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Autore: _Frame_    05/09/2015    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Il primo settembre scorso è stato il settantaseiesimo anniversario dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e, proprio in quella data, “Il Miele sul Bicchiere” ha compiuto un anno di pubblicazione!

Grazie di cuore a tutti quelli che mi seguono da allora, a quelli che sono arrivati dopo, a quelli che hanno semplicemente dato una sbirciata e, soprattutto, a te che sei ancora qui. ^_^

Vi meritate tutta la mia immensa gratitudine soprattutto per il fatto che, rendiamocene conto, state seguendo una fan fiction che tutti già sanno come andrà a finire...

Nel frattempo, per ringraziarvi come si deve del vostro sostegno, ho preparato per l’occasione un regalino: uno speciale capitolo bonus che sarà quello pubblicato oggi. In principio doveva solo essere un piccolo extra del capitolo precedente a questo, poi però la cosa mi è sfuggita di mano... ed eccoci qui!

Buona lettura a tutti! Spero che vi piaccia. ^_^

 

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51. I diari dei grandi e Le interviste dei piccoli

 

 

Da qualche parte nel mondo, giorni nostri

 

Wy sgranocchiò un morso dal bordo del biscotto. La pasta si frantumò in una polvere di briciole dolci al sapore di burro e di grani di zucchero, che le rimase incollata al labbro inferiore e tra i denti. Wy scollò il biscotto dalla bocca e masticò la pastella gonfiandosi la guancia. Una goccia di cioccolato al latte piovve dalle briciole sulle labbra e cadde sul tavolino da giardino.

“Mhm?” Wy passò il dito sul labbro inferiore, raccolse gli ultimi pezzettini di biscotto e di cioccolato, e leccò il polpastrello con uno schiocco sonoro. “Pagine di diario?”

Sealand sospirò. Si abbandonò allo schienale della seggiola in ferro laccata di bianco – in tinta con il tavolino – e fece ciondolare le braccia sui fianchi. Il biscotto che teneva tra pollice e indice scivolò di poco verso il basso. Un morso a forma di mezzaluna era scavato nella pasta. “Sì, me l’ha chiesto Inghilterra.”

Un passerotto volò sull’albero di nocciolo che faceva ombra al tavolino, i rami sopra di loro frusciarono, l’uccellino cinguettò, e una foglia cadde volteggiando, posandosi sul prato.

Seborga tese il braccio verso il vassoio di biscotti, scavalcò il suo bicchiere di tè freddo mezzo vuoto, e prese un frollino che pendeva dal mucchietto. “E perché così d’improvviso?” Addentò il biscotto. Altre briciole – più una goccia di cioccolato – impolverarono la vernice bianca del tavolo.

Sealand sospirò di nuovo. Si strinse nelle spalle e levò i palmi al cielo. Il biscotto mangiucchiato sempre avvolto fra le dita. “Be’, a quanto pare i grandi stanno tutti raccogliendo delle testimonianze scritte da loro,” fece roteare il biscotto, “tipo dei ricordi di quando c’è stata la guerra, sai.”

Wy prese un altro piccolo morso dal suo frollino. Poggiò il gomito sul tavolo, di fianco al suo bicchiere di tè – una cannuccia rosa emergeva dal bordo di vetro – e strinse il pugno sulla guancia, continuando a masticare piano il suo boccone.

Sealand posò il suo biscotto sul tavolo. Fece correre le dita tra i capelli, sfregando con le unghie sotto il berretto, e specchiò lo sguardo perplesso sul bordo del vassoio d’argento. “Inghilterra pensava che sarebbe una cosa carina che anch’io spendessi qualche parola a riguardo, visto che sono nato in quel periodo.”

Seborga spalancò le palpebre. Tranciò il biscotto in mezzo ai denti e la parte stretta tra le dita andò in frantumi. “Fuffo un diavio?” Tossì. Per poco non si strozzò con il suo boccone.

Sealand sventolò le mani mostrandogli i palmi. “No, ovvio! Solo qualche righetta, credo.”

Seborga sospirò di sollievo. Cacciò in bocca quello che gli avanzava del suo biscotto sbriciolato e lo annaffiò con una sorsata di tè freddo.

Il passerotto sopra di loro tornò a cinguettare. Frullò le ali e volò sul bordo del tavolino, vicino al gomito di Wy. Sollevò la testolina, fece un saltello sulle piccole zampe, e pigolò. Wy abbassò gli occhi, sbatté le palpebre, e guardò l’avanzo di biscotto che teneva tra le dita. Chiuse i polpastrelli, strofinandovi la pasta frolla all’interno, e raccolse la manciata di fini briciole sul palmo. Aprì la mano e la tese al passerotto. L’uccellino si avvicinò di due saltelli, esaminò le briciole e iniziò a becchettare quelle più grosse, evitando le quattro gocce di cioccolato che erano avanzate.

Sealand prese due sorsate di tè, staccò il bicchiere dalle labbra con un lungo sospiro, e lo sbatté sul tavolino. Un eco d’acciaio si propagò nell’aria, mescolandosi al cinguettare dei passeri e al frusciare del vento tra i rami del nocciolo.

“Ma è più difficile del previsto,” frignò, “e non mi viene in mente niente da scrivere.”

Seborga strofinò la manica della giacca sulla bocca per ripulirsi dalle briciole, e prese un altro biscotto. Lo mandò giù in tre avidi bocconi.

Sealand infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e rimestò le dita. Un soffuso fruscio di carta che si stropiccia coprì il suono dei rami scossi dal vento. “Guardate, è da una settimana che ci provo.” Estrasse due fogli spiegazzati.

Spostò il suo bicchiere di tè freddo, lo fece tintinnare contro quello di Seborga, e stese le pagine vicino al vassoio di biscotti. Poggiò un pugno sulla carta, la lisciò da un orlo all’altro svelando gli scarabocchi racchiusi tra le righe azzurrine. I bordi delle due pagine erano bucherellati, le aveva staccate da un quaderno. Sealand diede un’ultima passata con il pugno anche sul secondo foglio e si sentì lo scricchiolare delle briciole tra la carta e il tavolino.

Allungò le pagine a Wy e Seborga e si accasciò sul tavolo, rintanando il mento e la bocca tra le pieghe dei gomiti. “Uffa,” biascicò.

Wy e Seborga presero un foglio ciascuno. L’uccellino che aveva fatto merenda dal palmo di Wy cinguettò e svolazzò via tra le foglie del rampicante che cresceva sulla rete del piccolo gazebo.

Seborga avvicinò la punta del naso alla pagina, restrinse le sopracciglia concentrandosi su una delle frasi cancellate con dieci tagli di penna nera, e riuscì a scorgere solo la parola ‘mare’ scritta in stampatello minuscolo. Girò la pagina. Bianca.

Wy scosse il capo e lasciò volteggiare la sua pagina sul tavolo. Il foglio coprì un biscotto che era rotolato fuori dal vassoio. “Se non hai niente da dire allora pazienza, no?” disse.

Incrociò le gambe, si dondolò contro lo schienale della seggiola, e adagiò le spalle tra i rami aggrovigliati del rampicante. Un fiorellino rosa le piovve tra i capelli. Wy lo prese tra pollice e indice, lo rigirò davanti agli occhi, sotto un raggio di sole, per far sfumare i petali dal rosa al viola. Era una dipladenia. Wy reclinò il capo e puntò il fiore nell’elastico che le teneva i capelli legati sopra l’orecchia destra. Fece correre le dita tra le ciocche della coda, la pettinò, e intrecciò le mani dietro la nuca, abbandonandosi allo schienale. Annuì a se stessa. “Piuttosto che fare male una cosa è meglio rinunciarci.”

Sealand balzò dalla seggiola, palmi aperti sul tavolo, e allungò il collo verso di lei. “Eeh? Stai scherzando?”

Anche Seborga sollevò un occhio da dietro il foglio. Ora aveva trovato anche la parola ‘piattaforma’ dietro i ghirigori della quinta riga.

Sealand tornò a gettarsi sulla seggiola e annodò le braccia al petto. “E rinunciare così alla possibilità di entrare a far parte di un progetto insieme ai grandi?” Sollevò il mento, scosse la testa. “Nossignore, ora mi metto d’impegno e mi spremo il cervello fino a che non trovo qualcosa di serio e intelligente da dire.”

Sfilò di colpo il foglio dalle mani di Seborga; il ragazzo restò con le dita piegate e gli occhi fissi davanti a sé per qualche secondo prima di accorgersene. Sealand si sporse lungo il tavolo, urtò i bicchieri del tè freddo con il braccio e prese anche la pagina che aveva dato a Wy. Si mise composto, impilò i fogli uno sopra l’altro, pareggiandoli, spolverò via le ultime briciole di biscotto, due fiori di dipladenia, una fogliolina di nocciolo, e fece spazio sul tavolo scansando i bicchieri e il vassoio. Wy agguantò il suo bicchiere. Accavallò le gambe su un manico della seggiola, sdraiando la schiena sull’altro, e sorseggiò la sua bibita ghiacciata dal beccuccio della cannuccia rosa, osservando il cielo tra le foglie del nocciolo che le facevano ombra al viso. Le fini e piccole unghie battevano ritmicamente sul vetro del bicchiere umido di condensa.

Sealand sfilò una penna dalla tasca dei pantaloni. Prese il tappo tra i denti, lo tolse e lo sputò nel prato. Impugnò la penna. Chino sul tavolo, premette la punta macchiata di inchiostro nero sulla prima riga del lato bianco del primo foglio e si accigliò.

“Ce la metterò tutta.” Strinse forte le dita sul corpo della penna, il sorriso gli fece luccicare gli occhi. “Scriverò il diario più bello di tutti e così alla fine i grandi dovranno complimentarsi con me e dirmi...” Impennò al cielo il braccio che impugnava la penna, ribaltandone la punta verso l’alto. Un raggio di sole si accumulò sulla punta a sfera, la fece brillare come una gocciolina di petrolio, e la scintilla di luce scese lungo tutto il profilo di plastica. Sealand gonfiò il petto, simulò voce drammatica. “‘Oh, Sealand, quanto ci eravamo sbagliati sul tuo conto! È chiaro che meriti di essere trattato come una nazione vera esattamente come tutti noi.’”

Seborga unì le mani davanti alla bocca per trattenere una risatina, Wy fece roteare gli occhi e succhiò un altro piccolo sorso di tè dalla cannuccia, con aria annoiata.

Sealand calò il braccio e strinse il pugno davanti al petto. La penna brillava come uno scettro tra le sue dita. “Sì, me lo sento,” esclamò deciso.

Tornò chino sui fogli. Penna contro la prima riga, occhi attenti e luminosi sotto la piega concentrata delle sopracciglia. Sealand sbatté le palpebre, immobile. Staccò la penna, la batté due volte nello stesso punto lasciando un piccolo segno nero sulla carta.

Al canto degli uccellini si era aggiunto quello di una cicala.

Il vento tiepido soffiò sotto il gazebo, scosse i rami del nocciolo, fece fremere la pianta di dipladenia rampicante, e mosse i capelli di Wy raccolti sopra la spalla.

Sealand batté di nuovo la penna nello stesso punto. Calcò con più forza, si sentì il tintinnio metallico del tavolino sotto la carta. Le guance s’infiammarono, le labbra rimasero piegate in quello storto sorrisetto da ebete, gli occhi assunsero un colorito vuoto e vitreo. Fiotti di fumo fischiarono fuori dalle orecchie.

Sealand gettò il capo all’indietro e si strinse le tempie tra i palmi.

“Bwaah!”

Seborga rimbalzò per la sorpresa come si fosse strozzato.

Sealand scosse il capo, attaccò a frignare. “Non ce la faccio, è troppo complicato!”

Wy raccolse da terra una foglia di nocciolo e si fece aria al viso come se avesse avuto un ventaglio di pizzo tra le mani.

Sealand tornò ad accasciarsi sopra i fogli, le braccia stese davanti a lui. Schiuse le dita e la penna rotolò sul tavolo fino a sbattere sul vassoio di biscotti.

Sospirò. Soffiò lo sbuffo d’aria verso l’alto, guardandosi l’orlo del berretto che gli era calato davanti alla fronte. “Mhm, potrei chiedere aiuto a Lettonia.” Riprese la penna e si grattò tra i capelli con l’estremità superiore. “Magari lui ha già fatto un diario e può dirmi cosa si deve scrivere.”

Seborga poggiò un gomito sul tavolo e annuì. “Già, oppure potresti leggere direttamente tutti quelli degli altri e vedere così quello che hanno scritto. Per prendere spunto, no?” Si prese il mento fra le mani, lo massaggiò fino alla punta e guardò in alto, simulando aria pensosa. “Vediamo, forse potrei chiedere a Veneziano o a Romano se possono darmi delle copie di quelli che hanno scritto loro. Non so se si possono condividere così, voglio dire, immagino siano testimonianze private e che le tengano chiuse in una specie di archivio,” alzò un palmo al cielo, sorridendo, “ma posso provarci se vuoi.”

