le palpebre. Una prima scintilla di vivo interesse spazzò via il timore e la rabbia che gli appannavano gli occhi. Lo sguardo saettò sulle mani serrate, ferme contro il tavolo che copriva parte della sua immagine riflessa. Restò a guardarsi a bocca socchiusa, come sperando di trovare una risposta adatta.

Germania aggrottò la fronte. La luce del tramonto rosso proveniente di lato allungava la sua ombra nera lungo il tavolo, accentuava i rilievi dati dalle pieghe dell’uniforme, e faceva brillare la croce di ferro e le targhette sulle spalle e sul petto come piccole fiammelle scarlatte.

“Dopotutto, se io volessi invadere Russia, non sarebbe un affare che ti riguarda. Anzi, essendo tu sotto la mia protezione, non avresti nulla da temere.”

Romania arricciò il naso. Sentì una lingua di fuoco nascere in fondo allo stomaco.

Snudò la luce dei canini. “È ovvio che non posso fare niente per impedirtelo,” esclamò.

L’occhiata gelida proveniente dagli occhi di Germania freddò i bollori.

Romania strinse i pugni, inspirò. La lingua di fuoco si ritirò come avesse toccato una lastra di ghiaccio. Tornò a stringere le spalle e ad allontanare il petto dal bordo del tavolo. Non distolse gli occhi da quelli di Germania. “Ma potrei sempre rifiutarmi di combattere al tuo fianco.”

Germania socchiuse la bocca dietro il profilo delle mani intrecciate.

Un ruzzolare sul pavimento, proveniente dal corridoio esterno, gli fece ingoiare le parole.

“Se ti prendo!”

Lo strillo di Ungheria fece voltare tutti e due di scatto verso la porta.

Si aggiunse la risata gracchiante di Prussia, rumori di passi che correvano lungo le piastrelle facendo tremare il pavimento, e l’espressione di granito di Germania si incrinò.

“Ehi!” urlò la voce ovattata di Italia. “Aspettate anche me!”

“Non correte nei corridoi!”

Il rimprovero di Austria sedò la lite.

L’eco dei passi in corsa si perse tra le pareti esterne e tornò silenzio.

Il vento colpì le finestre, fece scricchiolare i vetri, e la luce rossa del sole si oscurò, diventando scarlatta.

Germania chiuse gli occhi, restò rigido come una statua per tre secondi, e tornò a Romania.

“Che motivo avresti di rifiutarti?”

Tornò la lingua di fuoco nello stomaco, ne annodò le pareti. La fiamma bruciò la pancia, risalì il petto, stringendo il cuore in una morsa rovente. Romania piegò le spalle in avanti, trovandosi faccia a faccia con il suo riflesso. Strinse i pugni più forte. Violenti tremori corsero lungo le braccia irrigidite.

“Perché a quel punto il conflitto si trasformerebbe in una vera e propria guerra contro l’intera Unione Sovietica,” disse, tremando. “E questo per me significherebbe diventare un nemico di Moldavia. Voi...” Una fitta al cuore lo centrò come una pugnalata rovente in mezzo alle costole. Inghiottì un grumo di lacrime e saliva. Gettò lo sguardo di lato, stando chino, e i tremori si espansero in tutto il corpo. “Voi mi avete portato via il mio fratellino e adesso state per costringermi a combattere contro di lui.”

Dai pugni sigillati scese un sottile rivolo di sangue che aprì una gocciolina rossa sulla cera del tavolo. Le labbra di Romania vibrarono, scoprirono i canini affilati che scintillavano agli angoli della bocca. La frangia scompigliata gli nascondeva la fronte e le occhiaie. Gli nascondeva in viso stanco e stremato.

Germania prese un respiro. “Primo.”

Romania sollevò un occhio.

Germania aveva posato la punta dell’indice sul tavolo, davanti a lui. “Io non ho mai detto che queste saranno le conseguenze dell’Arbitrato e che invadere Russia sia nei miei piani.” Sfilò il medio e lo premette vicino all’indice, formando una V capovolta con le dita. “Secondo.” Riflessi di luce più intensi gli accerchiarono gli occhi. “Questa è la guerra. E tu stai semplicemente sperimentando una delle più comuni conseguenze.”

