Premessa di Jiminy. Attenzione, spoiler del
capitolo XVII della long “Torna con lo scudo o su di esso.” Si parla di addirittura
dopo la Rivolta, con annesso il Vincitore dei 69esimi Giochi ed altre cose
random; quindi, se non volete rovinarvi la sorpresa, vi consiglio di non andare
oltre a questo punto. Se invece non sapete nulla di questa storia e volete
continuare a leggere, ben venga. Vi metto un piccolo riassunto sotto ^^
—> SPOILER <—
La storia è narrata da Raika
Swift, Tributo durante i 69esimi Hunger
Games, a sua figlia Axel, chiamata così per il nome
del suo migliore amico. È ambientata dopo più o meno una decina d’anni dalla
Rivolta. Raika ha vinto i Giochi a 16 anni, grazie
alla predilezione che la nipote del Presidente Snow
provava per lui e un attimo di distrazione del Primo Stratega. Questo, però,
gli è valso un caro prezzo: dopo aver finto una storia d’amore con la sua
alleata (cui tuttavia era molto legato), la ragazzina, resasi conto che
lui sarebbe morto pur di farla vincere, lo abbandona e, combattendo con un
altro Tributo, perde la vita. Dalla sua vittoria, Raika
torna silenzioso, schivo. Le uniche persone con cui si apre sono parte della
famiglia che si è costruito dopo la Rivolta. E sua figlia Axel
riesce sempre a trovarsi un posticino nel suo cuore. Buona lettura u___ù
Storie Perdute –
Le Leggende di Panem
District 9|Grain
L’Aviaurea.
— Teppista?
La biondina rannicchiata sotto le coperte rispose
appiattendosi ancora di più sul materasso. La tradì solo un respiro, forse
troppo forte, che terminò con uno starnuto.
— So che sei nascosta lì. Esci, su — le consigliò Raika, bonario. Nonostante gli creasse parecchi problemi, adorava
quella marmocchia perché sembrava aver preso da lui tutte le peggiori qualità. Eppure,
con un leggero dispiacere, riconosceva che quelle caratteristiche le avrebbero
dato seccature ben più gravi di una vecchia finestra rotta da una pallonata. Josh, rispettando certi vincoli di amicizia che l’uomo non
era riuscito a comprendere, non gli aveva neppure fatto ripagare il danno, ma
sua figlia non poteva continuare a distruggere tutto ciò che si trovava davanti
con quei suoi amichetti. E di sostituire il suo amato calcio con qualche
bambola di pezza non se ne parlava neanche per sogno.
Dal letto provenne una voce infantile.— Axel non c’è, qui.
— E dov’è, allora? — le rispose suo padre, giocherellando
con l’idea di sedersi su quel fagotto di bambina e coperte per farla uscire
allo scoperto. A volte gli era perfino difficile immaginare di essere stato, in
passato, un marmocchio come lei. Forse “come lei” era un po’ troppo: nella
Panem di un tempo i piccoli non erano tali, anche se correvano tra i campi di
grano con le spighe tra le dita, ma da portare ai sorveglianti.
— Boh, sarà uscita — borbottò la voce, incerta se continuare
la finzione o lasciarsi scoprire. Axel Neth Swift[1] mosse
lentamente un piede, scostandolo da destra a sinistra, sperando di non essere
vista. Raika ci mise la mano sopra.
— Potresti trovarmela?
— Uh, sì… Appena riesco a trovarmi, ehm, trovarla le faccio un fischio — ribatté,
con qualcosa di simile ad un gridolino, che culminò in una risata quando suo
padre iniziò a farle il solletico.
— Basta, pà, ti prego! — riuscì
a dire, mentre rotolava per tutto il materasso. Arrivò al margine destro del letto,
coprendosi la pancia – dove gli “attacchi” dell’uomo la raggiungevano impietosi
– con le braccia, e fu solo allora che l’uomo se la caricò sulle gambe,
scompigliandole i capelli corti.
— Te li farai mai crescere?
— Nah… Io voglio farci la
cresta che dice Mickey. — Da quando Axel aveva
iniziato a scorrazzare per il nove a fare casini, il figlio di Christopher era
diventato il suo migliore amico, anche se a volte non lo sopportava perché «era
stupido». Però era capace di metterle in testa qualsiasi tipo di idiozia, e la
cresta era l’ultima. — I calciatori fighi hanno la cresta — gli spiegò la
bambina, con l’aria di chi la sa lunga. Si alzò le ciocche davanti, formando
qualcosa che avrebbe dovuto essere simile ad una cresta, ma sembrava la
pettinatura di uno scienziato pazzo.