Sealand abbassò le palpebre e scosse la testa. “No, grazie, Sebo.” Voltò il capo premendo la guancia sul tavolino – il metallo freddo gli intorpidì il viso – e storse le sopracciglia in un’espressione pietosa. “Sarebbe umiliante far sapere ai grandi che sto cercando di barare. Con Lettonia si poteva anche fare, perché di lui mi fido, ma gli altri...” Incrociò le braccia, ci appoggiò sopra il mento. Altro sbuffo verso l’alto. Un velo di tristezza e delusione gli appannò gli occhi. “Uff, e pensare che ho tempo fino a domani, altrimenti Inghilterra ha detto che non perderà più tempo ad aspettarmi, e tanti saluti.” Sventolò una mano. “Addio autostima e addio riconoscimento da parte degli adulti.”

Seborga gli rivolse un dolce sorriso di compassione. Gli posò una mano sulla spalla, battendola due volte. “Su, non ti abbattere.” Chinò il capo, in cerca del suo sguardo, e il sorriso divenne più naturale. “Possiamo darti una mano noi a scrivere il diario, se vuoi.”

Wy lasciò andare la fogliolina, levò i palmi al cielo stringendosi le spalle. “Ma se non eravamo nemmeno nati negli anni Quaranta.”

Seborga si indicò la punta del naso. “Io fisicamente sì, in realtà. Comunque...” Prese Sealand per le spalle, gli fece sollevare il petto dal tavolo, e gliele strinse. “Potremmo supportarti moralmente e aiutarti a far uscire i ricordi.”

“È questo il problema,” piagnucolò Sealand. Infilò le dita sotto il berretto e si strinse i capelli. Levò il viso al cielo come un lupo che ulula. Dalla bocca inarcata verso il basso uscì un lamento trascinato. “Io ero troppo piccolo e non mi ricordo assolutamente niente di quel periodo.”

Il viso di Wy si ravvivò come una lampadina che si accende all’improvviso. Wy si batté un pugno sulla mano. “Uh, ho un’idea, allora,” esclamò.

Sealand e Seborga le lanciarono due occhiate interrogative.

Wy tolse i piedi dal manico della seggiola, gli orli della camicetta di velo ricaddero scivolando sui calzoncini corti fino alle ginocchia nude, e si sporse verso gli altri due. Allungò un braccio a Sealand e aprì e chiuse la mano, indicandogli le pagine stropicciate e scarabocchiate.

“Passa il foglio e la penna.”

Sealand e Seborga si guardarono per un istante, poi Sealand obbedì. Le porse la pagina con il lato bianco e le raccolse la penna scapucciata che era rotolata contro il vassoio di biscotti.

Wy agguantò tutto. Si chinò sul foglio, penna già in pugno, si lanciò la coda di cavallo dietro la spalla, e stese un piccolo sorriso da furba.

“A volte bisogna essere creativi nella vita.” La penna cominciò a correre sulla prima riga. La punta a sfera che sfregava sulla carta sollevava un suono ruvido e trascinato. Wy si scostò una ciocca castana da davanti un occhio, e continuò a scrivere. “Anzi, essere creativi è la prima regola ed è anche il motto della mia nazione.”

Sealand si sporse verso Seborga. Avvicinò le labbra al suo orecchio e si nascose la bocca con la mano. Seborga tese il collo verso di lui.

“Pensavo che il suo motto fosse: ‘Why Wy?’” sussurrò Sealand.

Seborga si chiuse nelle spalle, alzando le sopracciglia. E io che ne so?

Wy fece un piccolo ghigno senza alzare gli occhi dalla pagina. “Ti ho sentito.” La mano fece correre la penna fino al bordo del foglio, era arrivata alla terza riga. Staccò la punta, la fece calare di colpo e siglò il punto. “Et voilà.”

Sealand e Seborga trascinarono le seggiole in avanti e si fecero più vicini. Gli sguardi animati da una scintilla di curiosità.

Sealand allungò una mano. “Vediamo.”

Wy sollevò il mento, sorrise orgogliosa, e gli passò il foglio.

Sealand tenne ferma la pagina davanti al viso facendo vedere anche a Seborga, le guance dei due erano così vicine da sfiorarsi.

Sul foglio, tre righe – più la firma – marchiate dalla fine ed elegante calligrafia ad arabeschi di Wy.

 

‘Caro diario, non mi ricordo assolutamente niente della guerra ma immagino che debba essere stato un macello incredibile.

Anzi, sono felice di non ricordarmi il casino che quei vecchi scemi hanno combinato.

Pace.’

Principality of Sealand

 

Sbiancarono tutti e due. Occhi sgranati, mascelle spalancate.

Wy!

Wy ricadde a sedere contro lo schienale della seggiola e strizzò le palpebre. “Che c’è?” squittì. Incrociò le braccia al petto, gonfiò le guance in un broncio che le scurì il visetto, e gettò lo sguardo altrove. “È una soluzione artistica!”

A Sealand tremò il labbro inferiore. Gli occhi ancora spalancati si riempirono di lacrime che li fecero vibrare come grandi pozze d’acqua sotto la luce del sole. Sealand gettò il viso tra le braccia e scoppiò a piangere.

“Waah, non mi guarderanno nemmeno più negli occhi!”

Seborga mise in disparte il foglio, lo voltò sul lato macchiato dagli scarabocchi di Sealand. Si chinò verso di lui, la mano restò sollevata sopra la spalla del poveretto in lacrime, indecisa se toccarla o meno.

“S-suvvia, non piangere.”

Sealand singhiozzò. Gli spasmi di pianto fecero tremolare la schiena e il petto accasciato sul tavolino. Anche i bicchieri di tè freddo vibrarono, trillando uno sull’altro.

Seborga gli rivolse un sorriso rassicurante, aspettò la fine di uno dei singhiozzi, e gli batté la spalla. “Sono sicuro che troveremo una soluzione.”

Sealand voltò la guancia. La punta del naso e le palpebre erano già rosse, gli occhi erano due lucide e gonfie sfere azzurre. Sealand tirò su col naso. “In una giornata?”

Wy sollevò un indice. “Un’altra soluzione c’è.”

Sealand e Seborga si voltarono verso di lei.

Wy fece un piccolo sorriso e arricciò all’insù la punta del nasino. Il broncio era svanito dal suo visetto.

“Potresti scrivere una pagina di diario basata proprio sul fatto che non ti ricordi nulla.”

Gli occhi di Sealand, gonfi di lacrime, vacillarono. “Ma così non verrei mai preso sul serio.” Raddrizzò la schiena, la mano di Seborga scivolò giù dalla spalla. “E poi solo il fatto di dover scrivere qualcosa da solo, senza indizi, è incredibilmente difficile. Se Inghilterra mi avesse spiegato con più precisione quello di cui voleva che io parlassi sarebbe stato mille volte più facile.”

Wy posò la punta dell’indice di fianco all’angolo della bocca. “Vuoi dire se ti avesse fatto tipo un’intervista sul momento e avesse scritto lui il diario basandosi sulle tue risposte?”

“Sì, una specie,” annuì Sealand. Si strofinò via le ultime lacrime dagli occhi e si schiarì la voce. “È più facile rispondere a quello che ti chiedono gli altri piuttosto che fare una specie di noioso monologo tutto di testa tua, no?”

Wy annuì. “Sì, questo è vero.” Guardò verso i rami del nocciolo, sollevò le sopracciglia. Il sorriso cadde piatto. “Il diario è così antiquato e palloso. È proprio da vecchi.”

“Oh, che idea!” esclamò Seborga.

Quando Sealand e Wy si voltarono a guardarlo, lui aveva il braccio alzato.

Seborga abbassò la mano vicino alla guancia, la chiuse a pugno e impennò l’indice. Stese un sorriso raggiante.

“E se registrassimo davvero un’intervista?”

Sealand e Wy spalancarono le palpebre. “Intervista?” chiesero all’unisono.

Seborga annuì due volte. “Sì, come quelle che ci sono in televisione, no?” Batté il pugno sul palmo. La luce degli occhi fremeva di eccitazione. “Noi facciamo i giornalisti e Sealand fa l’intervistato.”

“Ooh.” Anche gli occhi di Sealand luccicarono. Sealand giunse le mani davanti al petto, le guance divennero rosse di meraviglia, lo sguardo sognante vagò tra le nuvole. “E dobbiamo indossare giacca e cravatta come i grandi? E fumare una pipa stando seduti su quelle grandi poltrone vicino al caminetto? E poi mentre parliamo saltano fuori i cartellini nel basso dello schermo che dicono il nostro nome? E...”

“Oh,” Wy alzò il braccio, “io posso fare la truccatrice e occuparmi della direzione artistica! E penserò anche allo scenario e ai costumi.” Anche lei era più rossa del solito in viso.

Seborga strizzò l’occhio e si premette il pollice sul petto. “Io mi occupo della telecamera, delle luci e di fare le domande.”

Wy si alzò dalla sedia. Gonfiò le guance come una smorfiosetta, il sorriso tornò broncio. “Le domande le voglio fare io.”

Seborga le lanciò un’occhiata delusa. “Ma tu fai già tutto il resto.”

Wy cinse le mani sui fianchi. Sollevò il mento, la punta del nasino, e gli mostrò una guancia. “Sì, ma io sono una signorina.” Pettinò la coda di cavallo dietro la spalla, stando attenta a non sciupare il fiore. “Le signorine intervistatrici sono più rassicuranti, piacciono di più al pubblico.”

Seborga sospirò. Accasciò le spalle, sconsolato. “Se insisti.” Ma il rossore di eccitazione e di impazienza era sempre lì a spolverargli le guance.

Wy riacquistò il sorriso. Staccò una mano dal fianco e strinse il pugno davanti al petto. “Allora è deciso.” Sollevò l’indice al cielo. “Squadra per l’intervista a Sealand, mettiamocela tutta!”

Anche Sealand scattò dalla seggiola come una molla. Alzò il braccio insieme ai compagni e fece un saltello sul posto.

“Sì!”

Sealand, Seborga e Wy batterono le mani sopra il tavolino.

“Evvai!”

Lo spettacolo stava per cominciare.

 

.

 

La giacca blu mare, aperta sopra la camicia bianca, iniziava già a tirare dietro le spalle, sui fianchi, e sugli avambracci.

Wy diede due colpetti sulle costole di Sealand e lo costrinse a tenere le braccia spalancate come lei gli aveva ordinato. Sealand mugugnò una smorfia contrariata, gonfiò leggermente il petto e forzò il mento all’indietro per non toccarle la testa. Le mani di Wy giunsero all’orlo del colletto, sorvolarono il primo bottoncino di perla, e chiusero quello successivo più in basso.

Sealand parlò come se stesse trattenendo il respiro. Il corpo rigido come quello di un manichino. “Il vestito mi sta stretto,” tese le braccia all’indietro, sentì strapparsi un filo del tessuto sulle spalle, “non riesco a muovere le braccia, Wy.”

“Ssh!” Wy arrivò al penultimo bottone. Lo infilò nell’asola e lasciò aperto l’ultimo, in modo che i bordi a triangolo della giacca toccassero le tasche dei pantaloni dello stesso colore. Sollevò le spalle e spazzolò il petto a Sealand. “Io sono la direttrice dei costumi, decido io se il vestito è troppo stretto.”

Sealand fece roteare gli occhi. Mosse piccoli mulinelli con le braccia come se stesse sbattendo le ali. Iniziavano a essere pesanti da tenere sollevate.

Wy gli girò gli orli del colletto dietro la nuca, sollevò il bavero della camicia bianca e lo piegò sopra quello in velluto blu della giacca. Gli posò le mani sui gomiti tesi e gli fece ricadere le braccia sui fianchi.

“Poi non devi mica fare le acrobazie,” disse Wy. Lo fece voltare di fianco. Percorse con l’indice il profilo della giacca lungo la schiena. “Tu stattene buono e fermo e vedrai che neanche ti accorgi di averla addosso.”

Wy fece un passo all’indietro. Sfilò un pettine di plastica rosa dalla tasca dei pantaloncini e infilò i sottili denti rigidi tra le ciocche di Sealand.

“Ecco, un’ultima pettinata ai capelli.”

Gli fece la riga in disparte, i denti del pettine corsero da sinistra a destra, portando i capelli sopra l’orecchio. Wy staccò il pettine, lo intrecciò alle ciocche ribelli sparpagliate sulla fronte e fece correre i denti di plastica di nuovo fino al lobo dell’orecchio.

Sealand saltò come se lo avesse pizzicato. “Ahio!”

Wy imbronciò le labbra e gli diede un soffice pugno in cima alla testa.

I due riflettori laterali scattarono contemporaneamente. I fasci di luce rotonda sbatterono contro Sealand e Wy, facendo chiudere le palpebre a entrambi, e si incrociarono in un unico disco di luce che si apriva sulla scrivania centrale alla stanzetta. Una poltroncina di stoffa blu era voltata di profilo dietro il banco.

