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Autore: Helena Kanbara    20/09/2015    4 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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Da parachute: «I Carter pianificavano da tempo di attirarti a Beacon Hills, lo sai. Ma c’è una cosa che non ti ho mai detto: io ero coinvolto. E non ero l’unico». […]
«Di cosa stai parlando?», sussurrai flebilmente, giusto poco tempo prima che Derek prendesse a raccontarmi una storia che mai avrei potuto immaginare di dover ascoltare. […]
«[…] quando Thomas mi ha chiesto di aiutarlo a portarti qui e riprendere potere su Beacon Hills, io ho acconsentito […]. Ma alla fine il piano non è stato messo in atto: gli Stilinski hanno scelto te di loro spontanea volontà e la mia collaborazione non è più servita. Tuo nonno ha guadagnato due piccioni con una fava».

 

«Hai parlato con Derek?». […]
«Ho scoperto che lui e mio nonno sono molto legati».
«Fantastico». […]
«E che Thomas gli aveva chiesto aiuto per riportarmi qui. Cosa che poi non è successa perché c’avete pensato tu e Stephen».
«Il che mi fa sentire un tantino in colpa».
 
kaleidoscope
 
 
4.    You and I
 
Quel sabato pomeriggio uscii dalla Beacon Hills High School da sola, sforzandomi di individuare il più velocemente possibile la macchina di mio cugino Walter tra la folla soffocante del parcheggio. Stavo letteralmente scappando, come al solito, ma non c’era niente che in quel momento desiderassi di più. Dunque perché evitarlo?
Liberai un sospiro di sollievo alla vista di mio cugino: se ne stava poggiato contro la sua utilitaria metallizzata e non appena mi vide agitò le dita nella mia direzione in un saluto a cui risposi con un semplice sorriso striminzito. Lo conoscevo da pochissimo, ma già sentivo di volergli un gran bene e sapevo che stare con lui quel giorno mi avrebbe distratta ben bene dalla marea di problemi che già da un po’ di tempo rischiava di sommergermi, facendomi annegare. Ecco perché quando nostro nonno Thomas ci aveva invitati entrambi a pranzo, non me l’ero fatto ripetere due volte prima di dire sì.
«Ciao, cugina», mi salutò Walt non appena l’ebbi raggiunto, sporgendosi a darmi un abbraccio e scompigliandomi allegramente i capelli.
Lo fulminai mentre me li sistemavo alla bell’e meglio, affrettandomi in direzione del posto del passeggero. Volevo allontanarmi da quella scuola e da Stiles il prima possibile. Non sopportavo più di vederlo che mi ignorava senza che sapessi bene perché. Avevo assoluto bisogno di distrarmi.
«Muoviamoci, dai», borbottai comunque, prendendo posto in auto e fingendo che non fosse nulla. «Nonno ci aspetta».
Walt mi si sedette al fianco, riservandomi una lunga occhiata confusa prima di mettere finalmente in moto.
«Che cos’hai? Non ti ho mai vista così impaziente per un pranzo in famiglia», osservò, e Dio solo sapeva quanto ci avesse visto dannatamente giusto anche quella volta.
Mi conosceva a malapena, eppure mi capiva meglio di quasi chiunque altro. Tanto da sapere che non fosse l’idea di rivedere quella famiglia che avevo ritrovato da pochissimo a farmi stare così tanto in ansia. Non potei far altro che trattenere uno sbuffo infastidito, completamente esposta dinanzi ai suoi occhi ambrati. Cavoli, non lo sopportavo quando faceva così. Mi beccava sempre.
Rifuggii il suo sguardo mentre masticavo un’imprecazione e me ne rimasi in silenzio, convinta a non dargli più corda né tantomeno ad ammettere ciò che era già piuttosto evidente. Ma non volevo assolutamente dargli soddisfazione. A tutti i costi.
«E Stiles dov’è? Pensavo sarebbe venuto anche lui, come al solito».
Ma a quel punto restarmene zitta mi fu impossibile. Mi voltai a cercare nuovamente il viso di mio cugino con un diavolo per capello e gli occhi spiritati, quasi. Aveva nominato l’unica persona della quale avrei preferito non parlare e in quel momento lo odiai così tanto da credere addirittura di volerlo uccidere a mani nude. Alla fine dovetti inscenare una sottospecie di training autogeno per tranquillizzarmi tanto da non sbraitargli contro come in realtà avrei voluto fare.
«Io e Stiles non ci parliamo da ieri», borbottai, incrociando le braccia al petto con aria più che stizzita. «Chiusa parentesi».
Walter capì subito di dover lasciar cadere l’argomento ed io gliene fui immensamente grata, anche se ancora una volta tenni i miei pensieri per me, limitandomi a fissare fuori dal finestrino la Beacon Hills del sabato pomeriggio che mi sfrecciava accanto.
«Sento che non è solo Stiles a preoccuparti», mormorò comunque Walt dopo qualche minuto, quando già mi ero abituata più che bene a quel silenzio piacevole e rilassato.
Il suono della sua voce mi fece sobbalzare e mi voltai a guardarlo di scatto, non convinta di volergli ancora parlare dei miei problemi. Ma aveva ragione: non era solo Stiles ad innervosirmi tanto.
