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Autore: minervalennon    26/09/2015    4 recensioni
Camilla vorrebbe solo leggere, scrivere e sognare John Lennon.
Amelia vuole fare la rivoluzione, qualunque cosa significhi, e nel frattempo guarda male la gente.
Maya è scappata dalla guerra che ha devastato la Libia, è costretta a lavorare in un locale e prova a chiamare casa questa nuova città.
Greta è bellissima, ha uno spiccato talento per la recitazione, una personalità ingombrante e la tendenza ad eclissare chi le sta accanto.
Alberto ha una tenerezza arruffata difficile da spiegare, suonerebbe sempre e vive per la sua chitarra.
Stefano ha gli occhi verdi e il carattere più buono del mondo. Tende a psicoanalizzare chiunque, e intanto suona la tastiera.
Fabio ha una spigolosità tutta sua e al basso ci si aggrappa per dimenticare una famiglia in pezzi.
Enrico, timidissimo, suona la batteria, dimenticando ogni forma d'imbarazzo solo con le bacchette in mano.
Loro sono i protagonisti di Country Dreamer, questa piccola, grande, scalcagnata e meravigliosa avventura. Sono otto adolescenti che si muovono in una
Torino magica e ordinaria insieme, una città dalla quale scappare e nella quale rimanere, un po' casa un po' porto dal quale partire, sapendo che, qualunque cosa accada, loro ci saranno sempre gli uni per gli altri.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Io ho pensieri e giorni incasinati

Sono svariate, le persone alle quali dovrei dedicare questa storia. Mille gesti, dialoghi, avvenimenti, si ispirano a quelli che ho realmente vissuto con i miei genitori, mio fratello, i miei amici. Devo un grazi a tutti loro, perché pur non essendo al corrente dell’esistenza di questa storia ne fanno parte, e mi ispirano ogni giorno, con il loro senso dell’umorismo, la loro ironia, la loro dolcezza e la loro forza.


A Martina, perché questa storia, non fosse per lei, non esisterebbe proprio. Perché mi ha convinto a scriverla, a continuarla, a sfornare capitoli. Perché è la mia migliore amica, l’unica alla quale, quando mi chiede “come sto”, non rispondo sempre per forza “bene”. Quella che ho insultato fino alla nausea, con la quale ho spartito biscotti, sogni, chat, libri, cd. È la migliore delle migliori amiche, oltre che ottima scrittrice, e se non ci fossero le sue storie, i suoi personaggi (dei quali mi impossesso per farmi film mentali e per shippare tutti con tutti), io sarei persa. Ed è la mia beta, il mio scricciolo, la mia nemesi e la parte più demente del mio animo. Grazie, per ogni attimo, per ogni consiglio, per ogni cretinata e per l’aiuto nella vita come nella scrittura.


Questa storia, inoltre, non esisterebbe senza John Lennon, unico e solo grande amore platonico della mia vita. Sono in molti i cantanti, gli scrittori e i libri, i cd ad avermi ispirata, ma John, con la sua dolcezza arruffata, la ruvida tenerezza e l’anarchica creatività è quello che più mi ha aiutata a scrivere, a credere in questa storia e nel suo potenziale. Grazie, John, per la tua rivoluzione, per le tue battute al vetriolo, e per le canzoni che mi hanno sempre rubato il cuore.


No better than this


Io ho pensieri e giorni incasinati

Lei l’aria e anche i voti da maestra

(Due Universi, Claudio Baglioni)


Camilla aveva sparpagliato i libri di Greco e Latino sul prato intorno a loro, come se servissero davvero a qualcosa. Alberto la conosceva da un mese o poco meno e non l’aveva mai vista senza libri di testo, e a volte nel bel mezzo di una conversazione lei si chinava, riguardava un paradigma latino o una declinazione, si sistemava la frangia e riprendeva a parlare, come se niente fosse. Lui era sempre allibito da questo suo comportamento assurdo, forse perché alla scuola non si era mai abituato davvero. Era da quando era alle elementari che viveva malissimo il momento di sedersi ad un tavolo, fare i compiti per il giorno dopo e preparare la cartella. Non aveva alcuna difficoltà ad immaginarsi Camilla bambina, con le fossette e la coda di cavallo, mentre impiegava la massima cura nel fare tutti gli esercizi assegnati dalla maestra.

Quella volta erano soli. Stefano aveva boicottato il pomeriggio al parco per via della sua interrogazione di greco imminente, mentre loro due avevano deciso di trascorrere il pomeriggio insieme.

Uscivano sempre in tre, quasi tutti i pomeriggi, ormai. Per Camilla era strano, abituarsi alla sensazione di avere qualcuno con cui passare del tempo al di fuori dei suoi genitori. Con Amelia usciva di rado e ora sapere che c’erano Alberto e Stefano con cui perdere tempo in una gelateria qualsiasi o al parco, imbucandosi in ogni libreria o negozio di dischi, le infondeva uno strano conforto. Le sembrava di galleggiare a mezzo metro da terra, con loro. Li adorava, perché erano i suoi amici, la sua boccata d’aria, il suo sollievo. L’avevano sempre giudicata tutti o troppo seria o troppo trasognata. Allontanava le persone, lei, suo malgrado. Era sempre stata gentile e disponibile, ma il suo mondo, quello fatto di personaggi di libri, cantanti morti e sepolti o passati di moda e piccole cose che le accendevano lo sguardo, erano in pochi a poterlo capire. Ma Stefano e Alberto no, loro ci provavano, a comprenderla, nonostante non fossero quasi mai da’accordo, sebbene lei si illuminasse per i libri e non per la musica e malgrado i suoi occhi si sgranassero davanti a Dante, e non al rif di chitarra di Satisfaction, che faceva trasalire Alberto. 

Quel pomeriggio avevano scelto il prato, anche se Alberto sapeva già che la sua amica avrebbe avuto fame, e allora si sarebbero trascinati alla gelateria più vicina.

Povero Stefano, lui sarà chiuso in casa con quei polverosi libri di Greco mentre noi siamo qui, con gli uccellini e le farfalle…”, sospirò Alberto, che non sembrava neanche tanto dispiaciuto per il suo amico.

Cretino, tu l’interrogazione di Greco l’avresti dopodomani e non stai studiando per niente.”

Ma ci sei tu che studi abbastanza per entrambi…”

Lei lo guardò, a metà fra l’incredulo e l’esasperato.

La prof ti ucciderà, ne sei consapevole?”

E tu raccoglierai i frammenti del mio cadavere con il cucchiaino, e spargerai le mie ceneri nell’Atlantico, proprio come hanno fatto con John Lennon.”

E poi?”

E poi cosa?”

Hai dimenticato il finale.”

Che finale?”

Sarai mangime per i pesci, no?”

Grazie. Ho sempre sognato di esser mangiato da un branco di pesci che nuotano nell’oceano.”

I pesci non formano branchi, eh, ma banchi.”

Banchi? Come quelli di scuola? Come il nostro banco?”

Proprio così.”

Se dico questo, alla prof di greco, mi darà la sufficienza? Cioè, è fantastico, il fatto che i pesci si riuniscano in banchi!”

Ma sei scemo? Banco, gregge, stormo, è la stessa cosa!”

Sì, ma i pesci sono eterni studenti scansafatiche che passano la loro vita al banco di scuola!”

Stai forse insinuando che sei la reincarnazione di un pesce?”

Magari…. E tu quella di una professoressa di italiano incattivita dagli anni. Anzi, sei proprio così, intrappolata in un corpo di ragazzina bionda e relativamente carina.”

Tu sai che una ragazza normale per quel relativamente ti avrebbe ficcato un dito in un occhio, e avrebbe badato bene ad estirparti il bulbo oculare con un’unghia?”

Tu non hai unghie, Cami, le hai mangiate tutte durante il nostro primo anno di liceo.”

Deve ancora finire, e ho ancora qualche moncherino da mordere per bene. Poiosso inizirre a mangiare le tue matite.”

Tanto, per quel che mi servono a scuola…”

"Per disegnare, no? Disegni bene, tu, davvero.”

È la prima cosa carina che mi dici oggi, solo che non mi serve.”

