Erano
passati solo dieci minuti e l’interessante episodio del ragazzo cieco in piena
crisi isterica era già stato gettato nel dimenticatoio.
Questo però non valse per Georg e Gustav che, ancora perplessi, parlottavano di
tale accaduto mentre il più basso si riforniva al distributore, come ogni
mattina.
“Secondo me è pazzo”, tagliò corto Georg, mentre rubava dalle mani dell’amico
una barretta di cioccolato.
-
Il
silenzio che seguì dopo quella sfuriata fu inquietantemente leggero. Bill si lasciò
ricadere sul banco, afferrandosi la testa fra le mani. Infilò le affusolate
dita pallide fra i capelli, stringendo di poco la presa.
Chiuse gli occhi e l’ultima cosa che sentì furono rumori di tacchi allontanarsi
velocemente da lui, un borbottio maschile e la porta dell’aula sbattuta con
forza.
Le ore successive passarono normalmente e nessuno sembrò accennare a quanto
accaduto e Bill ne fu, abbastanza sollevato. Quando la campanella trillò,
segnando la fine delle lezioni Bill preparò la cartella e non si stupì quando
tutti i suoi compagni uscirono dall’aula, senza offrirsi ad accompagnarlo.
Ma il moro era troppo esausto per arrabbiarsi, e in lui una calma strana stava
lentamente nascendo, una calma che si mostrò in tutto il suo falso realismo,
alla domanda di Gordon.
“Figliolo, com’è andata a scuola?” disse questi, mentre Bill entrava in
macchina.
“E’ andata bene papà, grazie. Andiamo a casa ora”
L’uomo sembrò crederci o, per lo meno a Bill così parve.
Jutta non era in casa, ma il moro colse quasi all’istante il profumo del suo
piatto preferito, che quel giorno gli sembrò la cosa più disgustosa del mondo.
Con la scusa di aver mangiato troppo a scuola, essendoci stato il compleanno di
un suo compagno, Gordon lo lasciò andare e Bill, grato, si rinchiuse finalmente
nel posto più sicuro del mondo.
Nella sua camera.
Non era grande, ma nemmeno troppo piccola. Il letto era spazioso, la sua
libreria piena di CD, qualche poster appeso al muro, un autoritratto e dei
peluche. Ad attenderlo c’era Rania che, ancora malaticcia gli andò incontro,
leccandogli la mano in segno di saluto.
Bill chiuse la porta e sorrise al cane. Era l’unico essere vivente che lo
faceva stare bene e di cui poteva fidarsi al 101%.
Non appena la tracolla cadde a terra, un’ ondata di emozioni sembrò
sconquassare il petto di Bill. Accarezzò con mano tremante la grossa testa del
pastore tedesco, fino a quando un abnorme senso di impotenza non lo invase,
facendolo scivolare a terra, in ginocchio. Allontanò Rania che cercava di
leccargli il viso ed un silenzioso singhiozzo ruppe ogni barriera.
Scoppiò in lacrime, lacrime amare, di frustrazione, lacrime brucianti sulla
pelle.
Pianse a lungo, nella sua testa le voci, le risate, gli insulti, i problemi
sembravano scorrergli davanti come morbosi titoli di coda.
E più l’elenco scorreva, più Bill singhiozzava, più la fortezza crollava, in
migliaia e migliaia di pezzi.
Si sentiva inutile e brutto, come un giocattolo rotto.
Si sentiva, semplicemente, uno scarto.
Radunò le ultime forze per trascinarsi sul materasso, dove ricadde
tremante e pregò un’ entità superiore di farlo addormentare all’istante,
così da fargli raggiungere quel mondo che il moro amava da morire.
Voleva solo una vita normale ed il fatto di essere cresciuto troppo in fretta
lo faceva incazzare maledettamente.
Odiava la stupidità degli altri, la superficialità di Friedrich, odiava i suoi
compagni, odiava Gunter, odiava i suoi occhi, odiava i suoi genitori, odiava
ogni particella che componeva il suo schifosissimo corpo.
Le lacrime nere continuavano a scorrergli lungo le guance, mentre un enorme
macigno gli schiacciava il petto, la testa, le palpebre.
Avrebbe desiderato così tanto morire, in quel momento.
*
“Mamma,
mammaaaaaaa!”
Tom urlò per la terza volta, con tutte le sue forze, in preda alla
disperazione.
Era diventato rosso dallo sforzo, ma Simone sembrò non udirlo affatto.
Gli venne quasi da piangere, mentre per passare il tempo messaggiava con Georg,
che al contrario di lui, andava ancora a scuola, assieme a Gustav.
