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Autore: Gru    22/09/2015    2 recensioni
"Le lancette scivolavano pigre dietro alla plastica impolverata dell’orologio appeso alla parete, incuranti dell’Inferno sul quale la loro posizione dominava.
04.36 p.m., e Donatello rimpiangeva le corse trafelate per non perdere il treno alle sei del mattino. Almeno su quel treno c’era l’aria condizionata. Come anche all’università. O in qualunque altro luogo racchiuso tra quattro pareti e facente parte di comunità civilizzate."

Human!AU
PostOffice!AU (no comment)
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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ANGOLO SCIENTIFICO DELL’AUTRICE:
Questo è un esperimento.
Non posso comunque credere di aver speso del tempo dietro a questo sottoprodotto di fanfiction (a partire dal titolo), ma sono in fase di fissazione per le AU: un tema si pone su background diversi, venendo influenzato da questi ma mantenendo quel che lo rende appassionante, e si può leggere in millemila chiavi diverse la stessa scena. E sclerarci sopra lo stesso numero di volte. 
In più, sto studiando il magico mondo degli uffici postali: si tratta di un vero e proprio ecosistema, con tanto di catena alimentare. 
In ogni caso, questo è un esperimento: temo che non sia il mio genere, troppi dialoghi e pochi pensieri (già non so parlare di mio, far parlare dei personaggi mi manda in crisi), le descrizioni latitano e per quanto riguarda il romanticume… sono pessima, sul serio. Inoltre è praticamente priva di senso trama, e i ruoli assunti dai personaggi potrebbero sembrare assegnati a casaccio. Sono desolata.
(Anche per aver trasformato una faida decennale in un triangolo di adolescenti. Gli alieni sono relegati in Space Heroes, nessuno attenta alla vita dei personaggi... Capirete perchè questi ultimi sono un po' meno nervosetti...)
Poi c’è la cosa del linguaggio tecnico, che lascia a desiderare. A proposito, il Brooklyn Post Office non esiste. O meglio, potrebbe esistere un posto con questo nome, ma non mi sono ispirata a tale posto, nel caso.
Dopo avervi rassicurati, ammesso che siate ancora lì, vi lascio. Vi risarcirò in contanti, un giorno. No, non è vero. Chiedo scusa.
Ogni consiglio che avrete voglia di condividere sarà accolto volentieri. 
Gru
P.S. Non desidero essere assassinata nel mio letto, quindi sappiate, quando (e se) leggerete le parole “Cliché” e “Pateticamente”, che declino ogni responsabilità. È colpa di Raph.

Desclaimer: Non scrivo a scopo di lucro, e questa gente non mi appartiene. Lo so, non ve lo aspettavate…





Le lancette scivolavano pigre dietro alla plastica impolverata dell’orologio appeso alla parete, incuranti dell’Inferno sul quale la loro posizione dominava.

04.36 p.m., e Donatello rimpiangeva le corse trafelate per non perdere il treno alle sei del mattino. Almeno su quel treno c’era l’aria condizionata. Come anche all’università. O in qualunque altro luogo racchiuso tra quattro pareti e facente parte di comunità civilizzate.

In effetti, pensò lasciando ricadere la testa all’indietro e sospirando in direzione del soffitto, quel posto era tutt’altro che civilizzato. Quando, dopo pranzo, era stato spedito dalla sua carismatica nonnina a pagare l’anticipo dell’affitto in quel buco di Ufficio Postale di periferia, non aveva idea che si sarebbe trovato davanti - e, successivamente, in mezzo - ad una concentrazione di individui tale da sfidare le leggi della fisica, in quanto l’edificio non era effettivamente ancora imploso. 

La situazione sarebbe stata ancora vagamente tollerabile se non fosse stato un giorno particolarmente afoso di metà luglio, e se l’aria condizionata avesse preso il posto di un paio di ridicoli ventilatori da soffitto

Inoltre, stava stagnando in coda per uno degli sportelli da un paio d’ore, in piedi, schiacciato tra un cinquantenne affetto dal mal di gola più molesto che gli fosse mai capitato di sentire e la logorrea allucinata dell’anziana dietro di lui (“Niente a che vedere con l’estate del 1966, quello sì che era caldo, non ho mai detestato come in quella stagione l’elastico del reggipetto, se sai cosa intendo…”). 

Un ragazzino grassottello con una maschera colorata legata intorno alla testa sfrecciò accanto a lui, zigzagando tra i componenti della sua fila e ignorando le esclamazioni di fastidio e i risolini inteneriti che si lasciava alle spalle. 

Giusto. C’era anche lui.

“Tim, ti avevo detto di rimanere seduto” fece esasperato, acchiappando il fratellino per un lembo della maglia mentre questo ripercorreva al contrario la sua pista immaginaria.