Lo so che vuoi suonare, solo che sei bravo anche con una matita. Mi capita di guardarti a scuola, come a matematica quando la mia immaginazione è troppo paralizzata dalla noia anche per fantasticare, e guardo le cose che disegni. La caricatura della prof, la testa di Elisabetta che si muove annuendo ogni volta che lei apre bocca, e lo schizzo che hai fatto a Yoko Ono che si trasforma in una scimmia. I pittori rinascimentali avrebbero qualcosa da criticarti, certo, ma a me diverte.”

Se vuoi posso farti una caricatura mentre ti trasformi nella prof di italiano rinsecchita e con l’ulcera che avevo alle medie.”

Ti ho fatto un complimento, gioisci, no?”

Se mi dicessi che sono inimitabile quando suono sarebbe meglio, davvero.”

Pretendi troppo. E poi lo sei davvero, inimitabile.”

Disse quell’ultima cosa fissando l’erba, Camilla. Aveva gli occhi troppo accesi e si stava mordendo un labbro a sangue, perché lei certi complimenti non li faceva, non a lui. Arrossiva sempre, inevitabilmente, quando doveva lodarlo per qualcosa. Non gliel’aveva mai detto, lei, nonostante si conoscessero da diverse settimane, che lo trovava irrimediabilmente fantastico quando suonava.

"Oh! L'hai detto! Finalmente!"

"John Lennon era più fantastico di te, però."

"Grazie, è sempre così bello, avere a che fare con te."

"Dai, lo dici anche tu che John era insuperabile!"

"Perché ti piace tanto, poi, lui? Voglio dire, tu sei una ragazzina perbenino, con gli appunti in ordine e l'aria così seria, quando non sei fra le nuvole."

"Appunto!"

"Eh?"

"È proprio perché sono fra le nuvole, spesso, che mi piace John. Lui era un duro, ma non sul serio, si appartava nel giardino di un vecchio orfanotrofio per sognare, scrivere e fumare da solo, e io sono assolutamente uguale, solo che scappo in camera mia e non fumo. E poi quando ho smesso di sentire solo Baglioni, de André e Guccini cercavo anche altro. Non solo  testi da brividi o  melodie carine accompagnate a delle parole fantastiche, no. Volevo di più, una chitarra a cui venissero strappate delle note belle da star male, dei giri di basso vertiginosi come quello di “I'm looking through you” o delle prime note che tolgono un po' il fiato, come quelle di "My sweet lord",  e ogni volta che sento quegli accordi io raggiungo la mia nuvola, insieme a George."

Era buffa, pensò Alberto. Si torceva i capelli biondo cenere e sorrideva a lui e ai cantanti di cui parlava in un modo che un po' gli tolse il respiro. Era anche bella, e non "relativamente carina", come aveva detto poco prima. Un'espressione così cristallina e stralunata, a lui, non l'avrebbe mai rivolta nessuno, se non quella ragazzina con i jeans e la camicietta celeste, forse troppo angelica per uno come lui. E poi parlava dannatamente bene, lei, e non solo perché ci metteva tutto l'entusiasmo del mondo. Lui, benché appassionato, si esprimeva in maniera troppo contorta e inquietante, spesso mangiava le parole  e sottintendeva  concetti, mentre lei, quando raccontava qualcosa, sembrava stesse scrivendo un romanzo. Però mica gliel'avrebbe mai detto, perché se le avesse fatto un complimento avrebbe perso quell'aria da sbruffone che tanto gli era cara.  Sapeva che a Camilla, con la sua aria paziente e rassicurante, avrebbe potuto raccontare qualsiasi cosa, lo sapeva. Lei l'avrebbe capito, o quantomeno ci avrebbe provato più di chiunque, e forse qu per questo che decise di aprirle il suo cuore, quel pomeriggio, almeno un po'.

"Io amo John perché mi assomiglia tanto, e non nel modo in cui dici tu. Lui ha perso la mamma due volte, prima da bambino e poi da ragazzo. Io una mamma ce l'ho, ma ormai non c'è più da anni. Viviamo nella stessa casa, ma ci incrociamo ad orari impossibili. Quando mio padre se n'è andato di casa  facevo le elementari.  Non so nemmeno perché sia andato via, capisci? L'ho conosciuto poco e male, e non è che ora quando mi manda un sms o mi chiama per sapere come sto lo conosco meglio. A mia madre importava solo che lui ci desse i soldi, e con quello non ci sono mai stati problemi. Il resto non esiste. Ha continuato a regalarmi le magliette della Iuventus per anni, sai? A me del calcio non è mai fregato niente, ma proprio nella maniera più categorica e assoluta. E lui non l'ha mai capito, questo."

"Dove abita, adesso?", domandò Camilla con un filo di voce. A lei, figlia adorata di due genitori che si amavano a loro volta con un affetto, una complicità e un trasporto accentuatosi negli anni, quella storia faceva male.

"Giù al sud. Calabria o Campania, non saprei."

La verità era diversa, ma era troppo orgoglioso per raccontare  a Camilla che aveva cercato e trovato la casa di suo padre che per lui non era altro che un puntino su Google Maps, e faceva male vedere quei mille e più chilometri che li dividevano,  e l'autostrada che lui non aveva mai attraversato per venirlo a trovare.

"Ti manca?"

"Mi manca un padre, non lui. Mi manca una persona con cui parlare, con cui litigare fino alle lacrime, un uomo da non capire. Ma lui no, perché non lo conosco. La mamma è presa da mille storie diverse.  A volte è gente che le dà un lavoro."

"No, non è una prostituta.", aggiunse vedendo lo sgomento sul viso di Camilla.

"Solo che è stata col direttore di un cinema o con quello di un supermercato, e per un po' di tempo ha lavorato per tutti e due, come bigliettaia o cassiera, perché le procurano un posto. È ancora bella, la mamma, ma si trucca troppo ed esce spessissimo. Al mattino dorme, di pomeriggio lavora, la sera boh, credo che stia fuori. A volte è a casa ad orari assurdi, la domenica la passa struccata, in pigiama e con una sigaretta. E io non so cosa dirle. A volte facciamo colazione insieme, lei fa il caffè per entrambi e ci proviamo, a restare seduti a tavola, ma io non ho niente di cui parlarle, dovrei spiegarle troppe cose."

A Camilla tutto questo faceva male. Era abituata alle mille merende, alle ore che lei e i suoi genitori passavano parlando di tutto e di niente, litigando per cretinate  e facendo subito la pace. Le dispiaceva troppo per Alberto, perché non aveva tutto questo. Se lo ripromise allora, forse, che avrebbe provato a dargli quel che gli mancava. Lui dovette aver intuito che le sue parole avevano rotto qualcosa, in Camilla. Lei si era rabbuiata di colpo, e si era messa ad fissare ostinatamente il libro di latino, sperando ardentemente di trovare qualcosa da dire. Succedeva sempre, quando metteva qualcuno al corrente della propria situazione familiare. Chissà cosa si era aspettato da lei. Non poteva certo pretendere che  gli sorridesse raggiante come prima, dopo un discorso così, ma sperava che almeno  potesse aggiustare tutto il casino che lo circondava da anni. Camilla era la cosa più simile ad un'ancora alla quale aggrapparsi, lo intuì allora, e in quel momento sperò più che mai che lei potesse dire qualcosa, qualsiasi cosa, che alleviasse il dolore sordo che provava da troppo tempo. 

"La musica può salvarti, in qualche modo, lo sai vero? Non devi metterti le cuffie e dimenticarti del mondo, questo no, solo provare a esprimere con l'arte quello che senti dentro. E poi ci siamo io, Stefano e le nostre famiglie, anche se i miei non li conosci ancora, tecnicamente. Posso aiutarti in qualsiasi modo, basta che me lo dici, anche se hai bisogno di uno spazzolino da denti, o qualcosa del genere. Psicologicamente non lo so, ecco, cosa posso fare per farti stare un po' meglio, però se hai bisogno di compagnia, di una cioccolata alle tre di notte, io ci sono, sì, sempre che i miei non mi uccidano.", disse tutte queste cose d'un fiato, come se stesse recitando un paradigma, e guardando altrove. Era tremendamente imbarazzata, tutto qui, ma voleva che Alberto sapesse che lei poteva esserci, sempre e comunque.