“Porca troia… Mammaaaaaaaa! Mamma, aiuto!”
Fu solo al 14esimo strillo che Simone, finalmente, sentì le urla del figlio.
Allarmata lasciò i piatti nel lavabo, correndo spedita al piano di sopra dove
suo figlio continuava a chiamarla disperato.
“Tom? Tom! Tesoro, dove sei? Cos’hai?” disse la donna, spalancando la porta del
bagno.
Il rasta si voltò verso la madre e, tirando su col naso, le indicò un punto al
di sotto del davanzale.
“M.. Mamma, è finita la carta igienica, me ne porteresti un rotolo?”
Simone sgranò gli occhi, stringendo irritata lo stipite della porta e, prima
che la sfuriata cominciasse ad aleggiare per tutto il bagno, Tom cominciò
a ridacchiare.
“Perfavore, mammina!”
Non appena Simone, ancora scioccata per l’immaturità del figlio, se ne fu
andata, Tom riprese a messaggiare con Georg, che intanto gli aveva accennato di
una novità assurda successa quella mattina a scuola:
“Hai finito di cagare?”
“Mi sto pulendo il culo, ora ti mando una foto della carta igienica!”
“Diamine, Tom fai schifo! No, non voglio vederl…”
Ma il rasta aveva già scattato ed inviato la foto, con tanto di audio mentre
tirava lo sciacquone.
“Sei un coglione”, scrisse Georg in risposta.
Il rasta rise ed uscì dal bagno, andando a sdraiarsi sul morbido materasso.
“Lo so, lo so! Avanti, Ge, cos’è successo a scuola?”
“Una cosa assurda! Un tizio è uscito di testa!”
“Ah sì? Ha ucciso qualcuno?”
“No, no, è solo uscito di testa, ma è un tipo talmente strano!”
Tom sbuffò, si aspettava qualcosa di più interessante, così scrisse
svogliatamente:
“E chi sarebbe questo
tizio?”
-
Tornò a
casa con molta tranquillità, entrò nel palazzo dove abitava, si sistemò i
capelli, aprì la porta di casa.
Un odore di gelsomino gli invase le narici, la signora delle pulizie sapeva
proprio accontentarlo.
Posò la valigia con il PC in salone, si tolse le scarpe.
La domestica gli aveva preparato il pranzo, era in forno.
Quel giorno però i suoi piani erano differenti, perciò si limitò solo a
versarsi del vino nell’elegante bicchiere, sorseggiandolo mentre componeva un
familiare numero sul suo BlackBerry.
Un’altrettanta voce femminile rispose.
“Pronto?”
L’uomo si schiarì la voce, poi esordì:
“Pronto, signora Trümper?
Sono il professor Günter”
*
“E chi
sarebbe questo tizio?”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Quel ragazzo del quarto anno, quello che non vede. Giuro, gridava come un
ossesso!”
Tom guardò assonnato lo schermo del suo IPhone, ma sgranò gli occhi non appena
lesse la risposta di Georg.
Un ricordo confuso salì a galla e per un momento, il rasta chiuse gli occhi.
“Oh, cazzo… Cazzo, cazzo, cazzo!”
Non ricevendo risposta, Georg inviò un secondo messaggio a Tom.
“Amico, non dirmi che stai cagando di nuovo?”
Ma Tom non gli rispose, perché man mano stava ricordando l’ultimo episodio
dello scorso Sabato sera.
Il cane, la ragazza, Tom sulla moto e lo shock quando capì che in realtà quella
prostituta non era una donna, ne una prostituta, ma… Quel tizio cieco del
tatuaggio.
Strinse con forza il telefono, riprendendo a scrivere.
“Ah, davvero? Uhm, è moro, truccato, per caso?”
“Sì, sembra una cazzo di femmina! Che tipo strano, boh. Forse quelli che non ci
vedono hanno anche dei problemi al cervello e…”
Il rasta sbuffò anche se era consapevole che l’amico ottuso non poteva vederlo.
Guardò di nuovo il suo messaggio, messaggio che aveva appena scritto ed inviò
senza pensarci due volte, chiudendo gli occhi.
“Uhm, Ge? Domattina verrò a farvi una piccola visita”
Il
giorno successivo Bill si svegliò presto, molto presto. I suoi occhi erano
gonfi, gonfi per le lacrime, gonfi per la stanchezza.
Quel bastardo del professor Günter
aveva avvisato sua madre dello spiacevole accaduto con suo figlio e sua
madre, demoralizzata, era rimasta quasi tutta notte accanto a Bill a piangere e
a pregarlo di essere più paziente.
“Bill, tesoro, devi cercare di mediare, non puoi continuare ad essere così
scontroso!”