“Come vanno le luci?” esclamò Seborga.

Wy rinfilò il pettine nella tasca posteriore dei pantaloncini. Aprì il fianco della mano sulla fronte, si fece ombra agli occhi, e si voltò verso la voce che proveniva da dietro il piedistallo della telecamera. Tenne le palpebre socchiuse, la fronte bassa, la mano sulle sopracciglia, e impennò il pollice verso l’alto.

“Perfette, perfette.”

L’ombra di Seborga si mosse tra i cavi di gomma che si arrampicavano come liane sulle pareti per congiungersi ai corpi a cono dei riflettori. Seborga incespicò su qualcosa ma non cadde.

Wy aprì di più gli occhi e indicò il piedistallo della telecamera. “Monta bene la telecamera, è quella la parte più importante.”

“D’accordo.” Seborga scivolò fuori dall’ombra, superò il piedistallo che gli arrivava alla spalla, e si immerse nella luce bianca delle lampade artificiali. Anche lui si fece ombra alla fronte con l’avambraccio. “Uhf, forse la luce è un po’ forte.”

Sealand si stropicciò gli occhi con i pugni e scrollò il capo. Alcune delle ciocche che Wy gli aveva sistemato dietro l’orecchio tornarono sulla fronte.

Seborga alzò una mano dal fianco portando la piccola telecamera rossa sotto il viso. La fece rimbalzare sul palmo e la acciuffò al volo. “Spero di non fare disastri con la telecamera e di non cancellare quello che c’è già in memoria.”

Wy sollevò un sopracciglio. “C’è già registrato qualcosa?”

Seborga annuì. “Sì, l’ho chiesta in prestito a Veneziano.” Tese il braccio in avanti, verso Wy e Sealand. Una scintilla di luce bianca corse lungo il profilo rosso della telecamera e si spense nell’occhiello scuro e profondo dell’obiettivo. “Me l’ha data volentieri e mi ha solo detto di fare attenzione con gli altri filmati.”

Gli occhi di Wy si accesero come diamanti incastonati nelle palpebre. Wy giunse le mani davanti al petto, come in preghiera. “Uuh, chissà cosa c’è registrato?” Un sorriso maligno le storse la bocca. Wy sfregò i palmi l’uno sull’altro come per riscaldarsi le mani. “Magari cosacce sporcaccione da adulti pervertiti. Dai, Sebo, apri un video.”

Sealand saltò davanti a Seborga impennando il braccio di lato – sopra la testa era impossibile. “Ah, voglio vedere anch’io!”

Seborga arretrò di un passo. Chiuse la telecamera fra le mani e la allontanò dai due. Rivolse a entrambi un mezzo sguardo di rimprovero e fissò la telecamera custodita tra i suoi palmi.

“Io... non so se dovremmo invadere la sua privacy.”

Wy fece un saltello davanti a Seborga. Si mise sulle punte dei piedi portando l’ombra del nasino sopra la telecamera. “Una sbirciata non fa male a nessuno, dai.”

Anche Sealand gli venne vicino. I suoi occhi brillavano come quelli di Wy.

Seborga rigirò la telecamera tra le mani. Si mangiucchiò un angolo del labbro inferiore, iniziando a spostare il peso da un piede all’altro.

La sua privacy...

I polpastrelli correvano lungo il profilo rialzato dei pulsantini esterni, le dita prudevano come se Seborga stesse carezzando una brace rovente.

Le cose sporcaccione che fanno gli adulti...

L’unghia del pollice arrivò allo spazio tra il corpo della telecamera e lo schermo esterno ripiegabile. Il pollice irrigidì.

Scopriremmo cosa fanno davvero gli adulti pervertiti...

Seborga deglutì e prese un forte respiro.

“E,” tentennò, “e va bene.”

Aprì di scatto lo schermo prima di cambiare idea. Si udì l’eco metallico della molla che si assestava, e lo schermo si accese in contemporanea alle due lucette blu esterne sopra il rigonfiamento della batteria.

L’obiettivo era inclinato verso il basso.

L’immagine dei piedi dei tre ragazzi riempì lo schermo. L’icona a forma triangolare vicino alla data e all’ora – 01/09/2015, 16:03 – era piazzata sopra le sneakers da ginnastica di Seborga. L’icona del MENU in basso a destra sopra i sandaletti di Wy, e l’immagine della batteria – ancora verde, piena al settanta percento – sovrastata dal quadratino che garantiva la qualità HD macchiava le scarpe nere tirate a lucido di Sealand.

Seborga fece scivolare il pollice lungo il fianco interno della telecamera, giunse al pulsantino dell’archivio e lo spinse con lunghia.

Il disegno di una clessidra stilizzata si girò su se stesso per tre volte. La clessidra scomparve lasciando spazio a sei riquadri di filmati già registrati. Erano grigi. I rettangoli racchiudevano solo la data di registrazione.

Sealand e Seborga trattennero il fiato. Sentirono le fiamme ardere lentamente sotto i loro piedi, il fuoco risalire le gambe e ustionargli le guance.

Le cose sporcaccione degli adulti pervertiti. Le cosacce degli adulti pervertiti. Le cosacce sporcaccione!

Wy portò l’indice sopra il primo rettangolino. Quindici agosto duemilanove.

“Ecco, seleziona il primo.” Premette due volte sull’aria. “Qui.”

Sealand tremò di eccitazione. “Mi sento un furfante,” disse con voce stridula, prossima alla risata.

Seborga stava ancora trattenendo il respiro. Sollevò la mano libera dal fianco, tese l’indice tremante, e avvicinò lentamente il polpastrello. Era come portarlo vicino al calore di un falò estivo, di quelli che faceva con Sealand e Wy sulla spiaggia di notte, quando andavano a trovare la ragazza in Australia.

“O-okay,” disse Seborga.

Risucchiò una boccata d’aria, smise di respirare. “Vado.” Premette l’indice sul riquadro con tanta forza che attorno al polpastrello si allargarono i cerchi concentrici sollevati dai cristalli liquidi dello schermo.

 

 

La schermata nera si dissolse, due macchie sfocate color carne si aprirono all’interno del nuovo sfondo giallo appannato. L’obiettivo della telecamera stridette, l’immagine si mise a fuoco e divenne quella di due piedi nudi immersi nella sabbia.

La data e l’ora nella parte superiore dello schermo erano cambiate.

15/08/2009, 14:24.

Lampeggiarono due volte e si assestarono insieme allo schermo, tra l’icona della batteria al settanta percento e quella dell’insegna HD.

La voce di Italia squillò dentro i microfoni della telecamera, fece sobbalzare l’inquadratura. “Ah, ce l’ho fatta.”

Italia sollevò l’obiettivo. Il suono del vento che soffiava lento produceva un rumore simile a una spessa lastra di alluminio che viene scossa. L’immagine tornò a fuoco, ritraeva il cielo azzurro macchiato da qualche nuvola sopra la distesa di sabbia color ocra. Italia fece un passetto in avanti accentuando il suono dell’attrito del vento. La telecamera si abbassò di qualche centimetro riprendendo i due teli da spiaggia spiegati in mezzo alla sabbia. Le dita di Italia corsero di fianco alla telecamera, l’indice incontrò la levetta dello zoom e la spinse verso sinistra.

L’inquadratura si restrinse stridendo su Germania, seduto sul telo da mare azzurro con lo stampo dello stemma della Nazionale Italiana di Calcio.

Germaaania.”

Germania ruotò gli occhi verso il richiamo di Italia, distogliendoli dallo scrosciare delle onde davanti a lui. Fermò la mano a qualche centimetro dalla bocca prima di dare un altro morso al panino al tonno, e guardò in alto, incrociando lo sguardo di Italia.

“Guarda la telecamera, Germania.” Italia si avvicinò di altri due passi. I piedi nudi sollevavano un suono denso e ovattato mentre sguazzavano dentro la sabbia. Italia restrinse l’inquadratura sul viso perplesso di Germania. Aveva ancora le labbra socchiuse a uno sfioro dall’angolo del panino, e un sopracciglio sollevato. “Fai cheese.”

Germania abbassò il braccio che reggeva il panino, fissò d’istinto l’occhiello della telecamera e alzò l’altra mano davanti all’obiettivo. “Non puntarmela direttamente in faccia.” Prima di essere avvolta dal suo palmo, la telecamera riprese le sue guance arrossite.

Italia arretrò sollevando l’obiettivo, l’immagine di Germania tornò intera.

“Perché no?” piagnucolò Italia. “Proprio adesso che ho capito come si usa lo zoom.”

Germania scosse il capo e posò il panino nella cesta da pic-nic sopra l’altro telo: un panno di spugna rosso fuoco con un toro nero rampante al centro. Mise il panino tra le bottigliette d’acqua, sopra la scatola a coperchio verde con il riso freddo.

Italia fece stridere di nuovo lo zoom, l’obiettivo riprese il viso ancora voltato di Germania. “Avanti,” tirò la levetta verso destra, “indietro.” Di nuovo verso sinistra. Questa volta l’inquadratura si concentrò sul viso frontale di Germania. “Avanti,” le sopracciglia inarcate in un’espressione di rimprovero, “indietro.” Italia ritirò l’obiettivo senza riuscire a trattenere una risatina.

Germania fece roteare gli occhi. Aprì un bottone della camicia, sopra il colletto, e raccolse le gambe al petto. I bermuda beige lo coprivano fino alle ginocchia. Germania prese una bottiglietta d’acqua già aperta e mandò giù un piccolo sorso, lo sguardo rivolto davanti a sé. Il vento soffiò contro di lui e contro la telecamera. Gli scosse i capelli sulla fronte e dietro le orecchie, facendo sventolare il bavero della camicia dietro il collo.

L’obiettivo della telecamera seguì lo sguardo di Germania, e si spostò sul mare.

Il sole era alto, non entrava nello schermo. Il suo riflesso tondo e bianco si specchiava nella distesa azzurra che andava fino all’orizzonte, dove tre gabbiani giravano intorno al paletto di confine balneare.

Italia emise un sospiro di meraviglia.

“Il maaare.”

Il vento sbuffò di nuovo. Si sentì ancora il suono di spessa carta di alluminio sventolata per aria.

Italia concentrò l’obiettivo sui tre gabbiani che volavano in cerchio attorno al palo. Vi rimase per tre secondi, fino a che uno dei gabbiani stridette e volò via, richiamando gli altri.

Italia tolse l’obiettivo dal mare. Voltò la telecamera e tornò a riprendere Germania.

“Perché hai tenuto la maglia?” chiese con tono lamentoso.

Germania strinse il tappo alla bottiglietta d’acqua, alzò gli occhi e guardò Italia, non la telecamera.

Italia concentrò l’obiettivo della ripresa lungo il suo busto, riprendendo il profilo della camicia arancio che gli fasciava i pettorali. “Sei così figo senza la maglia.”

Quando lo zoom tornò indietro, Germania aveva le guance rosse, la bocca distorta in una smorfia imbarazzata, e lo sguardo di rimprovero rivolto a Italia.

“Non mi tolgo la maglia davanti a te,” gli occhi volarono sull’occhiello della telecamera, “e soprattutto non mi faccio riprendere senza.”

“Ma siamo al mare!” La telecamera sobbalzò come se Italia avesse fatto un piccolo saltello. “Devi metterti in costume come me e gli altri sennò non vale!”

“Ita!”

La voce di Spagna lo fece voltare di scatto.

Italia scosse la telecamera sul fianco. Lo schermo divenne un vortice di colori, il suono delle dita di Italia gracchiò proprio contro il microfono laterale, coprendo il soffio del vento e lo scroscio delle onde.

Italia sollevò l’obiettivo. Riprese una figura sfocata che agitava le braccia sopra la testa.

Lo schermo si mise subito a fuoco. Spagna sorrideva alla telecamera, sventolando le braccia e saltellando tra gli schizzi di sabbia.

“Riprendi qua, Ita!”

“Fratellone Spagna!” Italia gli corse vicino. Sbagliò direzione del pulsante e la telecamera si allontanò, riprendendo tutta la figura di Spagna davanti al bagnasciuga. Lui indossava solo il costume: semplici calzoncini gialli lunghi fino alle ginocchia tappezzati da pomodori maturi. Italia cambiò direzione della levetta, trovò lo zoom, e gli riprese il viso sorridente. “Fai un sorriso alla telecamera, fratellone.”

Spagna posò un indice per guancia. Stese il sorriso smagliante tirando gli angoli delle labbra verso l’alto. “Cheese!”

Lui e Italia ridacchiarono come bambini.

“Romano!”

Italia fece un’altra piroetta.

Romano era in piedi dietro di loro. Le braccia rigide, annodate sul petto nudo, la bocca piatta leggermente inarcata verso il basso, gli occhi nascosti da un paio di occhiali da sole rivolti al mare.