«Non voglio obbligarti, ma sai che con me puoi sfogarti», mi rassicurò ancora, continuando a parlare perché incoraggiato dal mio silenzio eloquente.
Distolsi di nuovo gli occhi da quelli di mio cugino, mentre mi sentivo avvampare dall’imbarazzo. Mi stavo comportando da stronza mentre lui voleva semplicemente che mi sfogassi e stessi meglio. Sospirai, torturandomi le dita in grembo e allo stesso tempo riflettendo su come avrei cominciato a spiegargli ciò che mi sentivo dentro.
«È che mi manca la mia famiglia», dissi infine, provando subito dopo l’immediato impulso di mordermi la lingua dalla vergogna.
Ma cosa andavo blaterando? Anche Walter era la mia famiglia! Strizzai gli occhi, dandomi più volte della stupida.
Qualcuno lassù mi voleva bene, comunque, perché mio cugino non sembrò stizzirsi affatto per quel commento e anzi, annuì con l’aria di chi – ancora una volta – aveva capito tutto. Rimase in silenzio, permettendomi di continuare senza farmi pressioni. E subito ne approfittai per rimediare a quella mia terribile gaffe.
«Mi manca il Texas», ritrattai. «Mi manca la mia vecchia, monotona e normale vita. Dove non ero nient’altro che una liceale coi classici problemi da teenager. Qui invece sono tutt’altro. Ed è così frustrante e stancante…».
Non avevo chiesto che mi succedesse tutto quello. Non avevo mai desiderato trasferirmi in una città che mi avrebbe cambiato la vita con tutte le sue creature soprannaturali. Non volevo dover convivere con dei poteri che ancora non sapevo come gestire né tantomeno abituarmi all’idea che un giorno sarei stata a capo di un’intera famiglia di chiaroveggenti. Non ero stata creata per seguire quelle tradizioni, ma avevo capito già da tempo di poter fare davvero molto poco per cambiare le cose. Quella ormai era la mia vita, e finché non fossi tornata in Texas avrei dovuto fare di tutto per viverla al meglio e soprattutto per tenere al sicuro non solo me stessa ma anche tutte le persone alle quali tenevo.
«Lydia è sempre più strana e non sappiamo cos’abbia. Non si è trasformata, quindi dovrebbe tornare a star bene. Ma non ci riesce, e non c’è niente che io possa fare per aiutarla. Si rifiuta persino di parlarmi». Anche lei, aggiunsi mentalmente, ma tenni quell’osservazione per me. Non volevo risultare a Walter ancor più patetica di così. «Poi Derek se ne va in giro a trasformare ragazzini! L’ha fatto con un tipo che credevo potesse diventare mio amico… E ora non so nemmeno se è ancora vivo o meno. Lo odio così tanto, Walt».
La voce quasi mi si spezzò su quell’ultima frase e mio cugino non ci mise molto a capire quanto sul serio tutta quella situazione mi facesse stare male. Lo vidi che mi riservava una lunga occhiata dispiaciuta mentre svoltava nella via della casa di nonno Thomas, poco prima di riportare l’attenzione alla strada e fare per parlarmi.
«Ma Derek adesso è un alpha, Harry», mormorò cauto, come se avesse paura di indispettirmi con quelle parole pregne di verità. «Ed è giusto che si crei un branco, se lo fa stare bene. Non è per questo che ce l’hai con lui e lo sai».
Un’altra volta ancora non potei far altro che incassare il colpo, distogliere lo sguardo dal viso di mio cugino e lasciarmi andare a fuoco dall’imbarazzo. Walter Edwards mi conosceva molto meglio di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere. E di nuovo era riuscito a centrare perfettamente il nocciolo della questione.
Era vero: non ce l’avevo con Derek perché si stava costruendo un branco – una famiglia – ce l’avevo con lui perché mi aveva tradita. Mi aveva detto un mucchio di cazzate. E aveva irretito dei ragazzini; menti facili da plagiare. Non riuscivo ad accettarlo.
Ma non sarei mai stata capace di ammetterlo ad alta voce, perciò strinsi i pugni per trattenermi e cambiai nuovamente argomento, com’ero bravissima a fare quando i discorsi diventavano troppo spinosi per essere portati avanti senza problemi.
«Stiles si preoccupa per me in continuazione e questo, paradossalmente, non fa altro che allontanarci», sussurrai, mentre il dispiacere mi serrava lo stomaco. «Jackson è anche lui sempre più strano. Per non parlare poi di quanto mi fanno stare male le continue bugie che rifilo a Stephen… E mio padre! È tutto troppo, davvero. Non so se posso farcela a continuare così».
A quel punto, Walt si limitò a schioccare la lingua contro il palato e poi spense l’auto, scendendo subito in strada. Successe tutto così velocemente che a malapena mi accorsi del fatto che fossimo finalmente arrivati alla magione Carter. Feci per scendere, ma la figura di Walter di fronte al mio sportello mi impedì qualsiasi movimento. Come diavolo aveva potuto essere così veloce? Alla fine fu lui ad aprirmi e a porgermi una mano affinché lo raggiungessi fuori – una mano che afferrai subito senza esitazioni.
«Certo che ce la fai, Harriet», mi disse mio cugino quando gli fui nuovamente di fronte, stringendomi la mano ed infondendomi una sicurezza inaspettata. «Non sei sola».
 