— Ma non dicevi che avevano il numero stampato sulla
maglia?
— Anche. La cresta però è più importante. Ce l’hanno pure
le rock-star[2]! — Tra i suoi vecchi dischi, Axel
aveva trovato qualche mese prima una raccolta dei Linkin
Park, con tanto di CD player e libretto con i testi delle canzoni. L’aveva
subito adottata come colonna sonora delle sue giornate. La ascoltava di
mattina, pomeriggio e sera, tanto che aveva memorizzato ogni singola traccia di
quell’album. Ed erano 12, per inciso.
Con il crescere dei pezzi che conosceva, le sue
aspirazioni erano cambiate: da calciatore di fama mondiale, a cantante dal
taglio di capelli discutibile. Di bene in meglio, insomma.
— E le rock-star distruggono le finestre? — le chiese
l’uomo
— No. Scusa, pà. Kevin me l’ha
passata malissimo — sottolineò l’ultima parola con enfasi, — e io… Io dovevo prenderla. Così mi sono lanciata tra
le cassette vuote del fruttivendolo e ho calciato la palla. Peccato che è
finita nella porta sbagliata. — A quella conclusione, abbassò gli occhi per
terra.
— Capisco. E io devo pagare il signore perché hai fatto
un casi-… Una stupidaggine? — si corresse immediatamente. Sua moglie gli aveva
vietato di dire qualsiasi parolaccia davanti ad Axel,
dopo il fallimentare esito che aveva avuto ad educare il suo primogenito. Come
se fosse stata colpa sua se suo figlio si esprimeva alla stregua di uno
scaricatore di porto. In effetti, un minimo di merito lui ce l’aveva, ma il
ragazzo ormai era nella fase parolacce, che sarebbe finita come era ormai
conclusa quella dei «perché?».
La bambina fece un sorrisetto piccolo piccolo,
dondolando il piede contro il ginocchio dell’uomo. — Fanno così, i papà. Se non
volevi pagare per i casotti che faccio, allora non dovevi essere mio papà — gli
spiegò, seria.
— Potrei sempre abbandonarti davanti casa dei vicini.
— Mamma non te lo permetterebbe — ribatté, il piede che
sbatteva ritmicamente sulla sua rotula. — E poi chi mi piglierebbe? Lo dici
sempre!
— Beh, se gli promettessi dei soldi…
— Non funzionerebbe comunque — concluse Axel, lasciandosi cadere sui cuscini del letto. Con il
tempo, stava diventando sempre più brava a chiudere le conversazioni, come se
dopo aver imparato i trucchi del suo vecchio ora ne stesse cercando di nuovi.
L’uomo non ne poteva più.
— Al diavolo. E tua madre diceva che avrei dovuto darti
una sgridata con i fiocchi.
— Appunto: diceva.
Raika dovette trattenersi per non scoppiare a ridere. Non si
sarebbe mai immaginato a lottare con una marmocchia per la supremazia in casa,
dopo aver vinto i Giochi ed essere sopravvissuto alla Rivolta.
Si stese sul letto, proprio accanto alla sua secondogenita,
e le diede un leggero colpetto sul naso con l’indice. — Hai vinto, teppista —
le concesse infine, mentre lei roteava gli occhi borbottando un: — ce ne hai
messo di tempo, per capirlo. — In quel momento, un tuono squarciò la quiete del
cielo notturno, rimbombando tra le nuvole e le gocce di pioggia, che già
iniziavano a cadere copiose sul terreno. Axel si
rannicchiò contro il suo braccio – abbastanza per sentirsi protetta ma non da
sfiorarlo. Raika non sapeva da chi avesse ereditato
quella stupida paura dei fulmini né perché ci tenesse così tanto a non
chiedergli aiuto, eppure la strinse leggermente a sé.
— Non mi piacciono i temporali — si lasciò scappare. Raika vide che aveva serrato i pugni, come per darsi forza.
— Ma non mi fanno paura.
— Secondo me un po’ sì, ma credo sia solo il prezzo di
avere una figlia femmina.
— E invece no. Non ho paura di nulla, io. — A quella
risposta, l’uomo rise. Sapeva che Axel non accettava
che le si desse della fifona, forse perché suo padre aveva partecipato ad una
Rivolta e lei non voleva essere da meno. Anche se sapeva poco di quella
rivoluzione, in qualche modo aveva capito che i suoi genitori avevano rischiato
grosso ed erano stati coraggiosi – parola che le aveva detto per sintetizzare
ed omettere tutte le torture che aveva sopportato alla Capitale.
