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Autore: MaxB    21/09/2015    7 recensioni
Raccolta di one-shots e mini-long basate su immagini di Rboz e Blanania, che mi hanno dato l'autorizzazione. Gajevy totale con accenni ad altre coppie.
Elenco dei capitoli per genere o caratteristiche:
- Serie di immagini: 1, 6, 8, 9, 14
- Immagini singole o a coppie: 2, 5, 7, 12, 18, 19, 23, 24
- Drammatiche: 3, 13
- AU: 5, 15, 18, 19, 20, 22, 24
- Pirates AU: 10, 11 (conclusa)
- School AU: 4, 15, 20
- Council Gajevy: 16, 21
- Gajevy Week 2015: 17
Scrittura e disegno sono due forme d'arte che se accoppiate fanno scintille!
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gajil Redfox, Levy McGarden, Pantherlily, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Werewolf AU

Disegnatrice: Rboz
Universo: AU
Caratteri: IC
Genere: fluff; romantico; avventura
Personaggi: Gajeel Redfox; Levy McGarden; un po' tutti.
Coppie: GxL; NxL
Rating: giallo
POV: esterno
Lettura: vedi le note a fine pagina
Contestualizzazione: imprecisata
Avvertimenti: nessuno



 
Un altro giorno di lavoro uguale agli altri. Un altro risveglio uguale agli altri. Levy McGarden, impiegata in un ufficio editoriale, facente parte del team di traduzione, si alzò dal letto sospinta all’inerzia. Il suo lavoro le piaceva, i suoi colleghi anche, ma alla sua vita mancava qualcosa. Quella perpetua routine fatta di caffè, letture e rapporti di lavoro impeccabili stava iniziando a pesarle come mai aveva creduto possibile. Come capita a tutti almeno una volta nella vita, Levy si stava svegliando dal torpore di un’esistenza sempre uguale, vissuta in maniera programmata. Ogni tanto si sentiva un robot, e lentamente stava prendendo coscienza di ciò. Le sue giornate erano identiche l’una all’altra, senza un brivido di emozione o un cambiamento. Un vecchio dottore giapponese aveva detto che un cervello viene stimolato positivamente se si è flessibili e pronti a fare nuove esperienze. Ma Levy, di esperienze nuove, aveva solo quelle che leggeva dentro ai suoi romanzi d’avventura, amici inseparabili e fedeli che davano alla sua vita quel poco di brio di cui aveva bisogno. Ma, un bel giorno, la ragazza si rese conto che, per quanto fossero emozionanti le storie che adorava, la sua vita non cambiava. Erano avventure passive, erano letture effettuate con gli occhi sognanti di chi vorrebbe essere al posto della protagonista e cambiare il mondo, quando in realtà non riesce a cambiare nemmeno il proprio piccolo spazio vitale.
Finché improvvisamente, senza che ce ne rendiamo conto, le nostre vite cambiano.
Come successe a Levy.
Era una giornata qualsiasi quando l’incontrò. Incontrò l’avventura della sua vita. Tutti sogniamo e sentiamo, nelle più remote e oscure aree del nostro cuore egoista, di essere speciali, destinati ad imprese eccezionali e uniche che verranno ricordate per secoli, o di essere custodi di qualcosa di altamente segreto che cambia la nostra vita mentre gli altri vivono tranquillamente come se nulla fosse successo. Levy, al contrario di tutti, sognava queste cose, ma non ci credeva. Si illudeva un pochino grazie alle fantasie che lasciava scorrere libere nei momenti in cui non aveva nulla da fare, come nel tragitto da casa al lavoro o prima di addormentarsi, ma alla fine tornava razionalmente alla sua realtà, ridendo un po’ di sé stessa, soffocando i suoi desideri affinché non la facessero soffrire.
Quante volte sentiamo dire che le cose capitano quando meno ce lo aspettiamo? Solitamente ce lo dice gente che spera solo di zittirci tirando fuori una frase da biscotto della fortuna, e noi crediamo a quelle parole, perché non abbiamo nient’altro a cui affidarci. Ci credeva anche Levy, che viveva alla giornata e si accontentava di ciò che aveva senza desiderava nulla in più.
E inaspettatamente, la sua vita cambiò…
 
La sveglia trillò allegramente segnalando l’inizio di un nuovo giorno, che Levy accolse con un grugnito e un borbottio. Rendendosi conto di aver fatto la bava, la ragazza si riscosse e, dopo aver spento la sveglia, si diresse in bagno per darsi una sciacquata. Guardandosi allo specchio notò la massa di scarmigliati capelli azzurri che le incorniciava il volto assonnato: quel giorno ci avrebbe sicuramente messo più tempo del solito a sistemarli, anche se in cuor suo sapeva che alla fine avrebbe messo una fascetta per tenerli lontani dal viso e basta. Chi aveva voglia di pettinarsi di prima mattina?
Levy si trascinò in cucina dove consumò una silenziosa colazione in compagnia di un libro che le fece perdere quattro preziosi minuti. Tanto peggio, la proposta di acconciarsi i capelli in maniera decente era totalmente accantonata. Dopo aver velocemente pulito la cucina del monolocale in cui viveva da sola, che riusciva a pagarsi lavorando full-time per il giornale cittadino Fairy Tail, Levy andò in camera per vestirsi. Indossò una camicetta chiara a maniche lunghe che infilò dentro ad una gonna a tubino scura. Era autunno, ma il clima mite la indusse a risvoltare le maniche per stare più fresca, in modo che le braccia fossero coperte solo per tre quarti. Infilò delle parigine che terminavano a metà coscia con un pizzo chiaro, e le allacciò alla biancheria con delle sottili strisce di stoffa in modo che non le cadessero. Guardandosi allo specchio, abbottonò la camicia sino al collo, e poi decise di sbottonarla fino allo spacco del seno. Non che avesse granché da mostrare, a detta sua, ma le piaceva mostrare il collo lungo e bianco di cui andava fiera. Non lo adornava mai con collane, le piaceva lasciarlo libero. Le camicie le donavano molto. Dirigendosi in bagno, Levy si lavò i denti e si mise in testa una fascetta che le fissò la frangia ribelle in maniera adorabile.
Uscendo di casa afferrò la borsa da lavoro dentro alla quale non potevano mancare il romanzo di turno, i fazzoletti, il portafoglio, gli occhiali, le caramelle e la merenda di metà mattina e di metà pomeriggio. Chiuse la porta e infilò in borsa anche le chiavi, dirigendosi verso l’autobus che l’avrebbe lasciata dritta davanti alla sede del giornale.
Un’altra giornata identica alle altre era già iniziata.
…o forse no?
 