«Non sapevo se ti piacessero i marshmallows, perciò ho evitato di metterli. Mi dispiace».
Afferrai la tazza ricolma di cioccolata calda che mi porgeva Thomas, accoccolandomi meglio sul divano ad angolo mentre mia nonna Sarah ne approfittava per sistemarmi meglio il plaid addosso. Avevamo pranzato tutti e quattro insieme per poi trasferirci in salotto, al calore del camino e in compagnia di una buonissima cioccolata calda. Per me, senza marshmallows.
«Va bene così», scrollai le spalle, trangugiandone un lungo sorso. «Grazie».
Thomas annuì con un sorriso, poi prese posto di fianco a me mentre Walter se ne stava su una poltrona lì vicino, tutto preso dal suo cellulare oltre che ovviamente dalla cioccolata calda. Avrei voluto sapere chi fosse a distrarlo così tanto, ma mio nonno catturò subito tutta la mia attenzione.
«Derek sta creando un branco, quindi», mormorò con estrema nonchalance, mentre a me invece tornava la voglia di dare di matto.
Ma ancora una volta avrei dovuto controllarmi.
«Così pare», borbottai come se niente fosse, lanciando un’occhiataccia in tralice a Walt, che continuò a fingersi ancora occupato col suo maledettissimo cellulare.
Sapevo fosse stato lui a parlare a nostro nonno di Derek, e lo odiavo più che mai per quella sua pugnalata.
«Ciò ti preoccupa?».
Ricercai gli occhi azzurri di Thomas Carter con espressione scioccata. Io? Preoccupata per Derek? E quando mai?
«Assolutamente no. Non m’interessa più nulla di Derek», soffiai, carica di veleno. «Tu, piuttosto. Perché non mi hai detto di conoscerlo?».
Mio nonno scrollò le spalle, non interrompendo mai il nostro contatto visivo. Voleva dimostrarmi di non avere assolutamente nulla da nascondere, ma sapevo benissimo che non fosse così.
«Non ce n’è mai stata occasione».
«Be’, mi sarebbe piaciuto che tu me lo dicessi comunque. Ho saputo del suo coinvolgimento nel piano da lui e non da te che sei mio nonno!», trillai, ovviamente stizzita.
Tanto che la tazza cocente mi tremolò tra le mani e per poco non finii a rovesciarne tutto il contenuto sul divano in pelle. Sospirai, tentando di riacquistare una calma che ormai avevo perso.
«Un piano che alla fine non è stato messo in atto. Che senso aveva parlartene, quindi?», sviò ancora Thomas.
Era evidente di come volesse evitare l’argomento, ma ancora non ero pronta a permettergli di scappare così. Mi aveva promesso che mi avrebbe sempre detto tutto ciò che desideravo sapere, ed ora era quello che mi premeva di più. Quel piano. E nient’altro.
«Chi altro era coinvolto?», chiesi dunque, approfittando del silenzio che seguì quel mio quesito per prendere un altro sorso di cioccolata.
«Oltre a Derek? La Morrell, la tua professoressa di francese».
Oh mio Dio.
Mio nonno dovette leggermi lo sgomento in faccia, perché si aprì subito in un ghigno consapevole. Nonna Sarah, dal canto suo, riprese a carezzarmi la schiena nella speranza di tranquillizzarmi almeno un po’. Una speranza piuttosto vana la sua, ma apprezzai comunque il gesto.
«Scommetto che avresti preferito non saperlo», osservò Thomas dopo un po’, mentre io mettevo da parte la cioccolata – mi si era all’improvviso chiuso lo stomaco – e cercavo di ingoiare il fiotto di bile risalitomi in gola.
La Morrell era parte del piano che mio nonno aveva messo su per potermi riportare a Beacon Hills. Marin Morrell. La mia professoressa. L’organizzatrice del corso di Intercultura che mi aveva fatta arrivare in California e convivere con gli Stilinski. Non riuscivo a crederci. E avevo assoluto bisogno di cambiare argomento.
«Di mio padre che mi dici?».
Ancora una volta, Thomas si limitò a scrollare le spalle. Prima di rispondermi, sorrise ad una domestica accorsa a liberarsi delle nostre tazze vuote. Poi riportò tutta la sua attenzione sul mio viso.
«Qui non s’è visto».
Aggrottai le sopracciglia. Nel puzzle di cose che credevo non sarei mai riuscita a capire, mio padre era senz’altro il tassello più confuso. Dannazione.
«È andato solo da zia Erin. Perché?», domandai, a non sapevo nemmeno io chi.
«Perché sapeva che mia madre e mio padre l’avrebbero mandato via a calci nel culo».
Mio cugino riuscì inaspettatamente a strapparmi una risatina con quella sua osservazione, ma in compenso si guadagnò un’occhiataccia da parte di nostro nonno. Il che mi fece ridacchiare ancor di più.
«Sono sempre stati molto legati», lo corresse Thomas, ritornando poi a fissare me.
Ma improvvisamente sembrava non avere più poi così tanta voglia di portare avanti l’argomento, perché sviò com’eravamo bravissimi a fare entrambi.
«Comunque, come vanno le tue visioni?».
«Magnificamente. Sono regolari e normali. Niente più cose strane o terrificanti», descrissi, stringendomi di più il plaid addosso.
Ero tranquilla, finalmente.
«Purtroppo sento che la cosa non durerà ancora a lungo, bambina».
Ma mio nonno provvide subito a rovinare tutto. Tanto che mi accigliai immediatamente.
«Perché?».
Thomas fece spallucce, poi si mise in piedi e subito nonna Sarah lo seguì. Il momento “stiamo in famiglia” era finito.
«Non lo so. Non ho più tutto questo potere. Ma tu sì», mi disse, prima di sparire del tutto.
Non appena i miei nonni abbandonarono la mia visuale, cercai gli occhi di Walter. Lui si limitò a riservarmi un’occhiatina comprensiva, poi mi raggiunse sul divano e mi strinse a sé. Sapeva meglio di chiunque altro quanto diavolo fossi terrorizzata da tutta quella storia di poteri e responsabilità, ma non disse nulla – perché sapeva quanta poca forza avessi di discuterne, in quel momento. Semplicemente mi rimase al fianco finché non sprofondai in un sonno ricolmo di sogni.
Stiles era infuriato. Già. Ancora. Ce l’aveva col mondo. E sapeva che se non si fosse fatto lontano al più presto da quella sottospecie di modello mancato che si ostinava chissà perché a fare il meccanico, avrebbe finito per esplodere senza via di ritorno. Si sentiva proprio come se fosse una bomba ad orologeria, il cui tempo di esplosione si accorciava sempre più. Tic, tac. Tic, tac. Non sapeva chi o cosa lo infastidisse di più, dato che a quel punto la sua rabbia era degenerata tanto da diventare generale e rivolta a tutti. In primis a se stesso. Oh sì, perché era irritato a morte da se stesso. E ce l’aveva anche con Harriet, ovviamente, la quale non perdeva mai occasione per attirare pericoli su di sé, neanche fosse una dannatissima calamita. Lo faceva preoccupare così tanto che alle volte credeva che gli sarebbe venuto un infarto. Non poteva sopportare l’idea che le succedesse qualcosa di male, ma Harry ancora sembrava non capirlo del tutto. Ed erano finiti ad ignorarsi per molto più tempo di quanto Stiles avrebbe potuto sopportare, entrambi troppo cocciuti e spaventati per fare il primo passo e provare a risolvere la questione.
Ma Stiles non ce l’aveva solo con lei, no. Sarebbe stato troppo semplice. Stiles ce l’aveva anche con Erica – da morire – e soprattutto ce l’aveva con Derek, che trasformandola l’aveva resa una stronza. Una stronza che non si era fatta scrupoli a distruggergli la Jeep. E ancora, Stiles ce l’aveva con quel dannatissimo meccanico che non riusciva proprio a ricordare chi gli avesse consigliato di vedere. Dannato lui e dannata la sua sete di soldi. E dannato anche chiunque l’avesse spedito lì.