"Se dovessi aver bisogno di uno spazzolino da denti te lo dirò, giuro.", sorrise lui, che tentò di stemperare il tutto con una battuta. Era commosso, in realtà, perché Camilla, con poche parole un po' incerte, ma dette con la sincerità e l'affetto che la contraddistinguevano, era riuscita a confortarlo. Perché lei ci sarebbe stata, lui lo sapeva. Non erano promesse sciocche, le sue, né parole dette tanto per dire. Lei l'avrebbe ascoltato sempre e comunque, perché era fatta così e non gli avrebbe mai negato una rassicurazione, un sorriso storto, un rimprovero.

"Tu invece?", aggiunse poi.

"Io cosa?"

"Non so, avrai anche tu... qualche scheletro nell'armadio, da qualche parte?"

"L'unico armadio che conosco è quello di Narnia, hai presente?"

"Ho dormito per tutto il film."

"Il libro è fantastico! E poi la minore dei fratelli, che è ancora una bambina all'inizio della storia, la prima che va nell'armadio, si chiama Lucy. Come la  nostra Lucy, la Lucy nel cielo con i  diamanti di John, hai presente?"

Era tornata la sua Camilla, ora, quella che si illuminava e indispettiva per un niente. Come poteva spiegarglielo, Alberto, che già il vedere il suo viso furente, sorpreso e raggiante nel giro di tre secondi gli scaldava il cuore? Ma non poteva, no, perché non avrebbe mai trovato le parole giuste per farlo.

"Lo voglio anche io, l'armadio miracoloso che mi trasporta in un altro universo. Ci vieni, con me, a Narnia, un giorno o l'altro?", gli chiese lei con un sorriso.

"Preferirei Londra, ma Narnia va anche bene."

Camilla non ebbe il coraggio di confessargli che l'avevano portata a Londra l'estate prima, quando aveva finito le medie con dei voti altissimi. Non poteva raccontargli del tè coi mille dolcetti preso in un bar elegante, di Abbey Road gremita di gente né dell'albergo in cui avevano dormito. Non erano miliardari, i suoi genitori, ma fra la sua vita e quella di Alberto c'era una distanza troppo dolorosa. Si era sempre vergognata di essere più fortunata di altri, nonostante suo padre si fosse guadagnato onestamente ciò che possedeva. Ora le s'imporporarono le guance, e preferì lasciar perdere.

"Ci verresti anche in Cile, con me?"

"In Cile?"

"Eh, già. L'ultimo paese del sud America, la terra di Isabel Allende e  di Pablo Neruda nonché uno dei miei più grandi sogni. Perché sai, questo paese a cui non pensa quasi mai nessuno è stato il primo in cui vinse un partito di sinistra eletto democraticamente. Ed è una gran cosa, no? Altro che la Russia col suo Stalin, o Cuba. Qui era la gente che voleva una determinata politica, ecco, ed è stato giusto così. Poi quei simpaticoni degli statunitensi hanno fatto sì che si scatenasse un colpo di stato, che ha dato luogo ad una dittatura durata tantissimi anni. Ti rendi conto?"

"E tu perché vuoi andare proprio lì?"

"Per Neruda, principalmente. Per la sua casa a forma di chiocciola, piena di oggetti stravaganti e davanti al mare. E poi per andare nei luoghi dei romanzi di Isabel Allende, la mia scrittrice preferita. Vorrei trovare la grande casa a Santiago di Esteban e Clara, che poi non  è mai esistita ma ci deve pur essere, un posto con quell'atmosfera lì."

Lui le sorrideva, per una volta senza interromperla.

"Dai, non dirmi che non vorresti andare in una casa a forma di chiocciola...", mormorò lei alla fine, suscitando una mezza risata da parte del ragazzo.

"Sempre, proprio. Però magari in Cile ti ci accompagno davvero, un giorno o l'altro, giusto per vedere qualcosa di diverso da Torino."

"Non ti piace? È così bella, questa città, soprattutto quando non è invasa dai turisti. E la fiera del libro? Ci vado sempre da sola, ormai i miei si sono rassegnati a non accompagnarmi, e mi perdo sempre. Mi ci accompagni, l'anno prossimo? Ti prometto che non ci fermiamo per più di mezza giornata."

"Non è che non mi piace, è... che devo andare via da qui, presto, prestissimo. Sogno Londra, New York, san Francisco. In quelle città posso fare il musicista per davvero. E poi a New York suonerei anche in mezzo a una strada, solo per vedere l'effetto che fa. Mentre qui no, qui mi sembra tutto così grigio, e triste."

"New York e San Francisco voglio vederle anche io, presto. Però Torino è bella come lo è l'Italia proprio perché è mia, perché mi appartiene, perché non è solo un sogno. Alla fine la magia la puoi trovare anche in questa città, nei suoi quartieri eleganti, nelle piazze in cui si è fatta la storia e nelle pasticcerie le cui vetrine traboccano di leccornie. Ascoltando i Beatles  ho sempre un piede a Londra o a Liverpool, mentre sentendo i cantanti italiani, beh, mi sento a casa."

"La musica italiana non vale la pena di.."

"No! Non dire così! Non so come farei senza de André e le sue canzoni che  a volte nascondono una rabbia che fa male. E non ha bisogno di chitarre e batteria, no, lui ce la fa solo con quei testi che tolgono il fiato. E Baglioni, che racconta l'amore nato fra ragazzi un po' come noi, e nel suo libro, Qpga, parla di una di quelle storie d'amore che non durano per sempre, ma ti cambiano, inevitabilmente. Un grande amore come quello fra Andrea e Giulia, mamma mia, non credo che l'avrò mai, non io. Però Giulia, col suo sogno di diventare scrittrice e quel suo "le parole sono tutto", mi assomiglia tantissimo. E poi non sai cosa significa, imparare la discografia di Baglioni a memoria e spiegare a tutti, te compreso, che le sue canzoni non sono delle lagne, non solo, ma ha dei testi che illuminano il mio mondo, e rendono tutto meno grigio, meno ordinario, più speciale."

"Respiri mai"?", l'interruppe bruscamente.

"Quando?"

"Quando parli, intendo. Prendi un po' di fiato, stai facendo dei discorsi troppo lunghi, anche se... c'è del vero, in tutto quello che dici, credo. Però Baglioni potrebbe anche impiccarsi, per me. De André forse no, ma Baglioni sì."

"È uno dei miei cantanti preferiti, anche se non lo sposerei mai, dato che il mio unico grande amore è e resterà sempre John."

"Ti rendi conto che il tuo futuro fidanzato dovrà competere con John Lennon solo per avere la tua attenzione?"

"Non è che la tua ragazza sarà più fortunata, dovendo sempre elemosinare il tuo affetto dato che sarai sicuramente troppo preso dalla tua chitarra per poterla considerare."


***


Di pomeriggi come quello ce ne furono altri mille, anche se man mano Alberto e Camilla uscirono sempre meno da soli. Alberto spesso suonava e c'erano Enrico, Fabio, Stefano, Amelia, Maya e Greta. Loro due, però, restarono inseparabili. A scuola condividevano lo stesso banco e durante le ore troppo noiose per entrambi, lui le raccontava a mezza voce qualsiasi cosa, e lei fissava la professoressa imperturbabile ma in realtà bevendo ogni frase del suo amico, perché le strappava troppi sorrisi involontari e sospiri fra il rassegnato e il divertito. Non se la sapeva spiegare, Camilla, la magia che c'era fra loro due. Le parole erano tutto, per lei, ma non ne trovava, per  descrivere quella complicità, quella stessa scintilla che illuminava loro gli sguardi, il ridere e l'incantarsi davanti alle stesse cose. E a lui a volte faceva dei discorsi tremendamente lunghi, raccontandogli della rivoluzione di de André e di Guccini, della bomba a piazza Fontana e del genocidio armeno, mischiando aneddoti che lo stordivano, ma che lo lasciavano con un sorriso idiota, perché l'entusiasmo e la frenesia con cui dell'amica lo lasciavano interdetto e incantato. E lei pendeva dalle sue labbra e dagli accordi della sua chitarra, lo guardava adorante ogni volta che si metteva a suonare ma poi gli afferrava il braccio e gli dava del cretino,  e nessuno si accorgeva di quegli sguardi pieni di cose che neanche voleva ammettere con se stessa che gli lanciava ogni tanto. Anche lui, a volte, suonava e scrutava il pubblico, che a volte erano i suoi amici, a volte quello esiguo ed annoiato del bar. Lei c'era sempre, con il libro di greco aperto contro il bicchiere di Coca Cola, che si perdeva dietro ai paradigmi  ai quali un po' prestava attenzione, per poi    distrarsi concentrandosi sulla musica.