Italia si avvicinò di un passo.

Il vento soffiò, agitò il ciuffo arricciato sulla spalla nuda di Romano.

“Romano, fai anche tu un sorriso e di’ qualcosa alla telecamera.”

Romano storse un sopracciglio, volse il viso verso Italia ma non si capiva se stesse guardando lui o la telecamera. Sollevò un piede dalla sabbia e lo strofinò dietro il ginocchio, sfregando l’orlo del costume – di un semplice tessuto nero bordato di rosso.

“Va’ al diavolo, Veneziano.” Tornò a posare il piede a terra. Fece un passo verso Italia, spalancò il palmo e avvolse l’obiettivo della telecamera. “E toglimela di dosso.”

Italia si scansò dalla presa. “Dai, voglio fare un bel filmato,” riuscì a riprendergli il viso imbronciato, “non rovinare tutto e sorridi.”

Romano snodò un braccio dal petto e mostrò il dito medio alla telecamera.

Italia fece un piccolo sbuffo. “Uffa, perché tu e Germania rovinate il filmato? Non è giusto.”

“Io non ho rovinato il filmato,” esclamò la voce di Germania dietro di loro.

Spagna corse di nuovo dentro l’inquadratura.

“Punizione a Romano!”

Travolse Romano, gli avvolse un braccio dietro le gambe e uno dietro la schiena. Con uno slancio lo prese in braccio e se lo caricò sulla spalla.

“Wah!” Romano spalancò la bocca dalla sorpresa. “Mettimi giù!”

Spagna camminò verso il mare, immerse i piedi dove la sabbia era già più scura e umida.

Romano gli scalciò sul petto, batté i pugni sulla sua scapola inasprendo il tono di voce.

“Mettimi giù razza di fottuto bastardo!”

Spagna tuffò i piedi in acqua.

Romano sentì lo scroscio del mare sotto di loro e realizzò.

“Non osare!” Riprese a scalciare e a tirargli pugni sulla spalla. “Non osare, bastardo, ho gli occhiali addosso – gah!”

Spagna si tuffò tra le onde trascinando tutti e due in acqua. Si aprì un sonoro schizzo schiumoso che li inghiottì in mare, facendoli sparire tra i cavalloni.

Spagna emerse per primo. I capelli scuri, quasi neri, incollati alle orecchie e agli occhi. Sputò uno spruzzo d’acqua dalle labbra, come una fontanella, ed elevò le braccia al cielo, sorridendo trionfante alla telecamera. Le ciocche ancora sparpagliate sul viso lo rendevano cieco.

Italia rise. “Bravo, fratellone!”

Una figura più scura emerse dietro la schiena di Spagna.

Romano scosse il capo schizzando via l’acqua dai capelli – aveva ancora gli occhiali da sole addosso, a coprire l’espressione furente – e spalancò le braccia. L’acqua si aprì in due ventagli tra i fianchi e le braccia, ad ali di farfalla trasparenti. Romano si lanciò contro le spalle di Spagna, allacciò le braccia attorno al suo busto, e strinse la presa trascinandolo nuovamente in mare. Infransero la superficie dell’acqua, un’altra pioggia di schizzi nascose la loro caduta.

“Oh, un granchio.”

Italia abbassò di colpo la telecamera ai suoi piedi.

Il granchio si paralizzò in mezzo alla sabbia. Le chele spalancate rivolte verso l’altro e le zampette immerse nella sabbia.

“Ciao, granchio.” Italia restrinse l’inquadratura sugli occhietti neri del crostaceo. “Sai che sei proprio carino, bel granchietto?” Il granchio zampettò lateralmente lasciando una scia di minuscoli fori sulla sabbia dove era passato. Italia lo inseguì camminando. “Posso darti una carezza sulla schiena? Sì che posso, vero?”

Il braccio nudo di Italia entrò nell’inquadratura. Italia avvicinò la mano al granchio che si era fermato, stese l’indice e gli toccò il carapace con la punta del dito. Lo sfregò come stesse carezzando la fronte di un gattino.

“Aah, come sei dolc – ah, mi ha preso!”

La chela si era chiusa con uno schiocco attorno all’indice.

Italia saltò all’indietro, fece perdere l’inquadratura alla telecamera, e attaccò a frignare.

Corse verso Germania. La telecamera dondolante sul fianco riprendeva a salti la spiaggia che scorreva sotto i suoi piedi.

Germaniaaa!”

Italia riuscì ad alzare la telecamera di qualche centimetro.

Germania sollevò lo sguardo verso il suo viso in lacrime.

“Cos’hai combinato?”

“Mi ha pizzicato!” Italia sventolò il granchio incollato all’indice davanti al volto di Germania. “Toglimelo, toglimelo, toglimelo! Fa maleee!”

Germania sollevò le mani chiudendole a coppa. “Stai fermo.” Strinse delicatamente le dita attorno alla chela del granchio.

“Ahi!”

Germania gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “Non ti muovere, Italia. Aspetta.” Aprì lentamente la chela, il granchio si scosse, tornò rigido, e lasciò andare il dito di Italia. “Ecco.” Germania raccolse il granchio nel palmo e lo posò tra la sabbia. “Fatto tutto.”

Italia tirò un sospiro di sollievo.

“Che succede, Ita?” La voce di Spagna era lontana, nascosta dagli scrosci delle onde.

Italia voltò la telecamera verso il mare.

Spagna era in piedi, con le creste delle onde che arrivavano al busto. Gli occhi preoccupati rivolti alla spiaggia, i capelli gocciolanti, e le mani aperte a coppa attorno alle labbra.

Italia sventolò il dito ferito. “Mi ha pizzicato un granchio.”

“Oh, cavoli. Stai be –”

Romano entrò nell’inquadratura, fece un salto in acqua, a schiena gobba, e colpì Spagna sul fianco con una spallata. Spagna spalancò le braccia, le avvolse alle spalle di Romano e lo trascinò con lui. Tutti e tue crollarono di nuovo tra gli schizzi delle onde.

La telecamera si abbassò, riprese solo la punta dell’indice di Italia. Un segno rosso a forma di coroncina stringeva sulla punta della prima falange.

“Uh, fa ancora male, però.”

“Quante volte ti ho detto di non raccogliere gli animali che trovi per strada?”

Italia sollevò la telecamera verso Germania. Lo sguardo di rimprovero si era ammorbidito.

“Ma il granchio era carino.”

Germania scosse il capo e fece roteare gli occhi.

Italia si avvicinò tendendogli l’indice.

“Mi dai un bacino al dito?”

Germania appiattì le labbra. Inarcò un sopracciglio, guardandolo con un’espressione a metà tra l’imbarazzato e l’arrabbiato.

Italia fece un saltello. “Uno sooolo.”

Germania sospirò.

Gli strinse piano il polso, avvicinò la mano di Italia alle sue labbra. Schioccò un rapido bacino sulla punta dell’indice e lo lasciò andare. Guardò subito il mare, nascondendo gli occhi dalla telecamera.

“Forza, ora però smettila di piangere.”

“Yei ~!”

 

 

I colori delle luci che si alternavano sullo schermo, seguendo le scene del filmato, si riflettevano sui visi dei tre ragazzi, chini sulla telecamera tanto che le fronti si toccavano.

Avevano tutti e tre gli occhi spalancati, le labbra socchiuse – quelle di Seborga contorte verso il basso – e l’ombra che si alternava ai colori infossata nel nero le loro palpebre, creando mascherine scure sulla pelle.

Wy fu la prima a parlare. “Spegni.” Sollevò gli occhi, tirò uno sguardo fulminante a Seborga. “Immediatamente.”

Seborga sollevò le sopracciglia. “Sissignora.”

Il pollice scivolò di nuovo nella rientranza esterna della telecamera, vacillò, incontrò il pulsante del menù principale e lo premette con meno forza di prima.

La schermata tornò nera, una linea bianca tagliò il buio e riaprì il riquadro del menu principale con le restanti registrazioni.

Sealand, Seborga e Wy sollevarono le spalle sfregando i capelli tra di loro, e si rimisero a schiena dritta. La pelle dei volti illuminata solo dal colore dei riflettori.

Seborga lasciò uscire un sospiro. Strinse il pugno e indicò con il pollice la scrivania sotto l’ovale di luce. “Forse è il segnale che dovremmo darci da fare senza immischiarci degli affari degli altri.”

Sealand sollevò un gomito e si grattò il fianco. “Sì, anche perché il tempo scorre e la giacca mi dà prurito.”

Wy batté le mani due volte. “All’opera, dunque.” Le era tornato un salutare colorito sulle guance, rosa come il fiore tra i suoi capelli.

Sealand annuì e saltellò dietro la scrivania. Si lanciò sulla poltroncina, facendola cigolare, si diede uno slancio con le gambe e compì un giro completo su se stesso. Frenò la giravolta agguantando il bordo della scrivania e si trascinò più sotto, premendo il petto all’orlo.

Sealand batté due volte le mani sul banco. “Io sto seduto qui, giusto?”

La luce dei riflettori che lo abbagliava dall’alto rendeva i capelli lucidi, color platino, e la giacca color mare sfumò sul blu ciano. Dietro la schiena, appeso alla parete, un cartellone rettangolare che ritraeva la sua piattaforma vista dall’alto in mezzo a un mare di onde. Era disegnata con i pastelli colorati come la scritta ad arco che riempiva la parte superiore del manifesto: ‘WW2 Memories by Principality of Sealand’ a caratteri multicolori. ‘E Mare Libertas,’ scritto nella riga inferiore, solo con il pastello blu. ‘WW2’ era calcato in grassetto, lo avevano ripassato con il pastello rosso più volte.

Wy si portò dietro a Seborga, di fianco alla telecamera già sistemata sul cavalletto e annuì. “Sì.” Seborga le porse i tre fogli con le domande numerate dell’intervista e lei li stese davanti al viso. Wy batté un sandaletto a terra. Accigliò lo sguardo, dando un’ultima controllata alla lista delle domande, dall’alto verso il basso. “Io me ne sto qui, invece. L’intervistatore fuori campo fa più figo, nei film-documentari lo fanno sempre. È così ricercato.”

Seborga abbassò le spalle e diede un ultimo giro di vite all’aggancio del cavalletto.

Wy calò i fogli. I vispi occhietti da furba scrutarono la scrivania abbagliata dai riflettori e l’immagine di Sealand che faceva roteare la poltroncina a destra e a sinistra. Wy arricciò le labbra.

“Uhm, anche se manca qualcosa.” Si posò due dita sulla guancia, batté piano i polpastrelli sotto lo zigomo e piegò il capo di lato. “È un po’ vuoto, quel tavolo.”

Seborga si avvicinò di un passo, le mani giunte dietro la schiena. “Di solito gli adulti bevono sempre qualcosa mentre fanno le interviste, a parlare tanto ti diventa la gola secca.”

“Già, ma cosa bevono?” Wy alzò gli occhi e incrociò lo sguardo di Seborga. “Vino? Bourbon? Whisky? Cognac?”

La voce di Sealand pigolò prima che Seborga potesse aprire bocca.

“Sono minorenne!”

Seborga annuì e si voltò verso l’ombra che avvolgeva la parte inferiore della stanza.

Per una volta che ha il coraggio di ammetterlo...

Seborga sollevò un indice facendo segno che sarebbe tornato subito. “Succo di frutta all’arancia andrà bene,” disse.

Wy lanciò uno sguardo dietro di sé da sopra la spalla. Sealand si sporse dalla scrivania premendo tutto il peso sui palmi e stando seduto sulle ginocchia.

Tintinnio di vetri che si toccano, scrosciare di un liquido spumoso, altro trillo più sottile.

Seborga uscì sorridendo dalla penombra. In mano reggeva un bicchiere lungo, pieno a un dito dall’orlo di succo d’arancia.

“Ecco qui.”

Lo posò su un angolo della scrivania e lo infilzò con una cannuccia blu a strisce bianche.

Sealand tornò a sedere. Raddrizzò le spalle, gonfiò il petto rischiando di morire soffocato sotto la stretta della giacca, ed esibì un sorriso inorgoglito che gli fece diventare le guance rosse e lucide come ciliegie.

Seborga tornò dietro la telecamera. Estrasse lo schermo, un piccolo blip e l’immagine andò a fuoco, centrando il cartellone scritto e disegnato con i pastelli colorati. Seborga tirò verso destra la levetta dello zoom, inquadrò anche Sealand seduto alla scrivania, e assestò di qualche centimetro la telecamera. Il cavalletto cigolava a ogni movimento.

Perfetta.

Seborga annuì. “Bene.” Alzò tre dita, partì il conto alla rovescia. “Tre, due, uno, e aaaz...”

“Ehi, fermo,” esclamò Wy.

Seborga le rivolse lo sguardo senza abbassare la mano con ancora il pollice teso.