Timothy si aggiustò  meglio sulla faccia il pezzo di stoffa da cui non si separava mai. “Ma mi annoio!” si lagnò con la voce più acuta che riuscì a tirar fuori. Un signore anziano della fila accanto squadrò con irritazione prima il bambino e poi Donatello, il quale tentò un sorriso di scuse che non venne ricambiato.

Sospirando, Donatello si rivolse nuovamente al piccolo terremoto: “D‘accordo, ma ho impiegato un’eternità a trovarti un posto a sedere libero, quindi adesso…”

Accadde un fenomeno incredibile.
 
Quasi nello stesso momento in cui il ragazzo posò lo sguardo sull’unica sedia rimasta libera in fondo alla sala, su cui aveva tutta l’intenzione di riportare Timothy e, possibilmente, di farcelo rimanere, una busta di plastica della farmacia del quartiere atterrò su di essa.

Donatello credette di aver visto male. In fondo, aveva una visuale solo parziale della zona dedicata all’attesa, e riusciva per miracolo a scorgere la loro sedia tra le decine di persone che lo separavano da questa. Cercò di avvicinarsi, tenendo stretto Timothy per evitare altre eventuali fughe, e strizzò gli occhi. 

La busta della farmacia era davvero lì, e si era abbattuta sulla sedia appena pochi istanti prima, ne era certo.

Prima che potesse riprendersi dallo sconcerto, mentre suo fratello lo tirava per il braccio per sapere cosa stesse fissando così insistentemente, una figura entrò nel suo campo visivo.

Scialle a fiori, capelli grigi raccolti in una crocchia, calze di nailon (A luglio? Non è umana…); si avvicinò alla sedia a passo misurato sotto lo sguardo allibito di Donatello e raccolse la busta, senza smettere di lanciare occhiate circospette in giro. Infine si sedette.

“Non ci posso credere.”

“Ma che c’è?” chiese ancora Tim, alzandosi sulle punte dei piedi e appendendosi al suo braccio per poter vedere anche lui.  

“Niente. Torniamo in fila, rimani con me” rispose seccamente Donatello, voltandosi di nuovo indietro. “Oh, andiamo!

Doveva essere in corso qualche cospirazione senile ai suoi danni, non poteva essere altrimenti. Come avrebbe dovuto spiegarsi la conversazione a senso unico che l’estroversa vecchietta che si trovava in fila dietro di lui aveva intrapreso con lo sventurato che invece attendeva il suo turno davanti? Per non parlare del fatto che la signora in questione non sembrava avere intenzione di interrompere il soliloquio, e che aveva lanciato a Donatello un’occhiata piuttosto esplicativa: Non tentare neanche di scollarmi da qui, ragazzo. Il tuo posto è dietro le mie rispettabilissime spalle.

Tornando a testa bassa in fila, il ragazzo non fu risparmiato dal ghigno piuttosto spietato dell’anziano dell’altra fila, affatto impietosito dall’aria da cane bastonato: “Dieci minuti fa era quattro posti dietro di te.” Gli lanciò un’occhiata di sufficienza. “Idiota.”

Credevo di aver lasciato i bulli alle superiori…

“Donnie, devo andare in bagno.”
 
*


Ormai avrebbe dovuto essere abituato al clima che vigeva in quella bettola della malora. E invece no.

Non avrebbe certo smesso di dispensare occhiate irritate - “Irritazione” era l’eufemismo dell’anno - al gregge di smidollati che si riversava quotidianamente in quella specie di loro ritrovo solo perché doveva sorbirseli ormai ogni settimana. Nossignore.

Certo, non che fossero tutti così irrecuperabili, lì dentro. Di tanto in tanto adocchiava qualche elemento che sembrava aver conservato una parvenza di cervello tra le varie file, qualcuno che non si dedicasse al parlare a vanvera con la prima vittima che riusciva  ad arpionare, o che non ingaggiasse battaglia ad un principio di imbroglio con i turni allo sportello. Erano tutti nella stessa angusta e sudicia barca, tanto valeva farsi crescere il minimo indispensabile di solidarietà sufficiente per non compiere stragi.

Tuttavia, se avesse avuto a portata di cazzotto quell’idiota che dirigeva l‘Ufficio, non avrebbe esitato a fargli passare un brutto quarto d’ora.

Insomma, un uomo della sua età non avrebbe dovuto essere costretto in una sauna del genere per risolvere i propri problemi con la posta - perché diavolo era così difficile scrivere correttamente un indirizzo e spedirgli il suo dannato abbonamento mensile, senza costringerlo a trascorrere in quel modo le proprie giornate di meritevole pensionato?

A lui non poteva capitare quell’Ufficio Postale enorme, pulito e con tanto di colonne in marmo, no. Al diavolo le colonne, chiedeva solo un filo di aria fresca.