- Ehi Levy!
- Ciao Natsu! Come mai così puntuale? Di solito arrivi sul filo del rasoio.
Il ragazzo si grattò la nuca, imbarazzato, per poi rivolgerle un caloroso sorriso. Natsu era un suo collega. Non era bravo a scrivere e, be’, non era particolarmente sveglio, ma era bravo con le persone e quando sei un giornalista è una cosa molto importante. Faceva parte del team che lavorava per ottenere informazioni sul campo insieme a Lucy, la scrittrice dal futuro promettente e una reporter con i fiocchi, Erza, che faceva da carabiniere se la situazione era delicatamente… incandescente, e Gray, il fotografo. Come ogni volta, Natsu aveva la sua sciarpa bianca, che Levy sperava vivamente venisse lavata ogni weekend, e il suo fedele gatto blu al seguito, Happy. Era la mascotte mangia-pesce della redazione giornalistica e Makarov, il proprietario del giornale, tollerava la sua presenza. Erano una grande famiglia, a volte strana ed eccentrica, con risse sul luogo di lavoro che venivano sedate con altre risse, e festini numerosi e poco ortodossi. Non a caso spesso lo scoop principale delle altre testate giornalistiche erano i disastri del Fairy Tail. Ma i cittadini amavano il giornale, che era ben scritto e interessante, per cui gli affari andavano a gonfie vele. Ogni tanto, poi, Happy poteva godere della compagnia di Charle, una micetta con il pedigree alla quale faceva il filo. Era la gatta di Wendy, una piccola studentessa-fan-tirocinante-precoce del giornale, che nei pomeriggi liberi si divertiva a stare dentro allo stabile. Era dolcissima.
Natsu scoccò a Levy uno di quei sorrisi infantili, da bimbo furbo, che facevano sciogliere i clienti… e Lucy. – Lucy mi ha invitato a fare colazione al bar.
- Uh, buon per voi. Mangiate tanto, allora – augurò Levy, entusiasta per la sua amica. Era la collega di team di Natsu e una delle ultime arrivate in redazione, ma si era ambientata subito ed era diventata amica intima di Natsu in un secondo. Probabilmente ancora non si rendeva conto di amarlo, ma Levy se ne intendeva ed era una buona osservatrice.
- Grazie. Vuoi che ti portiamo qualcosa?
- No no, tranquilli. Pensate a voi, non a me… - gli disse come sprone, guardandolo in modo eloquente.
- Credo che penserò alle brioches più che altro. Bollenti come piacciono a me.
Sì, anche Natsu non sapeva di amare Lucy.
Levy sospirò. – A dopo, buona colazione!
Il ragazzo le sorrise e corse via con il gatto al seguito.
Levy salutò tutti e si diresse al suo reparto, ridacchiando quando vide che Gray si era spogliato, ancora, e Juvia stava quasi svenendo di fronte alla bellezza del fisico adamico del suo idolo. Almeno lei non doveva capire nulla, sapeva bene quali erano i suoi sentimenti.
- Jet, Droy – salutò calorosamente sedendosi di fronte alla sua scrivania.
- Ciao Levy-chan! – salutarono loro in coro, saltando in piedi e fiondandosi da lei.
Jet e Droy erano i suoi migliori amici e facevano da supporto al team di traduzione che… be’, era rappresentato da lei. Avevano deciso di chiamarsi Team Shadow Gear per scherzo, ma poi la cosa era diventata ufficiale.
- Allora, partiamo?
- Sì – esultarono i due. Probabilmente avrebbero gioito a qualsiasi cosa Levy avesse proposto. “Ci buttiamo giù dal quinto piano? Siiiiii”.
- A proposito, c’è un nuovo impiegato – avvisò Jet poco dopo.
- Uhm… bene. Reparto? – domandò Levy quasi sovrappensiero, infilandosi una matita in bocca e una penna dietro all’orecchio, tastando dentro alla borsa alla ricerca degli occhiali.
Droy glieli porse prontamente, sapendo che il suo capo era entrato in modalità lavoro efficiente e non si sarebbe curato nemmeno di un terremoto.
- Nessuno. Pare si occupi di scoop speciali in una nuova sezione del giornale legata al paranormale. Sai, per l’audience. L’hanno affiancato a Juvia perché facevano entrambi parte del fallito Phantom Lord.
- Uh-uh – annuì Levy battendo sui tasti del computer per aprire i documenti essenziali alla sua giornata lavorativa.
- Anzi, pare sia stato lui a scrivere l’articolo denigratorio che ha abbattuto quello che avevi scritto tu – la informò Jet, continuando con la sua novità.
- Bene. Aspetta, cosa?
- Cosa? – ribatté Jet.
- È lui? Va be’, poco importa, ora è dei nostri. Hai detto che si occupa di…?
Droy seguì Levy, che si era spinta dall’altra parte dell’ufficio con la poltrona a rotelle, porgendole il temperino che sapeva stesse cercando.
- Folklore, miti, leggende su Magnolia e vecchie storie dimenticate. Ho letto un pezzo, carino.
- Di che parla? – biascicò lei temperando la matita e sorridendo a Droy prima di spingersi verso la stampante.
- Lupi mannari. Una visione introspettiva di ciò che crediamo, che ci hanno sempre raccontato. Miti o semplici fantasie ridicole? Nella seconda parte dell’articolo, che esce la settimana prossima, sfaterà alcuni pregiudizi a quanto pare.
- Illuminiamo la mente delle persone con la verità sui licantropi – disse sarcasticamente Levy.
- Non ti piace? – indagò Droy. – Di solito ti interessano.
- Sì, infatti. Penso che lo leggerò. E gli chiederò se si basa su fantasie sue o ha delle fonti certe. Mi piacciono queste cose. Area?
Jet osservò la collega ritornare davanti al computer e le passò il plico di fogli che avrebbe dovuto correggere entro metà mattina. – Ho sistemato il layout, quando finisci me li invii che li stampo. Comunque è nel nostro stesso piano. Ha un ufficio a porte aperte vicino alla bacheca, e lo condivide con Juvia.
- Mmm… bene. Pausa alle…?
- Hai iniziato in anticipo e solitamente ci metti tre ore a correggere, anche se ne calcoli quattro per sicurezza. Se tutto va bene per le undici e mezza hai finito.
- No, pausa caffè intendo dire – specificò cercando a tentoni la penna.
Droy gliela sfilò dall’orecchio e gliela porse, ricevendo un sorriso di gratitudine in cambio.
- Boh, quando ne hai bisogno.
- Anche ora?
- Tecnicamente siamo in anticipo e mancano ancora dieci minuti all’inizio effettivo dell’orario lavorativo, per cui se vuoi fare ora…
- Ti accompagno! – esclamò Droy.
- No, io l’accompagno. Non hai fatto un accidenti questa mattina! – sbraitò Jet.
- Ma se senza di me starebbe ancora cercando il temperino?!
- Be’, chi ha sistemato la grafica di tutto quel malloppo? Non tu, signor mi-mangerei-pure-la-carta.
- Ragazzi, tranquilli. Non ho bisogno di compagnia per andare a prendere il caffè. E poi passerò a conoscere il nuovo collega. Si chiama…?
- Gajeel.
- Gajeel Redfox – specificò Droy con aria soddisfatta, attirandosi un’occhiataccia di Jet.
- Sì, è lui quello che ci ha fatto fare la figuraccia e ha deturpato il mio articolo. Non importa, è acqua passata.
- Come sei saggia Levy – la adulò Jet.
Lei ridacchiò e si alzò mentre Droy le allungava il portafoglio con aria soddisfatta. Prese le monete, la ragazza si allontanò tirando un sospiro di sollievo: aveva proprio bisogno di un caffè.
 
Il reparto dove lavorava Lucy era subito oltre quello del nuovo impiegato, da ciò che Levy aveva capito. Quindi avrebbe fatto tappa alle macchinette dell’angolo ricreativo e poi sarebbe andata dalla collega per prendere i libri che le aveva prestato. Per una volta non erano romanzi, ma veri e propri manuali di giornalismo.
Levy attraversò i corridoio salutando calorosamente tutti gli amici, che alla fine erano colleghi, ma venivano considerati parte della sua famiglia. Si conoscevano tutti e il proprietario stesso del giornale organizzava degli eventi per stare insieme.
Sorridendo, Levy raggiunse le macchinette e infilò le monete nell’apposito buco, concentrandosi per non sbagliare pulsante come le capitava spesso. Purtroppo lo sportellino per ritirare la bevanda, per qualche strano scherzo del destino (o qualche perverso piano di un nonnetto basso e mezzo pelato che dirigeva un giornale e aveva l’occhio lungo per le sue giovani dipendenti), era troppo in basso. I maschi di solito si accosciavano di fronte alla macchina oppure piegavano la schiena, per nulla disturbati da quel casuale posizionamento. Per le ragazze era un’altra storia. Infatti, guarda caso, il Master, così chiamavano il direttore, aveva deciso che tutte le impiegate avrebbero dovuto portare camicie e minigonne, con tanto di collant e reggicalze, per cui chinarsi era un bel problema. Accosciandosi avrebbero rischiato mettere in mostra troppa biancheria, o di far partire i collant, con imbarazzanti conseguenze, e chinandosi la gonna si sarebbe alzata…
Insomma, prendere il caffè era un’impresa per una donna, all’interno del Fairy Tail. Levy stava sempre attenta che nessuno fosse nei paraggi quando, fulmineamente, si chinava per prendere la sua bevanda, e quel giorno la sua cura non venne meno. Dopo aver controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi, si chinò per prendere il resto in moneta, che però le cadde per terra. Sbuffando, si abbassò per raccoglierla, ma una volta presa in mano la moneta, questa le scappò ancora, inducendola a piegarsi ancora di più. Durante la sua lotta, non si accorse che uno spettatore indesiderato aveva erroneamente fatto capolino dal suo ufficio.
Recuperati i soldi, Levy si abbassò nuovamente per prendere il suo caffè e, attraverso le gambe, si rese conto non solo che la gonna lasciava intravedere buona parte della sua biancheria, ma anche che qualcuno stava fissando tutta la merce esposta.
Con uno squittio, si raddrizzò e si sistemò la gonna, fissando trucemente il collega. Sentiva le guance che lentamente iniziavano a bollire. – No-non c’è nulla da guardare.
Il ragazzo, lunghi capelli neri e viso coperto di piercing, ricambiò lo sguardo con impassibilità. Era il nuovo impiegato. – Ora no – rispose avvicinandosi alla macchinetta per inserire le monete.
Levy avvampò ancora di più e mise il broncio, stringendo il bicchiere di carta con forza tale da rischiare di rovesciarne il contenuto. – Be’, potevi anche evitare di guardare.
- Perché mai?
Che…sfacciato arrogante!, pensò Levy.
- Una persona con un minimo di senso morale avrebbe voltato la testa o si sarebbe schiarito la gola per segnalare la sua presenza!
- Ma in questo modo tu ti saresti subito sistemata – rispose tranquillamente lui continuando a fissare la macchinetta. Non l’aveva ancora guardata negli occhi.
Levy, dal canto suo, era scioccata. Sembrava quasi che quel ragazzo che si ritrovava come nuovo collega non sapesse le regole della civile convivenza. – Appunto! È stato sfacciato da parte tua restare a guardare.
- Hai un bel didietro e la vista era piacevole. Le cose belle sono fatte per essere guardate – disse lui puntando i suoi occhi in quelli color miele di lei.
Rossi. Ipnotici. Levy sussultò. Erano occhi bellissimi, di un cremisi così acceso da sembrare un fuoco danzante. Erano… selvaggi. Sembravano avere il potere di trasportarla in mondi lontani, mistici e onirici di cui poteva leggere solo nei suoi romanzi. Non ricordava più nemmeno cosa volesse dire, o il motivo della sua irritazione. Era irritata? Aveva solo voglia di immergersi nella natura e vivere nei boschi. Con lui.
- Mmm… - mugugnò.
Finalmente il ragazzo distolse lo sguardo per prendere il suo caffè, interrompendo il contatto visivo e liberandola dall’incantesimo.
- Tutto bene? – indagò dopo aver visto che Levy non accennava a riprendersi.
- No. Sì. Io… scusa.
Si era davvero scusata? E per cosa?
Il ragazzo che la fissava dall’alto della sua imponente statura ghignò, arricciando in un sorrisetto furbo e sghembo un lato della bocca. Indossava una candida camicia con il logo del giornale, una cravatta scura e dei pantaloni dello stesso colore con una cintura chiara. Le maniche risvoltate lasciavano liberi gli avambracci muscolosi, che Levy notò essere cosparsi degli stessi piercing metallici del viso. Eppure, quell’abbigliamento così formale e professionale pareva sbagliato su di lui, sebbene gli donasse molto. Davvero molto, a giudicare il modo in cui i pettorali tonici venivano valorizzati.
- Ti perdono – disse lui continuando a fissarla.
Sembrava ignorare totalmente le buone maniere o le basilari norme sociali. Levy sbuffò e allungò la mano destra. – Levy McGarden. Sono una tua collega.
Dopo un attimo di silenzio, il ragazzo strinse energicamente la mano e rispose. – Gajeel… Redfox. Sono un tuo collega.
- Già. Be’, io vado da… vado a lavorare. È quello che si fa qui, sai?
Ancora quel sorrisetto strafottente. – Certo.
- E magari la prossima volta annuncia in qualche modo la tua presenza – disse Levy arretrando, arrossendo nuovamente.
- E rovinare una bella vista come quella di prima?
La ragazza squittì nuovamente prima di rifugiarsi in quello che doveva essere l’ufficio del ragazzo.
 