— Una volta una ragazza mi disse che non avere paura di
niente è da stupidi, sai?
— La zia?
— La zia — ripeté lui. Da quando gliene aveva parlato per
la prima volta, per sua figlia Rebekah era diventata la zia, perdendo quel di più che era stata per lui. Un giorno Axel avrebbe saputo, si era detto allora, ma quel giorno
non era ancora arrivato e Volpe non era tornata ad essere tale.
Un tuono fece sobbalzare la bambina, che si accostò
ancora di più al genitore, nascondendo il viso nella sua giacca. — Un pochino
di paura ce l’ho, a dire la verità — gli confidò con un sospiro.
— Facciamo così: ora distraiamo la paura con una storia e
poi scendiamo a cenare — propose, stringendola a sé con un braccio. — Ti va?
Di tutta risposta, la bambina gli mostrò il pollice
alzato.
*
Gli uccelli del nove non sono sempre stati belli ma
stonati, sai? C’è stato un tempo – quando le loro piume erano di cenere e la
luna un grande pezzo di formaggio – in cui uno di loro decise di andare alla
ricerca dei colori. Certo, ancora non sapeva cosa fossero, ma sentiva che
qualcosa mancava ed era importante. Girò la terra in lungo e in largo, per
scoprirlo, passando su leghe e leghe di mare cristallino e immensi campi fioriti
e verdi foreste pluviali. Tutto perché alle sue piume mancava il tocco vitale
di cui era colorato in manto delle tigri. Con le loro striature nere e
arancioni, gli sembravano bellissime anche se doveva ammirarle da lontano,
temendole e rispettandole. Le giraffe erano meno sensibili di loro, più
tranquille – a volte lasciavano persino che gli uccelli bambini si sedessero
sulla loro testa, proprio tra le orecchie – così il nostro uccellino decise di
andare all’Albero Alto e trovarne una, per domandarle cosa non andava in lui.
Perché la pelliccia delle tigri era così viva da far passare il suo canto in
secondo piano, quando i primi uomini li osservavano dalle loro case di fango.
Quando infine trovò una giraffa, intenta a mangiucchiare una fogliolina da un
alto ramo, le tirò leggermente la coda per attirare la sua attenzione.
— Salve, signora giraffa — cominciò, con un flebile
cinguettio. — Volevo chiederle cosa mi manca per essere bello più di una tigre.
— I volatili non sono famosi per la loro umiltà: sanno di essere affascinanti e
se ne vantano, e lo facevano anche allora, pur essendo grigi e spenti.
La giraffa lo squadrò con occhio critico. — La coda.
Di tutta risposta, l’uccellino le sventolò davanti la sua
penna timoniere. — Quella ce l’ho già — fece, ridendo. — Di’ un po’: è più
bella la mia o quella delle tigri? — chiese con vanità. Da secoli gli animali gareggiano
su chi è il più bello. I cavallucci marini sostengono di esserlo loro; i cervi,
invece, se ne stanno per conto loro, troppo timidi per dirlo a qualcuno; i
pavoni lo sanno e si considerano troppo superiori agli altri per partecipare a
questa gara da quattro soldi. Tutti hanno fama di essere eleganti, speciali più
degli altri.
— La tua.
L’uccellino arruffò il petto, orgoglioso.
— Anche se sarebbe più bella colorata — continuò la
giraffa. — I tuoi fratelli dell’India[3] ce l’hanno blu e verde, ma
a me non piacciono poi tanto. Il colore del sole, è quello più bello.
Fu in quel momento che l’uccellino con l’idea di andare
alla ricerca dei suoi colori decise di avvicinarsi al sole, anche se antiche
leggende lo dissuadevano dal suo proposito. Tra gli abitanti di Città Celeste
si narrava che le ali di un tale Icaro, per avergli volato troppo vicino, si
fossero sciolte e lui fosse precipitato, morendo. Lo dicevano gli anziani.
Eppure, l’uccellino non si diede per vinto: avrebbe volato vicino ai raggi abbastanza
da prenderne i colori, ma non da sfiorarli con le sue penne grigie. Di sera,
affinché la luna lo proteggesse.
Quando infine decise di rischiare, partendo alla volta
del sole con le piume arruffate e un piccolo fagotto nel becco, era quasi
notte: il sole, pallido, stava per tuffarsi nell’acqua di quello che ora
chiamiamo distretto 4. L’uccellino lo guardò, sbattendo le ali. “È vero quello
che diceva la giraffa” pensò, “il suo colore è più bello di quello delle tigri,
perché illumina.” Si sentiva protetto dalla sua luce, un po’ come la coperta
che copre te: lo teneva al caldo, accarezzandogli dolcemente le penne.