Ma naturalmente il James A. Farley Post Office doveva trovarsi da tutt’altra parte della città rispetto al suo appartamento, e gli abbonamenti ai mezzi pubblici dovevano costare un patrimonio, e la sua schiena malandata doveva sommarsi alla lista.

Era stato in Vietnam, per la miseria. Se lo meritava.

“È un ottimo posto per gli incontri, Raph. Potresti sempre conoscere una santa con la testa più dura della tua.”

Ridicolo.

Solo perché quell’esaltato di Casey Jones si credeva ancora un giovane e aitante giocatore di hockey non voleva certo dire che avrebbe dovuto seguire il suo esempio ed ammiccare ad ogni ignara signora che gli rivolgeva la parola.

A volte si chiedeva ancora per quale assurdo motivo lo sopportasse, ma Casey era sempre tra i piedi a ricordarglielo, offrendogli una birra e ignorando la maggior parte delle sue paternali forzatamente burbere.

Era stato lui ad elaborare la teoria che era riuscita a surclassare quella di Raffaello, la semplice e lineare “Il mondo è pieno di imbecilli”. Secondo l’amico, era colpa dell’atmosfera che si respirava in quel tugurio dimenticato da Dio che rendeva le persone, a seconda dell’individuale temperamento, insofferenti e bellicose, oppure in preda ad irrefrenabili parlantine, o ad altri istinti paranormali. 

In base a questa teoria, forse, il ragazzo della fila accanto alla sua non si sarebbe fatto fregare due volte in tre minuti, in altre circostanze. Forse.

Sospettava che la pacata rassegnazione di Casey fosse una conseguenza della sua recente conversione alla tecnologia. Ora a Jones bastava parcheggiare le chiappe davanti al computer e risolvere le questioni burocratiche da casa sua, naturale che la cosa non lo facesse uscire dai gangheri.

Lanciò un’occhiata verso il proprio sportello, constatando con uno sbuffo che fosse ancora troppo lontano. Dalla sua posizione, ovvero dietro ad un armadio di donna di mezza età che lo sovrastava senza troppo sforzo, riusciva a scorgere gli impiegati degli altri sportelli, che aveva ormai imparato a riconoscere, data la frequenza con cui faceva loro visita. 

Alcuni lo salutavano tutte le volte, come il ragazzo assegnato ai clienti della fila C4, un tipo educato, fin troppo formale, assolutamente sprecato in quel mestiere, anche se non glielo avrebbe mai detto. Raffaello non poteva fare a meno di dargli un’occhiata ogni volta che era di turno durante la sua attesa: certo, non mancavano mai i soliti commenti contestatori, giusto perché non si montasse la testa (“Cos’è quella, una cravatta? È un ufficio, non una chiesa”), ma aveva sviluppato una specie di senso di protezione nei suoi confronti. Quel giovane uomo era troppo ingenuo per i suoi gusti, troppo… fiducioso nel prossimo. In qualche modo, sentiva di doverlo tenere d’occhio, almeno finché si trovava nei paraggi.

Soprattutto quando La Serpe condivideva il suo turno agli sportelli.

Sbuffò, stizzito, vedendola stravaccata sulla sedia di fianco a quella del ragazzo, mentre serviva una donna sulla cinquantina. Porgeva alla cliente alcuni fogli, parlandole senza guardarla e con quell’aria annoiata da mocciosa viziata che gli faceva venire i nervi a fior di pelle.

La fissò sperando di poterla incenerire con lo sguardo. Infida abbindolatrice.

Ai suoi tempi, le donne non si comportavano da streghe sfacciate. Né si pasticciavano il viso come ad Halloween, tra le altre cose.

La cosa che non riusciva a sopportare della Serpe era lo strano e malsano ascendente che aveva sul giovane impiegato. Lo stuzzicava, dedicandosi maggiormente a questo suo svago che ai clienti, ma in qualche modo riusciva contemporaneamente a mostrarsi indifferente, attirando a sé l’attenzione del ragazzo. 

E, come ciliegina sulla torta del suo odio verso quella subdola baccagliatrice, era la figlia del direttore di quella sottospecie di ufficio. Di male in peggio.


*


“Arrivederci, signor Higgins.”

Il sorriso tirato gli si spense sulla faccia appena il cliente numero 143 gli diede le spalle, uscendo dalla fila. Abbandonò la schiena sull’imbottitura sottile della sedia girevole. “Era proprio necessario?” chiese, fissando il soffitto.

“Non so di cosa tu stia parlando.”

Leonardo si limitò a far rotolare la testa verso la spalla, per poter lanciare un’occhiata stanca e scettica alla collega.

“Karai.”

La giovane donna nel completo nero si voltò a sua volta, sorridendogli sorniona “Sì?”

L’impiegato tese una mano aperta in un gesto eloquente. 

“Le mie penne, Karai.”