- Coda o no? Dici che tolgo la fascetta? – chiese Levy aprendosi altri due bottoni della camicetta.
Lucy osservava l’amica con gli occhi sgranati. Era entrata nel suo ufficio come una furia, buttando fuori Natsu nonostante lei fosse la prima ad incoraggiarla affinché si dessero una svegliata e passassero del tempo insieme. Aveva posato il caffè sulla sua scrivania e, interrompendola prima che potesse dire che sì, si ricordava dei suoi libri, Levy aveva iniziato a farle domande sul look, sempre più… scandalose. Per i canoni di Levy, ovvio.
- Mi dici cosa succede? – chiese Lucy per la trentesima volta.
- Mi accorcio la gonna? Ha detto che ho un bel sedere – continuò Levy ignorandola, sporgendo la testa oltre le spalle per osservare il suo lato B.
Lucy gemette di frustrazione, si sedette e bevve il caffè dell’amica. – Ma chi?! Di chi parli?!
- Di Gajeel! – sbottò l’altra sedendosi e sistemandosi i capelli.
- Chi?
- Il nuovo collega. Quello che si occupa della sezione mitologica, quello che ha affondato il mio articolo.
- Uuuh! E lavora qui?
- Eh già, da oggi.
- E oggi ti ha già detto che hai un bel fondoschiena?
Levy spiegò in due parole la dinamica all’amica, che osservò le sue gote arrossate, gli occhi che erano diventati di un caldo color nocciola e la sua postura fiera. Non era mai stata così.
- Non ho mai visto nessuno fare colpo in così breve tempo. Però, cavolo, allacciati la camicia! Ti si vede tutto!
Levy sussultò e si coprì il seno. – Troppo spinta? Oddio, ma cosa sto dicendo?!
- Calmati. Tesoro, sei cotta. Brutalmente. Ti stai spogliando per qualcuno che hai visto una sola volta! Quasi non ti riconosco.
- Ma lui… lui è… è incredibile. Vedessi che occhi che ha, Lu! Mi hanno incendiato il cuore. Mi sentivo bruciare viva, mi sentivo calda, volevo spogliarmi e correre via. Con lui.
- Wow.
- Ha un fascino incredibile. Ha qualcosa di speciale in sé. Non è normale, davvero. Quei capelli così… selvaggi, e quegli occhi così… e i muscoli, e… oh, Lucy! Vado subito di là – esclamò, pronta per alzarsi.
- No! Aspetta. Non essere avventata. Non lo conosci.
Levy sobbalzò, mentre la ragione cominciava a bussare nella sua mente, reclamando il posto che gli era stato momentaneamente usurpato da una scarica di ormoni adolescenziali. In fondo, era ancora giovanissima.
- Hai ragione. Scusami, io…
- Tranquilla, Levy.
- Allora… vado lì, perché devo passargli davanti per forza per tornare da me, e lo ignoro.
- Perfetto. Lascia che si cuocia nel suo brodo.
- Bene. Quindi… i libri. Se me li dai, io vado.
Lucy si alzò ridacchiando e buttò via il bicchiere del caffè, ormai vuoto. Allungò a Levy i suoi libri e le monete che servivano per prenderne un altro.
- A dopo, Lu? – disse in tono interrogativo.
La ragazza rise e l’abbracciò. – A dopo. Magari, però…
Lucy le sbottonò la camicetta di un altro bottone, in modo che non fosse troppo coperta, ma nemmeno scoperta, e le sistemò la gonna affinché le grinze formatesi alzandola sembrassero naturali. Levy avvampò quando le diede uno schiaffo sul sedere.
- Mostra anche le tue belle gambe. E fai cadere le monete quando sei vicina a lui. Mi raccomando, le tette!
Levy uscì di corsa sentendosi ormai prossima all’ebollizione da imbarazzo, e non si rese nemmeno conto di essere vicina alla scrivania di Gajeel. Presa dal panico, cercò di indovinare in quale mano fossero le monete che Lucy le aveva dato, e nella foga di capire come farle cadere accidentalmente, queste caddero da sole.
Levy le fissò un po’ sconvolta, come per accusarle di aver fatto una cosa tanto oltraggiosa, ma con la coda dell’occhio vide la testa mora che le interessava girarsi verso di lei. La bacheca appesa al muro del suo ufficio aveva già qualche foglietto attaccato, notizie e ordini del Master o informazioni generali.
Con noncuranza, Levy si guardò alle spalle e, accertatasi di non aver nessun occhio indiscreto dietro di sé, si chinò per prendere i soldi, mettendo in mostra la scollatura.
Gajeel deglutì e tornò a fissare il computer.
Veloce come si era chinata, Levy si raddrizzò e, stringendo al petto i libri, uscì all’ufficio di Gajeel senza degnarlo di uno sguardo.
Ma si bloccò appena lo sentì schiarirsi la voce. – Ehm… hai dimenticato un foglietto per terra – le disse osservandola con la coda dell’occhio.
*Levy tornò sui suoi passi, arrossendo e fissandolo alle sue spalle, con l’irrefrenabile voglia di abbassarsi la gonna che continuava a salire. Lui portò la tazza del caffè, che probabilmente si era portato da casa per fare il travaso della bevanda dalla carta alla ceramica, alle labbra, e osservò tutti i suoi movimenti, arrossendo in maniera impercettibile quando si chinò per l’ennesima volta.
- Grazie – disse semplicemente lei uscendo dalla stanza.
Lui non rispose, ma Levy continuò a sentire il suo sguardo addosso anche quando, una volta tornata nel suo ufficio, si accorse di aver dimenticato di prendere il caffè.
E che il foglietto caduto non era suo.
 