Romania scattò come una molla. “Anche...” Si retrasse subito, placando l’improvviso tono di voce stridulo. “Anche tu hai un fratello.” Sollevò entrambi gli occhi verso Germania. “Cosa faresti se un giorno vi separassero a forza o peggio, se vi costringessero a combattere uno contro l’altro?”

Germania piegò un sopracciglio verso l’alto. La voce rimase rigida, ma il tono lievemente più alto. “Io e mio fratello non ci faremmo mai fermare da questo. Siamo entrambi nazioni che hanno sempre convissuto con la guerra, sappiamo riconoscere e rispettare i nostri doveri, e sappiamo separare le nostre responsabilità dai sentimenti che proviamo l’uno verso l’altro.”

Romania piegò il capo di lato, mostrandogli una guancia incavata nel viso. L’occhio che rifletteva il calore delle fiamme sempre fisso su di lui, un angolo della bocca si storse verso il basso, scoprendo il canino fino alla radice della gengiva. Romania restrinse le sopracciglia. Non era convinto.

Germania abbassò le mani da davanti il viso e le giunse sul tavolo, davanti a sé. “Ti sei mai chiesto perché esistono nazioni più fragili e piccole, rispetto ad altre che si distinguono per la loro grandezza e il loro prestigio?”

Romania stropicciò la fronte. Che domanda insolita...

Si strinse nelle spalle, tornando a cercare la risposta nel suo riflesso. Mosse le labbra a vuoto e tamburellò le dita. “Differenze culturali,” azzardò. Sollevò un braccio e si strofinò la nuca. “Posizione e grandezza geografica, eventi passati che ne hanno formato la storia.”

“Giusto, ma non solo.” Germania sollevò lindice che aveva posato sul tavolo. “La mentalità che ci differenzia è uno di questi motivi. Comportandoti in questa maniera, mettendo la salvezza di qualcun altro davanti alla tua, nonostante il forte legame che vi unisce, non faresti altro che infossare te stesso e la tua identità di nazione.”

Romania sbarrò gli occhi. Occhi in fiamme infossati nelle orbite nere, bocca socchiusa, pugni serrati.

Ecco dove vuole arrivare.

Aspirò una boccata d’aria in mezzo ai denti serrati. “Io non torcerò un capello a Moldavia, anche se mi obbligassi a farlo con una pistola puntata alla testa.”

Germania sollevò le sopracciglia. “E allora ti consiglio di tenere gli occhi aperti e di non farti trovare impreparato ad affrontare quello che succederà da ora in poi.”

Il fuoco che bruciava nello sguardo di Romania si ritirò. La bocca rimase aperta, le palpebre sbatterono donando agli occhi un appannato velo di intontimento. “Eh?”

Germania piegò le spalle in avanti e si alzò. La sedia arretrò strusciando sul pavimento.

“Se le cose dovessero prendere una piega...” Germania tornò in piedi. La sua larga ombra nera seppellì Romania nel buio. “Diversa rispetto a quella di adesso, e se io dovessi essere sul serio costretto a intraprendere un conflitto diretto contro Russia, anche tu saresti obbligato a parteciparvi, come hai ben intuito.”

Romania non cedette lo sguardo. Brividi di freddo lo tenevano avvolto in una stretta coperta di vento gelato.

“E a quel punto il mio non sarebbe un invito, ma un ordine,” concluse Germania.

Romania restrinse gli occhi. La luce sulle punte dei canini premuti contro il labbro inferiore vibrò di rabbia.

Germania alzò le sopracciglia, guardandolo dall’alto, a mento sollevato. “Hai mai considerato il fatto che Moldavia non la pensi come te?”

Romania sciolse la tensione dei pugni, le pieghe del viso si distesero, le fiamme negli occhi si spensero. La bocca rimase socchiusa.

