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Autore: cinquedimattina    23/09/2015    2 recensioni
[ Storia interattiva| Future!Fic | Iscrizioni chiuse]
«Tu non puoi farlo! Io sono l'onnipotente Zeus, Re degli dèi e sono il Signore dell'Olimpo!» urlò arrabbiato il dio, mentre veniva anche lui imprigionato in una delle gabbie.
Il Titano sorrise di nuovo, compiendo un movimento circolare con la mano, sul cui palmo si creò un mini-tornado che andò pian piano crescendo fino a diventare di dimensioni enormi.
«Sbagli, caro Zeus, tu eri il Signore dell'Olimpo» e detto questo, scagliò il tornado verso il dio, che venne risucchiato insieme agli altri suoi simili.
L'era degli Olimpi era finita.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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(11)

 

Tyche: la fortuna scomparsa
Todd si guardò intorno, ritrovandosi improvvisamente solo.
Dei suoi amici non c'era più traccia, era come se si fossero volatilizzati tutti.
Davanti a lui, però, c'era una cella, sicuramente una di quelle in cui gli dèi erano tenuti prigionieri.
Non era poi così solo, alla fine.
Il ragazzo si fece coraggio, costringendo i piedi a muoversi, uno dietro l'altro, avanzando.
Si arrestò una volta arrivato alla distanza che riteneva opportuna e chiuse gli occhi, per poi prendere un profondo respiro e riaprirli.
Nella gabbia, accasciata a terra, c'era una donna: i lunghi capelli castani le ricoprivano parte del volto, ma Todd riusciva comunque ad intravedere gli occhi chiusi e la bocca semiaperta.
Un'assurda quanto paurosa consapevolezza gli attraversò la mente.
Il ragazzo mise una mano sulla gabbia e vi avvicinò il voltò: «Madre, sei tu?», chiese, sperando in una risposta.
Silenzio.
La dea non aveva detto niente, non accennava neanche a muoversi, sembrava morta.
Ma gli dèi non possono morire, si ritrovò a pensare.
Improvvisamente, una voce risuonò nella sua mente.
Una voce femminile, calda e tremendamente familiare.
Sono qui, diceva, rendimi fiera, per una volta.
Todd chiuse le labbra in una linea dura, annuendo più a se stesso che alla madre.

 

Persefone: il fiore appassito.
Ashton non riusciva a credere che la donna nella cella fosse Persefone, sua madre.
Gli occhi spenti, i capelli sbiaditi e l'espressione di dolore dipinta sul volto non ricordavano neanche minimamente la bellissima donna che, anni prima, il giorno del suo sedicesimo compleanno, gli aveva fatto visita.
E, sebbene il loro incontro fosse durato appena cinque minuti, Ashton aveva sentito tanto di quell'amore materno, da poter scoppiare.
«Non credi sia io, non è vero? -gli chiese sorridendo amaramente sua madre, seduta con la schiena appoggiata alla parete della cella -Come biasimarti, guardami: più che una dea, sembro una megera. E poi, non so se ci hai fatto caso, ma questa luce mi fa diventare ancora più brutta» finì enfatizzando quando stava dicendo con dei veloci gesti della mano.
«Sei sempre bellissima, madre» le disse, avvicinandosi alla gabbia.
«Se mi chiamassi 'mamma', sarei più contenta, sai? E non provare a prendermi in giro, so benissimo che dici così solo perché vuoi un aumento della paghetta che ti da tuo padre».
Ashton sapeva che sua madre stava solo cercando di tirargli su il morale ma ogni suo tentativo risultò inutile; il ragazzo aveva un solo pensiero nella testa.
Persefone sospirò, sconfitta: «Non essere avventato, Ashton. E' una forza molto più potente di noi, di tutti noi, devi essere molto prudente»
Il ragazzo annuì, per poi girarsi e iniziare a camminare, per poi arrestarsi quando sua madre pronunciò le parole che più aveva aspettato nella vita:
«Ashton- lo chiamò- sono molto fiera di te».