Stiles raggiunse la porta che poi l’avrebbe condotto ai bagni a grandi falcate, non perdendo tempo a far scivolare una mano sulla maniglia mentre dentro ancora si sentiva ribollire di rabbia. Ma le sue dita persero subito il contatto con l’ottone, ritrovandosi a scivolare su qualcosa di così viscido da farlo rabbrividire.
«Grande», imprecò immediatamente, osservando con aria disgustata le dita impregnate di quel liquido trasparente e viscoso. Non aveva idea di cosa fosse, e qualcosa gli diceva che forse sarebbe stato meglio non scoprirlo. «Davvero molto igienico. Mandi avanti un’impresa di qualità, amico!».
Ma il belloccio continuò ad ignorarlo, fingendosi troppo impegnato a lavorare sulla sua dannatissima Jeep. Stiles gli rifilò l’ennesimo insulto e poi si chiuse la porta alle spalle, asciugandosi la mano sulla felpa rossa e afferrando subito il cellulare dalla tasca dei jeans chiari. Prima che potesse scrivere un messaggio, comunque, il suo sguardo ambrato fu catturato da una foto. Essa ritraeva il padrone di quel postaccio con indosso nientemeno che la divisa dei Cyclones, la squadra di lacrosse della Beacon Hills High School. Tipico, pensò Stiles poco prima di riportare tutta la propria attenzione al cellulare. Ma all’improvviso non aveva idea di cosa volesse scrivere né a chi dovesse inviare quel messaggio. E in più, le sue dita non ne volevano più sapere di rispondere ai comandi del suo cervello quasi atrofizzato. Stiles si sforzò di muoverle sul touchscreen mentre cercava in tutti i modi di non andare nel panico, ma non importava quanto ci provasse: erano immobilizzate, come quando fuori fa troppo freddo. E la cosa terribile era che lì dentro non faceva affatto freddo.
Il cellulare gli scivolò tra le mani prima ancora che potesse rendersene conto sul serio, cadendo sulla moquette con un lieve tonfo. Stiles ne seguì la discesa con gli occhi, poco prima di riportare lo sguardo di fronte a sé. L’officina era divisa da un’ampia vetrata e da lì Stiles poteva vedere chiaramente il belloccio che ancora lavorava, come se niente fosse. Fece per chiedergli aiuto, ma il suo urlo gli rimase incastrato in gola alla vista di una zampa squamata e dotata degli artigli più lunghi che avesse mai visto prima d’allora. C’era una creatura sulla sua Jeep, una creatura dall’aria minacciosa e sconosciuta.
«Ehi!». Di nuovo provò ad urlare e ad avvertire il meccanico prima che fosse troppo tardi, ma anche le corde vocali gli sembravano all’improvviso immobilizzate. Nonostante quanto si sforzasse, non riusciva nemmeno più a parlare. Né a stare in piedi.
Stiles rovinò sulla moquette senza riuscire ad impedirselo, ma ancora una volta fece di tutto per non farsi prendere dal panico e continuare a lottare. Sentiva le proprie forze abbandonarlo sempre più, eppure fece di tutto per scivolare sul pavimento finché non riuscì a raggiungere il proprio cellulare e a vedere che – nell’altra stanza – anche il belloccio aveva ormai perso la capacità di muoversi e se ne stava immobilizzato a terra proprio come lui, mentre la creatura lo squadrava con aria soddisfatta: era riuscita a disattivare il sostegno della Jeep e la osservava nella sua lenta discesa verso il corpo del meccanico.
L’avrebbe schiacciato. Sarebbe morto. Stiles riusciva a pensare solo a questo mentre lo sentiva chiedere aiuto sommessamente e combatteva contro le proprie forze per digitare il numero del 911. Ma era ormai così debole e c’era così poco tempo prima che la Jeep raggiungesse il pavimento che alla fine Stiles non poté far altro che arrendersi, strizzando gli occhi perché – non importava cosa sarebbe successo dopo – non voleva assolutamente assistere ad ulteriori spargimenti di sangue. Non l’avrebbe permesso.
«911, qual è la sua emergenza?».
Quella voce arrivò come un fulmine a ciel sereno e subito Stiles riaprì gli occhi, improvvisamente rincuorato. Ce l’aveva fatta: la chiamata era partita e anche se non avesse aperto bocca, sapeva che un’auto di pattuglia sarebbe comunque partita dalla centrale di polizia per assicurarsi che lì fosse tutto a posto. Forse aveva ancora possibilità di salvarsi.
Fece per sospirare, sollevato, ma il respiro gli si mozzò in gola alla vista improvvisa della creatura di fronte a sé. Gli era molto più vicina di quanto Stiles avrebbe potuto sopportare: si era mossa con passo agile e silenzioso, cogliendolo completamente di sorpresa e facendolo sobbalzare dalla paura con uno strillo acuto. Per un lunghissimo attimo, Stiles credette di essere spacciato. Pensò che la creatura avrebbe ridotto in poltiglia l’unica porta di vetro che li separava e poi si sarebbe avventata su di lui, finendo ciò che col meccanico non aveva ancora completato. Un omicidio.
Ma la creatura non provò nemmeno a raggiungerlo, anzi. All’improvviso si fece lontana dalla porta e sparì, come se fosse di colpo terrorizzata da qualcosa che Stiles non poteva capire. Nemmeno si sforzò di dare un senso a ciò che era successo, tra l’altro: era troppo stanco e semplicemente mollò la presa, lasciando che finalmente il buio l’avvolgesse.
Aprii gli occhi di scatto, boccheggiando alla ricerca dell’ossigeno che quella visione mi stava rubando completamente. Stiles. Stiles era in pericolo e aveva bisogno di me. Dovevo correre da lui e assicurarmi che stesse bene. Mi portai una mano al petto, cercando di tranquillizzarmi un po’ prima di svegliare Walter. Mi si era addormentato al fianco e non volevo che anche a lui prendesse un colpo nel vedermi in quelle condizioni. Aspettai quindi che i battiti del mio cuore tornassero quantomeno regolari e poi mi liberai del plaid in pile, mettendomi in piedi anche se mi sentivo le gambe molli come gelatina.
«Walt», chiamai scrollandolo per le spalle, prima piano e poi – secondo dopo secondo – sempre più forte.
Dormiva profondamente e dovetti sforzarmi davvero molto per riscuoterlo dal suo sonno.
«Walt!», quasi strillai infatti, e grazie a Dio dopo quel mio urlo mio cugino ritornò nel mondo dei vivi.
Osservai il suo viso che, nella penombra lasciata dal fuoco quasi estinto del camino, si distendeva – ancora rilassato dal sonno – e poi vidi al contrario la sua espressione accigliarsi non appena mi vide. Dovevo avere un aspetto orribile: capelli scompigliati, occhi lucidi e vestiti spiegazzati. Ma non m’importava. Mi interessava solo di aiutare Stiles, in quel momento.
«Che succede?», mi domandò Walter, disfacendosi anch’egli del plaid ma non provando nemmeno a mettersi in piedi.
Cosa che invece avevo bisogno che facesse al più presto.
«Devi alzarti. D-Dobbiamo andare», balbettai, distogliendo lo sguardo da mio cugino e cominciando a muovermi freneticamente per il salotto alla ricerca di tutte le mie cose. Non c’era più tempo da perdere, e quando riparlai lo capì finalmente anche Walt. «Stiles è in pericolo».
 