“Se vi trovaste uno di fronte all’altro, sul campo di battaglia, come puoi essere sicuro che non sarà Moldavia quello che attaccherà per primo?” gli chiese Germania. “A quel punto non ti difenderesti? Preferiresti morire?”

“Sì!” Romania provò ad alzarsi, forzando i muscoli, ma le gambe erano due blocchi di pietra. Annuì di nuovo, rispondendo con ogni singola briciola di sincerità che ristagnava nel petto. “Sì. Sì, preferirei morire piuttosto che far del male a mio fratello.”

“Non dirlo con così tanta leggerezza.” Germania si voltò e camminò verso la porta. La luce scarlatta del sole lo colpiva di lato, espandeva la sua ombra lungo tutto il pavimento. I passi risuonavano come il lento battere di un orologio. “Non si scherza con la morte, soprattutto in un periodo delicato come questo che ci troviamo ad affrontare.” Si fermò davanti alla porta e volse il capo all’indietro. “Cosa pensi sarebbe meglio? Lasciare per sempre una nazione piccola come Moldavia in nostra balia, o accettare di combattere, seppur dalla parte opposta, e a quel punto provare quantomeno a proteggerlo dai tuoi stessi alleati?”

Romania sobbalzò. Il cuore schizzò in gola, togliendogli il fiato. Due rivoli di sudore ghiacciato gli corsero dalla fronte lungo le guance, brillando come rubini sotto il riverbero rosso che entrava dalla finestra. Tremò.

Germania scosse il capo. “Non lasciarti sfuggire l’occasione di tirare fuori dai guai quelli a cui tieni di più.” Impugnò la maniglia, rivolgendo lo sguardo alla porta. “Spero di non essere costretto a ripetermi anche con Bulgaria, quando verrà il suo turno.”

“Bul –” Romania fece scattare le spalle verso l’alto. Un solletico più basso e profondo gli annodò lo stomaco. Sbatté le palpebre più volte, unì e separò le labbra come un pesce fuor d’acqua. “Ma come, non...” Puntò gli occhi sulla schiena di Germania. Si alzò anche lui dalla sedia, vacillando sulle gambe tremanti, la pancia premette sull’orlo del tavolo e spinse il gomito in avanti, poggiando tutto il peso sul braccio piegato contro il banco. “Non vorrai anche...”

Germania voltò la guancia.

Ultimo sguardo.

Ruotò la maniglia con un cigolio e richiuse la porta dietro di sé, lasciando Romania avvolto nell’aria densa ed elettrica della stanza.

Romania ricadde di peso a sedere. Aprì i palmi e si schiacciò le tempie, sguardo fisso sul suo riflesso.

Devi combattere per Germania, ordinò a se stesso. Una mano scese dai capelli, le dita sfiorarono la guancia, si posarono sull’orlo nero e infossato della palpebra destra. La luce negli occhi era tornata opaca come nebbia. Devi farlo perché altrimenti lui e Russia te li ammazzeranno tutti e due.

Si morse il labbro inferiore, ritirandolo nella bocca. Il petto e la gola bruciavano. Strizzò gli occhi prima che potessero appesantirsi e bruciare pure quelli.

Si accasciò sul tavolo tuffandosi nella lama di luce rossa che tagliava in due la stanza, e affondò il viso nell’incavo dei gomiti.

 

♦♦♦

 

17 settembre 1940, Berlino

 

Germania camminò davanti al suo posto della tavolata. Scostò la sedia in disparte ma non si sedette, restando con i fianchi a sfiorare l’orlo de tavolo. Chiuse gli occhi.

Stese le braccia verso il basso, aprì i palmi sul tavolo e piegò le spalle.

“Signori.” Il richiamo duro e deciso. Nel fitto silenzio della camera, Germania riusciva a percepire il suono del suo stesso respiro sollevare e abbassare il tessuto dell’uniforme fasciata al petto.

Germania levò lo sguardo sugli alleati seduti davanti a lui. Strinse i pugni sul tavolo. “Abbiamo un problema.”

Prussia, Austria, Giappone, Italia e Romano gli tennero gli occhi incollati.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_