La giornata era stata spossante e Levy si buttò a letto senza nemmeno togliersi le scarpe. Quasi rimpiangeva quella routine fatta di cose semplici ed emozioni ancora più semplici. Ormai quella con Gajeel era diventata una vera e propria lotta a chi cedeva prima. Erano passate poche settimane, ma lei sapeva già di essere irrimediabilmente innamorata di lui. Ne era attratta come lo è il ferro con la calamita. Voleva che lui la guardasse, voleva avere la sua attenzione. E ce l’aveva. Ultimamente, dove c’era lui, lei compariva, e dov’era lei, lui arrivava. Si parlavano poco e interagivano ancora meno, ma a nessuno dei due sfuggiva la logorante battaglia di sguardi, le provocazioni che si lanciavano o i tocchi sfuggenti che sembravano casuali e minuziosamente studiati al tempo stesso.
La loro azione più intrepida era stata ballare insieme ad una festa del giornale. Gli occhi rossi di lui avevano calamitato quelli di lei come se fossero appartenuti ad un unico corpo, mentre le sue grandi mani le accarezzavano i fianchi in maniera forse troppo poco amichevole e più… sentimentale. Levy continuava a sentire il richiamo della natura quando stava vicino a lui, era come se i miti e le leggende di cui scriveva facessero parte del suo essere. Ne era imbevuto, assuefatto, e per lei era ormai una dipendenza.
Aveva capito che in lui c’era qualcosa di diverso, e si era messa in testa di scoprire a ogni costo cosa fosse.
Di certo non si aspettava che fosse proprio lui a rivelargliela erroneamente.
Il giorno dopo Gajeel entrò nel suo ufficio posando la ventiquattrore al solito posto e appendendo lo spolverino autunnale. Era già stanco e sentiva le forze venirgli meno, insieme alla sua incapacità di soggiogare l’irascibilità e… alcuni difetti d’istinto. Metodicamente, com’era solito fare, accese il computer e allineò la tastiera alla scrivania. Potevano sembrare gesti quasi maniacali, ma lo aiutavano a mantenere il controllo di sé quando, effettivamente, il controllo di sé non l’aveva.
- ‘Un altro successo per l’articolo folkloristico di Gajeel Redfox’. Testata del giornale di oggi. E non del nostro giornale. A quanto pare sei diventato famoso quasi quanto Natsu e Laxus, i Draghi del giornalismo.
Essere nominato Drago del giornalismo era una specie di traguardo a cui pochi ambivano. Difficile da ottenere, veniva elargito solo a chi era famoso per gli articoli di natura particolare e veniva apprezzato e conosciuto a livello internazionale.
Gajeel sobbalzò al suono della sua voce. Solitamente avrebbe riconosciuto immediatamente il suo odore, e l’avrebbe notata ancora prima di entrare nell’ufficio, ma quel giorno aveva i sensi obnubilati e confusi. Si girò e la osservò, seduta con le gambe accavallate sulla scrivania di Juvia, piena di pupazzi di Gray. Aveva un giornale posato in grembo e gli occhiali le erano scivolati sulla punta del naso. Teneva gli occhi fissi nei suoi.
- Come? – chiese.
- Complimenti per il tuo successo – rispose lei raddrizzando la schiena, spingendo in fuori il petto di conseguenza.
Gajeel deglutì a vuoto. Quella ragazza stava scherzando con il fuoco, ed era una cosa particolarmente pericolosa, specialmente quel giorno. Sembrava che lo istigasse di proposito, che provasse gusto nel lasciarlo agonizzare di fronte ai suoi flirt maliziosi. E lui ci era cascato come una mosca in una ragnatela fin dal primo sguardo. Era lei, lei la sua…
- Grazie – borbottò pur di far tacere la sua coscienza.
Levy scese dalla scrivania scavallando le gambe in maniera troppo sensuale. Era possibile? Gli si parò davanti e a Gajeel si mozzò il respiro. Cercò di raddrizzare la schiena per mettere ancora più distanza tra loro, sebbene lei fosse troppo vicina. Troppo.
- Posso sapere dove prendi le fonti?
Avrebbe quasi preferito una domanda del tipo “Ti va di farti la ceretta?” a quella. Non poteva in nessun modo dire quali erano le sue fonti.
- Ehm… - farfugliò. – Segreto professionale?
- Dai! Ti prego, dimmelo. Mi stanno prendendo troppo questi miti. Sono veri o li inventi?
- Veri – rispose repentinamente, quasi ringhiando. Ecco l’istinto selvaggiamente indomabile che usciva.
Levy non sembrò spaventarsi. Ovvio. Come poteva, finché lo osservava negli occhi? Gajeel avrebbe voluto vederla fuggire.
- Davvero? Lo sapevo! – esultò lei, le gote rosse d’emozione. – Ma allora, ti prego, dimmi come fai a sapere queste cose.
- Le invento.
Gli occhi le si riempirono di confusione. Quanto mai poteva essere espressive quelle gemme? – Hai appena detto che sono storie vere.
Gajeel sbuffò. – Senti, non posso parlarne. Scusa.
Sofferenza. Levy sentì il suo cuore andare in pezzi. Forse aveva frainteso tutti i segni che lui le aveva lanciato in quei giorni. Forse per lui non era altro che una collega alla quale guardare il sedere. – Non ti fidi. Non sono abbastanza perché tu condivida con me queste cose – sussurrò.
- No! – esclamò lui, facendola sobbalzare. Sembravano un basso ringhio, le parole che gli risalivano la gola. Un gutturale e primordiale richiamo. – No. Scusami. È che non capiresti. Non posso parlarne. Finirei nei guai per tutta la vita. Nessuno deve saperlo. Nessuno.
Gli occhioni innocenti di Levy si spalancarono, consapevoli. Erano così dolci e puri, così diversi dai suoi sanguinari occhi da lupo. – Non stiamo più parlando delle fonti dell’articolo, vero? – mormorò sommessamente, convinta aver solo pensato la frase.
- No – rispose lui, chinandosi verso il suo viso.
Levy trattenne il fiato, aspettandosi… qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Non posso fidarmi. Nemmeno se lo volessi. Non posso trascinarti in tutto ciò – aggiunse posando la testa sulla spalla di lei.
C’era un rimpianto nella sua voce, una sofferenza che Levy non credeva potesse mai essere espressa a parole.
- Ti prego, fidati – lo implorò.
Non capiva di cosa stava parlando lui. Non capiva nemmeno cosa stava dicendo lei stessa. Voleva solo avvicinarsi a lui e sentirlo vicino a sé a sua volta. Era stanca di quei giochetti e di quelle avances, era pronta per qualcosa di concreto.
- No. Mi dispiace. Non sarai mai in grado di mantenere il controllo – si riscosse lui allontanandosi di scatto. Gli tremavano le mani.
- Gajeel? – chiese lei.
- Saresti come gli altri…
- Gajeel…
- Sarebbe solo un errore. Un…
- Gajeel! – urlò Levy prendendogli il viso tra le mani. – Non ti fidi di me, o di te? – indagò scrutando i suoi occhi alla ricerca di una risposta sincera.
- Della bestia che è in me – rispose candidamente lui. – Mi dispiace. Ora devo… devo lavorare.
La ragazza rimase lì, impalata, fissando la schiena di Gajeel, che si era seduto e aveva iniziato a battere furiosamente sui tasti. Sentì le lacrime riempirle gli occhi e se li immaginò mentre annegavano, soffocati dal suo dolore e dalla sua disperazione. Dall’abbaglio assolutamente umiliante che aveva preso.
Raddrizzando la schiena, ostentando una sicurezza che non aveva, uscì a testa alta dall’ufficio, mentre i pezzi del suo cuore rotto restavano nell’aria, insieme all’odore di perfezione che si era lasciata alle spalle come una scia, che Gajeel annusò per diverse ore.
 
Mi ha rifiutata. Mi. Ha. Rifiutata. Stupida! Stupida!! Come fai a fare una figura del genere?! Sei sembrata una poco di buono, con tutta la pelle che hai messo in mostra. E per cosa? Per permettergli di rifarsi gli occhi e basta!, pensò furiosamente Levy rientrando in casa dal lavoro. La fine di ottobre era gelida come poche, e alle sette di sera la luna illuminava già la notte, grande come una bella forma di grana, bianca come un lenzuolo candido, sotto al quale Levy sperava presto di rifugiarsi. Era piena quella sera, e bastava solo lei ad illuminare le strade. Le lacrime le uscivano copiose dagli angoli degli occhi, e i pochi passanti le scambiavano facilmente per una protezione automatica degli occhi dal vento gelido.
Per puro caso, o forse no, un guaito di dolore strappò Levy dai sui pensieri, seguito da un ululato. Le strade erano semideserte e nessuno sembrò accorgersi di quei versi. Un altro guaito, più forte, indusse le sue gambe a scattare in avanti senza nemmeno rendersene conto. Quel verso… era in qualche modo familiare.
La ragazza giunse al limitare del boschetto che distava pochi metri dalla strada, in una zona ombreggiata lontana dai lampioni. Per fortuna quella sera c’era la luna piena. Levy scrutò tra le fronde con attenzione, sperando di vedere in breve tempo qualcosa di utile per capire cosa fosse successo: stava congelando.
Finalmente, dopo istanti che si protrassero per un tempo infinito, notò un movimento tra le frasche, e un tonfo seguito da respiri affannosi e pesanti. Senza pensarci, come quando aveva iniziato a correre, accese la torcia del suo smartphone e illuminò gli alberi avvicinandosi silenziosamente. Stava per iniziare a parlare quando lo vide: un ammasso di pelo nero che si mimetizzava con le ombre. Un cane.
- Oh povero cucciolo – esclamò Levy chinandosi di fronte a lui.
Fu allora che notò le orecchie a punta, i denti aguzzi e il luccicore sul viso: era un lupo. Sobbalzando, si allontanò ricadendo sul sedere. Ma l’animale non l’attaccò. Stava agonizzando. Non aveva nemmeno gli occhi aperti.
- Stai… stai male? – chiese, come se il lupo potesse risponderle. – Se mi avvicino… così… tutto bene, vero?
Parlando si era avvicinata e aveva allungato lentamente un braccio. Delicatamente lo appoggiò sull’ampio ventre del cane troppo cresciuto. Nessuna reazione. Lentamente provò ad accarezzarlo, e il lupo emise un lungo e basso gemito, come delle fusa. *Lo abbracciò istintivamente, abbandonando sul prato la borsetta che si era aperta, lasciando uscire il proprio contenuto.
- Ti piace? – chiese Levy sorridendo.
Come se avesse capito, il malato annuì piano con il muso.
- E se ti curassi? Riesci a camminare? – mormorò Levy, cercando di girarlo.
Il lupo uggiolò e si lasciò muovere, sdraiandosi sulle zampe muscolose.
- Bravo cagnolone. Ora seguimi. Casa mia è a pochi minuti da qui.
Lasciandosi guidare da Levy, il lupo si drizzò sulle gambe e aprì le palpebre, fissando negli occhi la ragazza. Erano occhi intelligenti, vispi. Aveva sempre ammirato quegli animali. E nella fioca luce lunare, il colore delle iridi allungate come quelle di un gatto sembravano argentate, brillanti come le stelle. La ragazza non aveva mai visto bestia più grande: ritto sulle quattro zampe le arrivava alla spalla, e le zampe erano lunghe quanto le sue gambe. Il pelo, folto come la criniera di un leone ma morbido come il pelo di un gatto era di un nero intenso, incrostato però di terra e sangue. Zoppicava.
La pietà e la preoccupazione attraversarono il viso di Levy. – Vieni, picc… ehm… cuccio… no. Lupo, seguimi e basta. Ignora i miei deliri.
L’animale la seguì emettendo un breve verso gutturale che le sembrava una risata fin troppo conosciuta.
Possibile che fosse così innamorata da udire la risata di Gajeel anche nelle fauci di un lupo?
 