La ragazza se la prese comoda. Alzò teatralmente gli occhi a mandorla al cielo, arricciò le labbra tinte di rosso e, sbuffando, scontenta come una bambina a cui è stato negato un regalo, aprì un cassetto sotto il ripiano della scrivania e iniziò a rovistarci dentro, indugiando volontariamente a lungo sul fondo. Dopo essersi assicurata l’irritazione del collega, gli posò sul palmo aperto in attesa una manciata di evidenziatori e penne di vario colore.

“Questo tipo di cose si fanno a scuola, sai?”

“Sei noioso, Leo. Riesci a smettere di essere maniacalmente responsabile per cinque minuti?”

“Sei sul posto di lavoro. Buongiorno, mi dica.”

“Wow, sul serio? Sono sconvolta. Non so come avrei fatto senza questa incredibile informazione, ti ringrazio. No, signora, qui deve scrivere i dati del destinatario, non i suoi.”

“Il fatto che tu ne sia consapevole non è molto rassicurante. Per l’estero?"

“Oh, andiamo, non penserai di rimanerci ancora per molto, qui dentro. Scommetto che la laurea non ti serviva per fare fotocopie per il resto dei tuoi giorni. Per quel servizio le serve il modulo con la ricevuta di risposta.”

“Appunto, Karai, questo posto è un trampolino. Il mio impiego qui sarà la prima cosa che si leggerà sul mio curriculum, non posso rischiare una brutta immagine.”

“Non sarà la prima cosa, piccolo supereroe della posta. Le tue brillanti referenze universitarie vengono prima” replicò la donna in tono canzonatorio. “Signora, le assicuro che c’è davvero differenza tra i moduli per le raccomandate e quelli che includono la ricevuta, e lei non mi ha chiesto…”

“Ecco, tieni” la interruppe sbrigativo Leonardo, facendo scivolare verso la postazione della collega un foglio da compilare. Come ringraziamento, Karai gli rivolse una smorfia infantile, per poi porgere con un sorriso poco sincero il modulo alla donna di fronte a lei, che glielo strappò dalle mani, furibonda, prima di defilarsi.

L’impiegata si lasciò scivolare lungo lo schienale, gemendo. “Non voglio premere il tasto.”

“Devi farlo.”

“Lo so. Ma è ingiusto.”

“Mh-mh.”

Karai sbuffò, lanciandogli l’occhiataccia che gli riservava quando non poteva prendersela con nessun altro, e premette in bottone rosso sul muro.
Sul tabellone un nuovo numero lampeggiò accanto a quello del suo sportello.

“Buongiorno, mi dica.”
 
*


Odiava i neon, era ufficiale. 

La luce innaturale lo costringeva a tenere gli occhi forzatamente socchiusi e la fronte corrugata. Questo, insieme all’aria ferma e stantia della sala, aveva fatto sì che la tempia cominciasse a pulsargli ritmicamente. Cercò di rilassare i muscoli facciali e del collo. 

Troppo tardi, il dolore aveva raggiunto il sopracciglio destro. 

Sbuffò stancamente, e pensò all’anidride carbonica. Si chiese se la percentuale di ossigeno presente nell’ufficio riuscisse a superare quella di CO2. Immaginò che tutte le persone nella stanza avessero sbuffato almeno una volta come aveva appena fatto lui da quando avevano varcato la soglia, e prese a moltiplicare l’area di due polmoni umani per il numero approssimato dei presenti. Dopo di che cercò di stabilire le dimensioni dei lati e dell’altezza dell’ufficio per poterne stabilire la capienza d’aria. 

Decise che faceva troppo caldo anche per dei calcoli abbastanza elementari, e che comunque aveva trascurato molti altri dati nel tentativo di stabilire se e quando sarebbero stramazzati tutti al suolo come mosche colpite da un giornale arrotolato.

Infine si rese conto di aver davvero formulato quell‘ultimo pensiero, e pregò che tutto finisse presto.

Quasi nello stesso istante, una porta si aprì, al di là delle scrivanie degli impiegati, e il chiacchiericcio della sala, per un attimo, si ridusse notevolmente.

Distolto dai suoi pensieri, Donatello tese il collo senza troppo sforzo, dati i diversi centimetri con cui superava la maggior parte dei componenti della sua fila, e quel che riuscì a vedere fu un uomo che usciva dall’ufficio della Direzione. Il volto dagli affilati lineamenti orientali torreggiava sull’intera sala. La giacca nera che indossava lasciava immaginare un fisico asciutto e allenato, pronunciando le spalle larghe. 

Nonostante ciò, nulla, nel suo aspetto, intimoriva quanto il disprezzo tangibile che i suoi agghiaccianti occhi scuri emanavano. Un raggelante concentrato di rabbia e ferocia era ciò che trasmetteva una sua occhiata, come quella che ora scrutava con lentezza angosciante i dintorni. Qualcuno addirittura sussultò, quando la sua voce bassa e imponente si distinse, anche attraverso i metri che lo separavano da Donatello, tra gli altri suoni.