 

Ebe: la giovinezza rubata
Quinn girò su se stesso, una volta persi di vista i suoi amici.
Che poi, in realtà, non li aveva persi di vista, erano proprio spariti.
«Molto bene» sussurrò, unendo le mani dietro la schiena e iniziando a camminare in cerchio «Mh, ci si potrebbero organizzare delle feste mega-galattiche, quassù» osservò, guardandosi intorno.
«Vero? Lo avrò detto a Zeus miliardi di volta, ma a quanto dice lui, “divertirsi non è compito degli dèi”» queste parole lo fecero sussultare, dato che pensava di essere solo.
Dopo essersi girato ed essersi accorto dell'enorme ed evidente gabbia lì presente, non poté fare altro se non darsi dello stupido, poi si avvicinò alla cella.
Al suo interno, c'era una donna anziana.
I capelli grigi e ricci, avevano ancora qualche sottotono rosso e le ricadevano spettinati sulle spalle, gli occhi, che un tempo dovevano essere stati di un verde acceso, ora erano spenti e piccoli.
Il viso era ricoperto da rughe.
Quinn ridacchiò imbarazzato, infilò le mani in tasca e si avvicinò alla gabbia:«Già, immagino. So che Zeus è un vecchio matusa- borbottò, alzando lo sguardo sulla bambina- Chi sei tu?» le chiese poi.
«Sai, le madri mortali ci rimarrebbero parecchio male, se il figlio non le riconoscesse..ma non posso biasimarti, non ci siamo mai incontrati, dopotutto».
Quinn spalancò gli occhi, incredulo: quella donna, era Ebe, sua madre?
«M..madre? -borbottò- Cosa..Perché..Come è possibile che tu sia così vecchia?» chiese.
Ebe si alzò in piedi e si avvicinò al figlio: «Queste gabbie -gli disse, indicando la sue prigione- Rubano i nostri poteri e ci rendono deboli e vecchi»
«Chi vi ha imprigionato?» chiese ancora il ragazzo, sempre più curioso.
La dea lo guardò con un barlume di speranza negli occhi: «Un essere di forza e potenza straordinarie, superiori perfino alle nostre. Credevamo di averlo sconfitto, nel Tartaro, ma a quanto pare ci sbagliavamo. Tifone è molto più forte di quanto pensassimo».
Tifone, aveva sentito questo nome in una delle lezioni di Chirone, probabilmente una delle poche in cui era stato attento, per questo si illuminò e sorrise alla madre: «Ecco perché l'arco di Paride! -esclamò- Zeus sconfisse Tifone proprio con quell'arco!»
La dea della giovinezza sorrise orgogliosa, mentre osservava il figlio correre verso i compagni che finalmente vedeva.

 

Ares: il generale sconfitto.
Jordan aveva estratto dalla fodera Dunamis non appena i suoi amici erano scomparsi.
Si guardò intorno, attento e pronto ad ogni evenienza.
E si sarebbe aspettato di tutto ma di certo non si sarebbe mai immaginato di sentire quel «Jordan» proveniente dalla cella dinanzi a lui.
Il biondo si avvicinò, cauto, stringendo con forza Dunamis tra le mani.
La gabbia nera era sospesa in aria, a qualche centimetro dal terreno; al suo interno, un uomo sulla cinquantina, era seduto a terra e indossava un improbabile giubbotto di pelle nera.
Jordan alzò un sopracciglio e abbassò la spada: «Are..Padre?» domandò.
L'uomo annuì debolmente, per poi fare cenno al ragazzo di avvicinarsi di più.
«Ma guardati -iniziò, indicandolo con entrambe le mani- sei un uomo, ora. Dall'ultima volta che ti ho vis..».
«E' passato parecchio tempo, sì» tagliò corto il ragazzo, sorridendo appena.
Sapeva che Ares non era un dio subdolo e distaccato come tutti credevano, ma col passare degli anni e con la sua assenza, Jordan ormai se l'era figurato così e anche solo il semplice fatto che provasse ad essere migliore, gli faceva uno strano effetto.
«Già- concordò il dio, assottigliando gli occhi- ti ho lasciato che eri un soldatino, e ora, sei un generale. Al comando di una truppa, per giunta».
Il semidio scosse la testa, sorridendo amaro e «Io non sono un generale, padre. E quella non è una truppa, sono i miei amici».
Ares sorrise, la speranza era nei suoi occhi: «Anche meglio!»