- No, Lupo! – esclamò Levy ridendo.
Alla fine il suo nome era diventato semplicemente Lupo. La ragazza sapeva che prima o poi il suo nuovo amico se ne sarebbe andato. Del resto viveva in un condominio in cui nemmeno i chiwawa erano accettati, figuriamoci i cani selvatici e troppo cresciuti!
- Ti prego! – lo implorò Levy con la disperazione nella voce, mentre il suo coinquilino sembrava divertirsi di quel gioco.
La ragazza era fuori dalla vasca e cercava inutilmente di riempirla d’acqua. Lupo si divertiva a fingere di entrare per poi, semplicemente, togliere il tappo e allontanarsi.
- Ascoltami! Basta! – disse severamente Levy chinandosi alla sua altezza. Aveva ancora la gonna del lavoro e la camicetta, che ormai era fradicia, e lasciava intravedere la biancheria. – Senti, se entri e ti lasci lavare io poi posso cucinare e andare a letto. Va bene? Ti fascio e non senti più male. Vuoi una bella bistecca? – domandò.
Il lupo drizzò le orecchie e tirò fuori la lingua. Levy non poté fare a meno di ridere.
- Bene. Ora, io riempio la vasca. Tu -, disse indicandolo, con il viso quasi premuto contro il suo muso, - farai il bravo mentre nel frattempo io metto su la cena. Okay?
Il cagnolone ululò piano.
- Sh! – rise Levy. – I vicini mi sbattono fuori di casa.
Sorridendo si allontanò dal bagno e apparecchiò la tavola condendo l’insalata e mettendo le bistecche sulla piastra.
- Eccomi, Lu…! – esclamò prima che la voce le morisse in gola, tornando dal suo ospite.
L’animale era seduto in vasca con le zampe anteriori fuori dall’acqua e il fluido che gli arrivava allo stomaco. L’immagine era simile a quella di un orso imbranato.
- Bravo. Ora fermo che ti medico e ti pulisco le ferite.
Prendendo l’acqua ossigenata e tanto cotone, Levy tamponò le ferite del lupo, che iniziò a protestare prima sommessamente e poi sempre più forte, dimenandosi e schizzando tutto il bagno.
- No. No! Lupo, no! Fermo! Devo medi… devo… ah! – urlò di fronte all’ennesimo spasmo dei muscoli dell’animale, che la infradiciò. Da capo a piedi. – Okay, l’hai voluto tu. Fermo.
Tenendolo d’occhio, Levy si sbottonò la camicetta mentre Lupo la osservava con gli occhi che sembravano essersi ingranditi. Era come se sapesse che la ragazza stava per spogliarsi e che a lui, in quanto maschio, non era permesso guardare. Levy passò alle calze dopo essere rimasta in reggiseno, e gettò i collant nel cesto della biancheria sporca insieme alla camicia macchiata di sangue.
Lupo le posò il naso umido sul ventre e iniziò a leccarla con affetto, facendola prima spaventare e poi ridere. Poi premette il muso sul suo sedere.
- Ma che fai?! – lo sgridò Levy. – Okay, okay, ho capito che la gonna la devo tenere – disse sbuffando, alzandosi un po’ la gonna ed entrando in vasca.
Lupo la guardava con quegli occhi vispi e brillanti, intelligenti, che la mettevano a disagio. Le sembrava di essere scrutata da un essere umano.
Con gesti misurati iniziò a lavare via il medicamento, pettinandogli il pelo con le dita mentre sangue e terra scorrevano via, sfiorandole i polpacci.
Lupo le leccò una gamba quando uscì per prendere l’asciugamano più grande che aveva, e Levy si sentì avvampare involontariamente. Pregò che il suo amico non si scrollasse di dosso l’acqua come i cani, e lo fissò eloquentemente come per sfidarlo a farlo.
Alla fine riuscì ad asciugarlo alla bell’è meglio e lo spedì fuori dalla vasca. Zoppicava meno.
Ma il peso immenso del lupo insieme alla sua mancanza di volontà lo resero impossibile da spostare.
- Uffa! Se non esci dal bagno io non posso lavarmi e se non mi lavo non si mangia!
Lupo la fissava senza emettere suono, aspettando che Levy facesse qualcosa.
La ragazza si tolse la gonna e la mise ad asciugare prima di buttarla da lavare, e un brivido la percorse quando si rese conto che gli occhi dell’animale non la lasciavano un minuto. Alla fine si girò ad affrontarlo. – Fuori. Devo lavarmi. E tu non guarderai.
In risposta, l’animale si sedette.
Levy roteò gli occhi. – Sei decisamente un maschio. Porco.
Si slacciò il reggiseno dandogli le spalle e si calò anche la parte inferiore della biancheria. Quando si girò, vide che il lupo era scomparso. Sospirò di sollievo: si sentiva a disagio sapendo che lui la fissava mentre si faceva il bagno
Rise di sé stessa; era come vergognarsi di un gatto.
 
Quando anche Levy fu pulita e il bagno asciutto e lindo, la cena fu servita. Il lupo si sedette a tavola con lei nonostante il suo piatto fosse posizionato per terra, così Levy dovette alzarsi per metterglielo sul tavolo. Le sembrava davvero di conoscerlo, come se al suo posto ci fosse stato un vecchio amico, qualcuno con cui si sentiva a suo agio. Il lupo mangiò con appetito e si bevve quasi un litro d’acqua, con sgomento della ragazza. Riordinata anche la cucina, si sedettero sul divano e Levy gli fasciò le ferite e i graffì, che aveva il muso posato sulle sue gambe piegate. Respirava lentamente e profondamente, e se ogni tanto non si fosse lamentato avrebbe potuto benissimo dirsi addormentato. Alcune escoriazioni erano brutte, evidenti segni di colluttazioni con altri lupi, altre erano state causate da una probabile fuga nei boschi. La zampa stava decisamente meglio, ma per sicurezza venne fasciata anche quella.
Era ormai tarda notte quando Levy aprì di nuovo bocca. – Ehi, Lupo, io vado a dormire.
L’animale scese immediatamente dal divano e si diresse nella camera della ragazza senza molti complimenti, lasciandola di stucco.
Una volta spente tutte le luci e chiusa la porta di casa, Levy scoprì che Lupo si era già steso a letto e la stava aspettando. Ridacchiando, si tolse i calzettoni e si buttò a letto con addosso gli shorts di cotone e la magliettina color pastello del pigiama. Accese l’abat-jour, spense il lampadario, e si girò a guardare Lupo.
La fissava di rimando.
Solo in quel momento si rese conto che i suoi occhi erano rossi come il fuoco. Rossi come gli occhi di Gajeel. Aveva il pelo dello stesso colore dei suoi capelli, e il luccicore sul suo muso, che aveva intravisto in mezzo al bosco, non era causato dal sangue, ma dalle placche di metallo posizionate esattamente dove anche lui le aveva. Un moto di nostalgia le strinse il cuore mentre le lacrime iniziarono a sgorgare senza sosta. Lupo guaì e le leccò una guancia.
- Scusa. Sono così ossessionata da lui da vederlo ovunque. E da desiderare che ora ci sia lui al tuo posto. Ma questo non accadrà mai, vero?
Nessuna risposta.
- Pensavo che ricambiasse. Invece sono stata una stupida. E non posso nemmeno insultarlo perché mi sono illusa da sola, e ho attirato la sua attenzione in modi così evidenti che non avrebbe potuto scamparmi nemmeno se si fosse impegnato. E ora sono qui, a parlare con un lupo ferito come lo è il mio cuore, mentre lui se ne sta a casa a dormire placidamente. Magari ha pure la fidanzata.
La gelosia divorò il petto del lupo, che reclamò la sua attenzione accarezzandole la guancia con il muso. Chi era quel bastardo meticcio che la stava facendo soffrire?
- Gajeel. Gajeel Redfox – sussurrò lei in risposta alla sua muta domanda. Il lupo drizzò la testa e le orecchie guaendo piano. Levy lo fissò. Sembrava tormentato. – Ha negli occhi la stessa passione che hai tu, lo stesso fuoco. Sono così belli. Quando li guardo non ho più freddo e sento la mia pelle incendiarsi. Bramo il suo tocco più di quanto sia lecito ammettere a me stessa. Redfox. Volpe rossa. Sì, eccome se lo è, una volpe.
Tecnicamente era più un lupo, ma Levy era l’ignara protagonista della leggenda, per cui restava all’oscuro di tutto.
Abbracciò il muso del lupo e si spettinò i capelli selvaggi. – Ti auguro di trovare una bella lupacchiotta fedele con cui fare una bella cucciolata. E poi domani è sabato, si dorme – biascicò sentendo le forze abbandonarla. Il calore del corpo del lupo la cullava e la faceva sentire protetta. Del resto, aveva il miglior cane da guardia del mondo. – Chissà se i lupi dormono molto… e chissà quanto dorme lui…
*Finalmente il sonno la rapì, Morfeo la fece sua prigioniera, e il lupo vegliò su di lei, muso contro viso, nonostante il cerotto sulla guancia e sul naso. Valeva la pena di soffrire per la più fedele delle creature umane.
 