“O’Neil.”

Nella momentanea immobilità degli individui concentrati nelle vicinanze, una sola figura, quasi completamente nascosta alla vista del ragazzo, che non aveva ancora distolto l’attenzione dalla scena, attirato dalle curiose reazioni degli altri spettatori, sobbalzò.

La osservò avvicinarsi all’uomo e farsi sovrastare dalla mole di quest’ultimo, entrando finalmente nella sua visuale.


Donatello sapeva bene che la fisica moderna non ammetteva in alcun modo una sospensione temporale. Questo concetto era sempre stato molto chiaro nella sua testa.

Tuttavia, pensare alla fisica, o a qualunque altra cosa, risultò essere molto più difficile del previsto quando si ritrovò a fissare in maniera piuttosto indiscreta la ragazza che si era fatta avanti al richiamo di quello che aveva tutta l’aria di essere il direttore dell’Ufficio Postale. 

Fece scivolare gli occhi sulla pelle chiara che ricopriva gli zigomi dolci, notando una zona leggermente più scura dove, ad una distanza ravvicinata, avrebbe dovuto riconoscere il breve percorso delle lentiggini che le attraversava il viso. Seguì con un’annebbiata meticolosità il perfetto ramo d’iperbole del profilo del suo naso, il contrasto cromatico delle piccole labbra rosee, semiaperte in un’espressione di accennata sorpresa, sulla carnagione pallida, la curva delle scapole che cambiava dolcemente direzione a metà della schiena, la linea obliqua dei fili rossi che le ricadevano sulla fronte raggiungendo quasi gli- oh, per la barba di Darwin. 

Uno, due battiti di palpebre, e si ricordò come inspirare - l’anidride carbonica era un ricordo lontano.

Donatello la vide deglutire e scuotere la testa con aria mortificata, e un’irragionevole ansia per le sue sorti lo colse, ricordandosi dell’uomo di fronte a lei, che ora le parlava con un cipiglio di controllato ma inquietante astio.

Lo sguardo di Donatello scese in direzione di quello della ragazza, e si lasciò sfuggire un’incredula imprecazione.

Seminascosto dietro il Direttore, con un braccio stretto tra le dita di quest’ultimo, la testa incassata nelle spalle e l’espressione intimorita, c’era Timothy.

Merda.

Dopo essersi stupidamente guardato intorno, come alla ricerca della copia reale di suo fratello, si disincastrò dalla sua fila, e, sotto le occhiate e i commenti (“L’ho detto, che è un idiota.”) dei clienti più vicini, si lanciò verso gli sportelli.

“Donnie…“ pigolò il bambino, vedendo il fratello maggiore venirgli incontro e fermarsi vicino alle scrivanie che li dividevano.

Il Direttore si accorse di Donatello e gli piantò gli occhi addosso, sondandolo con lo sguardo più freddo che il ragazzo avesse mai ricevuto. Sapeva di avere puntati su di sé anche un altro paio di occhi, ma valutò velocemente che non fosse molto d’aiuto pensarci in quel momento.

L’uomo rivolse un’occhiata disgustata a Timothy, per poi tornare a fissarlo. 

Questo è tuo?”

Donatello si umettò le labbra secche e raddrizzò la postura. “Sì, è mio” farfugliò. “…fratello” aggiunse subito, riscuotendosi leggermente.

Mister Oroku (così recitava la targhetta che Donatello era riuscito a leggere con un’occhiata rapida) si voltò verso la ragazza, che si irrigidì appena.

“E come mai era nel mio ufficio?” sibilò, con gli occhi ridotti a due fessure.

“È colpa mia.”

Secondo sguardo di ghiaccio.
 
È un tizio qualunque, datti una calmata.

L’inquietante tizio in questione lasciò andare Timothy, facendo qualche passo nella sua direzione. Donatello si impose di non distogliere lo sguardo per nessun motivo quando l’uomo si chinò impercettibilmente verso di lui, incombendo sulla sua considerevole altezza.

“Allora ti suggerisco di evitare altri inconvenienti, in futuro.”

Lo fissò ancora per qualche secondo con odio, mentre Donatello cercava di ricambiare il sentimento con l’espressione più audace che potesse permettersi. Dopo di che si raddrizzò. “Signorina O’Neil,” ordinò, senza voltarsi “riaccompagni il… bambino da suo fratello.”

Girò i tacchi e scomparve oltre la porta da cui era uscito, portandosi dietro il gelo che era calato nelle immediate vicinanze.

Poco dopo, la ragazza con i capelli rossi comparve da dietro gli sportelli tenendo per mano Timothy, che sembrava aver riacquistato il solito spirito vivace. Tuttavia, il sorriso scomparve dal suo volto paffuto quando vide l’espressione con cui lo squadrava il maggiore.