E lui si aggrappava alla sua chitarra che era la sua ancora, però quando non gli bastavano John Lennon, Bruce Springsteen o Kurt Cobain c'era lei, quella ragazzina dai capelli di paglia e dallo sguardo verdazzurro, con l'espressione incerta e più limpida del mondo, almeno per lui. E finito un concerto correva da Camilla, che gli offriva quel che restava della Coca Cola e provava invano a fargli studiare i paradigmi di Greco, rinunciandoci puntualmente dopo venti secondi. E lui fumava una sigaretta incurante della sua amica che lo disapprovava ma che rimaneva lì accanto, ad ascoltarlo mentre raccontava ogni momento della sua esibizione, con un entusiasmo ed una logorrea che la rimbambivano e le toglievano il respiro. Però no, non ci aveva mai pensato, ad innamorarsi di Alberto. Le sembrava una cosa troppo assurda, che lei potesse prendersi una cotta per qualcuno. Scherzando diceva che non si sarebbe mai sposata, e avrebbe vissuto in una tana fatta di cioccolato, gatti e libri. Lei più che il principe azzurro sognava un futuro da scrittrice, voleva girare il mondo e raccontare le storie della gente che avrebbe incontrato sul suo cammino, ed era innamorata solo di John Lennon.

Alberto ogni tanto ci pensava, invece. Lui di ragazze ne aveva avute, un po'. Aveva sempre badato più alla musica che a loro, però capitavano. Non erano mai particolarmente serie, le sue storie, e le ragazze erano sempre un po' troppo insipide, senza una grande personalità. E lui a volte si era chiesto cosa sarebbe successo se, in uno dei tanti momenti in cui lui e Camilla erano fisicamente vicini, avesse indugiato un po' più a lungo con una mano fra i suoi capelli, l'avesse abbracciata più stretta, le avesse cercato la mano troppo spesso. Per lui toccare Camilla, in maniera quasi scherzosa, era normale. Eppure ogni tanto lo sentiva, un brivido, quando le sfiorava una guancia o le tirava giocosamente la treccia, e non riusciva a spiegarsi il perché.

Quando provava a stare con una ragazza, per lui, era normale paragonarle alla sua amica. Pensava semplicemente che nessuna era come Camilla, perché lei ci sarebbe sempre stata mentre loro erano delle meteore, che attraversavano la sua vita senza lasciare troppi strascichi. Lei gli dava dello stupido, per questo, ma finiva lì. Però lui si addormentava pensando ad una delle cavolate che aveva detto Camilla, e a volte quando tutto gli sembrava troppo difficile c'era lei, che diceva qualcosa di sorprendentemente filosofico e idiota, e allora  riprendeva a sorridere, anche se a fatica. 

Ogni tanto la feriva, inevitabilmente, forse senza accorgersene davvero. Era capace di parlarle per ore della sua musica e del suo mondo senza mai chiederle qualcosa di lei, che gli raccontava sempre gli scorci più frivoli della sua vita, ma quando s'immalinconiva non gli diceva niente. Camilla tante paure e tanti sogni che stavao per sbocciare li aveva davvero. Temeva che non si sarebbe mai fatta strada nel mondo, e aveva paura di quel che sarebbe successo dopo il Liceo, nonostante avesse le idee ben chiare sull'università.  A volte la intimoriva quell'ansia da cui si faceva dominare prima delle interrogazioni o dei momenti importanti, e si dava della stupida rimproverandosi aspramente, ma ad Alberto non raccontava niente di ciò che la turbava, perché non lo reputava granché importante. Però lui i suoi silenzi aveva imparato ad interpretarli, anche se spesso sbagliava facendo finta che il disagio della ragazza non esistesse. Però quando la vedeva lacrimante durante il compito di matematica le stringeva la mano inarcando un sopracciglio, come per prenderla in giro, facendole capire, a suo modo, che lui c'era e ci sarebbe stato, e che piangere non aveva senso.

Era capace di ignorarla completamente spendendo moltissimo tempo suonando, e lei si sentiva stringere la gola, a volte, anche se poi lo perdonava sempre con un mezzo sorriso e un rimprovero in cui nessuno dei due credeva più di tanto, ma che faceva parte del loro personalissimo rito.

Avevano passato due anni di liceo così, a condividere un banco e ogni momento libero, a prendersi in giro e confidarsi come fratelli, ma covando una magia che non si poteva spiegare e continuava a crescere, e nessuno di loro la sapeva gestire e la ignoravano, lei gettandosi a capofitto nei compiti e nei libri, lui suonando disperatamente e cercando qualche ragazza, di tanto in tanto.

Camilla scherzava sempre sul fatto che la futura fidanzata di Alberto sarebbe dovuta essere un angelo. Gli diceva che lei, quella futura ragazza senza nome né personalità, gli avrebbe messo la testa a posto. Quando Alberto faceva il cretino con le altre, non stava male, non più di tanto. La irritava  un po', però sapeva che lui sarebbe tornato da lei. Il pensiero di una ragazza vera per il suo migliore amico, una di cui avrebbe finito per innamorarsi sul serio, la faceva sentire estremamente fragile. Era tremendamente sbagliato, lei lo sapeva. Doveva sperare che Alberto trovasse la persona che gli corrispondesse in tutto, quella che gli fosse complementare e lo sapesse capire meglio di chiunque altro. E invece no, lei aveva paura di perderlo, di essere messa da parte, di non essere più il suo grillo parlante. Ma lei non poteva essere innamorata di lui. Era assurdo, semplicemente. Lui era il suo Bobby Jean, come nella canzone di Bruce Springsteen. Il suo Peter Pan che non voleva crescere, e lei un'assennata Wendy, che però si faceva incantare dalle storie mirabolanti che le raccontava.

E poi lui aveva conosciuto Virginia e Camilla era partita per un mese in Inghilterra, e forse erano stati quei due avvenimenti, a far cambiare le cose.

Virginia era carina, molto, con i capelli e gli occhi scuri. Era consapevole di essere molto graziosa, ma non ostentava più di tanto la cosa e per il resto era piuttosto insignificante. Alberto l'aveva conosciuta una sera in cui suonava, mentre lei era seduta al bar, con un paio di amiche ridanciane. Avevano scherzato insieme, lui aveva fatto qualche battuta fra l'ardito e il patetico. E poi doveva essere successo qualcosa che Camilla non riusciva a spiegarsi tanto bene, e quei due avevano cominciato a frequentarsi, di punto in bianco. Alberto l'aveva invitata a bere qualcosa di nuovo per divertimento, perché a volte fare lo sbruffone gli piaceva. Avevano parlato di tutto e di niente, poi si erano baciati, poi si erano messi insieme. Era stata una cosa scontata, molto. Virginia non sembrava particolarmente presa dalla faccenda, mentre Alberto si riteneva piuttosto incapace d'innamorarsi davvero.

