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Autore: Leonhard    21/09/2015    2 recensioni
"Il Lifestream circola all'interno del Pianeta: vedilo come un corso d'acqua all'interno di un percorso circolare".
"Allora, se io ad un certo punto getto un ramo all'interno del Lifestream, dopo qualche tempo lo vedrò passare nuovamente dal punto in cui l'ho buttato?". Cloud si prese il suo tempo per rispondere.
"Spero di no..." rispose, ma la faccia era seria, preoccupata. Aveva probabilmente colto nel segno.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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  1. Riuniti

Andare in moto gli piaceva e la sua abitudine ad andare senza casco era un modo per sentirsi libero. Il vento, passando per i suoi capelli, gli facevano sentire appieno il senso di ciò che per molti era una cosa ormai normale. Il vento portava via ricordi, ma alle volte glieli faceva tornare e questa era una cosa che aveva la sua importanza: gli permetteva di ricordarsi sempre chi era e chi veramente era.

Il vento gli ricordava di essere un SOLDIER, di essere in grado di fare certe cose, di guidare in un certo modo e di aver avuto a che fare con certe persone. Ma gli ricordava anche la verità: gli ricordava che lui era un semplice fante che si era trovato immischiato in qualcosa più grosso di lui e che solo ultimamente se ne rendeva conto.

Ricordava quella notte a Nibelheim: quando Tifa gli aveva strappato quella promessa tirava un vento leggero e c’erano le stelle. Quando era partito per Midgar per diventare un SOLDIER il vento gli sferzava i capelli.

Poteva anche sentire il calore delle fiamme di quando Sephiroth era impazzito, la corsa al reattore ed anche il viaggio su quel pick-up giallo con Zack, anche se lo ricordava come un sogno. Sopra il treno, sull’aeronave, in moto, saltando da un edificio ad un cantiere nei resti della Shin-ra circa un anno prima: il vento era stato suo compagno di avventure molto più di quanto potesse pensare.

Era una sensazione che poteva paragonare al Lifestream sulla pelle, quando vi era caduto dentro. Aveva sempre avuto altro per la testa e ricordava che le prime volte non lo sentiva nemmeno, a causa del suo maledetto mal d’auto che lo aveva flagellato per gran parte della sua vita.

Ebbene si: c’era stato un tempo in cui Cloud Strife pativa tremendamente quasi tutti i mezzi di trasporto. In quel momento era ironico, quasi uno scherzo, ma comunque una cosa che si prodigava nel cercare di non farlo sapere in giro.

Rifletté sulla consegna: gli era capitato di tutto da quando aveva cominciato il suo lavoro da fattorino. Consegnava e prelevava tutto, ma aveva tre regole: mai trasportare persone, stare lontano dai guai e farsi pagare prima. Aveva già infranto una regola e sperava che fosse l’unica.

Fu con un certo sollievo che rimontò sulla sua Fenrir in vista di Nibel. Cid dal suo Highwind gli fece un cenno che lui non vide e pochi secondi dopo il vento tornò ad accompagnarlo nella sua consegna. Guardò da lontano le case del paese e non se la sentì di entrare; quel posto faceva riaffiorare ricordi inquietanti. Fece il giro e raggiunse direttamente il reattore, nel mezzo delle montagne.

Spense il motore e salì le scale che lo separavano dalla pesante porta blindata. Si fermò e si guardò intorno: ora che i timpani non vibravano più per il rombo del motore, poteva sentire quel silenzio che gli fece alzare quella stessa concentrazione che preannunciava uno scontro. Tornò alla moto e prese dalla rastrelliera una delle lame stipate all’interno della moto. Il peso della spada sulla schiena in qualche modo lo tranquillizzò e tornò davanti alla porta.

Batté due colpi per saggiare lo spesso metallo, ma la mano appoggiata all’elsa rimase dov’era; la porta, al secondo colpi, si aprì leggermente con un piccolo cigolio. Cloud scrutò con occhi insospettiti la serratura intatta e tornò ad ascoltare l’ostinato silenzio della montagna; non pensò nemmeno per un attimo di togliere le mani all’elsa della spada ed entrò.

L’interno era rimasto immutato: le celle ormai vuote, la scalinata di ferro che conduceva ad una porta sfondata con la grossa incisione JENOVA sopra, la parte di corrimano sfondata contro cui era finito uno sconfitto Zack, persino delle gocce solidificate di un leggero colorito violaceo in cima, testimoni di
quell’unica parte del corpo che mancava all’alieno.

Entrò nella sala. L’eco dei suoi passi contro il pavimento metallico era amplificato dall’eco del reattore; il fruscio del mako che lentamente scorreva sotto di loro era testimone del fatto che il tempo non si era fermato nonostante il silenzio facesse pensare altro.

E fu proprio verso il fondo del reattore il primo posto in cui Cloud guardò, quando vide la cella distrutta e tracce del liquido in cui era conservata sparse su tutta la piattaforma. Il panico che per pochi secondi prese il ragazzo fu celato dal pensiero che forse la cella era in quello stato da quando lui e i suoi compagni avevano combattuto i Sephiroth nei loro viaggi. Ma Rufus doveva saperlo, visto che in tal caso le ultime cellule le aveva usate per non farsi ammazzare subito da Kadaj.

E allora perché era lì?

“Sono solo un fattorino” disse. “Non cerco grane”. Le cinque figure dietro di lui non si mossero. Cloud, da sopra la spalla, le scrutò: vestivano tutte con quella che sembrava la divisa dei SOLDIER di seconda classe, le teste erano coperte da elmi e coppie di katana facevano capolino dalle loro spalle. Uno di essi si fece avanti.