“Donnie, io…”

“Non voglio sentire una singola scusa, Tim. Torna in fila e aspettami lì.”

“Ma il nostro turno…?”

“Non preoccuparti, ragazzo” berciò qualcuno dalla fila accanto alla loro “rimetto io il marmocchio dove stava.”

Il gruppetto si voltò verso la fonte della voce, per veder sbucare dalla folla un’ormai familiare smorfia scocciata e contornata di rughe.

“È il signore antipatico di prima” sussurrò il bambino.

“Dubito che ti mangerà” replicò sbrigativo Donatello, rifilando una spintarella leggera al fratellino “Avanti, vai.”

Lo seguì per qualche istante con lo sguardo, per poi sbirciare con la coda dell’occhio la giovane segretaria, che aveva seguito divertita tutto lo scambio e che adesso salutava Timothy con la mano. Ancora qualche secondo di autoconvincimento, e si voltò finalmente verso di lei, che a quel punto ricambio lo sguardo.

“Mi dispiace” balbettò, passandosi nervosamente una mano tra i capelli già arruffati. La ragazza gli sorrise, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l‘orecchio, e tanto bastò per riscaldare ulteriormente l’aria attorno a Donatello. 

“Oh, non ti preoccupare” rispose lei, scuotendo la testa. “Fa sempre così” aggiunse accigliata, lanciando un’un occhiata di sbieco all’ufficio della Direzione.

“Stai scherzando? E tu lavori per lui?” Lo stupore di Donatello aveva una sfumatura di indignazione che non sfuggì alla rossa, la quale tornò infatti a sorridergli, facendolo arrossire e abbassare lo gli occhi.

“Diciamo che è un tipo piuttosto teatrale” rispose lei, abbozzando una risata “ma gli piace approfittare del terrore che infonde nei suoi sottoposti. Nulla può permettersi di intralciare ciò che fa, sia anche la pausa caffè” Alzò gli occhi al cielo. “Non riesce ad accettare che alcune cose possano sfuggire al nostro controllo.”

“Capisco” annuì Donatello, pensoso. Poi aggiunse, impulsivamente: “Mi dispiace che tu debba avere a che fare con lui.”

Evidentemente non era sembrato molto disinvolto, perché la segretaria alzò gli occhi, sorpresa da quella sincera solidarietà proveniente da un totale estraneo, e lo fissò, senza parole.

Il suddetto estraneo, sentendosi definitivamente affogare nell’imbarazzo, tentò almeno di sorridere, ottenendo una smorfia degna di una paralisi facciale. Il silenzio calato tra i due non accennava ad essere infranto.

Avendo stabilito che il quantitativo massimo di figure da idiota eseguibile in una sola giornata fosse già stato superato da un pezzo, Donatello decise di provare a salvare il salvabile.

“Okay, allora… ti lascio tornare a…”

“April.”

Il ragazzo smise di gesticolare e si bloccò, già in procinto di levare le tende, con la bocca ancora aperta.

La rossa dondolò leggermente sul posto. “Sono April.”

Un altro silenzio, molto più breve.

“Donatello.”
 
*


Adorabili.

Raffaello grugnì tutta la sua insofferenza, distogliendo lo sguardo dalla quella scenetta. Dio, era già diabetico, e il secchione che tenta di abbordare pateticamente la segretaria (l’ultima alquanto inappropriata preda di Casey, tra l’altro), magari puntando sulla goffaggine per intenerirla, era il cliché più dannoso per il sangue a cui abbia mai dovuto assistere.

Se l’avesse saputo, non si sarebbe accollato - quasi, non del tutto,in realtà - volontariamente il moccioso, finendo per improvvisarsi babysitter e impedendo a qualche altro scalmanato di approfittarne e scaraventare la peste in fondo alla fila.

“Di’ un po’, che hai sulla faccia?”

Il bambino - Tom, Tim - si strinse la stoffa rossa intorno alla testa con fare possessivo. “Da grande farò il ninja” affermò convinto, con una scintilla di orgoglio a illuminargli occhi.

“Oh, capisco” fece l’anziano, dando un’occhiata all’orologio e alle loro file, sempre più corte. Forse sarebbero tornati a casa per cena.

“Dov’è Donnie?” chiese il nanetto dopo un po’, sporgendosi dalla fila in punta di piedi,  senza sapere dove guardare.

Raffaello sbuffò. “Se la prende comoda.” Si voltò verso Timothy, accigliato. “Ma come hai fatto a finire là dentro?” chiese, indicando con un cenno l’ufficio da dove era uscito quel grosso tipo odioso e irritabile. Sì, aveva visto tutto. Per lo meno si era distratto un po‘.

Il ragazzino sorrise, compiaciuto. “Sono furtivissimo, io.” 