I suoi amici vissero la loro storia come qualcosa di passeggero, che prima o poi sarebbe finito. Nonostante Cami si sforzasse di essere il più gentile possibile con Virginia, c'era qualcosa in lei che non la induceva a lasciarsi andare. Fra loro due c'era pochissima confidenza; appartenevano a due mondi diversi e, semplicemente, non avevano granché da dirsi. Camilla ci aveva provato, ad instaurare un rapporto con lei, solo che, probabilmente, non l'aveva fatto con abbastanza trasporto, perché Virginia si era limitata a comportarsi gentilmente, tenendola pure un po' a distanza. Forse l'aveva intuito che per Alberto c'era solo Camilla, che nonostante tutto era lei, quella con la quale si confidava, alla quale raccontava ognibanalità e ogni cosa importante, l'unica con cui non giocasse mai a fare il Dio, perché non serviva, lei lo capiva meglio di chiunque.

Virginia no, non ci riusciva; avere un ragazzo che suonava la chitarra ra stata, inizialmente, una figata. Era molto più interessante parlare alle sue amiche del suo fidanzato descrivendolo come il leader di una sgangherata band, piuttosto che come un giocatore di calcio, o un appassionato di videogiochi qualunque. poi, però, si era resa conto che la musica implicava mille sacrifici, anche da parte sua.  Aveva capito che c'era un angolo, nella testa di Alberto, che non le sarebbe appartenuto mai. Lui cantava a mezza voce qualsiasi canzone gli passasse per la mente e, a volte, anche nei momenti più improbabili, si estraniava da tutti perché stava pensando a come eseguire un determinato brano. E poi a lei della musica che aveva in testa non parlava, era Camilla quella adatta per fare discorsi incomprensibili e deliranti. E Virginia restava in disparte, un po' imbronciata un po' semplicemente stanca di tutta quella musica della quale non le importava, a guardare il suo fidanzato che aveva gli occhi colmi di mille emozioni che, però, non la riguardavano e probabilmente non l'avrebbero riguardata mai.

Lui, in quel  suo disperato bisogno di  affetto, forse cercava una ragazza alla quale stringersi, da prendere per mano e da baciare, però non riusciva a raccontarle nulla di sé, del suo mondo, di quel che lo tormentava. E lei, da quella sua strana freddezza, era ferita, più che altro, e non era in grado di fare il primo passo per colmare la distanza che c'era fra loro. Ingenuamente pensò  che, prima o poi, Alberto non avrebbe avuto occhi che per lei. Era solo questione di tempo, e intanto doveva essere il più presente possibile, anche se era malsopportata da tanti degli amici del suo ragazzo.

"È una troietta. Io la odio, è irritante, ha dei modi da... da ragazza smaliziata, ecco.", esclamò Melia, un pomeriggio in cui erano usciti tutti meno Alberto e Virginia.

"Ma no, non lo è... è solo immatura, tanto. Non puoi fargliene una colpa.", sospirò Camilla che, benché razionalmente, almeno un po', compatisse Virginia, aveva una terribile voglia di piangere, in quei giorni.

"Cristo, ma non sa fare un discorso! Non le piace niente di niente, è così vuota!" Quando tu le hai chiesto che cosa leggesse lei ha fatto una faccia... come se avessi chiesto chissà cosa! E poi hai visto la sua faccia indispettita quando Alberto ti guarda, ti parla, non considera lei?",     rincarò Amelia.

"Probabilmente non ha ancora trovato la sua passione...  E poi deve piacere ad Alberto, non a noi, alla fine", aggiunse Stefano, pacato, notando lo sguardo di Camilla che, in quei giorni, era come assente, velato da una tristezza che nessuno sapeva spiegarsi.

"Sì, ma nel frattempo non potrebbe andarsene da un'altra parte e lasciare in pace noi?", tuonò Greta, sistemandosi i capelli in un eccesso di stizza.

"Quei due non durano. A lui di lei non importa niente, si vede, e lei si stancherà, prima o poi.", decretò Fabio, laconico. Continuarono ad andare avanti così per un po', e Camill li seguì incurante per il centro, leccando con aria meditabonda il suo gelato senza badare, per una volta, al fatto che la camicietta le si stava irrimediabilmente imbrattando.

Perché stava così, in quei giorni, non lo sapeva. Era la scuola, probabilmente, si era detta. Maggio era un mese allucinante e lei, che ai voti teneva più che a qualsiasi altra cosa, si barcamenava come poteva fra compiti in classe ed interrogazioni, sentendosi addosso una stanchezza che aumentava giorno dopo giorno. Però non era solo quello, Cristo. Neanche la prospettiva dell'estate imminente la rallegrava, perché... perché che diamine avrebbe fatto, lei, quei mesi, con Alberto con la testa da un'altra parte, Greta e Stefano in vacanza, Maya a badare al fratellino piccolo? Quando tutti quei pensieri minacciavano d'intristirla si gettava a capofitto nei libri sperando, attraverso uno studio frenetico e un po' ossessivo, di esorcizzare la malinconia che l'assaliva ogni tanto. Si sentiva più sola che mai, in quei giorni. Le sembrava di essere ritornata in prima superiore, quando le parlava solo Amelia, e passava i suoi intervalli a gironzolare per i corridoi. Però adesso era tutto diverso. C'erano i suoi amici, tutti quanti, e Alberto in banco con lei era fantastico, le tirava la treccia e sproloquiava su qualsiasi argomento, però la sera, quando suonavano, era Virginia dalla quale cercava attenzione. E a lei, questo, faceva dannatamente male, e si dava della cretina. L'aveva sempre voluto, Camilla, che il suo migliore amico si trovasse, un domani, una ragazza capace di fargli mettere la testa a posto. Una in grado di gestire i suoi malumori e di sedarli con un sorriso, di trattarlo con l'indulgenza  e la fermezza che necessitava, di arruffargli i capelli rimproverandolo per qualsiasi futilità. 

"È solo che Virginia non è giusta per lui, e soffro perché sta perdendo tempo.", si disse Camilla per l'ennesima volta. "E in fondo non ho neanche il diritto di pensare a quale sia la cosa giusta per lui, che ha diciassette anni, non ha certo bisogno di me per fare delle scelte responsabili.  E poi mica deve sposarsela, magari ne troverà un'altra, un giorno, e io non ho il diritto, Cristo, di intromettermi nella sua vita."

Eppure neanche quel ragionamento la calmava, e aveva passato ore a darsi dell'idiota, della bambina capricciosa, dell'immatura. Non aveva pensato che, forse, era soltanto gelosa. Gelosa di quella ragazzina un po' insignificante alla quale Alberto prendeva la mano e soffiava un bacio distratto di tanto in tanto. Non sarebbe stato giusto, essere gelosi di Virginia, perché Alberto era suo amico, suo amico e basta. Però faceva tutto troppo male e, quel pomeriggio, si dimenticò persino del gelato, che franò completamente sulla sua camicietta macchiandola irrimediabilmente. Quando i suoi amici la presero in giro, perché solo lei era in grado di sporcarsi i vestiti così, Camilla si era sforzata di ridere con loro, ma non le era riuscito, non davvero. Stefano l'aveva capita, la sua mestizia, ma non se l'era saputa spiegare fino in fondo. Era psicologo, sì, ma in quei giorni aveva Amelia, a cui pensare  e della quale, Cristo, si stava innamorando irrimediabilmente. Perché Amelia era capace di folgorarti con uno di quei suoi sguardi lunghi e franchi, ma ti metteva a tacere con una risposta aspra se dicevi qualcosa che non gradiva. Amelia alla quale di parer bella, o aggraziata, o gentile, non importava nulla, che portava i capelli corti e vestiva alla cavolo perché non voleva un suo stile, che però in ogni parola metteva una grinta e una forza che nessun'altra diciassettenne dimostrava. E lui si sentiva arrossire ogni volta che lo guardava con quegli occhi lì, scuri e penetranti, capaci di fargli venir meno tutte le parole gentili e tranquille perché, con lei, nulla di tutto ciò aveva senso. Ma Amelia di Stefano non si curava, e continuava ad insultare brutalmente Virginia, perché era fatta così, qualunque essere umano che non incontrasse le sue simpatie non era degno di nota. E lui, nonostante provasse pacatamente a cambiare argomento, perché lo sguardo mogio di Cami l'aveva notato, non poteva far altro che trovare quella ragazzina bruna bruna e così anticonformista semplicemente  adorabile.