“Progetto C?” chiese, con voce ferma e distaccata. “Cloud Strife?”. Il ragazzo aggrottò il sopracciglio: era stato chiamato in tanti modi, ma quello proprio non gli suonava familiare; per tutta risposta appoggiò la mano all’elsa della spada ed affilò i sensi, preparandosi allo scontro che sentiva imminente. Sei avversari…poteva farcela.

Seguì il silenzio; Cloud studiò i suoi avversari, tutti perfettamente identici. Il soldato che aveva parlato prima fece un passo verso di lui.

“Quindi sei tu…” borbottò. “Cloud Strife…”. Non gli piaceva come pronunciava il suo nome; aveva un che di smanioso, una sorta di urgenza, una vibrazione. Soltanto un uomo aveva pronunciato il suo nome con quel tono.

Ciò che accadde subito dopo fu talmente fulmineo che il biondo non si accorse di aver cominciato a combattere. Tre di loro avevano sguainato le spade e gli stavano piombando addosso, mentre le katana di un quarto avevano già trovato la resistenza della sua spada. Cloud si scrollò di dosso l’avversario e scartò di lato. I due rimanenti lo attaccarono, ma finirono entrambi scaraventati nel reattore, precipitando verso quel verde luminoso che nascondeva le fondamenta del pianeta.

Nel giro di pochi secondi neutralizzò tre soldati nemici, poi si diede alla fuga. Stare lontano dai guai. Saltò sulla Fenrir, che rombò quasi a comando; con una sgommata partì per il sentiero montano, lasciandosi alle spalle il reattore.

Quando fu in compagnia del vento, si permise di tranquillizzarsi; erano mesi che non combatteva, mesi passati a far consegne tranquille. Normalmente bastava lasciar intendere che era stato un SOLDIER prima classe per calmare anche gli animi più riottosi, ma quella volta non aveva avuto bisogno di ricorrere a quella bugia.

Quegli individui lo conoscevano, sapevano il suo nome, e l’avevano chiamato Progetto C. Sterzò bruscamente con la Fenrir e vibrò la spada; la gamba del SOLDIER di seconda classe che gli era corso dietro venne tranciata di netto ed il soldato piombò a terra, ruzzolando tra le rocce. Cloud fermò la moto e scese, avviandosi verso il punto in cui si era spento l’ultimo rumore.

La figura si volse verso di lui. Il moncherino della gamba era sanguinolento e parecchie ossa erano rotte per la caduta, ma la sua espressione era seria ed il suo sguardo fermo, come se quel corpo distrutto non fosse suo.

“Perché?” chiese la figura a terra. Tentò di alzarsi, ma il suo tentativo non fece altro che fargli presente che un arto su quattro stava per fare da spuntino agli sciacalli. Guardò il moncherino con occhi incuriositi per pochi secondi, poi lo spettacolo perse d’interesse e tornò con gli occhi su Cloud.

“Le domande le faccio io se non hai nulla da obiettare” rispose il biondo, ponendo mentalmente la stessa domanda allo stesso soggetto. “Chi sei?”.

“Riuniti” rispose semplicemente.

“Non ti ho chiesto per chi lavori” fece presente Cloud, avvicinando lo spadone al suo naso. “Chi sei?”. Il SOLDIER ripeté la stessa parola.

“Non siamo un gruppo” spiegò. “Siamo un aggettivo”.

“Non sei nelle condizioni di fare giochi di parole”.

“Non lo è”.

“Perché mi hai assalito? Tu ed i tuoi compagni?”.

“Perché cercavi Jenova? Dovresti saperlo che il suo corpo non c’è più”. Cloud sentì il bisogno di ripetersi che era lui in vantaggio e toccava sempre a lui porre domande perché era lui quello con le idee chiare: sentì il bisogno di pensarlo una, due, dieci volte, perché in quel momento la sua sicurezza stava rapidamente scomparendo.

“Non hai risposto alla mia domanda” fece presente. Il soldato vestito di viola sospirò e si mise seduto. Il moncherino sanguinolento s’ingrigì della polvere e dei ciottoli delle Wasteland, ma il giovane non fece traspirare nulla.

“Seraph ci impone di tacere” fu la risposta.

“Seraph?” ripeté Cloud. “È il tuo capo?”. Di nuovo silenzio.

Il biondo rimase in attesa per qualche secondo, poi vibrò la spada e, pochi secondi dopo, la figura si accasciò a terra, svenuto per la botta sulla nuca. Rimasto solo, sospirò; guardò la figura a terra, poi la Fenrir, poi nuovamente la figura. Rimase fermo a riflettere, poi rinfoderò la spada e prese il telefono, con una spalluccia.

Quel giorno aveva infranto due delle sue tre regole d’oro: a questo punto, si disse, tanto vale fare trent’uno.

“Pronto Cid?” chiamò nella cornetta.

“Hey Cloud” salutò il macchinista dall’altra parte del microfono. “Dove diavolo sei finito?”.

“È stata un’uscita faticosa; porta in qua l’aeronave e rintraccia Vincent: che si faccia trovare al Seventh Heaven domani mattina”.

“Che è successo?” chiese. “Sei ancora il solito dannato piantagrane? Non riesci più a fare una consegna decente?”.

“Ci vediamo tra un po’” tagliò corto Cloud e, senza aspettare una risposta, chiuse il cellulare. Prese sulla spalle la figura senza sensi e lo caricò sulla Fenrir, ripartendo alla volta di Nibel e pregando che il sangue della gamba che mancava all’appello non gli inzaccherasse troppo la sella.
   
 
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