“Sei un incosciente, ecco cosa. Quel tale è fuori di testa.”

Timothy si rabbuiò, lanciando un’occhiataccia nella stessa direzione. “Un giorno lo polverizzerò.”

“Sì, beh, intanto cerca di non cacciarti in troppi pasticci, o tuo fratello invecchierà prima del tempo.”


Due numeri. Due dannatissimi numeri, e il supplizio avrebbe avuto fine. 

Lo spilungone dell’altra fila era finalmente tornato, con tanto di sorriso ebete stampato sulla faccia, ringraziandolo per aver tenuto d’occhio il fratello. A quel punto, naturalmente, aveva dovuto strapazzarlo un po’, facendolo arrossire fino alla punta dei capelli, a proposito della sua prolungata assenza. Poteva considerarlo un risarcimento.

Un numero.

Sospirò, soddisfatto. Probabilmente avrebbe potuto scambiare due chiacchiere col signor Murakami, che di solito era di turno intorno al quell’orario, risolvere l’ennesimo casino burocratico e tornarsene a casa. Ce l’aveva quasi fatta.

“Buongiorno, e benvenuto al Brooklyn Post Office! Come posso aiutarla?”

Il sopraciglio grigio di Raffaello schizzò verso l’alto.

“E tu chi diamine sei?”

Il biondino che gli sorrideva allegramente - allegria che stonava completamente con lo stato d’animo dell’anziano - dall’altra parte della scrivania non si scompose minimamente di fronte ai candidi toni dell’altro. “Può chiamarmi Mikey, e per oggi sarò il suo personale…”

Raffaello liquidò quella serie di scemenze, interrompendolo. “Sei nuovo” insistette, facendo suonare la deduzione come un’accusa.

Il sorriso del giovanotto si allargò. “Già! Sono lo stagista.”

Il vecchio lo fissò sospettoso, senza riuscire a scalfire l’espressione gaia dell’impiegato.

“Sei troppo entusiasta” decise infine.

“Cosa posso fare per lei?” domando il ragazzo, soave.

Si osservarono per alcuni istanti, l’uno con un cipiglio torvo e sospettoso, l’altro con la testa appena inclinata da un lato, gli occhi celesti vagamente interrogativi.

“La posta.” si arrese infine Raffaello “Non mi arriva più.”

“Da quanto?”

“Circa un mese. Sono venuto anche la settimana scorsa.”

“Lasci fare a me” cinguettò allegro il giovanotto, iniziando a digitare sulla tastiera davanti a sé “Mi dica nome, cognome, indirizzo e gusto della pizza preferito.”

“…Cosa?”

“L’ultima non è obbligatoria. Era per fare due chiacchiere.”
 
*


“E comunque, per te è più facile.”

Karai non si voltò, continuando a radunare i documenti sparsi sulla scrivania. “Di cosa stiamo parlando, adesso?”

Leonardo esitò, solo per un momento. “Del fatto che il tuo capo è tuo padre, e questo ti… rilassa.”

Karai rise, un suono breve e superficiale, derisorio. “Pensavo che ormai conoscessi il soggetto.”

“Sì, ma…”

“Pensi comunque che sia un vantaggio?”

Il ragazzo si fermò a studiare quel sorrisetto ironico, tipico della sua spavalderia sopravvalutata, e le credette.

“Allora perché sei qui, Karai?” insistette. “Voglio dire, è ovvio che odi questo posto, perché non te vai? Potresti fare qualunque cosa!” 

La donna non rispose subito, e Leonardo aspettò pazientemente in silenzio. La vide fingere di ordinare la scrivania, pensierosa, finché non ci rinunciò, appoggiandosi allo schienale con calma.

“Non lo so” mormorò semplicemente, fissando il vuoto con un’espressione improvvisamente vuota, quasi rassegnata, estranea all’immagine che Leonardo aveva di lei, che chiunque aveva di lei, proprio perché era ciò che lei voleva che tutti vedessero. In realtà, Leo aveva sempre sospettato l’esistenza di un’altra facciata, ben nascosta dietro strati e strati di eye-liner ed impertinenza. Ci aveva sempre creduto, a costo di essere deriso per le sue teorie da quel suo stupido rimanere sulla difensiva.

“Non l’ho mai fatto, sai” continuò lei, a sorpresa. “Io sono dove lui vuole che io stia. Dove gli servo.”

Sbuffò una risata malriuscita, interessandosi improvvisamente al suo smalto.

Leonardo abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro. Avrebbe voluto dirle qualcosa, avrebbe voluto aiutarla. Si sentì improvvisamente in colpa, per aver potuto fare tutto ciò che aveva desiderato, per essere sempre stato incoraggiato, anche se no, non aveva avuto tutto, non aveva vissuto negli agi, ma ce l’aveva fatta grazie a ben altro. Grazie a ciò che, come gli era stato insegnato, contava veramente.