E Bill, ogni volta, dava di matto. Le urlava contro dicendo di aver perso la
pazienza dopo le 13 operazioni, le urlava dicendole che era stanco di fare
l’agnello con quegli stronzi, le urlava che, ad un ipotetico funerale di Günter, lui su quella
tomba ci avrebbe pisciato dopo aver cantato tutto il repertorio dei balli di
gruppo latino americani, con tanto di ballerini attorno ed un casco di banane
in testa.
Ad ogni modo, dopo che la madre se ne fu andata, il moro riuscì finalmente a
calmarsi e, non seppe come, ad addormentarsi.
Quella mattina si sentiva stranamente calmo, si lavò con calma, si vestì e non
sbavò nemmeno la matita che applicò ad entrambi gli occhi. Si pettinò con calma
davanti allo specchio, aprendo maggiormente gli occhi, con la vana, segreta ed
imbarazzante voglia di voler ammirare la sua immagine riflessa. Era un suo modo
di fare, un rito che attuava ogni qual volta dovesse uscire.
Faceva tutto davanti allo specchio, anche se non riusciva a vedersi. Certe
volte, il fatto di non vedere lo consolava solo perchè pensava di essere
brutto.
Insomma, ricordava il suo viso da dodicenne, non oltre. Ricordava il viso
dei suoi genitori, ma ora erano invecchiati. Non conosceva il viso dei suoi compagni,
ne di Friedrich, ne di quel bastardo dell’insegnante.
Forse il fatto di non vedere, da un certo punto di vista, lo rassicurava. La
sua relazione con la cecità era un continuo conflitto, una lotta estenuante fra
odio e amore, fra vittoria e sconfitta, fra bene e male, fra realtà ed
illusione, fra paura e coraggio.
E Bill era così pieno di emozioni contrastanti da poter riempire una grossa
cisterna.
Un’ immensa cisterna.
Non fece colazione, anche perché sua madre ancora non si era svegliata e no,
Bill non aveva la benche minima voglia di cucinare. Salutò Rania che era ancora
malata e afferrò il bastone bianco, sciogliendolo e sistemandolo, mentre usciva
di casa.
Sì, non vedeva davvero l’ora.
Odiava andare a scuola col bastone bianco, ma quel giorno si era svegliato
prestissimo e di sicuro a scuola non ci sarebbe stato nessuno. Si sarebbe
sistemato al proprio banco accanto al muro e avrebbe maledetto sottovoce, come
ogni giorno, quegli stronzi che non lo degnavano di un saluto. Sarebbe
ritornato a casa scazzato, avrebbe litigato con sua madre e sarebbe salito su
in camera, a studicchiare e a leggere al PC.
Se c’era una cosa che odiava oltre alla sua cecità, era di sicuro la scuola,
maledizione.
Faceva piuttosto freddo e la rotella del bastone sgusciava facilmente sulla
strada umida. Non c’erano macchine parcheggiate sui marciapiedi, ne le cassette
del fruttivendolo.
Il moro si concesse una passeggiata tranquilla, stringendo con forza la mano
sul bastone ogni qual volta udiva degli studenti passargli accanto, facendosi
quasi diventare le nocche bianche.
“Esseri umani”, pensava disgustato quando nessuno si offrì di aiutarlo ad
attraversare la strada, come molti adulti o ragazzi più grandi facevano.
Anche se, doveva ammetterlo con sé stesso, anche se glielo avessero chiesto, si
sarebbe innervosito lo stesso. Che caratteraccio aveva!
Attraversò la strada e si
ritrovò a costeggiare il fiume che precedeva la scuola. In poco tempo si
ritrovò ad attraversare il cancello, a salire le scale e ad essere invaso da
quel puzzo di plastica e polvere che, un giorno sperava di dimenticare con
tutto se stesso.
Con sua grande gratitudine la scuola era deserta, bidelli e bidelle a parte. La
segretaria lo salutò e Bill accennò un sorriso educato, prima di dirigersi
verso la sua classe.
-
Come al
solito si era svegliato maledettamente tardi e le urla isteriche di Simone
fecero si che quel risveglio fosse ancora più tragico del solito.
“Tom Kaulitz, figlio degenere, sto per dare la tua colazione in pasto ai lupi!”
Tom piagnucolò esausto e si alzò, rabbrividendo per il freddo. Aveva detto ad
Andreas che quel giorno sarebbe rimasto a casa e il suo capo aveva accettato,
con sua grande sorpresa, senza fare domande.