Però senza Alberto quei pomeriggi in centro avevano un po' meno senso, e se n'erano accorti tutti. Non si poteva fare a meno dei suoi deliri, dei suoi discorsi a base di musica  e di voli pindarici, delle sue sigarette fumate a metà e del suo entusiasmo per tutto. E così le loro uscite un po' finirono per diradarsi e, anche se nessuno lo disse apertamente, in quei giorni erano in molti, a sentirsi  un po' feriti, dentro.

Camilla aveva deciso di partire per l'Inghilterra forse sull'onda di quella tristezza primaverile. Non poteva sopportarla, un'estate così. E poi voleva davvero studiare in un college, scappare di casa per un po', ricominciare tutto da capo, per un mese, ridendo con gente che, forse, non avrebbe mai più rivisto, senza curarsi di nulla. Chissà, magari si sarebbe dimenticata di Alberto, almeno temporaneamente, e, al suo ritorno, le cose si sarebbero sistemate.

Era stato proprio a Berto che ne aveva parlato un giorno, durante l'ora di Inglese in cui la prof interrogava con voce monotona.

"Sai, ho fatto progetti, per quest'estate.. pensavo di andare un mese in Inghilterra in vacanza studio. Così, chissà, migliorerei la mia pronuncia inglese, che la prof mi dice sempre che a volte faccio strafalcioni inquietanti, e...", ma s'interruppe di colpo. Perché gli occhi di Alberto si stavano sgranando, e sul suo viso era passata la tempesta. Capitava, a volte, che si rabbuiasse per un niente, ma di colpo le sembrò arrabbiato, e il suo tono di voce le parve quasi ferito.

"E io... io come faccio? Un mese senza di te!"

"Beh, direi che cibo e acqua non ti mancano, sopravvivrai.", gli rispose seccata. Le parole del suo amico e quel tono, come se lei gli avesse fatto un torto inaccettabile, le avevano fatto montare dentro un'irritazione che stentava a controllare. Cavolo, lui si fidanzava con una ragazza conosciuta al bar e lei non poteva partire per un mese?

"Ma non è la stessa cosa... io non posso stare qui un mese, a Torino, in questa città che odio, senza di te! Lo capisci, Cristo?", aveva sibilato lui e, con rabbia, aveva dato una gomitata al quaderno di Camilla. A lei, quella reazione spropositata, aveva fatto decisamente male. Si era voltata verso la prof e, mordendosi un labbro per non piangere, si era messa a seguire l'interrogazione prendendo appunti frenetici. Alberto l'aveva fissata torvo. Forse avrebbe dovuto scusarsi, perché alla fine quello sfogo Camilla non lo meritava. Eppure lui non lo sapeva, come avrebbe fatto, senza il suo grillo parlante. Aveva un disperato bisogno di dirle qualsiasi cosa gli passasse per la testa, di tirarle i capelli, di fare con lei discorsi improbabili, di... di averla lì, semplicemente. Perché lei era l'unica, in certi giorni, a strappargli un sorriso, con qualche cavolata, perché gli dava consigli assennati e fantastici, perché stipava il suo ipod di musica almeno quanto lui,  perché lo guardava con quell'aria lì, fra lo stralunato e l'angelico, che lui trovava adorabile.

E adesso l'aveva ferita, con parole dette d'impulso, usando una cattiveria che non sapeva spiegare nemmeno a se stesso. Il coraggio di scusarsi, lui, non lo possedeva. Sarebbe bastato stringerle il braccio e sussurrarle di dimenticare quel loro dialogo e la sua rabbia, farle un sorriso e sarebbe passato tutto. E poi d'un tratto l'aveva vista piangere, anche se in silenzio. Le lacrime avevano iniziato a rigare le guance della ragazza all'improvviso, e lui si era sentito orribile. Aveva visto Camilla piangere pochissime volte, e di solito era sempre per colpa del compito di matematica, o di un'interrogazione andata male. Lui non poteva farle più male della matematica, no davvero, e non aveva alcun diritto di farla piangere ed era stato un cretino a dirle quelle cose, perché cavolo, Camilla doveva essere felice, godersi la sua Inghilterra, la sua estate, la sua vacanza studio senza pensare sempre a lui, che poi, conoscendola, l'avrebbe chiamato praticamente tutti i giorni, gli avrebbe scritto messaggini idioti, l'avrebbe ascoltato, qualsiasi cosa ci fosse stata. E adesso lei stava piangendo e lui era un verme, e avrebbe dovuto pensarci prima... ma no, lui agli altri non pensava mai, e non sapeva, no davvero, come avrebbe potuto scusarsi.

"Vai vicino a Londra?", si limitò a chiederle, in un mormorio roco. Era il suo modo di chiederle perdono, quello: cambiare argomento, porle una domanda neutra, cercare di arginare il disastro che, con la forza delle sole parole, era riuscito a combinare. Lei si voltò, fra l'accigliato e l'esasperato, annuendo e asciugandosi con rabbia le lacrime che, ancora, le bagnavano il viso. 

"Ci vai, ad Abbey Road? Devi pensarmi, lì..."

"Ascolta... non è normale, no, che tu prima ti mostri infuriato all'idea della mia partenza e, nel giro di tre secondi, ti ritrovi a farmi questo genere di domanda. E comunque pensavo di andarci, sì, e anche di pensare a te, almeno un po', però adesso forse ho cambiato idea."

"Mi chiamerai? Sarebbe... sarebbe fantastico, sentire l'atmosfera di Abbey Road, almeno attraverso il telefono."

Gli occhi di entrambi splendevano. Lei celava un sorriso dietro ai capelli eppure aveva ancora voglia di piangere, mentre lui un po' voleva farsi perdonare, un po' desiderava spasmodicamente far parte dell'esperienza della sua amica. Perché in Inghilterra, lui, non c'era mai stato, mentre quella per Camilla era la seconda volta. E lei gli sarebbe mancata terribilmente, lo sapeva, così come sapeva che, una volta arrivata a Londra, Camilla avrebbe fatto di tutto per raccontargli la sua vacanza studio minuto per minuto.

"Forse, però... non dovrei andarci, ad Abbey Road. Ti avevo promesso che ci saremmo tornati insieme, e che mi avresti suonato qualcosa proprio lì, davanti agli studi di registrazione più epici dell'universo."

Lui accennò un sorriso, incerto su che cosa dire. Era impossibile che, nonostante la rabbia di pochi minuti prima, loro due fossero ancora lì a sorridersi, con la magia di sempre.  Non c'era la prof che stava interrogando, in quel momento, così come non c'erano Virginia, Stefano, Amelia. C'erano solo loro due che facevano progetti, gli occhi splendenti della stessa luce, mentre si scambiavano mezze promesse e mezzi sorrisi.

Camilla, però, la rabbia di Alberto non l'aveva scordata. Così come non aveva scordato il suo sguardo mesto e quel suo modo di fissarla, come se lei fosse l'unica cosa capace di sostenerlo. Quando pensava ai suoi occhi imploranti, alle sue parole prima arrabbiate e poi così tenere, piene di una vulnerabilità che solo lei avrebbe potuto capire, un po' le girava la testa. Perché, Cristo, lei se lo sarebbe portato in Inghilterra e in capo al mondo, il suo migliore amico, nonostante avesse deciso di partire proprio per allontanarsi da lui e per dimenticare quella gelosia stupida che la prendeva al solo pensiero di Virginia. Eppure spese tutte le settimane prima della sua partenza immaginando come sarebbe stata quell'esperienza se solo Alberto fosse venuto con lei. Lui, intanto, suonava e suonava, la chiamava ad orari improbabili per farle sentire qualche nuova cover, dimenticandosi di Virginia che, nel frattempo, era sempre più spazientita. Non capiva il mondo di musica in cui si trincerava il suo ragazzo, e tollerava poco l'affiatamento che c'era fra lui e Camilla. Alberto trascurava la sua ragazza, e, quando uscivano insieme, c'era ben poca magia, fra quei due. Comunicavano poco, lei provava: goffamente, a raccontargli delle sue amiche, della scuola, di una borsa carina adocchiata in centro. Alberto l'ascoltava svogliato, e a volte si sorprendeva a pensare che Camilla avrebbe parlato di quelle stesse cose con più carisma e una luce tutta sua negli occhi. Una sera si ritrovò persino a sperare con tutte le sue forze che Virginia sparisse e che, su quella stessa sedia, comparisse lei, la sua migliore amica. Pensò alla treccia di Cami, al suo sorriso limpido, al suo mangiarsi le unghie quasi con ferocia, e sorrise suo malgrado.