 

Eos: la luce spenta
Malia non riusciva più a vedere nulla, intorno a lei c'era il buio più totale.
Fece per creare una palla di luce da usare come torcia quando si accorse che, in realtà, non ne aveva bisogno.
Non lontano da lei, un luce fioca brillava, chiusa in una gabbia.
Si avvicinò piano, con la bocca leggermente aperta e il labbro che tremava, intimorita dal non sapere cosa fosse quella luce.
Sul fondo della cella era rannicchiata una donna, le gambe erano strette al petto e i boccoli biondi le ricoprivano gran parte del volto.
Tremava.
«Ma..Mamma?» si ritrovò a chiedere con voce da bambina.
La donna per un momento rimase immobile, poi si scostò i capelli dal viso e posò lo sguardo sulla ragazza.
Un debole sorriso si aprì sulle labbra della dea: «Malia, bambina.» la salutò poi.
E a quel punto Malia sentì il cuore sprofondarle nel petto dalla felicità e le lacrime salirle agli occhi.
«Cos'è successo? Chi vi ha rinchiuso?» iniziò a chiederle la ragazza, avvicinandosi ancora di più alla gabbia.
Eos scosse leggermente la testa, poi sorrise alla figlia e allungò la mano verso di lei.
Malia credeva sarebbe riuscita a sentirla sfiorare la sua pelle eppure questo non accadde, la mano della dea era ferma ai confini della cella.
«Il tuo amico, il tuo caro amico, Quinn Richards sa già tutto -sua madre sorrise furba, provando a strappare un sorriso alla figlia- Ricongiungiti con lui e gli altri semidei e, per l'amor del Cielo, stai attenta!» finì poi, tornando seria.
La semidea annuì, si asciugò gli occhi con il dorso della mano e fece alcuni passi indietro, con un'altra luce, più forte di quella emanata dalla dea davanti a lei, che iniziava a rischiarare l'oscurità.
«Ti salverò, mamma» le promise.
Eos sorrise ancora: «Ne sono certa, bambina mia».

 

Chione: il ghiaccio sciolto.
Eileen sussultò, ritrovandosi improvvisamente sola.
Si guardò intorno, spaesata, per poi puntare lo sguardo su una cella di nebbia nera, come quelle che avevano visto poco prima all'entrata, davanti a lei.
A differenza delle altre gabbie, però, questa aveva un sottile strato di ghiaccio sulle sbarre e questo bastò a far capire alla semidea chi ci fosse lì dentro.
«Oh, no» si ritrovò involontariamente a sussurrare, spalancando leggermente gli occhi.
«Eileen.» una voce fredda e distaccata la richiamò.
Dall'interno della gabbia si fece avanti una donna, i lunghi capelli neri le scendevano sul petto, lo sguardo era freddo e calcolatore.
Sembrava non soffrire il potere della cella, a differenza degli altri dèi.
«Madre» Eileen incrociò le braccia al petto, stringendosi nelle spalle e provando a diventare il quanto più piccola riuscisse.
Quella donna la metteva in soggezione.
«Stai dritta con la schiena -le ordinò per prima cosa la dea, alzando un sopracciglio- Cosa ci fate voi, qui? Cosa credete di poter fare?»
La semidea si fece composta, assottigliò gli occhi e serrò la mascella: «Possiamo fare molto più di quanto credi tu, madre! Siamo molto più forti di quanto pensate tutti voi!»
«Siete solo dei semplici ragazzi, Eileen!» urlò la dea alla figlia, l'apprensione nei suoi occhi, per poi ricomporsi e tornare allo sguardo distaccato di prima.

«No, non è vero! Non siamo dei semplici ragazzi! I ragazzi “semplici” vanno a scuola, non passano la vita in un campo ad addestrarsi con armi e poteri assurdi!» la rabbia trapelava dalla voce della ragazza, che respirava pesantemente in quel momento, «Vi faremo vedere».
Fu l'ultima cosa che disse, prima di voltare le spalle alla cella ed andarsene.