“Mamma cazzo, quante volte devo dirti che non ci sono lupi nel nostro
quartiere?” urlò in risposta, mentre si dirigeva in bagno, fiondandosici
quasi. Dannato metabolismo veloce e perfetto.
“Ah aaaah! Ed è qui che ti sbagli, ieri ne ho visto uno, era grosso e basso! Ci
ho fatto anche una foto, mio caro Thomas!”
Quest’ultimo sbuffò dopo essersi lavato la faccia e, dopo essersi vestito
velocemente, con i primi vestiti che gli erano capitati a tiro, giunse in
cucina, dove Simone stava saltellando con in mano il suo nuovo cellulare.
“Avanti, donna, fammi vedere questi lupi berlinesi…” sghignazzò ironico, mentre
sua madre gli porse il cellulare.
Il rasta alzò un sopracciglio, poi sgranò gli occhi a bocca aperta.
“M… Mamma? Q… Questo non è un lupo, questa è la signora Smith con la sua
pelliccia di visone! Guarda, è anche girata verso la fotocamera e ti sta
guardando malissimo, cazzo!”
Simone si poggiò le mani sui fianchi, dando un’ occhiata più intensa alla foto,
poi scosse la testa, afferrando in malo modo il cellulare dalle mani del
figlio.
“Sciocchezze, sciocchezze! Quello è un lupo, tu sei un giovane che venera gli
allucinogeni e, tra l’altro, anche in ritardo per andare a lavoro!”
Tom rimase parecchio perplesso, ma decise di non indagare oltre
sull’idiozia di sua madre. Al contrario, indossò la sua pesante felpa a
scacchi e ripose nelle tasche cellulare, chiavi dell’auto e sigarette. Non
avrebbe mai detto a Simone che sarebbe andato a scuola, quel giorno.
In realtà Tom non sapeva perché ci stesse andando, o meglio il motivo era
abbastanza strano per il suo modo di fare. Voleva scusarsi con quel tizio e
dopo non vederlo mai più, ecco. Aveva fatto una figura pessima e, tra l’altro,
non voleva cominciassero a girare voci sulla sua gaffe e sulla sua falsissima
omosessualità.
Se c’era una classifica degli uomini più etero tedeschi, lui sarebbe stato uno
dei primi in assoluto.
A metà
strada si ritrovò ad osservare gruppi di ragazzi e ragazze con tracolle e
zaini, altre addirittura in borsetta e tacchi, altri ridicolmente imbacuccati,
altri con delle scarpe orrende e, tutti, sembravano un po’ idioti.
E, tra l’altro, tutti lo stavano fissando, alcuni lo additavano anche,
sibilando: ‘guarda, ma lui non è Tom Kaulitz?’
Il rasta sorrise scocciato, non era in vena di sfoggiare la sua aria da duro,
da celebrità giovanile (anche se non aveva manco il diploma ed il suo lavoro
era tatuare). Abbassò semplicemente il capo, mettendosi le mani in tasca e
riprendere a camminare, con aria distratta, ma sicura.
Davanti i cancelli scorse finalmente i suoi due amici, gli era mancata un po’
quella scuola, dopotutto aveva passato dei bei momenti e andava d’accordo con
tutti. Georg sorrise e così anche Gustav. Si diedero delle affettuose pacche
sulle spalle, fino a quando Tom non si guardò attorno, in cerca di quel tizio
cieco. Gustav era intentissimo a parlare del fatto che presto avrebbe avuto la
macchina e che avrebbe spaccato tantissimo, ma Tom non lo stava ascoltando.
“Ragazzi, dove si trova la… Insomma la classe…” cominciò a dire, impappinandosi
di continuo.
Porca troia, non aveva inventato una scusa per giustificare la sua presenza,
che cazzo di genio che era!
I due amici lo guardavano spaesati e Tom tossicchiò imbarazzato, poi riprese
prima che potessero fargli domande inopportune.
“Insomma, io… Ho saputo che nell’aula dove si trova quel tizio pazzo…
Cioè, li hanno il mio banco, quello dove ci ho picchiato quei tizi, quello con
la macchia di sangue e…” stava dicendo solo stronzate, la sua copertura era
pessima.
Però i suoi amici sgranarono gli occhi, cominciando a scuoterlo.
“Quei marmocchi hanno il tuo banco? Il banco storico di Tom Kaulitz?
Dannazione, Tom la campanella sta per suonare, quel banco non deve essere
toccato!”
Sì, beh… La sua copertura era pessima, ma Georg e Gustav erano due idioti!
“Sì, ecco… Quanti minuti ho?” chiese, e Gustav guardò l’orologio.
“13minuti, ce la puoi fare”
Ma Tom era già schizzato nell’edificio, con gran stupore dei due.