«Harry?».
Stiles mi riservò una lunga occhiata confusa, come se non riuscisse a credere che sul serio fossi lì di fronte a lui. E sapevo benissimo che aveva ragione di farlo: d’altronde lui non mi aveva chiamata per dirmi di quell’incidente né di dove fosse e non poteva certo immaginare che mi trovassi lì a causa di un’altra delle mie visioni.
Non ebbi tempo né forza di dirglielo, semplicemente gli corsi in contro il più velocemente possibile e mi tuffai praticamente tra le sue braccia non appena ne ebbi occasione. Sembrava stare bene, ma volevo accertarmene con le mie mani prima di poter cantare vittoria. Le braccia di Stiles si strinsero subito attorno ai miei fianchi ed io chiusi gli occhi, sentendomi finalmente al posto giusto mentre le mie narici si riempivano dell’odore di Stiles – che mi era mancato da morire – e il mio cuore ritornava a battere tranquillo.
«Dimmi che stai bene», implorai comunque, ancora non del tutto decisa a mollare la presa.
La stretta di Stiles si rafforzò immediatamente e una sua mano corse tra i miei capelli lunghi, strappandomi un sospiro.
«Cosa ci fai qui?».
Aveva evitato di rispondermi. Me ne resi conto subito, ma non me la sentii proprio di infierire. Semplicemente mi feci lontana dal nostro abbraccio, desiderando che la mia delusione restasse nascosta.
«Ti ho sognato. Ho riconosciuto il posto e mi sono catapultata qui», gli spiegai, con la voce che già tremolava e gli occhi lucidi. «M-Mi dispiace».
Le mani di Stiles si chiusero subito sulle mie guance, prima ancora che potessi scappare del tutto ai suoi occhi. Mi costrinse a sostenere il suo sguardo e quando reputò che gli stessi donando l’attenzione che voleva, riprese a parlare.
«Di cosa?», mi chiese, ed io tirai su col naso nella speranza che ciò potesse aiutarmi a trattenere delle lacrime che all’improvviso sentivano un fortissimo bisogno di straripare dai miei occhi.
«Di non essere arrivata in tempo», mormorai alla fine, sventolando bandiera bianca.
Mi ero arresa, ormai, e le due lacrime che bagnarono non solo le mie guance ma anche le dita di Stiles ne erano la prova lampante.
«Ehi, smettila», mi redarguì lui subito, non perdendo tempo ad asciugarmi le guance già umide con le dita. «Sei arrivata in tempo».
Scossi la testa, afferrandogli le mani con le mie.
«Non è vero. Sarebbe potuto succederti di tutto. Ed io–».
La mia frase morì direttamente sulle labbra di Stiles, che ritrovai sulle mie così all’improvviso da non poter far altro che sgranare gli occhi, comunque totalmente incapace di farmi lontana da quel piacevolissimo contatto che mi era mancato molto più di quanto avessi creduto. Strinsi le mani di Stiles tra le mie e finalmente mi lasciai andare, tranquilla, ma quel nostro contatto s’interruppe fin troppo presto.
«Non voglio più vederti piangere», mi redarguì Stiles, muovendo ancora i pollici sulle mie guance per asciugarle del tutto.
Ma io quasi non lo ascoltavo più. A momenti non gli lasciai nemmeno il tempo di finire di parlare perché mi rituffai sulle sue labbra, ben decisa – finalmente – a non lasciarlo andar via tanto presto. Un’ostinazione la mia, che Stiles accolse con estrema gioia. Tanto che ricambiò il mio bacio senza farselo ripetere due volte, quella volta senza trattenersi e stringendomi a sé ogni minuto che passava un po’ di più.
«Oddio», mormorò quando alla fine fummo costretti a separarci, entrambi alla ricerca di ossigeno. Aveva il fiato corto e lo sguardo ancora fisso sulle mie labbra. E non l’avevo mai visto più bello di così. «Mi sento un coglione ad averti evitata così a lungo mentre avrei potuto fare questo tutto il tempo».
Di nuovo le dita di Stiles si mossero sulle mie guance, raggiungendo questa volta anche le labbra, che attraversò in una carezza capace di strapparmi diversi brividi. Avrei voluto sorridere e sentirmi finalmente tranquilla come avrei dovuto – avevamo chiarito, andava tutto bene tra di noi – ma ancora c’era qualcosa che mi faceva stare in ansia. Il ricordo costante di quella mia ultima visione.
«Cos’era quella creatura?», sussurrai quindi, sapendo che se non ne avessi parlato con Stiles non mi sarei mai sentita in pace con me stessa. Troppi dubbi mi affollavano la mente dolorante e avevo bisogno di liberarmi non solo di quelli ma anche dei miei soliti brutti presentimenti.
Lui semplicemente scrollò le spalle, facendosi lontano da me e rifuggendo il mio sguardo scuro.
«Non lo so. I suoi occhi… sembravano quelli di un rettile», descrisse. Poi tornò a guardarmi, curioso di vedere come avrei reagito a quella notizia. «È stato così strano. Era come se…».
«Cosa, Stiles?», incalzai, pur sapendo bene quanto lui avrebbe preferito troncare lì il discorso.
Ma io al contrario non avevo nessuna intenzione di arrendermi. Non quella volta.
Tanto che alla fine fu Stiles a cedere.
«Era come se mi conoscesse».
 