Wy fece una piroetta, la giacca di tela si avvitò attorno al busto e ricadde sulle ginocchia nude. La piccola pestò un piedino a terra, soffiò un broncio e si premette il pollice sullo sterno.

“Tre, due, uno, azione lo devo dire io.”

Seborga socchiuse la bocca, avvilito. Si indicò il viso con la punta dell’indice. “Ma sono io l’addetto alle riprese.”

Wy sbuffò. Allungò la mano che non stringeva i fogli e gli agguantò il ciuffo arricciato che pendeva sulla spalla.

Seborga guaì.

Wy glielo strattonò tre volte. “Ma io sono l’intervistatrice, e io decido quando inizia l’intervista.”

“Ma non è giusto!” Seborga piagnucolò come Sealand. Le mani sollevate verso il braccio di Wy che gli stava seviziando i capelli.

Sealand sventolò la mano. “Ragazzi, possiamo darci una mossa?”

Wy diede uno strattone più forte verso il basso.

Il viso di Seborga divenne una maschera rossa. Il corpo s’irrigidì. “Ahi! E va bene, e va bene, fallo tu.”

Wy sollevò la punta del naso. Schiuse la mano e sfilò il ciuffo di Seborga dalle dita.

Seborga fece un passetto di lato, si piegò dietro la telecamera, e si massaggiò la radice del ciuffo. Una lacrimuccia era in bilico tra le ciglia dell’occhio sinistro, la bocca ancora storta dalla smorfia di dolore.

Wy alzò tre dita.

“Tre.”

Sealand si ricompose. Mani incrociate davanti a lui e spalle dritte.

Wy tolse un dito. “Due.”

Seborga guardò nello schermo che racchiudeva l’immagine di Sealand. Sollevò una mano e posò delicatamente il pollice sul pulsante di registrazione con il pallino rosso, senza premerlo.

Wy abbassò un altro dito. “Uno, eee...” Stese la mano. Tagliò l’aria imitando una mossa di arti marziali. “Azione.”

Seborga spinse il pulsante.

Bling!

Una spia a forma di pallino rosso si accese in alto a sinistra.

 

.

 

L’immagine di Sealand, seduto a mani intrecciate sulla scrivania, le spalle dritte contro lo schienale della poltroncina, i capelli pettinati di lato, e un fiero sorriso stampato sulle labbra, si mise a fuoco al centro dell’inquadratura.

In alto a destra, all’angolo dello schermo, lampeggiava il pallino rosso. Di fianco alla piccola sfera comparvero data e ora – 01/09/2015, 16:14 – accompagnate dal simbolo verde della batteria al sessantotto percento.

La vocina di Wy tossicchiò fuori dall’inquadratura. “Eh-ehm.” Fruscio di fogli che vengono stesi. “Dunque, Sealand, parlaci del giorno in cui sei nato.”

Sealand piegò il capo di lato. “Il giorno in cui sono nato?” Batté le mani emettendo uno schiocco sonoro e gli occhi si illuminarono. “Oh, il giorno in cui sono nato è stato in assoluto il più bello della mia vita!”

“Vuoi dire che te lo ricordi?”

Sealand guardò in alto, stropicciò le sopracciglia. “Be’, no, non esattamente.” Dai movimenti oscillanti delle sue spalle si capiva che stava dondolando le gambe sotto la scrivania. Sealand tornò a guardare nella telecamera, sorridendo, e sollevò un indice al soffitto. “Ma Inghilterra mi racconta spesso quella storia, soprattutto quando lo faccio arrabbiare.”

“Che cosa ti racconta di quel giorno?”

Sealand scoppiò a ridere. “Che voleva portarmi all’orfanotrofio.” Chiuse gli occhi e finì di sghignazzare tenendosi la pancia. La scrivania vibrò facendo tremare anche il succo d’arancia contro i bordi del bicchiere.

Sealand riprese fiato dalla risata con due sospiri affannati. Strinse un pugno davanti alla bocca e si schiarì la voce con due colpi di tosse. Tornò serio e professionale.

“In realtà, Inghilterra aveva appena concluso una battaglia molto difficile e impegnativa, uhm,” mulinò un indice rivolto al soffitto, “quella con gli aerei, se non sbaglio, ma, nonostante fosse stanco e avesse bisogno di riposare, ha deciso comunque di venire a trovarmi e ha preso la decisione di avere cura di me nonostante tutto quello che stava succedendo nel mondo e lui stesso fosse impegnatissimo insieme alle altre nazioni.”

Agguantò il bicchiere di succo e lo avvicinò alla bocca.

Wy andò avanti con le domande. “E come ti senti quanto ti racconta queste cose?”

Sealand risucchiò una sorsata di succo, staccò la cannuccia dalle labbra con uno schiocco e posò il bicchiere. “Mhm, io credo che Inghilterra spera un po’ di farmi arrabbiare.” Tornò a intrecciare le dita davanti a sé. “Credo che quello che vuole dirmi è: ‘Ecco, Sealand, hai visto? Invece che comportarti da sciocco continuando a chiedere di essere riconosciuto come nazione, dovresti essere un po’ più grato verso di me che ho deciso comunque di tirare avanti con il tuo peso sulle spalle nonostante avessi tutte quelle cose da fare della guerra, e bla, bla, bla, eccetera, eccetera, e – oh, guardatemi!”

Saltò giù dalla poltroncina facendole fare mezzo giro. Sfilò la cannuccia dal bicchiere, schizzò due gocce di succo e la sventolò per aria. Piegò la schiena reggendosi il fianco con la mano libera, simulò una gobba.

“Sono il vecchio Inghilterra che ti picchio con il mio bloody bastone se non ubbidisci e fai quello che ti dico,” agitò la cannuccia verso la telecamera, “altrimenti vai a letto senza il bloody dolce e senza guardare i tuoi bloody cartoni animati per una bloody settimana!’”

Wy e Seborga si misero a ridere, la telecamera rimbalzò su e giù nonostante il cavalletto la tenesse ferma. Le risate dei due, fini e sottili, da bambini, si mescolavano in un trillo sonoro.

Sealand raddrizzò la schiena e rivolse i palmi al cielo. “Che c’è?”

Seborga fermò il sobbalzare della telecamera. “Lo imiti bene.”

Sealand posò il fianco della mano sulla pancia e si inchinò come un cameriere da sala. “Grazie!”

Wy sghignazzò un ultimo accenno di risata. “Ragazzi, ritorniamo alla domanda, la telecamera ha poca memoria.”

Sealand annuì. “Oh, sì, sì, giusto.” Si rimise seduto e conficcò di nuovo la cannuccia dentro il bicchiere. “Comunque, io in realtà sono davvero molto grato a Inghilterra, giuro.” Dondolò a destra e a sinistra. “Lo conosco da tanto tempo e, okay, forse non da così tanto, considerando le altre nazioni, ma so che in fondo è buono e che anche lui mi vuole bene e che ama prendersi cura degli altri.”

Wy aspettò qualche secondo. “Okay.” Voltò pagina, si sentì la carta frusciare.

Sealand approfittò della pausa e si concesse altri due sorsi di succo.

“Mhm, prima hai detto: ‘Nonostante quello che stava succedendo a quel tempo...’,” riprese Wy. “Ora che sei cresciuto sai quello che stava succedendo? Lo hai compreso appieno?”

Sealand staccò la bocca dalla cannuccia e annuì. “Mhm, sì, so della guerra, ovviamente.” Fermò la sedia. Il suo sguardo si distolse dall’obiettivo della telecamera e volò di fianco, contro quello di Wy. “Inghilterra me l’ha fatta studiare spesso e l’ultima volta, a Natale, mi ha anche regalato un librone spesso così,” aprì indice e pollice imitando la grossezza del tomo, “con tutta la storia della marina e dell’aviazione inglese durante quel periodo.”

“Uh, forte! E tu l’hai letto?”

Sealand si chiuse nelle spalle e arrossì. “Solo un po’.” Strofinò le dita sulla nuca, scompigliando le ciocche ben pettinate. “È che è un libro difficile e io non sono bravo a ricordare tutte le date, o i nomi delle navi e degli aerei. Mi è piaciuto molto di più il regalo che mi ha fatto Giappone.” Strinse i pugni, gli occhi scintillarono. “Mi ha costruito un Transformer personalizzato solo per me, tutto bianco, nero e rosso, con i missili sulla schiena e le ruote sotto i piedi e...”

Wy tossicchiò.

Sealand sobbalzò, sciolse i pugni e tornò a incrociare le mani sulla scrivania. Fronte bassa, sguardo rosso e lievemente imbarazzato. Si schiarì la voce anche lui e annuì, tornando alla domanda di Wy.

“A volte però penso che Inghilterra sia fin troppo esigente nei miei confronti, soprattutto riguardo lo studio di queste cose.”

“Come mai ti fa studiare quelle cose, secondo te?”

“Perché dice che devo essere consapevole delle mie origini, se un giorno voglio essere trattato e riconosciuto come una nazione vera.” Sealand poggiò un gomito alla scrivania, sollevò l’avambraccio e impennò l’indice. Ingrossò il tono di voce. “Conoscere se stessi è la prima regola, mi ha spiegato. E dovrò avere piena consapevolezza di chi sono a partire proprio dalle mie radici.”

“E tu, ora come ora, pensi di sapere chi sei?”

Sealand allargò un sorriso raggiante, la luce sparata dai riflettori fece brillare ogni singolo dente. Si gettò di peso sullo schienale della poltroncina, alzò le gambe e stese le braccia al cielo.

“Sono il fantastico Principato di Sealand!”

Seborga batté con foga le mani dietro la telecamera. “Bravo!” esclamò, entusiasta. La sua voce era la più vicina al microfono, risuonava di più rispetto alle altre.

Wy riprese la domanda. “Okay, ma intendo, le tue origini...”

Sealand si rimise composto, lo sguardo attento su quello di Wy.

“Hai dato retta a Inghilterra e hai imparato dal tuo passato?”

Sealand scrollò le spalle, mostrò i palmi al soffitto. “Be’, non so quanto io possa imparare dal mio passato. Voglio dire, devo ancora costruirmene uno vero e proprio. Sono una nazione così giovane...”

“Teoricamente non lo sei nemmeno,” commentò Wy.

Sealand si sporse in avanti, facendo traballare la scrivania. “Sì che lo sono!”

Seborga tossicchiò.

Sealand guardò nell’occhiello della telecamera, sbatté due volte le palpebre e si rimise seduto. Avvicinò la sedia alla scrivania e si guardò le mani incrociate.

“Comunque, forse quello che Inghilterra intendeva è che devo essere consapevole di come sono venuto al mondo, perché la mia nascita è sicuramente stata diversa rispetto a quella delle altre nazioni.”

“In che senso?”

Sealand alzò gli occhi verso Wy e fece roteare la mano. “Be’, sai, sono nato su una piattaforma fortificata in mezzo al mare.”

“Già, parliamo di questo.” Wy voltò due pagine. “Tu sai per cosa venivano usate quelle piattaforme?”

Sealand annuì. “Sì.” Si mise più comodo, aggiustando la posizione dei fianchi come una chioccia che si appollaia tra la paglia. “Alcune erano per la difesa aerea, altre per quella marittima e...” Agguantò il bicchiere di succo, diede due tirate veloci e mugugnò con la bocca ancora piena. Posò il bicchiere, ingollò, e aprì i palmi l’uno verso l’altro. “Giuro che avevo un cannone enorme spara-proiettili, una cosa tipo grande così che colpiva gli aerei a centinaia di chilometri di distanza.”

“Oh, dunque tu eri adibito alla difesa aerea?”

Sealand prese un respiro di orgoglio che gli gonfiò il petto. “Sì. Il mio nome vero a quel tempo era ‘HM Fort Roughs’, infatti.”

“Whoo, troppo forte!” esclamò Seborga. “Un nome militare.”

“Ma, in pratica, eri un’arma.”

Sealand strinse i pugni sulle cosce, sotto la scrivania. Gli occhi corsero da un lato all’altro del banco, le sopracciglia si corrugarono, formarono sottili pieghe d’ombra sulla fronte. Sealand storse la bocca in una smorfia nervosa.

“Be’, suppongo di sì. Non...” Sollevò una mano dalla gamba e si grattò dietro l’orecchio. La voce tentennò. “Non l’avevo mai pensata in questo modo, comunque.”

“Però è così,” disse Wy. “Voglio dire, se non ci fosse stata la guerra, tu non saresti nemmeno qui.”

Sealand si strinse nelle spalle. “Sì, è vero.” Lo sguardo sempre basso.

“Quindi tu nasci in uno scenario di distruzione, sangue e morte.”

La voce di Seborga fece sobbalzare la telecamera. “Wy!”

“Che c’è? È vero! Non ho mica detto una bugia.”

Sealand rivolse gli occhi verso i due, guardando di fianco all’obiettivo della telecamera.

Il tono di Wy si fece altezzoso e scocciato. “E poi sono io l’intervistatrice, tu tieni ferma la telecamera che perdi l’inquadratura.”