Levy quella notte dormì come non succedeva da tanto tempo, come se oltretutto il lupo avesse vegliato anche sui suoi sogni. Aveva sognato lui, Gajeel, che si trasformava in un lupo e si faceva cavalcare da lei, portandola in luoghi magici nascosti dalla foresta, giurandole il suo amore eterno e costruendo una casetta con lei fra gli alberi.
La ragazza si svegliò con il buonumore, sebbene una scheggia di rimpianto per ciò che non sarebbe mai stato le trafiggesse il cuore come una lama di ghiaccio incandescente. Strinse gli occhi per scacciare il ricordo del sogno, e si accoccolò contro Lupo, conscia del fatto che ormai quell’animale non le avrebbe mai fatto del male.
I residui del sonno annebbiavano ancora i suoi sensi e la ragazza ci mise un po’ per rendersi conto che il corpo caldo contro cui era appoggiata non era fatto di pelo ma di pelle. La prima cosa a cui pensò fu la perdita del morbido manto. Le contusioni del lupo erano così gravi che aveva perso la sua foltissima pelliccia?
Poi la razionalità si fece spazio a calci e pugni nella sua mente, inducendola ad aprire gli occhi. La coperta che usava sempre di notte era quasi del tutto fuori dal letto. A cosa servono le lenzuola, quando si ha una stufa respirante al proprio fianco?
*Dov’è Lupo?, pensò automaticamente Levy.
Avvampò brutalmente ancora prima di rendersi conto di chi era al suo fianco, mentre la sua coscienza, che aveva sempre saputo tutto, rimetteva insieme i tasselli di quel mitico puzzle. Gajeel dormiva sdraiato sulla schiena, placido e rilassato per la prima volta dopo tanto tempo. Sul corpo nudo aveva le stesse fasciature che Levy aveva applicato a Lupo, esattamente negli stessi punti: su quasi tutto il tronco, sul viso, sulle braccia e sul collo. Sul petto aveva dei graffi sottili che dovevano esserle sfuggiti a causa del pelo dell’animale.
No, non dell’animale. Di Gajeel.
Senza rendersene conto, Levy iniziò a respirare in fretta, rischiando l’iperventilazione. Restò seduta di fianco a lui guardandolo con gli occhi sgranati finché l’affanno non si tramutò in gemiti, prima soffocati e poi terrorizzati e sconvolti.
E Gajeel aveva un buon udito, orecchie da predatore, per cui fu impossibile non svegliarsi. Aprì gli occhi rossi, così uguali a quelli di Lupo, così misticamente selvaggi e magici, e li inchiodò a quelli di Levy, che combatteva contro la voglia di gettarglisi addosso. O di riempirlo di domande. O urlare. Magari tutto insieme.
Il ragazzo imprecò e si coprì con il lenzuolo, fissando Levy con il terrore negli occhi. Ormai lei sapeva, aveva rovinato tutto. Per lui era finita.
- Calmati, ti prego calmati – la supplicò, senza riuscire a sopprimere il ringhio gutturale che accompagnava ogni lettera. Effetti collaterali della trasformazione. – Sono io. Ora me ne vado, va tutto bene. Non chiamare la polizia.
Levy restò immobile con gli occhi sbarrati, un cerbiatto indifeso di fronte ai fari accecanti di un’auto. O davanti ad un lupo.
- Io… tu… sei… cosa…? – balbettò.
Gajeel si sporse e le prese le mani. – Non dire nulla a nessuno, ti prego.
- No – bisbigliò lei, la bocca arida come il deserto. Possibile che la sua saliva fosse diventata sabbia? – Mai.
Gajeel si rilassò visibilmente, così come Levy, e l’eccitazione prese il posto dell’adrenalinica paura. C’era chimica fra di loro, si attiravano come due poli opposti e reagivano come agenti esplosivi. Coca-cola e Mentos. Senza saperlo stavano lottando entrambi contro l’innata voglia di stringersi, di abbracciarsi e restare uniti per sempre.
Fu Levy a farsi avanti, sporgendosi e posandogli le mani sul petto. Lui sembrò non fare caso al dolore pulsante dei graffi, così come lei dimenticò momentaneamente che la sera prima si era quasi spogliata di fronte a lui, che se n’era andato per lasciarle privacy. – Ti ho detto che potevi fidarti di me.
- Lo so, ma non volevo coinvolgerti. Devo andare.
- No! Resta! Almeno… per colazione.
- Non posso, mi stanno cercando – mormorò lui con la disperazione nella voce.
- Chi? Cosa succede, Gajeel? – insisté Levy gattonando sul letto, cercando di avvicinarsi a lui che ormai era in piedi sulla soglia.
- Non posso ora. Non posso! Ci vediamo presto – ringhiò prima di scappare fuori dall’appartamento.
- Aspetta! Gajeel! – urlò lei correndo verso la porta, inciampando sulle lenzuola che aveva abbandonato nella sua fuga.
Aprì la porta di casa con l’intenzione di usare tutte le sue energie per raggiungerlo, ma quel poco di buonsenso che era rimasto dentro di lei la bloccò: quattro zampe sono più veloci di due gambe corte, e lo scalpiccio che scendeva giù per la tromba delle scale non era prodotto da piedi umani.
 
Per troppo tempo Levy non ebbe notizie di Gajeel. Troppi, logoranti, estenuanti giorni. Forse non erano tantissimi nella sua solita concezione del tempo, ma quando si è in attesa di qualcosa le ore si dilatano e sembrano durare mesi. Al lavoro non c’era. Quando chiedeva a Juvia o al Master o a chiunque la risposta era sempre la stessa: è ammalato e ci metterà un po’ per guarire. Ipotesi sulla mononucleosi, sulla polmonite, su quella strana influenza che durava settimane, addirittura sul cancro, ma nessuno sapeva cosa davvero avesse contratto Gajeel.
Levy si svegliava, mangiava, lavorava e tornava a casa per dormire come se la sua esistenza fosse momentaneamente sospesa, la sua vita in pausa. Sperava, in cuor suo, di tornare al lavoro in una mattina uguale alle altre e trovarlo lì, appoggiato allo stipite della porta del suo ufficio con due caffè in mano, uno per ciascuno, come aveva fatto altre volte con la scusa di chiederle informazioni sulla forma degli articoli. Tutte scuse, aveva pensato lei a suo tempo.
Ora non era nemmeno più sicura di cosa fosse la realtà.
Gajeel era davvero esistito? O aveva inventato tutto?
 