«Carter, piantala».
Il sorriso mi si cristallizzò sul viso al suono improvviso di quel rimprovero e gli occhi di Stiles subito abbandonarono i miei per correre ad analizzare la figura apparentemente scocciata di Bobby Finstock.
«Di fare cosa, prof?», gli domandai, sebbene mi sentissi ancora piuttosto intimidita dal tono con cui mi aveva ripresa. Come se poi sul serio stessi facendo qualcosa di male!
Il coach inarcò un sopracciglio con aria scettica, come se trovasse irritante il mio far finta di nulla. Ma io sul serio non riuscivo a capire perché all’improvviso ce l’avesse tanto con la sottoscritta.
«Me lo distrai con la tua sola presenza! E lui», indicò Stiles, al che mi sentii andare a fuoco perché iniziavo a capire bene cosa lo irritasse tanto del mio – o meglio dire del “nostro”? – comportamento, «deve restare concentrato sul gioco. Proprio come me».
«Ma…», provai ad obbiettare, ancora per niente decisa ad ammettere le mie colpe.
Okay. Magari io e Stiles ci eravamo fatti un poco poco prendere la mano con tutti gli sguardi e i sorrisini che ci eravamo scambiati fin dall’inizio della partita di lacrosse, e magari i nostri sussurri potevano aver infastidito Finstock… Ma che colpa ne avevamo sul serio? Eravamo insieme; tutto il resto passava in secondo piano, anche senza che lo volessimo.
«Sparisci», ordinò il coach, e allora non potei far altro che abbandonare la panchina con un sospiro sconfitto.
Salutai Stiles con un innocentissimo bacio sulla guancia e mi rifugiai sugli spalti, il più lontano possibile dal professor Finstock – e da Stiles, purtroppo. Individuai subito Allison tra la folla, ma evitai di raggiungerla quando vidi che sedeva di fianco a suo nonno Gerard. Quell’uomo mi intimidiva tanto da rendermi ben consapevole del fatto che non sarei sopravvissuta ad un’intera serata accanto a lui. Ecco perché evitai di raggiungere la mia amica, decidendo di rimanermene in disparte quando scoprii che lì intorno non ci fosse nemmeno la minima traccia di Lydia. Rimasta completamente sola cercai di concentrarmi sulla partita, ma il mio sguardo correva fin troppo spesso alla figura di Stiles – non riuscivo a pensare ad altro che a lui – e molto spesso ci ritrovammo ancora, seppur lontani, occhi negli occhi. Il che era bellissimo e mi strappò più di un sorriso.
Avevo tenuto un posto libero per Stephen, nella speranza che potesse raggiungermi anche quel giorno per dare supporto morale alla squadra del figlio, anche se quest’ultimo continuava a restare sempre relegato in panchina. Il che mi fece ripensare al rimprovero che Finstock mi aveva rifilato solo pochissimo tempo prima. Perché mai preoccuparsi tanto del fatto che distraessi Stiles quando non aveva nemmeno intenzione di farlo scendere in campo? Il rumore di qualcuno che occupava il posto di fianco al mio mi impedì di trovare una risposta a quel quesito.
«Finalmente ce l’hai fatta! La partita è già–». Quello di fianco a me non era Stephen Stilinski. Mi resi conto di come fosse decisamente troppo giovane e troppo biondo per essere il padre di Stiles quando già era troppo tardi. La voce mi si spezzò in gola, impedendomi di continuare a parlare mentre un familiare senso di terrore correva ad artigliarmi lo stomaco.
«Cosa ci fai qui?», riuscii comunque a soffiare, cercando di non ricambiare lo sguardo di Stiles. Me lo sentivo addosso ed era preoccupato di vedermi insieme a quello che per lui era un perfetto sconosciuto, ma non volevo che le cose peggiorassero. 
Victor Daehler mi riservò un sorriso soddisfatto, facendo spallucce come se niente fosse prima di decidersi a darmi la risposta che cercavo. Osservai le sue fossette con un brivido che mi correva giù per la schiena: quella volta mi aveva in trappola, dopo avermi tanto cercata in quegli ultimi giorni, alla fine mi aveva accerchiata nell’unico posto da cui sapeva che non avrei potuto scappare – non senza attirare fin troppe attenzioni sulla mia figura.
«Questa è la squadra di mio fratello, credevo di avertelo già detto», mormorò infine, mentre distoglievo lo sguardo dal suo viso e mi fingevo attenta ad una partita della quale in ogni caso non avrei capito un tubo.
Ovviamente Victor non mi aveva mai parlato di suo fratello e in generale non mi aveva mai parlato di sé: forse era anche per quello che la sua presenza mi terrorizzava. Fin dal primo momento non mi era sembrato affatto un tipo affidabile e il conoscerlo così poco di certo non aiutava a scrollarmi di dosso i miei pregiudizi.
«Non m’interessa», liquidai comunque, perché era vero. Non lo conoscevo né mi interessava farlo.
«Perché devi essere sempre così prevenuta nei miei confronti, Harriet?».
Sentii che Victor si muoveva al mio fianco – lo capii dalla zaffata di profumo da uomo che m’investì le narici – e di conseguenza scivolai anch’io sul mio sedile, a disagio.
«Tu non mi piaci. Per niente», mormorai, cercando di mantenere un tono di voce fermo e deciso – ma fallendo miseramente.
«E non credi che mi meriti almeno una possibilità per dimostrarti che non sono il Satana in borghese che credi? Vorrei solo poterti conoscere meglio. Perché... mi interessi».
Strizzai gli occhi, desiderando all’improvviso che Victor potesse sparire. Non ce la facevo ad affrontarlo in quel momento. Non ce l’avrei fatta mai.
«Possiamo parlarne un’altra volta, per favore? Sto cercando di seguire», pregai quindi, fingendomi ancora una volta interessata alla partita di lacrosse.
Ma Victor non cedette – non era abituato a darla vinta tanto facilmente. Anzi, mi si fece ancor più vicino dopo aver soffocato un risolino divertito.
«Quando avrai l’ennesima occasione per scapparmi?», mormorò contro il mio orecchio, strappandomi l’ennesimo brivido e rubandomi nuovamente la parola. «Non mi avevi detto di avere un ragazzo».
Mi si fece lontano, tornando a sedersi in maniera più o meno composta mentre io cercavo invano di trattenere un sospiro di sollievo. Seguii la sua figura di sottecchi, cercando di capire se mi stesse prendendo in giro ancora una volta.
«Non te l’ho detto perché non ce l’ho», risposi infine, tenendo lo sguardo fisso sul suo viso pallido, nell’attesa spasmodica di capire dove diavolo volesse andare a parare quella volta.
Vidi la sua espressione distendersi, poi Victor fece spallucce e distolse gli occhi nerissimi dal mio viso.
«Oh, allora suppongo sia solo uno spasimante. Devo temerlo?», domandò, ancora con lo sguardo fisso verso chissà dove.
«Si può sapere di chi stai parlando?».
Solo allora le pozze nere di Victor ritornarono a soffocare i miei occhi marroni. Mi guardò molto più a lungo di quanto fossi pronta a sopportare, poi con un dito mi indicò la panchina.
«Del tizio che si sta alzando proprio in questo momento», disse, e capii con immenso orrore che si riferisse a Stiles.
Stiles che stava andando via senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Stiles che – ancora una volta – avrebbe dovuto essere con me e non da solo.
 