Seborga riassestò l’obiettivo su Sealand.

Sealand storse un sopracciglio, posò i palmi sulla scrivania e sporse le spalle in avanti. Gli occhi fissi nell’obiettivo.

“Ehi, state cercando di farmi sentire in colpa?” Voltò di nuovo lo sguardo. “Non puoi farlo, Wy, io sono più grande di te,” frignò.

“Ma io sono stata riconosciuta,” si sentì il suono del tacco del sandalo che batteva a terra, “quindi come nazione valgo più di te.”

Gli occhi di Sealand si annacquarono, gocciolarono grossi lacrimoni che inondarono la superficie della scrivania. Sealand ritirò il labbro inferiore, trattenne le lacrime.

“Non rinfacciarmelo!” singhiozzò.

“R-ragazzi,” si intromise Seborga, “che ne dite se facciamo una pausa e...”

Sealand innalzò i pugni al cielo. “Anche io sono una nazione!” Strizzò gli occhi. Fiotti di lacrime zampillarono dalle palpebre e allargarono la pozza sulla scrivania.

Sealand si accasciò, tuffò il viso tra le braccia incrociate e prese a piangere, singhiozzando come un bambino.

Seborga sospirò, avvilito. “Oh, cielo.”

Forti tremori scuotevano la schiena di Sealand a ogni spasmo di pianto. La voce divenne un lamento lungo e ondeggiante, come la sirena di un’ambulanza.

“Lo hai fatto piangere,” disse Seborga.

Wy sibilò, più vicina al microfono della telecamera. “Non è colpa mia se è un frignone.”

Sealand pianse più forte. Le braccia assorbivano gli strilli ondulanti del pianto.

Seborga inclinò la telecamera, riprese le gambe della scrivania. Si udì il rumore delle sue dita che correvano sul fianco di plastica, passando da un pulsante all’altro.

“Come caspita si spegne questa cosa?”

Lo schermo sobbalzò.

Divenne un riquadro nero.

 

 

Lo schermata nera rimbalzò, una linea di luce la attraversò in orizzontale e aprì una scintilla al centro del riquadro. Una tenue luce rossa riempì il rettangolo. Le spie della batteria, del pulsante di registrazione, della qualità HD e della data lampeggiarono due volte e si assestarono.

Di nuovo il quindici agosto duemilanove.

L’ora era cambiata. Erano le diciotto e trentaquattro.

L’obiettivo era puntato verso la parte di cielo rosso dietro il mare ondeggiante. L’acqua si era fatta più scura, i suoni delle onde più lenti e profondi.

Qualcosa si mosse vicino alla telecamera, ne urtò il fianco e sollevò qualcosa di azzurro davanti all’inquadratura. Un angolino rialzato del telo da mare della Nazionale Italiana di Calcio. La telecamera era poggiata per terra, sull’asciugamano steso sulla spiaggia.

Una figura emerse dalle onde, infranse lo specchio d’acqua gettando il capo all’indietro e riprese fiato con una forte boccata. Schizzi trasparenti volarono via dai capelli e dalle braccia. Italia fece correre le mani tra i capelli grondanti, li scrollò dietro la nuca e si strofinò via l’acqua di mare dagli occhi e dal naso sfregandosi una mano sul viso. Un’onda più grossa lo colpì alla schiena. Italia allargò le braccia, barcollò in avanti facendo mulinare le mani, e stette in equilibrio. Il costume azzurro imbevuto d’acqua era diventato blu, l’elastico stretto in vita era scivolato verso il basso, scopriva un’anca sporgente.

Italia sollevò un braccio e lo sventolò verso la spiaggia in segno di saluto. Il sorriso rivolto nel punto di fianco alla telecamera.

Una voce bassa e profonda borbottò, ma non disse nulla.

Una zaffata di vento fece tremare Italia come una spiga di grano in mezzo alla tempesta. Italia si strinse le spalle, sfregò le mani lungo le braccia, e corse saltellando fuori dall’acqua con le ginocchia che traballavano e i denti che battevano dal freddo. Sguazzò fuori dall’ultima onda, mise piede sul bagnasciuga lasciando dietro di sé sottili orme sulla sabbia marrone. Un altro soffio di vento lo fece rabbrividire mentre correva. Il ciuffo arricciato gocciolò un rivolo d’acqua sulla spalla. Gocce trasparenti imperlavano e avvolgevano la pelle come un sottile manto di diamanti che brillava sotto luce scarlatta del tramonto. I capelli zuppi baciati dalla luce del tramonto avevano assunto un colorito ramato.

Italia corse lungo la spiaggia senza smettere di strofinarsi le braccia, a spalle gobbe. Passò in mezzo a due bottigliette di plastica infilzate nelle dunette con il tappo rivolto all’ingiù, raggiunse la sabbia asciutta che gli rimase incollata ai piedi nudi e alle caviglie come polvere di talco.

“Freddo, freddo, freddo.”

Si avvicinò.

La telecamera lo inquadrò solo dalle ginocchia in giù.

Italia si lanciò sopra il telo da mare sollevando qualche spruzzo di sabbia davanti all’obiettivo e sparì alla sua sinistra.

La telecamera riprese solo il cerchio piatto del sole che si specchiava tra le onde nere, e la spiaggia deserta davanti a loro.

Italia continuò a strofinarsi le braccia e a battere i denti.

“Copriti, svelto.” Germania mosse qualcosa che frusciò. “Non prendere freddo.”

“Grazie.”

Si udì il suono di un panno di stoffa che veniva steso e sfregato contro la pelle bagnata. Italia mosse i piedi, forse per rannicchiare le gambe, e il telo da mare sotto di loro si scosse, facendo traballare l’inquadratura.

“Brr, fare il bagno di sera non è come di pomeriggio.” Italia smise di battere i denti. Tornò la solita dolce voce squillante. “L’acqua è tiepida poi però fuori si gela. Strano, no?”

“Non toglierti l’asciugamano anche se sei asciutto, con i capelli bagnati ti viene il torcicollo.”

“Eh eh, sto bene.”

Il terreno vibrò leggermente. Un suono zaffante unito agli affanni di due respiri affaticati divenne più forte e si avvicinò alla telecamera.

La palla di gomma rossa a esagoni neri volò davanti all’inquadratura accompagnata da schizzi di sabbia. Romano tese la gamba in corsa, sfiorò il pallone con la punta dell’alluce e lo spinse via dalle caviglie di Spagna. Romano diede una spallata a Spagna e si tuffò verso la palla.

“E levati dalle palle.”

“Calcio d’angolo, calcio d’angolo.” Spagna prese Romano per i fianchi, lo fece roteare e chiuse la palla tra le caviglie. “Doppio dribbling!” Affondò la punta del piede destro nella sabbia, raccolse la palla e corse spingendola verso le bottigliette di plastica. “Porta scoperta della difesa italiana, ripresa dello spagnolo e...” Piegò la gamba all’indietro e calciò il pallone tra le bottiglie. “Goool!” Spagna levò i pugni al cielo, la luce rossa del sole gli illuminò il sorriso, e corse in tondo sollevando un ovale di pioggia di sabbia. “Spagna-Italia, tre a uno!”

Romano gli calciò uno schizzo di sabbia sulla schiena. “Taci, bastardo!” Si chinò a raccogliere la palla e la fece rimbalzare due volte sul ginocchio. “Mi sto solo scaldando. Adesso ti faccio vedere io come gli italiani giocano a calcio.”

Italia ridacchiò. “Povero fratellone.”

Romano arricciò il naso in una scura smorfia rabbiosa e calciò il pallone lontano dall’inquadratura. Spagna gli corse dietro e anche Romano sparì dalla ripresa. Si lasciarono dietro ondate di sabbia volante ed esclamazioni confuse.

Italia si mosse facendo sfregare il telo da mare su cui era seduto contro quello in cui era avvolto. “Oh, hai lasciato la telecamera accesa.”

La prese in mano – scricchiolii si mossero sul fianco, sollevati dalle sue dita che si stringevano – e si inquadrò il viso. I capelli ancora umidi gocciolavano sulle spalle avvolte da un telo da mare in tinta militare.

Il viso di Germania comparve nell’inquadratura. Un’espressione interrogativa stampata in volto.

“Uhm?”

Italia piegò la telecamera di lato, la lucetta rossa si riflesse negli occhi di Germania.

“Ah, Verdammt.” Germania fece scattare la mano verso la telecamera. L’inquadratura si ribaltò, diventando un mulinello di colori. “Non me n’ero accorto, scusa, ti avrò scaricato la batteria.”

“No, no, è okay, sta’ tranquillo.” Italia tornò ad assestare la presa con entrambe le mani. Si riprese i piedi impanati di sabbia che avevano lasciato alcuni granelli dorati sul telo azzurro. La sollevò alla sua sinistra, riprese Germania dalle spalle in su. “Sorridi.”

Germania guardò dentro l’obiettivo, sguardo perplesso, e gli occhi tornarono su Italia. Aggrottò la fronte.

Italia fece ondeggiare la telecamera. “Su, un sorriso piccolo.”

Le guance di Germania si tinsero di un tenue colorito rosa. Germania si strinse le ginocchia al petto, contro la camicia che non si era tolto, e guardò tra la sabbia. Chiuse gli occhi, il colorito imbarazzato si estese su tutto il viso, e inarcò gli angoli tremanti della bocca verso l’alto. Un goffo, tremolante sorriso sbilenco rivolto alla spiaggia.

“Buu, puoi fare di meglio,” lo canzonò Italia. “Ecco, guarda...” Voltò la telecamera verso di sé. Riprese solo il suo viso e il cielo rosso che gli coronava il capo. “Così, cheese.” Posò un indice sulla guancia e stese le labbra, abbagliando l’obiettivo con il suo sorriso.

Sollevò la telecamera, riprese un ciuffo di nuvola spennellato sulla distesa di cielo rosso, e tornò a inquadrare davanti a sé.

Tra i suoi piedi e quelli di Germania c’era la scatola a coperchio verde di riso freddo. Era vuota, solo qualche chicco e alcuni pezzi di verdura cotta erano rimasti incollati alle pareti della confezione. Italia mise la telecamera sopra il contenitore, voltò l’inquadratura rialzata e la assestò. Tolse il braccio da davanti l’obiettivo e saltellò all’indietro stando seduto; si schiacciò contro il fianco di Germania, raggomitolato nel telo verde militare.

Germania guardava ancora in disparte, in un punto della spiaggia. Le guance si erano schiarite.

Italia strinse forte l’asciugamano davanti al petto, avvolgendosi fino al mento come con una coperta. Tirò su col naso e si strofinò il viso umido di acqua di mare contro spalla. Chinò il capo di lato, mosse le dita dei piedi sotto l’asciugamano, e poggiò la tempia sulla spalla di Germania. Chiuse gli occhi.

Germania abbassò il capo, scoccandogli uno sguardo.

“Sei stanco?”

Italia sorrise. “Ho nuotato troppo e mi viene sonno.”

Romano strillò qualcosa davanti a loro. Si sentì il suono molleggiante di un piede che colpiva la palla di gomma, e Spagna rise.

Italia riaprì gli occhi. Strofinò il capo contro la spalla di Germania. “Ci siamo divertiti, no?”

Germania strinse le ginocchia al petto, si guardò i piedi. “Sì, non è stato male.”

Italia ridacchiò. Sfilò un braccio da sotto il telo e gli diede due pizzicotti sul muscolo del braccio, sotto la manica della camicia. “Solamente?”

Germania finse il broncio, si retrasse, e si chiuse nelle spalle.

Italia smise di pizzicarlo e si fece scivolare il telo attorno alle spalle. Lo fece cadere leggermente più basso, gli lasciava il torso nudo e le braccia scoperte fino ai gomiti.

Italia dondolò sul posto e guardò in alto. “È un peccato che gli altri non abbiano voluto venire in spiaggia con noi. Ci saremmo divertiti ancora di più.” Tornò fermo, piedi a terra, e cercò lo sguardo di Germania. “Per la cena non siamo in ritardo, no? C’è ancora un po’ di tempo.”

“Abbiamo appuntamento alle otto direttamente al ristorante.”

“Uuh, quello che fa i piatti solo di pesce? Il fratellone Francia è amico del cuoco, speriamo che ci diano un bel tavolo vicino alle vetrate, così si riesce a vedere il tramonto sul mare e poi anche la luna.”

Germania ricambiò lo sguardo. Rimase un istante a guardare Italia, sollevò un sopracciglio, e intrecciò le dita ai suoi capelli. Gli scostò la frangia dalla fronte, fece passare il tocco dietro l’orecchio, e tese il ciuffo arricciato tre volte.

“Tu però datti una lavata prima di uscire, hai tutti i capelli pieni di sale e sabbia.”

Italia arricciò il naso in una smorfia di piacere, le labbra si innalzarono in sorriso teso fino alle orecchie, e posò il fianco della mano sinistra sulla fronte.