Quante volte sentiamo dire che le cose capitano quando meno ce lo aspettiamo? Solitamente ce lo dice gente che spera solo di zittirci tirando fuori una frase da biscotto della fortuna, e noi crediamo a quelle parole, perché non abbiamo nient’altro a cui affidarci.
Ma Levy ormai non credeva più in nulla.
Come sempre quella mattina si alzò e andò al lavoro dopo aver messo in borsa una delle sue droghe più potenti: un romanzo fantasy, che doveva assolutamente distrarla da… dal vuoto.
Entrò nel suo ufficio sorridendo a Jet e Droy che speravano ogni volta di vederla entrare con le scollature vertiginose che aveva esibito fino a poco tempo prima, gonna più corta e reggicalze di pizzo in vista. Ma rimasero a bocca asciutta un’altra volta.
- Buongiorno Levy-chan! – esclamarono in coro come sempre, guardandosi in cagnesco.
- ‘Giorno ragazzi – rispose lei cordialmente.
- Vado a prenderti un caffè? – domandò Droy, sfidando Jet con lo sguardo.
- Oh, no grazie. Vado io, non preoccuparti – disse lei, ignorando l’espressione di trionfo del suo collega dai capelli rossi.
Sorridendo si avviò verso le macchinette, constatando che la redazione vuota era davvero deprimente. Solo lei e i suoi due amici e collaboratori arrivavano in largo anticipo; gli altri restavano a fare colazione al bar fino allo scoccare delle otto in punto, precisi come un orologio svizzero.
Per questo Levy era l’unica a prendere da bere alle macchinette del caffè, che erano decisamente di qualità, comunque. Dei passi pesanti e veloci la indussero ad alzare il viso, ma non si voltò, credendo che fosse Droy con la sua imponente mole che l’accompagnava. Perciò ci mise alcuni istanti per realizzare che la persona che aveva davanti e che le aveva bloccato la strada, ansimando come un cavallo, non era il suo collega. O meglio, era un suo collega, ma non quello che si aspettava lei.
*Gajeel la sovrastava come sempre dall’alto del suo metro e ottanta abbondante, e la sua corporatura tonica e muscolosa le bloccava la visuale. Involontariamente si strinse la mano con le monete al petto e lo fissò placidamente, come se fosse un’abitudine essere bloccata da lui.
- Levy… - mormorò, inchiodandola al muro con una mano e chinandosi verso di lei.
Stava sudando ed era rosso in viso, senza apparente motivo. Lei doveva ancora realizzare che era davvero, fisicamente davanti a lui, per cui si limitò a fissarlo imbambolata.
- Ti… io… voglio parlarti. Tu… ehm… - annaspò, cercando visibilmente di trovare le parole in quel guazzabuglio di idee che aveva in mente.
Sentire di nuovo la sua voce bassa e roca le fece venire i brividi. – Sì. Sono qui apposta. Gajeel, io…
- No – sussultò lui, chiudendole la bocca con un dito. – Non qui. È pericoloso. Ti spiegherò, ma non qui. Non ora.
- E quando? Sono stanca di aspettare!
La disperazione nella sua voce lo sorprese, e involontariamente Gajeel si avvicinò a lei ancora di più. – Oggi. Dopo. So dove abiti. Però… ti devo dare dei vestiti.
Levy avvampò quando capì a cosa alludeva: la mattina in cui aveva scoperto la sua natura era nudo.
- Promettimelo – disse d’impeto, afferrandolo per il colletto della camicia ben stirata. Non aveva tempo per arrossire d’imbarazzo.
Accertatosi che non ci fosse nessuno, Gajeel si chinò e la baciò.
A Levy parve di averlo fatto tante volte prima d’allora, perché era esattamente come se l’era aspettato, selvaggio e istintivo, ma non per questo meno dolce. Le mani di lei si ritrovarono fra i suoi capelli ancora prima di pensare al gesto da compiere, e le braccia di lui le strinsero i fianchi facendola aderire al muro con la schiena e a sé con il petto. Nemmeno nei suoi sogni Levy poteva immaginare una cosa simile. Gajeel aveva preso possesso della sua bocca e del suo collo come se ne fosse il legittimo proprietario, marcandola come solo i lupi possono fare.
La ragazza si strinse a lui accarezzandogli il polpaccio con il suo, fregandosene del fatto che qualcuno avrebbe potuto vederli. Voleva solo sentire le sue mani accarezzarle le gambe più intensamente, le sue braccia stringerla in tutto il corpo, le sue labbra contro ogni lembo della sua pelle.
Gemette quando lui si staccò, le labbra umide e gli occhi color rubino simili al ferro incandescente che doveva solo essere plasmato.
- Dopo – le disse dandole un altro breve bacio.
E lei rimase lì, immobile contro il muro, rossa in volto, scarmigliata e disordinata, con la camicetta fuori dalla gonna lì dove le sue mani aveva cercato il contatto con la sua pelle. A chiedersi ancora una volta se si era inventata tutto, dato che a quanto pareva le fughe ad effetto erano il suo forte.
Attendere quello era decisamente peggio che attendere il suo ritorno.
 