— Mi regaleresti qualcuna delle tue piume dorate? —
chiese infine al sole, dopo avergli girato attorno un paio di volte.
I raggi di quest’ultimo parvero splendere con più forza
per qualche secondo, come ad invitarlo a prenderne i colori. Alla luce, le sue
penne splendevano di mille sfumature diverse di giallo – scemavano fino al
bianco – e l’uccellino le guardò più volte, incredulo. — Sono bellissime —
esclamò, — grazie.
La risposta del Corpo Celeste non tardò ad arrivare: un
ultimo luccichio, più flebile, brillò sulla cresta di un’onda, poi più niente.
Era andato a dormire nel suo letto di montagne.
Ritornato nella sua vecchia casa, l’uccellino dalle piume
d’oro fu ammirato da tutti gli altri volatili, che si facevano raccontare la
sua avventura ogni giorno, quando erano troppo stanchi per giocare insieme. Lo
chiamarono “Aviaurea” da un’antica parola in una
lingua che ormai non conosciamo più. Da giovinetto, il nostro protagonista era
diventato grande e quelle penne lo rendevano una preda molto ambita per le
ghiandaie. Gli altri maschi, invece, lo fissavano con desiderio, osservavano il
movimento delle sue ali, chiedendogli dove ne avesse prese di così belle. E con
il tempo – troppo gradualmente perché se ne accorgesse – quel sentimento prese
un nome che a molti fa paura: invidia.
Crebbe nei cuori dei suoi compagni così tanto, che arrivarono a decidere di
rubargli le piume. Ogni notte, con il becco, gliene strapparono una, finché non
furono distribuite equamente tra tutti. All’uccellino ne rimasero solo tre, sulla
sommità del capo, a simboleggiare la sua antica cresta lucente.
E da allora il vento
ulula sulle spighe di grano, un vento fatto di grida dell’Aviaurea
che ancora aspetta di riavere le sue piume dorate.
*
— Quindi è per questo che gli uccelli a volte hanno
qualche piuma strana! — esclamò Axel. Aveva seguito
la storia con molto interesse, talvolta nascondendosi un po’ più sotto le
coperte per una folata di vento troppo forte. Ora era fuori dal letto e
guardava le tapparelle con aria di sfida, quasi a dirgli che non le facevano
più paura. — Una volta ho visto un disegno di un uccello con una freccia nel
becco, tra le carte di mamma — mormorò dopo qualche secondo, disegnandolo per
aria. — Era quello, l’Aviaurea?
Raika chiuse gli occhi, stringendo le dita sulla testiera del
letto in legno. Bombe e acqua e spari gli riecheggiarono nelle orecchie. — No —
rispose, la gola improvvisamente secca. — Quella è una Ghiandaia Imitatrice. A
tua mamma piaceva molto disegnarle, prima che tu nascessi.
E le affiggeva su
tutte le pareti del distretto 4. Ma quello non si
permise di dirlo, come aveva fatto già con i dettagli importanti della Rivolta.
Axel avrebbe saputo tutto: un giorno, la sua famiglia
al completo si sarebbe riunita nel salone e ne avrebbe parlato tranquillamente
– perché non avrebbe mai lasciato che i suoi figli lo sapessero dalla scuola,
invece che da lui. Era una questione di principio.
Axel gli diede un pugnetto sulla spalla, per richiamarlo
all’attenzione. — Mi piace come nome
— affermò, dopo aver ripetuto «Aviaurea» per
l’ennesima volta. — È figo! Ed è figa anche la storia. Sai, pà,
non credo avrò mai più paura del vento: sono solo urla e già ne sento tante.
— Quando tuo fratello entra in casa con le scarpe piene
di fango?
— No — rise la bambina. — Quando centro le finestre degli
altri con la palla. Quelle non le batte nessuno.
[1] Raika
ha deciso di chiamare sua figlia con due nomi che gli stanno particolarmente a
cuore: Axel, quello del suo migliore amico, e Neth, diminutivo di Mahinete, sua
alleata durante i 69esimi Giochi.
[2] Chester Bennington, frontman dei Linkin Park, ha avuto per un certo periodo i capelli con la
cresta fucsia. Axel lo ha unito al fatto che anche
alcuni calciatori – tipo El Shaarawy
– ce l’hanno, e ha deciso che deve farsela pure lei.
[3] I pavoni, che
provengono dall’India.