“Sissignore, mio capitano.”

“Ripresa dell’attaccante, ripresa dell’attaccante!” La voce di Spagna riempì l’audio del filmato.

Germania sfilò velocemente la mano dai capelli di Italia e la strinse attorno alle ginocchia.

Qualcosa ruzzolò tra la sabbia. “Ti faccio vedere io!” Romano.

“Ah, questo è rugby! Arbitro!”

Altri rotolii, ansimi di fatica mescolati alle risate a singhiozzo di Spagna.

“Arbitro, mi assale! Mi assale!” Altra risata soffocata. “Cartellino rosso per l’italiano, signor arbitro!”

Italia rise. Tornò con il capo appoggiato alla spalla di Germania e strofinò la fronte sul suo braccio. Le labbra sorridevano, ma un’ombra gli nascose gli occhi.

“Però mi piacerebbe.”

Germania abbassò lo sguardo. Inarcò un sopracciglio. “Cosa?”

Le labbra di Italia tremarono. Si piegarono verso il basso e tornarono a innalzarsi in quel piccolo e triste sorriso. “Che anche lui...”

Germania sbatté le palpebre. Una luce più cupa balenò anche tra i suoi occhi.

Italia si raggomitolò al telo. Si strinse contro il braccio di Germania e sfregò il viso contro la sua spalla. “Niente,” disse con la voce di chi si sta trattenendo dal pianto. Sollevò il viso e lo rintanò nel collo di Germania, sotto l’orecchio. “Niente. Scusami.” Tremò.

Germania sospirò.

Gli avvolse la schiena e lo fece avvicinare al petto. La mano stretta dietro la spalla si alzò, sfregò sulla stoffa del telo da mare e risalì la nuca, carezzandogli i capelli.

Italia voltò il viso verso il mare. Non piangeva, ma gli occhi lucidi riflettevano il rosso del cielo come due specchi d’acqua.

Germania posò le labbra tra i suoi capelli, la mano correva tra le ciocche posando ruvide carezze dietro il capo, e chiuse gli occhi anche lui. Una piega di dolore gli contrasse la fronte.

 

 

L’ora nella parte superiore dello schermo ora segnava le sedici e cinquantasei. Il pallino rosso lampeggiò due volte in alto a sinistra e stette fermo nell’angolo.

L’obiettivo della telecamera stridette. L’inquadratura avanzò chiudendosi sull’immagine più scura e appannata dentro l’incrocio dei fasci dei riflettori. La luce andò a fuoco. Lo zoom tornò indietro e riprese il viso ancora imbronciato di Sealand che guardava dritto in camera. Le guance gonfie e rosse, gli occhi e le palpebre ancora lucidi. Sealand tirò su col naso e si sfregò gli occhi con la manica della giacca. L’aveva aperta di altri due bottoni, la frangia aveva perso la piega dei colpi di pettine ed era scompigliata sulla fronte.

Wy diede due aspri colpi di tosse. “Dunque,” si sentì della carta frusciare, aveva voltato pagina, “eravamo rimasti al punto in cui io ti chiedevo cosa si provava a essere nato nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale e come ci si sentisse nel realizzare che, se la guerra non ci fosse mai stata, tu non saresti nemmeno esistito.”

Sealand guardò a sinistra dell’obiettivo.

“Ti ho già detto che non mi sento in colpa.”

“Va bene, va bene, ma non mi hai comunque detto cosa si prova.”

“Be’, ecco...” Sealand alzò gli occhi al soffitto, la luce dei riflettori fece brillare le guance ancora lucide di pianto. Si strofinò una mano tra i capelli, prima dietro l’orecchio e poi sulla nuca, e fece spallucce. “Mi sento normale, credo.” Sfilò le dita dai capelli, mostrò il palmo al soffitto e tornò a guardare verso Wy. “Ogni nazione ha i suoi lati oscuri, no? Almeno io non ho mai deciso di iniziare una guerra di mia volontà.”

“Su questo ha ragione,” disse Seborga. La sua voce era la più forte e vicina alla telecamera.

Wy batté un sandaletto a terra. “Ssh, cameraman!” Placò il tono di voce e tornò a rivolgersi a Sealand. “Vai avanti.”

Sealand si piegò a prendere un sorso di succo dalla cannuccia, si gonfiò le guance e mandò giù di colpo. Il succo era arrivato a meno della metà del bicchiere.

“Io non ho mai badato al fatto di essere nato durante la guerra,” disse, poggiando le spalle sullo schienale della poltroncina. “E forse è così perché so che la guerra non è scoppiata per far nascere me.”

Guardò verso Wy, poi dentro l’occhiello della telecamera, e di nuovo verso Wy. Le gambe dondolarono sotto la scrivania.

“Continua,” disse Wy.

Sealand si posò un dito sul labbro inferiore e guardò in alto. “Voglio dire, io credo di essere nato quasi per caso, no?” Piegò un sopracciglio. “Anzi, forse quando ero solo una fortezza marittima non ero nemmeno una nazione vera, infatti ero così piccolo da non restare in piedi.” Staccò le spalle dalla poltroncina e piegò i gomiti sulla scrivania, sporgendosi in avanti. Sorrise alla telecamera. “Quando poi il Re Roy ha deciso di farmi diventare indipendente, sono cresciuto di colpo, ho imparato a parlare, a camminare, e io considero quella come mia nascita vera e propria. Io...” Sollevò un indice, facendo segno di aspettare. Si attaccò al beccuccio della cannuccia e risucchiò tre sorsi di fila. Scollò le labbra con uno schiocco. Guardò in camera e si batté due volte il palmo sul petto, mostrando un sorriso d’orgoglio. “Io serberò sempre gratitudine nei confronti di Inghilterra e dei soldati che hanno deciso di prendersi cura di me durante quegli anni, ma allo stesso tempo sento che non è grazie a loro che sono comunque sopravvissuto e diventato grande.” Ora le guance erano rosse di gioia. “Lo sono diventato soprattutto grazie a me stesso.”

“Ti sei un po’ fatto da solo?”

“Sì, esatto,” annuì Sealand. Ricadde di peso sulla poltroncina e spinse entrambi i pollici sul petto. “Ho deciso io la mia vera identità.”

“Spiegati meglio. Cosa intendi con ‘vera identità’?”

Lo sguardo di Sealand vagò confuso verso l’alto per qualche secondo. Sbatté le palpebre. “Ecco, vediamo,” alzò un indice verso Wy, “prima tu mi hai paragonato a una specie di arma, no? Perché sulla piattaforma c’erano i cannoni per abbattere gli aerei e la fortezza era stata costruita praticamente solo per quello.” Piegò le braccia incrociandole sul bordo della scrivania e annuì a se stesso. “È vero, io sono nato per questo, come una specie di oggetto per fare la guerra ma, nonostante tutto, anche dopo che la guerra era finita e io ero diventato inutile, ho deciso di rimanere in vita e di ricostruire la mia esistenza per diventare una grande nazione come Inghilterra.” Stese le braccia al cielo andando contro la resistenza della giacca, e allargò il sorriso. “Ho deciso io il mio futuro e il mio destino, anche se ero nato ed ero stato costruito con uno scopo diverso.”

“Questo potrebbe fare di te una nazione ancora più forte e coraggiosa delle altre, no?”

“Sì, esatto!” Gli occhi di Sealand si illuminarono. Si alzò dalla sedia, stese il braccio in avanti e allungò l’indice verso la telecamera. “Loro infatti sono nati proprio come nazioni. Il loro destino è stato quello fin dal principio ed è facile semplicemente seguire la corrente.” Sovrappose i palmi al centro del petto e raddrizzò le spalle. “Io invece sono stato fortissimo decidendo di costruirmi da solo la mia strada, anche se nessuno credeva in me.”

L’obiettivo della telecamera si sollevò di qualche centimetro, riprese solo il busto di Sealand e il cartellone dietro di lui.

“Il fatto che le altre nazioni abbiano vita facile perché seguono il loro destino da nazioni è discutibile, però,” disse la voce di Seborga, così vicina al microfono. “Pensa a chi magari avrebbe voluto fare la vita da semplice essere umano.”

Il sorriso di Sealand sbiadì lentamente, divenne un’aria intensa e pensosa. Sealand si massaggiò il mento, storse un sopracciglio e guardò in alto, verso uno dei riflettori.

“Be’, Lettonia infatti me lo dice sempre che potrei pentirmi di desiderare di essere una nazione vera,” scosse le spalle, tornò a sorridere, “ma io non gli bado. Non sapete quante volte avremmo voluto fare a cambio tra le nostre situazioni.”

“Non siamo qui a parlare di questo,” disse Wy.

Sealand era ancora in piedi. Aprì le mani sulla scrivania e tamburellò le dita, guardò prima in camera, poi più in alto – verso Seborga –, poi su Wy e di nuovo in camera. Smise di tamburellare le dita e si chinò a prendere il bicchiere di succo di frutta. Ne rimaneva un dito dal fondo.

Sealand lo ripulì con un rumoroso risucchio, guidando la cannuccia su tutto il fondo e aspirando fino all’ultima goccia. Sospirò per riprendere fiato, e posò il bicchiere.

“Uhm, abbiamo finito?”

“Penso di sì.” Wy voltò due fogli. “Le domande sono finite.” Batté le pagine tra di loro e la carta emise un fruscio più basso.

“Ti sei scolato tutto il succo,” disse Wy, con tono scocciato.

Sealand abbassò gli occhi sul bicchiere vuoto e le rivolse un’occhiata confusa, a sopracciglia piegate.

“Eri stata tu a insistere di metterlo.”

“Ma era solo un tocco di eleganza per rendere la cosa più professionale.” La figura sfocata di Wy entrò nel lato sinistro dello schermo, camminò a passo pesante verso Sealand, gli ingranaggi dell’obiettivo stridettero e la misero a fuoco. “Accidenti, dovevi solo prendere qualche sorso, non prosciug –”

L’immagine saltò.

La schermata nera, piatta e silenziosa riempì il riquadro.

 

 

L’obiettivo della telecamera avanzò stridendo, riprese una larga macchia grigio cenere che ricoprì l’intera schermata. Il pallino rosso prese a lampeggiare. Data e ora – 09/11/2009, 15:32 – si aprirono nella parte superiore del riquadro.

Lo zoom della telecamera emise un altro suono stridulo, arretrò, e mise a fuoco l’immagine del cielo annuvolato. Il rumore stropicciato del vento già sbatteva contro il microfono, dando l’impressione di star soffiando direttamente nelle orecchie.

La telecamera si abbassò, riprese la schiena di Germania stretto nella giacca invernale, quella scura con le larghe tasche laterali, che arrivava fino alle ginocchia. Germania camminava sullo sterrato, a spalle strette e mani dietro la schiena, la ghiaia scricchiolava sotto i suoi passi e quelli delle altre persone.

Il vento ululò. Una signora avvolta in un cappotto bianco si strinse il cappuccio felpato attorno al viso, coprendo i boccoli rossi, mise il braccio sotto quello di un altro signore e sparì dall’inquadratura. Un ragazzo biondo si fermò sul ciglio della strada sterrata, si mise in disparte, schiacciando la schiena contro le siepi laterali, e alzò la macchina fotografica al cielo. La telecamera avanzò e fece sparire anche lui.

I passi scricchiolanti che accompagnavano l’oscillare della telecamera accelerarono. La ripresa strinse sulla schiena di Germania.

La vocina di Italia tremò sopra il microfono. “Brr, che freddo fa oggi.”

Germania si fermò, due bambini che si rincorrevano emettendo gridolini di gioia lo superarono, e guardò dentro l’obiettivo. Una sciarpa grigia gli fasciava il collo fin sotto il mento. Il braccio sinistro steso sul fianco stringeva un mazzo di rose bianche fasciato da un nastro dello stesso colore.

“Ti sei coperto bene?” chiese Germania.

Soffiò un’altra zaffata di vento.

“Sì, vedi,” Italia tese il braccio davanti alla telecamera mostrando un lembo di lana gialla stretto e lungo con sottili frange sull’estremità corta, “ho anche la sciarpa.” Ritirò la mano avvolta dal guanto dello stesso colore e agitò le dita davanti all’obiettivo. “Però con i guanti è più difficile usare la telecamera.”

Germania tornò a voltarsi, passò di fianco a un ragazzo e una ragazza in piedi ai lati della strada. Stringevano una cartina per le due estremità, tenendola spiegata davanti ai visi. Il ragazzo puntò l’indice in un angolo della cartina e disse qualcosa alla ragazza. Lei annuì e indicò un altro punto.

Italia accelerò seguendo la camminata di Germania. Passò di fianco ai due giovani e la telecamera riuscì a riprendere le scritte sul retro della cartina.

‘Sanssouci Park Map’.

Italia saltellò di fianco a Germania, sollevò l’inquadratura, superò il mazzo di rose che Germania stringeva nella mano sinistra, e gli riprese il viso. Una sottile nuvoletta di condensa accompagnava il suo respiro.