«Chi diavolo era quel tizio?».
Mi aspettavo quella domanda, solo non così all’improvviso. Tanto che non potei far altro che sobbalzare sotto lo sguardo ambrato di Stiles, stringendomi più forte le braccia al petto. Eravamo nel parcheggio della Beacon Hills High School e il freddo di quella sera di inizio novembre si faceva sentire fin dentro le ossa.
Stiles non mi perse di vista un attimo, squadrandomi con un’espressione che in un’altra situazione mi avrebbe messa a disagio e non poco. Sembrava infuriato, ma sapevo bene di non avere nessuna colpa.
«Solo uno che si è fissato con me», liquidai, decisa a non volergli – ancora – parlare di Victor. Anche perché cosa diavolo avrei potuto dirgli? Io per prima lo conoscevo a malapena.
Ma quel mio comportamento non convinse affatto Stiles, che mosse l’ennesimo passo nella mia direzione con tutta l’aria di uno che non aveva la benché minima intenzione di lasciar cadere l’argomento. Per fortuna comunque, prima che potesse continuare a tenermi sotto torchio con quel suo interrogatorio serrato, Scott McCall attirò tutta la nostra attenzione.
«Ragazzi, ce l’abbiamo!», esclamò, prendendo a sfogliare velocemente le pagine del bestiario di Gerard Argent, il libro che in quei giorni tanto c’eravamo affannati a cercare e che invece se ne stava al sicuro nella usb del nonno di Allison. In tanto di formato pdf. Non si poteva certo dire che il vecchietto non fosse al passo coi tempi.
«Ma che lingua è?», mormorò Stiles qualche attimo dopo aver cercato – inutilmente – di dare un senso alle parole riflesse sullo schermo del suo Mac.
Provai anch’io a capire di che lingua si trattasse, ma non riuscii a venirne a capo. Non capivo una sola parola di quel testo che aveva tutta l’aria di essere scritto in latino, o magari in greco. Di certo c’era che nessuno dei tre conoscesse quella lingua antica – e quasi sicuramente morta – e che quindi eravamo ancora al punto di partenza, senza lo straccio di un indizio sull’identità della creatura che stava portando scompiglio nelle nostre vite.
«Si chiama kanima».
Il suono di quella voce mi fece sobbalzare ancor più dell’imprecazione di Scott: quest’ultima me l’ero aspettata, l’apparizione improvvisa di Derek no. Mi voltai a guardarlo lentamente, ancora poco convinta del fatto che lui fosse sul serio lì. Ma quando lo vidi avanzare nella nostra direzione con Erica al fianco dovetti rassegnarmi all’evidenza: non stavo sognando, non quella volta.
«Lo hai sempre saputo!», berciò Stiles allora, dedicandogli un’occhiataccia che mi fece aggrottare le sopracciglia.
Perché sembrava avercela con lui così tanto? Derek comunque non si scompose.
«L’ho capito quand’è scappato vedendo il suo riflesso».
Ci volle poco perché anche Scott capisse.
«Lui non sa che cos’è».
«O chi è».
Per un brevissimo istante provai quasi pena per quella creatura. Poi mi resi conto della mia stupidità e scossi la testa, fingendo indifferenza. Strinsi un po’ più forte le braccia al petto – come per proteggermi da chissà quale pericolo – poi mossi l’ennesimo passo nella direzione di Derek ed Erica.
«Cos’altro sai?», gli chiesi, e solo allora i suoi occhi verdi ritornarono sulla mia figura.
Fece spallucce, non riuscendo a sostenere il mio sguardo, anche se si sforzò fino all’ultimo di dimostrare il contrario. Non l’avevo mai sentito più lontano di così.
«Solo storie. Voci».
«Ma è come noi?», intervenne Scott, ponendo un quesito senz’altro molto interessante.
«È un mutaforma, sì. Ma è… un errore».
«Un abominio», lo corresse Stiles, e Derek annuì. Aveva perfettamente ragione.
E non c’era nient’altro da aggiungere, tanto che dopo averci riservato l’ennesima occhiata inespressiva, Derek fece per andare via ed Erica subito gli fu dietro. Ma l’urlo di Scott li fermò entrambi.
«Dobbiamo collaborare in questa storia. Magari dirlo agli Argent!», propose, disperato tanto da arrivare a proporre di allearsi col nemico.
Vidi l’espressione orripilata di Derek e subito gli impedii di parlare, ben sapendo che avrebbe finito semplicemente per aggredire Scott. Senza risolvere nulla.
«Possiamo chiamare i miei», lo anticipai, ma anche quella che credevo una buona idea venne prontamente bocciata dall’alpha.
«Non chiameremo proprio nessuno», borbottò, riservandomi una lunghissima occhiataccia prima di riprendere a scappare. «Me ne occuperò io. Troverò quel mostro. E lo ucciderò».
Quel nuovo Derek mi piaceva sempre meno.
 