"Perché hai fatto quella faccia? A cosa diamine stai pensando? Non è possibile, io ti parlo e tu sei sempre altrove! A cosa stai pensando, stavolta, a Camilla oppure a un nuovo brano?", gli urlò quasi contro Virginia. Nelle sue parole c'era tutta l'esasperazione accumulata nel corso di quei mesi. C'era la sua rabbia nei confronti del mondo di Alberto, che lei non avrebbe capito mai. E poi era gelosa, tremendamente gelosa, di quella Camilla che, nonostante fosse solo un'amica, occupava sempre la testa del suo ragazzo. L'aveva capito subito, anche se aveva fatto finta di niente. Ma quando c'era Camilla lei diventava, per Alberto, tutt'un tratto insignificante, trasparente. Li aveva osservati mille volte, quei due, spiandoli di nascosto perché, se Camilla si fosse accorta di lei, avrebbe mantenuto un certo contegno. Però, quando li osservava da lontano, era impossibile non notare l'alchimia, la complicità, la gioia di quei due che, insieme, parevano diventare migliori. Virginia si era accorta di ogni cosa, della mano di Alberto che cercava quella di Camilla, dei loro sguardi complici e intensi, dell'arruffata tenerezza che Alberto riservava non a lei, come sarebbe stato logico, ma alla sua migliore amica.  Virginia lo sapeva, che fra quei due non ci poteva essere qualcosa, non ancora. Eppure quel loro affetto più forte di qualsiasi altro sentimento la feriva ugualmente e, a volte, sentiva un nodo serrarle la gola. Era arrabbiata per tutto, per la musica che ad Alberto toglieva il sonno e il respiro, per Camilla che gli faceva brillare gli occhi. Capiva che lei, del mondo di Alberto, non avrebbe mai fatto parte. Non sarebbe mai stata la sua musa, la sua stella, la ragazza da maltrattare e dalla quale tornare, quella alla quale dedicare canzoni. Era troppo poco speciale e priva di quella luce che, a differenza sua, Camilla possedeva in grandi quantità. E nonostante tutto soffriva per questo, perché gli occhi distratti con cui la guardava Alberto la ferivano più di tutto e non c'era bacio, carezza o parola mormorata all'orecchio che potesse migliorare le cose.

Però il coraggio di parlarsi chiaramente e di mettere fine a quella relazione che, per entrambi, era ormai insensata, non l'avevano avuto. Virginia un po' era comunque infatuata di Alberto, dei suoi occhi tormentati, dei momenti in cui giocava a fare il Dio. E lui, dal canto suo, non aveva il coraggio di lasciarla perché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto davvero riflettere sui sentimenti confusi  e intensi che provava per Camilla. E non era il caso, no, perché Camilla prima o poi avrebbe trovato un ragazzo, benché  non si ritenesse abbastanza carina, abbastanza simpatica, abbastanza sicura di sé. Avrebbe finalmente conosciuto qualcuno in grado di arginare i suoi istinti autodistruttivi, di farle acquisire un po' d'autostima, di mettere un freno all'insicurezza e all'ansia  che, a volte, la dominavano. Ma non era lui, non poteva esserlo. E quindi tanto valeva smettere di pensare a Camilla, ai suoi capelli, al suo sorriso, ai suoi occhi sgranati, perché di quelle fantasie, non se ne sarebbe mai fatto nulla.


Can't we leave the world outside
Just for a while? Just for a while?
Spend some time, you and I
Under this bright glorious sky

It's been so long since I first saw you
But I still love that smile in your eyes

(Church of your heart, Roxette)


[...]


Come up to meet you, tell you I’m sorry

You don’t know how lovely you are

I had to find you, tell you I need you,

Tell you I set you apart.

(The Scientist, Coldplay)


"Posso venire all'aeroporto con te?", aveva chiesto Alberto a Camilla poche sere prima della sua partenza. Erano seduti su una panchina, in un parco, stranamente da soli. Lui le aveva confezionato un cd apposta per il viaggio in aereo per l'Inghilterra e ci teneva, a portarglielo di persona, e così avevano deciso di andare a fare una passeggiata. Camilla gli era parsa un po' sulle nuvole, persa in pensieri tutti suoi che non aveva voluto condividere con lui. Gli sorrideva, certo, ma nei suoi occhi c'era una distanza, forse addirittura una tristezza, che non le conosceva. Però quando le propose di accompagnarla in aeroporto, persino lui, che di regola non notava quel genere di cose, vide il suo sguardo animarsi.

"Certo! Papà ha un impegno di lavoro a Milano, e perciò mi porta all'aeroporto molto, molto in anticipo. Se aspetti con me, almeno, il tempo passa più in fretta. Poi per tornare a casa mi sa che devi arrangiarti, perché papà starà fuori e non ti può riportare..."

"Ma no, non preoccuparti. Prendo il treno. E poi mi chiami quando arrivi, mi racconti tutto per sms, e appena trovi una connessione fotografi tutto, anche le cacche di piccione che in Inghilterra sono sicuramente più poetiche che qui..."

"Non so se ci sono i piccioni, nel Kent. Tutt'alpiù gabbiani, dato che sono al mare."

"Vorrà dire che fotograferai cacche di gabbiano... e magari ci fai amicizia."

"Con le cacche?"

"No, coi gabbiani. Anche con le cacche, se vuoi, magari te ne cade una in testa così, dal nulla..."

"E poi te la porto a casa come souvenir.  Tanto è una cacca inglese, dovresti conservarla con cura."

"Idiota. Però..."

"Però cosa?"

"No, niente, lascia stare. Però mi spiace non essere lì con te, e non solo per l'Inghilterra. E sarà l'es'tate più lunga dell'universo, a Torino. E poi Cristo, io quel giorno, a scuola, quando mi hai detto che saresti partita, ti ho trattato come... come una cacca di gabbiano, ecco. E mi dispiace, davvero."

"Oh, non ha importanza, credimi.", gli sorrise lei. E invece sì che ne aveva, d'importanza. Perché l'aveva ferita e lei non s'era dimenticata le sue parole, la sua rabbia, la sua disapprovazione. E si era sentita male per giorni perché lei a Londra doveva andarci con lui, gliel'aveva promesso, era il loro sogno, e, decidendo di partire, era venuta meno ad una specie di giuramento. Però adesso si era scusato e negli occhi aveva quella dolcezza disperata, disarmante, smarrita, che non aveva eguali. E Camilla, in quell'attimo, fu tentata di mandare al diavolo la vacanza studio e i suoi propositi di cambiare aria per restare con lui, nella solita Torino, a patire il caldo di un'estate che si preannunciava torrida. Però no, non poteva, il biglietto aereo era al sicuro nel cassetto della scrivania di sua madre, ed era già stato tutto pagato.

"Cosa c'è, nella compilation che mi hai fatto?"

"Tutto quel che di rock  è stato composto in Inghilterra. Tante cose le conosci, come i Beatles, gli Stones, gli Who  e i Kinks. E c'è London Calling, ovvio, mica potevo non metterla. E Clapton, Elton John, e Wish you were here, dei Pink Floyd, che ho messo perché... beh, perché la sentirai, e ti struggerai di disperazione desiderando che io sia a Londra con te."

"Ma... ma... ma sei un bastardo, nella maniera più categorica e assoluta. E dire che pensavo di non andare ad Abbey Road proprio perché volevo andarci con te, però visto la tua cattiveria potrei sempre cambiare idea."

"Però ho messo strawberry fields forever, dopo, e someplace else. Diciamo che nellla compilation sono vicine perché, così, puoi piangere per bene struggendoti per la mia assenza. Ed eery breath you take, per ricordarti che, con qualunque venditore di aquiloni o di zucchero filato deciderai di metterti, io sarò lì a spiarti."