Levy rientrò in casa solo perché il suo corpo sapeva cosa doveva fare, dov’erano le chiavi, la serratura, la maniglia. Ma senza la forza dell’abitudine sarebbe rimasta in trance, inerte, mentre il suo cervello galoppava via, in boschi popolati da lupi e letti di rose solo per loro due.
Chiuse la porta con un piede e appoggiò per terra la borsa, dirigendosi in bagno stringendo ancora fra le braccia i vestiti che Gajeel le aveva dato. Vestiti da lavoro. E una scatolina metallica scintillante. Non sapeva nemmeno lei come, ma era riuscita a resistere all’impulso di aprirla fino a quel momento, di fronte allo specchio del bagno. Con mani tremanti posò gli abiti sul bancone e aprì la serratura: una collana. Semplice, non molto preziosa, ma si capiva a prima vista che era vecchia come le leggende che Gajeel scriveva nel giornale. Una semplice catenina di metallo con delle perline posizionate a distanza regolare l’una dall’altra reggeva un medaglione a forma di lupo, colto nel suo ululato alla luna. L’occhio era rosso, e la ragazza avrebbe scommesso che la pietra incastonata fosse davvero un rubino.
Se la mise, sebbene non indossasse mai le collane, perché quella era speciale. Gliel’aveva data lui, qualsiasi cosa significasse, e lei l’avrebbe portata con orgoglio. Dopo essersi rimirata un’ultima volta si diresse alla porta d’ingresso e trascinò la borsa fino al soggiorno in moquette. Si sedette e semplicemente aspettò. Il caminetto ad accensione istantanea rischiarava e scaldava l’ambiente, e Levy si perse nella vorticosa frenesia delle fiamme cremisi, che si dimenavano in un’arcaica danza tribale.
Solo un colpetto sulla spalla la distrasse.
*Sobbalzando, girò la testa e si ritrovò a pochi centimetri dal muso di Lupo, di Gajeel trasformato. Era entrato di soppiatto senza avvisare, aprendo la porta e richiudendola. Levy era seduta con il peso del busto appoggiato sul braccio sinistro, mentre il destro era appoggiato al suo fianco. Dopo alcuni istanti passati in silenzio, a scrutarsi come due animali, lo allungò e gli accarezzò il soffice pelo del muso, ormai del tutto guarito. Lui le leccò le dita.
- I tuoi vestiti sono in bagno – sussurrò dopo un po’. – Se vuoi… ehm… se ti servono, dopo o… be’, sono lì – farfugliò, non sapendo bene come girare la frase.
Silenzioso come un’ombra, il lupo si diresse in bagno e il rumore del fuoco, che Levy aveva escluso per ascoltare solo il respiro di Gajeel, tornò a reclamare la sua attenzione.
Per ingannare il tempo decise di leggere, così si tolse le scarpe e le abbandono vicino al camino, tirando fuori dalla borsa il suo libro. Doveva distrarsi, anche perché non sapeva cosa sarebbe accaduto dopo o quanto ci avrebbe impiegato un lupo a vestirsi. Per sicurezza si sbottonò ancora di poco la camicetta viola, mettendo in mostra il ciondolo. Poi iniziò a leggere sdraiata sul fianco, per terra, mentre in un gesto automatico si tolse la fascetta, come faceva sempre appena arrivava a casa. Se l’attorcigliò attorno al polso nel caso in cui le fosse servita per farsi una coda.
Era così immersa nella lettura che non si accorse, diversi minuti dopo, dell’ospite che si stava dirigendo verso di lei di soppiatto. Gajeel la fece stendere sulla schiena mentre lei sobbalzava, lasciando il libro aperto nella pagina che stava leggendo. Lo spettacolo che le si presentò davanti la lasciò di stucco: un mezzo lupo. Gajeel aveva la coda, corvina come i suoi capelli, le zampe dotate di pelo e dita allungate, e i capelli ancora più selvaggi del solito, da cui facevano capolino due orecchie appuntite. Era riuscito ad indossare i pantaloni e la camicia, che però restava per metà sbottonata, mettendo in mostra il pelo ispido sul petto. Non ce l’aveva la mattina in cui si era svegliato da uomo.
- Cosa…? – cercò di chiedere Levy provando a sollevarsi.
Ma una zampa di Gajeel le bloccò il polso e lei piegò le gambe, facendo alzare la gonna corta. Si sentiva in balia di quell’uomo come non lo era mai stata nemmeno di un libro. Voleva abbandonarsi a lui e lasciarsi guidare solo dai sensi, escludere la razionalità per una volta.
Ringhiando sommessamente, Gajeel si chinò verso il suo petto e le slacciò con i denti altri due bottoni, mettendo bene in mostra la curva del seno. Poi risalì lungo lo sterno e le afferrò la collana con i denti.
- Vuoi che… - provò a dire prima che uno scoppio nel camino attirasse la loro attenzione.
Non disponibileEntrambi fissarono le fiamme, immobili, mentre Gajeel lanciava loro un’occhiata ammonitrice, irritato per essere stato interrotto.
- Vuoi che me la tolga? – domandò finalmente Levy, puntando gli occhi nei suoi.
- Sì – mormorò lui in un basso ringhio animalesco.
Il cuore le sprofondò sotto le scarpe: non era per lei quel gioiello. Magari glielo aveva dato per custodirlo, ma sicuramente non per donarglielo.
- Oh. Subito. Aspetta che…
Con un ringhio Gajeel le staccò la collana dal collo, senza romperla grazie al particolare meccanismo di allacciamento.
- Scusami, credevo che fosse per me – disse Levy sedendosi, libera dal corpo del ragazzo-lupo.
- Devo mettertela io – grugnì lui avvicinandosi carponi, la collana tra i denti. La posò ai piedi della ragazza e alzò il viso, avvicinandosi a lei.
Levy trattenne il fiato e iniziò a ridurre impercettibilmente la distanza fra loro, ma Gajeel si ritrasse.
- Devo parlarti.
- Sono qui – mormorò lei, umiliata dal rifiuto.
- Io sono un licantropo.
- Lo avevo intuito…
- Io mangio le ragazze come te.
- Questo lo… che cosa?! – esclamò sobbalzando.
La risatina che seguì era la stessa di sempre, umano o lupo che fosse. Era il marchio di Gajeel.
- Scherzavo. Anche se mangiare te non sarebbe una cattiva idea… - disse ghignando, la voce che lentamente perdeva la nota gutturale e tornava normale, mentre il pelo si diradava.
Levy avvampò e distolse lo sguardo.
- Io mi trasformo in lupo, posso farlo quando voglio, ma durante la luna piena non controllo i miei poteri.
La luna piena. La sera in cui l’aveva trovato c’era la luna piena!
- Ecco perché quel giorno, al lavoro, ero strano. Stavo cercando di combattere la mia natura. Ti sarò sembrato sclerotico.
- Un po’ – ammise lei.
- Mi dispiace essere piombato a casa tua, sei stata fin troppo gentile. Volevo tenerti all’oscuro di tutto per proteggerti, ma le cose si sono complicate e lasciarti nell’ignoranza è impossibile.
- Perché? – sussurrò flebilmente.
Gli occhi rossi di Gajeel, più ardenti delle fiamme, la inchiodarono sul posto. – Perché mi sono innamorato di te. E questo ti rende un pericolo.
Lei? Pericolosa?
- Per chi?
- Per il mio branco.
- Il tuo…?
- I lincantropi che si innamorano di ragazze umane perdono lentamente le loro abilità, e se i lupi mettono al collo delle loro innamorate la collana che tu hai indossato, abbandonano definitivamente i loro poteri, a meno che la ragazza non muoia. In quel caso la trasformazione in lupo sarà completa e irreversibile.
- Non sto capendo molto, rallenta.
- Il mio branco non vuole che io mi unisca a te.
- Perché?
- Perché sono il capobranco. E perdere il capobranco per questioni così futili è intollerabile per gli altri.
- Anche il tuo branco è formato da licantropi?
- No, solo lupi. Per questo non capiscono. E la notte di luna piena ci siamo azzuffati abbastanza brutalmente, io contro venti di loro. Alla fine sono dovuto scappare. Cercavano di farmi tornare il nume della ragione.
Levy era sbalordita. Se l’era prese per lei. Aveva combattuto contro venti lupi per lei.
- Di solito con la luna piena resto lupo per tre o quattro giorni, ma quella volta sono tornato umano la mattina, immediatamente. È così che mi sono reso conto di essermi perso per te. La tua vicinanza mi cambia. Lo sapevo, ma cercavo di negarlo. Sarebbe stato meglio per entrambi.
- E la collana? Come funziona?
- Te l’ho già detto. Se un licantropo la dona alla donna che ama, non potrà mai più tornare lupo – disse Gajeel, a cui rimanevano solo le orecchie da animale. Era tornato umano del tutto, o quasi.
- Ma io l’avevo messa e tu eri ancora un lupo.
- Quella collana ha effetto solo se io te la metto al collo. E da quel momento ti sarà impossibile toglierla.
- Tutte le collane si possono togliere.
- No. Questa si fonderà con la tua pelle e diverrà un tatuaggio, un marchio, con tanto di ciondolo incastonato nella tua carne.
Levy inorridì.
- Non farà male. Tornerà collana dopo che o tu o io saremo morti.
- Se muoio io per prima, tu sarai un lupo per sempre?
- Sì, fortunatamente. Perché non potrei vivere più da umano, mi suiciderei. Quando sei un lupo il dolore si attenua e vivere è più facile.
- E se muori tu?
- Il prossimo capobranco licantropo ritroverà la collana e te la chiederà.
- Oh… non potrai più trasformarti, se me la metti…
Gajeel ghignò. – Non è nulla in confronto a ciò che guadagnerò.
- Ma perché non resti con il tuo branco? Sarebbe più facile. Non verranno a cercarti una volta che sarai umano?
- Se tu non mi vuoi io sparirò dalla tua vita. Ma tu sarai l’unica per me fino alla fine dei miei giorni. Per i lupi è così, sono gli animali più leali e fedeli al proprio compagno. Il mio branco si dimenticherà di me, non riuscirà a rintracciarmi, una volta che sarò totalmente umano. Funziona così, affinché i licantropi possano vivere con le loro… anime gemelle.
A Levy il cuore traboccò d’amore: aveva detto che era la sua anima gemella.
- Cosa aspetti a mettermi la collana? – chiese con foga.
- Aspetta, non è così facile. Per te sarà una prigione, Levy. Dovrai stare con me fino alla morte…
- Come il matrimonio. È ciò che voglio, l’ho sempre voluto.
- Non mi conosci abbastanza…
- Ma so cosa provo per te! Non ho bisogno che fai la mamma premurosa, io…
- Calmati! Non volevo dire questo. Io più di tutti desidero metterti al collo quel ciondolo. Però tu vieni prima di tutto. Frequentiamoci prima, va bene? Se ti renderai conto che non faccio per te io me ne andrò per sempre.
- E il tuo branco?
- Lo guiderò finché non potrò più essere lupo.
- Ma loro non approvano.
Lo sguardo che le rivolse era carico d’amore, e a Levy parve di notare il suo cuore nel cremisi delle iridi. – Qualche zuffa fra lupi non è nulla, per avere te.
- Non posso permetterlo – disse lei alzandosi, la collana in pugno. – Mettimi la collana e basta.
- No – rispose lui severamente, alzandosi e sovrastandola. L’abbracciò. – Io non ho scelta, ma tu sì.
- Non voglio che ti facciano del male – bisbigliò con la voce spezzata, le lacrime prossime ad uscire.
- Non me ne faranno – rispose lui cullandola. – E poi staremo sempre insieme, se lo vorrai.
- Sì.
- Allora non devi fare altro che uscire con me, no?
Levy ridacchiò e lo guardò. – Non sarò felice finché non sarai al sicuro.
- Sei tu quella in pericolo, non io, perché i lupi cercheranno te per rendermi un lupo in modo permanente.
La ragazza aggrottò le sopracciglia, rendendosi conto del rischio. Era così eccitante, nonostante la paura! – Posso farcela.
- Io starò sempre al tuo fianco, nemmeno una mosca ti toccherà.
- Non ne dubito.
- Dovrò sorvegliarti anche di notte…
Levy avvampò. – Mi sembra giusto.
Gajeel ghignò. – Quindi direi di cenare e andare a dormire, no?
Lei annuì, gli occhi fissi sulle sue labbra così invitanti.
- Cosa fissi, Gamberetto?
Basita, Levy alzò la testa per fissarlo. – Gamb…?!
La parola venne troncata dalla bocca di Gajeel che premette con decisione sulla sua, facendole dimenticare di respirare. Levy si avvinghiò al suo collo e gli saltò in braccio allacciando le gambe attorno ai suoi fianchi, benedicendo la gonna corta. Gajeel era già sul suo collo profumato e candido.
- Sei molto appetitosa – farfugliò ridacchiando.
Levy non rispose, abbandonatasi alla dolcezza di quel momento. Le grandi mani di lui si posizionarono sul suo sedere prima di farla sedere sul letto. Le slacciò le parigine e lentamente gliele sfilò, facendo scorrere le labbra per tutta la lunghezza della gamba.
Lei non riusciva già più a controllare il respiro. – Ora ti conosco meglio, puoi mettermi la collana – ansimò.
- Così tanta fretta di essere mia per sempre? Sono lusingato. Ma dovrai aspettare. E ora ti conviene fare la brava se non mi vuoi implorare.
Ragionare con le sue mani sulle sue gambe era impossibile. – Implorare per cosa?
Gajeel la baciò di nuovo. – Lo scoprirai presto – bisbigliò prima di ghignare.
 
 
MaxBarbie’s
Cucù. Sarò breve (quindi mezzo papiro): dunque, ho sempre meno tempo per scrivere perché ho iniziato a lavorare, ma tranquille/i, sono sempre qui e questo capitolone lo dimostra. Spero di continuare a scrivere in fretta LNVI per postarlo la settimana prossima.
Spero che questo capitolo vi piaccia^^ Gajeel è parente di Jacob Black ahahaahah. Fighi entrambi. Punto.
Ahahaah sto delirando, scusate, non capisco nemmeno più cosa scrivo.
Durante la storia ho messo asterischi in ogni frase che si riferisce ad un immagine. Il disegno vicino al titolo racchiude i 5 (mi sembrano 5), sketch iniziali, e poi l’immagine in bianco e nero dietro a quella colorata è poco più sopra. Non so se mi sono spiegata. Ahahaha che defi che sono. Va beeeeeene, scusatemi se non sono più regolare L
A presto, e grazie per la pazienza,
MaxBarbie


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