 
 
 
Ain’t nobody in the world tonight
but you and I.
 
 
 
 
Ringraziamenti
A youtube, che mi piazza canzoni arrrrandom che io poi posso usare per i capitoli. 
You and I è di John Legend, quindi grazie anche a lui. Ma grazie soprattutto a Sam Smith, che mi ha ispirato come pochi nella stesura di questo capitolo (soprattutto delle ultime scene). You’re the man, Sam. ♡
E grazie anche a gilraen_white Axelle_ che sono DUE TESORI GRANDISSIMI.
 
Note
Se non avete letto parachute, alcune cose di questo sequel potranno lasciarvi almeno per un attimo un po’ confusi. Me ne rendo conto ed è proprio per questo che sto cercando non solo di spiegare meglio che posso durante i capitoli le questioni più piccanti, ma anche di inserire qua e là roba dal prequel, cosicché possiate afferrare almeno i punti più importanti senza dovervi sorbire l’intera storia (roba che se la leggeste mi fareste felicissima, ma onestamente mi rendo conto di non poter pretendere tanto).
Il leone che sputa fuoco lassù è nient’altro che il simbolo della famiglia Carter; che, per chi ancora non l’avesse capito, è una famiglia di chiaroveggenti. Harriet parla molto di sfuggita di questo simbolo nel
capitolo 20 di parachute, ma siccome immagino che questo dettaglio vi sia sfuggito (com’è giusto che sia) ho preferito specificarlo qui.
Riguardo i poteri di Harriet: la sua è una capacità, quella di prevedere il futuro attraverso “visioni”, della quale lei non si è mai resa conto prima di giungere a Beacon Hills. La famosa cittadina californiana ha infatti risvegliato tutti i suoi poteri (ecco spiegato perché nonno Thomas la voleva lì a tutti i costi) e l’ha costretta a fare i conti con una realtà che lei sente giorno dopo giorno diventare sempre più dura e pericolosa. Da come avrete potuto notare, mi avvalgo dell’uso della terza persona per descrivere ciò che vede Harry nei suoi sogni e n o n userò questo metodo per nessun’altra cosa, cosicché possiate rendervi conto subito del fatto che quando il pov è diverso, si tratta solo di un’altra delle tante visioni di Harry. Visioni che saranno separate dal suo pov, scritto sempre in prima persona, da quei divider bellissimissimissimi coi lupetti blu che ho trovato in internet. ♡
Spero così di rendervi il tutto meno fastidioso e confusionario possibile, e spero anche di aver spiegato bene tutto ciò che volevo. In caso contrario comunque vi chiedo scusa e ne approfitto per ricordarvi del mio profilo facebook (di cui vi lascio il link sotto!) dove potete cercarmi e chiedermi tutto ciò che v’interessa sapere, su kaleidoscope e non.
Victor Daehler è un personaggio che ho ripescato direttamente da parachute (anche lui) e che già lì avevo inserito non per niente. Qui lo vedrete moooolto di più, e capirete il perché già nel capitolo prossimo (anche se a dire il vero potreste arrivarci già ora perché avete la soluzione proprio sotto agli occhi). Io comunque non vi aiuto perché mi piace tenere alto il mistero. *risata malefica*
 
 
 
 
   
 
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