Germania voltò lo sguardo verso la telecamera senza smettere di camminare. I suoi occhi erano più scuri senza la luce del sole a illuminarli.

“Devi filmare anche mentre camminiamo?” Guardò poco più su dell’obiettivo. “Così consumi la batteria per niente.”

“Mi piace filmare. Mi diverto!”

Germania sollevò un sopracciglio. “Ma così sprechi memoria del dischetto.”

“No, riprendo te.” Italia spinse la levetta dello zoom verso sinistra, strinse un riquadro che conteneva solo il viso di Germania. “Se riprendo te non è sprecare memoria.”

Germania storse lievemente le labbra. Voltò il viso facendogli solo riprendere la guancia arrossita di profilo, e avanzò guardando verso i suoi piedi.

Italia ridacchiò.

Girò la telecamera e riprese davanti a sé. Lo spiano di ghiaia sterrata si stava allargando, le altre persone che camminavano lungo la stradina si fermavano lungo una rientranza nascosta in mezzo le siepi che assumeva una forma a D. Un ragazzo con un berretto di lana e uno zaino da montagna in spalla si fermò vicino al primo dei busti in pietra che circondavano la rientranza. Sollevò la macchina fotografica e scattò due flash. Due signori più anziani tenevano gli occhi alzati sulla statua più grande: una giovane donna e un bambino elevati su un triclinio da cui pendevano lenzuola di granito. Il brusio di voci si fece più insistente in quella parte di giardino.

“Ecco, ci siamo quasi lo sento,” esclamò Italia.

Corse verso la porzione di strada che rientrava nelle siepi.

Fece traballare la telecamera che perse l’inquadratura. L’audio divenne un confuso scricchiolare di suole che battevano sulla ghiaia e di vento che soffiava direttamente contro di lui. Italia imboccò la piccola stradina delimitata da un basso recinto di ferro nero che gli arrivava alle caviglie.

Abbassò la telecamera alla sua sinistra, mise a fuoco l’immagine e racchiuse lo spazio d’erba nella pancia della D, sotto la statua della donna e del bambino.

Italia camminò piano, tenne l’inquadratura bassa e scorse lentamente ogni lastra di arenaria a forma quadrata che emergeva in mezzo al prato.

Sulla prima c’era scritto ‘Biche’.

“Questa no.”

Passò a quelle successive.

‘Alcmene, Arsinoe, Thysbe.’

“Queste nemmeno.”

‘Phillis, Diana, Superbe.’

“Neanche queste qui.”

‘Amourette, Pax.’

I piedi di un signore si scansarono dall’inquadratura.

Italia spostò la telecamera lateralmente e restrinse sulla piastra di arenaria più larga. Due mazzi di fiori erano posati nella parte superiore della lastra. I petali dei gigli stretti da un nastro dorato e quelli più vaporosi dei crisantemi viola nascondevano le prime lettere incise sulla piastra. Patate sparpagliate sulla pietra rettangolare circondavano il resto dell’insegna.

 

FRIEDRICH

DER

GROSSE

 

“Ooh, eccola,” esclamò Italia. Impennò la telecamera e corse vicino a due ragazze dai lineamenti asiatici. Ripercorse la stradina sterrata con la telecamera che ballonzolava sul fianco. “L’ho trovata!” L’immagine sfocata e saettante di Germania si intromise nello schermo. Italia accelerò la corsa. “Qui, qui, l’ho trovata.” Riprese fiato. “Corri, Germania!”

Germania abbassò gli occhi verso la telecamera. Camminava lento e tranquillo.

“Arrivo, arrivo. Non ti agitare.”

Italia allungò il braccio davanti all’inquadratura, la mano avvolta dal guanto giallo prese un lembo della manica di Germania e lo trascinò dietro di lui.

I loro passi scricchiolarono lungo lo sterrato, corsero verso la rientranza a D circondata dai busti di pietra.

Il signore fermo davanti alle lastre incise a terra alzò gli occhi, incrociò di sfuggita lo sguardo della telecamera, e fece un passo di lato.

Italia e Germania si fermarono davanti all’ultima incisione ricoperta dai fiori e dalle patate. Italia assestò la telecamera, riprese di nuovo Germania, e tornò ad allungare il braccio verso di lui.

“Mi dai?”

Germania lanciò un’occhiata distratta al suo fianco, sollevò il mazzo di rose bianche e lo porse a Italia. “Le metti tu?”

“Sì!” Italia rigirò la telecamera e si riprese le gambe dalle ginocchia in giù per qualche istante. Si sentì lo scricchiolio dell’involucro di plastica che passava dalle mani di Germania a quelle di Italia. “To’, prendi tu un secondo la telecamera. Non spegnerla!”

“Va bene, va bene.”

La ripresa divenne di poco più alta.

Germania fermò l’obiettivo della telecamera sul corpo di Italia già chino verso lo spazio d’erba. Italia lanciò il lembo della sciarpa gialla dietro la spalla, lo fece ricadere lungo la giacca grigia. Sollevò un piede, scavalcò il recinto di ferro, e si mise in punta di piedi sul prato. Si accovacciò davanti alla lastra. Scansò di poco verso destra il mazzo di crisantemi, e posò le sue venti rose bianche sopra la lettera H incisa sulla prima riga. Strinse il fiocco bianco attorno ai gambi delle rose e stese il nastro facendolo scorrere sul palmo guantato.

Germania si avvicinò di un passo, il vento tornò a soffiare dentro i pori del microfono laterale, scosse i capelli di Italia sulle guance.

Italia restò accovacciato davanti all’incisione, si guardò il fianco e infilò una mano nella tasca della giacca. Estrasse il braccio e lo allungò davanti alla telecamera. Tra le dita stringeva una piccola patata dalla buccia gialla. Una spolverata di terra era incastrata in una rientranza lasciata da una radice strappata via.

Italia sorrise. “Anche questa.”

La mano che stringeva la patata rimase sospesa a indugiare sulla scritta ‘GROSSE’. C’erano già posate delle patate in mezzo alla O, sulla G, e anche sulle lettere D e R della scritta ‘DER’. Italia sollevò il braccio e mise la sua patata sotto la prima I di FRIEDRICH’. Le diede un’ultima carezza sulla buccia maculata e irregolare con la punta dell’indice. Restò appollaiato sulle ginocchia per qualche secondo, gli occhi bassi, velati da una triste ombra scura come il cielo annuvolato.

Italia si sollevò, diede le spalle alla telecamera, e spazzolò la giacca fino alle ginocchia con piccoli colpetti dei palmi. Tenne la fronte bassa, tornò a scavalcare il recinto premendosi una mano sulla guancia. Strofinò la palpebra con la stoffa del guanto. Le spalle vibrarono, scosse da un singhiozzo che gli fece diventare le guance rosse.

“Perché piangi?” gli chiese Germania.

Italia singhiozzò di nuovo. “Scusa.” La voce sottile e strozzata. Altre due lacrime rotolarono dalle palpebre, lucide e grosse come sfere di vetro. Italia passò il fianco della mano sul viso e le raccolse con la stoffa del guanto. “Ora smetto, lo giuro.” Volse gli occhi lucidi e gonfi al cielo. Tremavano. Italia si posò la mano davanti alla bocca e il labbro inferiore tremò. Strizzò le palpebre. Grossi rivoli di pianto sgorgarono dalle ciglia e scesero fino al fianco della mano. Italia singhiozzò tre volte. “Scusami.”

Premette entrambe le mani sul viso e fece assorbire il pianto ai guanti.

Germania sospirò. Allungò il braccio davanti all’obiettivo e gli cinse le spalle.

“Dai.” Lo richiamò verso di sé. “Vieni qui.”

Il pianto di Italia si fece più singhiozzante e rumoroso.

Italia si appese al petto di Germania, nascose il viso tra le pieghe della giacca e si lasciò stringere forte.

La telecamera finì abbandonata sul fianco, l’inquadratura si abbassò, dondolò facendo oscillare l’immagine dello sterrato e si fermò verso il pezzo di prato sotto la statua.

L’ultima immagine che riprese fu il mazzo di venti rose bianche steso sulla lastra di arenaria.  

 

 

I riflessi emanati dallo schermo del televisore coloravano i capelli e la pelle di Inghilterra di una tenue tinta grigia che si scuriva e si schiariva a ogni cambio di scena. La stanza era in penombra.

Inghilterra sbatté piano le palpebre, l’immagine sfocata del fianco di Italia stretto tra le braccia di Germania si specchiava nei suoi occhi calmi, fermi sul filmato che scorreva sullo schermo.

Inghilterra scavalcò lo schienale del divano con le braccia e reclinò il collo all’indietro. Viso al soffitto, capelli sparpagliati sulla fronte.

Mosse piano le labbra. “Spegni.”

America scollò lo sguardo dallo schermo, lanciò un’occhiata a Inghilterra, sbattendo le palpebre dietro le lenti degli occhiali. Si sporse dalla poltrona, agguantò il telecomando e lo rivolse allo schermo. Spinse il bottoncino rosso con l’unghia del pollice e il televisore divenne nero. I suoni tacquero.

America lasciò scivolare il telecomando sul tavolino e si gettò sullo schienale della poltrona, gambe all’aria e braccia intrecciate dietro la testa.

“Be’, l’intervista è stata uno spasso, questo è sicuro,” sghignazzò.

Inghilterra fece roteare gli occhi al soffitto, senza raddrizzare il capo dallo schienale del divano.

“Non pensavo si fosse tenuto i filmati di quella vacanza al mare,” disse America. Accavallò le gambe e fece dondolare quella piegata sul ginocchio dell’altra. “Se lo avessi saputo prima, gli avrei chiesto una copia delle riprese del giorno in cui siamo stati al parco acquatico e tu stavi affogando nella piscina con lo scivolo per bambini.”

A Inghilterra si gonfiò una vena sulla tempia. Il ramo blu pulsò. “Nemmeno per idea,” brontolò. Tamburellò le unghie sullo schienale del divano, e una smorfia stizzita gli stropicciò le sopracciglia, facendolo diventare scuro in viso.

America gli rivolse un sorriso più sobrio. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e indicò il televisore con un gesto del capo. “Che facciamo, la teniamo?”

Inghilterra chiuse gli occhi. Inspirò a lungo, senza proferir parola.

Si diede uno slancio e rimbalzò in piedi. Aggiustò la giacca lungo i fianchi e si diede una spazzolata alle spalline. Sventolò una mano per aria, storpiando una smorfia stizzita.

“Taglia la parte della mia imitazione e tieni il resto dell’intervista di Sealand.”

America sollevò una mano. “D’accordo.” Stese un sorriso maligno dietro l’ombra del braccio impennato davanti al viso. Gli occhi scintillarono. No, nessuno avrebbe cancellato la parte con la sua imitazione.

Inghilterra passò davanti al televisore, andò verso l’uscita della stanza.

America si sporse dalla poltrona con uno scatto. “Aspetta.”

Inghilterra gli scoccò un’occhiata da sopra la spalla.

America premette la punta dell’indice sull’aria verso lo schermo spento. “E la parte con i filmati di Italia?”

Gli occhi di Inghilterra ruotarono lentamente verso il televisore. Restarono fermi sullo schermo nero, corsero lungo l’intreccio di cavi gialli, bianchi e rossi che entravano nel fianco della telecamera poggiata sul ripiano di fianco al televisore, e Inghilterra sbatté le palpebre. Nel buio, rivide per un istante gli ultimi fotogrammi del filmato, le venti rose bianche posate sulla lastra di pietra, il viso di Italia, rosso di pianto, e le lacrime che venivano assorbite dal tessuto del guanto giallo. Le braccia di Germania che gli avvolgevano le spalle tenendolo stretto contro il petto.

Inghilterra scosse il capo. “Facciamo finta di non avere visto niente. Ultimamente...” Ruotò gli occhi davanti a sé. Arricciò un angolo della bocca verso il basso, infossandolo nella guancia. Le sopracciglia corrugate fino alla radice del naso. “Ultimamente ci stiamo mettendo tutti un po’ troppo a nudo.” Lanciò un’ultima occhiata fulminea ad America. “Tutti noi.”

 

.

 

Copiarono su disco l’intervista di Sealand, misero il CD in archivio insieme ai diari, e restituirono la telecamera a Italia.

Lo ringraziarono senza fare commenti, come se non avessero visto nulla.

 

.

 

N.d.A. (2)

Comunicazione di servizio!

Nei giorni del 13 settembre, del 4 ottobre e del 25 ottobre, “Il Miele sul Bicchiere” non sarà aggiornata per permettermi la pubblicazione di una mini-long di tre capitoli. Nelle settimane di mezzo, gli aggiornamenti proseguiranno con regolarità.

Perdonatemi, l’ispirazione chiamava...

Grazie a tutti per la comprensione! Ci vediamo tra due settimane. ^_^

   
 
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