Karai era ai suoi antipodi: la sua famiglia - suo padre - poteva permettersi qualunque scuola, poteva soddisfare ogni capriccio. Karai aveva, come si suol dire, tutto ma allo stesso tempo niente. Era intelligente, versatile, e Leonardo pensava davvero che avrebbe potuto intraprendere qualunque carriera. L’unico limite che si ritrovava, la aveva messa al mondo.

Gli sembrò di aver preso il suo posto, di aver avuto tutto ciò che spettava invece a lei. Scosse la testa, impedendosi di pensare a quelle assurdità. Non era sempre e solo colpa sua. 

“Oh, non essere triste, paladino della giustizia” scherzò la donna, interrompendo quel silenzio troppo pesante per i suoi gusti. “Tra l’altro, credo che il grande capo apprezzi di più le tue, di potenzialità professionali.” Ghignò davanti all’espressione incredula dell’altro. “Chissà, magari riuscirò ad evadere prima di te…”

“Ma che - lui mi odia!” prese a balbettare Leonardo, arrossendo senza alcuna ragione apparente.

“Lui odia tuo padre, Leo. Sa apprezzare l’efficienza piuttosto obbiettivamente.”

“Faccio solo il mio lavoro, Karai. E poi, dubito che gli interessi distinguermi da mio padre. Senza offesa.”

“Nessuna offesa” l’impiegata fece spallucce. “L’ho sempre detto che dovrebbe distrarsi. È ancora per quella cheerleader, vero? Sembra che tuo padre l’avesse fatta grossa.”

“Non è come pensi” ribattè Leonardo, affatto felice di riesumare quella parte mai davvero sepolta della storia di famiglia.

“Naturalmente” assentì sardonica Karai, alzando gli occhi al cielo. “In ogni caso, rimane una cosa piuttosto stupida. Accidenti, che melodramma. Potrebbero farci una serie.”

Il ragazzo abbozzò un sorriso. “Già…”


“Si avvisa la gentile clientela che l’ufficio chiuderà tra quindici minuti.”


“Ci penserai, vero, Karai?” le chiese, tornando immediatamente serio. 

La donna commise l’errore di notare lo sguardo limpido e speranzoso di Leonardo. Chiunque avrebbe ipotizzato un secondo fine, dietro tutto quell’interesse, e probabilmente non sarebbe stata una teoria del tutto sbagliata: quel ragazzo non sapeva mentire, in nessuna occasione, gli si leggeva tutto negli occhi. Ma c’era dell’altro, Karai aveva imparato a capirlo. Leo era assolutamente ed incondizionatamente leale, in un modo che aveva ancora delle difficoltà ad accettare, lei che era stata educata alla diffidenza, a chiamare debolezza la fiducia cieca. Ti tradiranno quando meno te lo aspetti, Karai, ti porteranno via ogni cosa, e lo faranno perché tu non lo hai impedito.

Per una volta, solo una volta, voleva rischiare. Sentiva di averne bisogno.

“Vedremo.”

Leonardo sorrise, semplice, trasparente, e si voltò per riordinare la sua postazione senza mutare espressione. “Lo sapevo…” mormorò, chiaramente compiaciuto.

“Ora non gongolare. Per quanto ne sai, l’ho detto solo per farti chiudere il becco.”

“Nah, non credo. Non sei così dura come vuoi far credere.”

Karai gettò indietro la testa e scoppiò a ridere. “Sei un tipo adorabile. Sciocco, ma adorabile.”

Il ragazzo rovesciò un paio di cartelle sotto la scrivania.

 
*


“Donnie” chiamò Timothy, saltellando tra le crepe dell’asfalto sulla strada verso casa.

“Mmh?”

“A me April piace tanto.”

Donatello continuò a camminare con le mani in tasca, distrattamente. Sorrise.
*

“La ringrazio per aver scelto…”

“Sì, sì, ciao.”

‘Mi piace stare con la gente.’ Che razza di motivazione era? Insomma, c’era il volontariato per quello, non si va a lavorare nel posto più deprimente del mondo solo per fare conversazione, e magari essere presi a male parole dai più nervosi. Ma a quanto pare, il punto era proprio lì.

Continuava a non capire, ma quel ragazzino lentigginoso gli aveva sorriso, dicendogli di non preoccuparsi.

E chi si preoccupa, non ho detto nulla del genere…

“…E torni a trovarmi!”
*

“Ehi, Karai, hai visto il mio- Karai!

“Che c’è?”

“Ridammelo. Ora.”

“Non capisco perché ti ostini ad accusarmi di tutto, Leo…”

“Non ho tutta la serata, avanti!”

“…lo hai detto tu che sono sensibile e innocente…”

“Io non ho-”

“…se lasci le tue cose in giro non è certo colpa mia se poi-”

Aargh!






















 
   
 
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