 

Dioniso: l'uva appassita
«Papà, sei tu?», chiese Emma, facendo qualche passe in direzione dell'aria nera che rinchiudeva un uomo, seduto a terra.
La barba grigia era lunga e folta, gli occhi piccoli e circondati da alcune rughe.
«Gemma?»
«E' Emma, in realtà» lo corresse la ragazza, avvicinandosi ancora di più.
Dioniso alzò le spalle e fece una smorfia con la bocca: «Fa lo stesso. -disse poi- Ad ogni modo, cosa ci fai qui?» le chiese, alzando un sopracciglio.
«Beh, sono qui per salvarvi»
Il dio strinse le labbra in una linea sottile, per poi lasciare che una fragorosa risata uscisse da quelle e lo facesse addirittura piegare in avanti.
Giusto per rigirare il coltello nella piaga, poi, finse anche di asciugarsi una lacrima, meritandosi un'occhiata di fuoco da parte della figlia: «Non vedo cosa ci sia tanto da ridere» commentò con un'acidità che non avrebbe mai pensato di poter rivolgere a suo padre.
«Sai, i mortali hanno una specie di detto: “rido per non piangere” -commentò come se nulla fosse- In questo momento trovo sia adatto, per la mia situazione. E poi, Gemma, diciamocelo, non siamo riusciti noi dèi a fermare Tifone, come dovreste fare voi? Fatti un favore, prendi le tue cose e vattene, è meglio
così.»

La risposta del padre la lasciò di sasso.
Nutriva affetto per lui, nonostante non lo avesse mai incontrato e vedere che non aveva fiducia in lei e nelle sue capacità, le faceva male.
Quasi quanto le faceva male la consapevolezza che, probabilmente, aveva ragione.

 

Nemesi: la giustizia ignorata
Kahlen era immobile davanti ad una cella da diversi minuti.
Intorno a lei il tempo sembrava essersi fermato.
Guardava con sguardo vuoto la donna stesa all'interno della gabbia; i capelli neri e ricci le coprivano il volto e la semidea non riusciva a vederne i tratti ma sapeva che quella era Nemesi.
Avrebbe voluto poter dire di aver sentito il cuore spezzarsi, alla vista della madre in quelle condizioni, ma in realtà non sentiva niente.
La sua era un'assurda forma di apatia che neanche lei riusciva a spiegarsi.
Sospirò, per poi accucciarsi davanti la gabbia e osservare la dea al suo interno: «Madre?».
Nessuna risposta.
Kahlen deglutì e allungò la mano verso la donna, senza saperne il reale motivo; si stupì quando si rese conto che la cella non le aveva impedito di raggiungere il volto di Nemesi.
La semidea esitò un momento, prima di farsi coraggio e scostare dal volto della madre i capelli
Gli occhi erano chiusi, le labbra anche e Kahlen non riuscì a capire se stesse respirando o no.
Un tremito involontario delle labbra e un pizzicore agli occhi le fece ritirare la mano e la costrinse a strizzare le palpebre.
Tenne chiusi gli occhi finché le lacrime non si furono ritirate, per poi riaprirli e prendere un profondo respiro.
Si alzò in piedi e iniziò ad indietreggiare, per poi girarsi completamente di spalle e allontanarsi.
Una sola parole le rimbombava nella testa: εκδίκηση.



 


Heylà gente!
Lo so, lo so, sono in ritardo...
In realtà il capitolo era pronto già da un po' solo che ho avuto alcuni problemi personali e il tempo di pubblicare proprio non l'ho trovato.
In più, ho ripreso ad allenarmi ed è ri-iniziata la scuola (rendiamoci conto, io ho iniziato da una sattimana e mi sembra di aver fatto già tre mesi, aiuto) e quindi eccomi qui, ad un orario orrendo ed improponibile perché scommetto avrete di meglio da fare alle 22.15 che stare a leggere 'sto coso qui, con questo capitolo che, a dir la verità, non mi dispiace troppo.
Will: ZAN ZAN ZAAAAN!
Eh, sì XD
Ma passiamo brevemente al capitolo, shall we?
Dunque, i semidei incontrano i loro genitori sfigati (sì, perché mica possono essere solo i semidei sfigati eh) e, per questo incontro ho provato a rispettare il più possibile quanto mi avete scritto nella scheda personaggio.
Se c'è qualcosa che non va bene, non vi piace o non vi convince, non fatevi problemi a dirmelo!
Un'ultima cosa prima di andare: questo sarà il penultimo capitolo, epilogo escluso.
In giro ho visto che le altre interattive durano moolto di più rispetto alla mia e quindi...
Will: Shame on you! S H A M E O N Y O U !
Me lo merito, sì.
Bene, ora vi lascio (non vedevate l'ora eh?)
Grazie mille per aver partecipato e per le dolcissime recensioni! <3
Alla prossima!
Bacione,
Diana<3

 
  
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