"Ma perché non ti impicchi?"

"Perché delle compilation così, principessa, non te le farà nessun altro. Neanche il tuo futuro fidanzato inglese, nessuno, hai capito?"

"Ma io non lo voglio, un futuro fidanzato inglese. E poi  principessa dillo a Virginia, non a me! Che forse le farebbe anche piacere, essere chiamata principessa, viste le attenzioni che le dedichi..."

"Lasciamo perdere Virginia. Preferisco non parlarne, ok? Non ho sempre voglia di dirti tutto, sai...", le rispose Alberto, piccato, e per la prima volta, quella sera, parve rabbuiarsi.

"No, io... non intendevo... scusami, davvero. È ovvio che tu non debba dirmi niente, se non vuoi, stavo solo scherzando, ma mi è uscito male.", si affrettò a dire Camilla, gli occhi bassi.

"Ma fa niente, non mi va di parlarne adesso, è che ci rovinerebbe la serata, credo, ed è l'ultima volta che potremo stare da soli prima della tua partenza. È è troppo bella l'atmosfera, qui, adesso, per metterci a litigare."

"Tu hai appena parlato di atmosfera! Credo di non averti mai sentito dire questa parola prima d'ora!"

"Sei tu che la dici in continuazione! per te persino la palestra in cui si muore di freddo alle otto del mattino ha un'atmosfera indescrivibile!"

"Vero. Secondo me i libri mi danno alla testa, a volte, e per questo considero ogni cavolo di luogo, persino la palestra, appunto, magico, o speciale, o unico."

Alberto, sentendola dire quelle cose, pensò che era proprio quello, che adorava in lei. Lei che parlava con trasporto persino delle ore di educazione fisica che odiava, perché dei momenti belli li trovava sempre, e a volte gli sorrideva persino in palestra, alle otto del mattino, quando tutti loro sembravano dei fantasmi insonnoliti. La sua amica la poesia la vedeva in ogni angolo, e questa sua qualità lo stregava e lo divertiva non poco. Chissà che poesia vedeva in lui, forse avrebbe dovuto chiederglielo, si disse. Però qualcosa di magico la loro amicizia ce l'aveva, ci arrivava anche lui. E quella serata aveva un'atmosfera irripetibile e, se persino lui era riuscito a coglierne l'unicità, voleva dire che lo era davvero.


You're the closest to heaven that I'll ever be
And I don't wanna go home right now
And all I can taste is this moment
And all I can breathe is your life
When sooner or later it's over
I just don't wanna miss you tonight
(Iris, The Goo Goo Dolls)


E poi era finito, finito tutto, perché si era fatto tardi ed erano ritornati a casa in motorino, Camilla appollaiata dietro, con i capelli che si muovevano in ogni dove mentre Alberto guidava in maniera un po' spericolata. Il ragazzo era più che mai consapevole della testa di Camilla, appoggiata alla sua spalla, delle braccia che gli aveva avvolto attorno al corpo, del tepore che emanava. Quando scesero dal motorino, nessuno dei due avrebbe voluto veramente farlo. Avrebbero preferito vagare ancora per la città silenziosa e deserta, raccontandosi cose, o, ancora, ascoltando solo i propri pensieri, perché non c'era magia più grande che quella di restare in silenzio senza alcun imbarazzo.

Però non si poteva fare. Camilla aveva un coprifuoco ben preciso da rispettare e non voleva certo litigare con i suoi alla vigilia della sua partenza.

Davanti a casa della ragazza, Alberto ebbe un sussulto quando lei si alzò sulle punte dei piedi per arruffargli i capelli e tirargli non troppo affettuosamente un orecchio. Avrebbe potuto baciarla, lui, in quel momento. Perché nei suoi occhi c'era un luccichio tutto particolare, perché quella notte gli sembrava infinita, perché aveva un disperato bisogno di Camilla, della sua magia, della poesia che trovava in ogni cosa.

Però si limitò a farle una linguaccia e a guardarla entrare in casa, anche se poi lei si voltò un'ultima volta, per salutarlo con la mano e rivolgergli l'ennesimo sorriso abbagliante.


Well, I can't forget this evening
Though your face as you were leaving
(Without you, Heart)


Alberto era corso a casa e aveva imbracciato la chitarra. Aveva suonato di tutto, per calmarsi, per esorcizzare quel turbinio di emozioni confuse che sentiva dentro, per dar loro un senso. Si era ritrovato, come per magia, a cantare Strawberry Fields Forever, con gli occhi serrati e l'immagine di Camilla che gli danzava in mente. Ci aveva messo l'anima, in quella canzone, nonostante non ci fosse nessuno ad ascoltarlo, se non il poster di John Lennon che gli sorrideva, enigmatico, dalla parete. Ma cantò con la voce vulnerabile e spezzata di Kurt Cobain, con la ruvida dolcezza di Lennon, la disperazione di Eric Clapton. Era i suoi cantanti preferiti e non era nessuno di loro, in quel momento, mentre interpretava un brano che, di per sé, non sarebbe stato da dedicare ad una ragazza, ma lo faceva con tutto lo struggimento e l'affetto del mondo. Perché non avrebbe potuto fare altro, per lei, se non suonare quella canzone che sembrava esser stata scritta per loro, che, proprio quella sera, si erano ritrovati in un parco, su una panchina, a sognare, a fare progetti, ad azzuffarsi, a volersi bene nella maniera più sciocca e intensa possibile.  E Camilla non era e non sarebbe mai stata lì, forse, a sentirlo mentre le dedicava Strawberry Fields Forever, mentre si annullava in quegli accordi, perdendosi in ogni nota e scordandosi di respirare.


Let me take you down
'Cause I'm going to Strawberry Fields
Nothing is real
And nothing to get hung about
Strawberry Fields forever


Living is easy with eyes closed
Misunderstanding all you see
It's getting hard to be someone, but it all works out
It doesn't matter much to me


Let me take you down
'Cause I'm going to Strawberry Fields
Nothing is real
And nothing to get hung about
Strawberry Fields forever

No one, I think, is in my tree
I mean, it must be high or low
That is, you can't, you know, tune in, but it's alright
That is, I think it's not too bad

(....)

 Always, no, sometimes think it's me
But you know I know when it's a dream
I think I know I mean -- er -- yes, but it's all wrong
That is, I think I disagree

E Camilla, invece, a casa sua, aveva infilato gli auricolari e aveva guardato il più bello dei video che aveva fatto ad Alberto e agli altri. La canzone, quella sera, era Fire and Rain di James Taylor, che era straziante, di per sé, e Stefano, nonostante l'irritazione per l'assenza di un piano vero, era stato fantastico, con le tastiere. Quanto ad Alberto, non c'era niente da dire, era stato strepitoso. La sua voce grondava disperazione, come quella di James Taylor che, tanti anni prima, aveva scritto quella ballata per un'amica che aveva deciso di togliersi la vita. Era un brano, Fire and Rain, che non aveva nulla in comune con il vissuto di Alberto, ma che lui riusciva  a fare suo, chissà come, interpretandolo con un trasporto  e una tristezza che l'avevano commossa. E poi c'era quel momento, nel video, in cui lui cercava i suoi occhi, con impazienza. All'inizio aveva pensato che fosse una sua fantasia ma poi, riguardando mille volte il filmato, si era resa conto che era proprio così. Alberto, prima dell'ultimo ritornello, aveva abbracciato l'esigua folla che lo guardava con un'occhiata e poi le aveva sorriso in maniera travolgente. Quella sera, però, risaliva a tanti mesi prima. Non c'era ancora e lei si era divertita a riprendere i ragazzi con il cellulare, per immortalare quella performance che, sebbene non fosse certo all'altezza di quella di James Taylor, era stata grandiosa, a suo modo.

Però non poteva fissare lo schermo dell'Iphone per sempre, no, e perdersi in quel fantastico ricordo, nell'espressione incantata di Alberto. Però le mancava già, Cristo, nonostante non lo vedesse da un'ora soltanto. Come avrebbe fatto un mese lontana da lui, non lo sapeva. Interruppe il video e digitò un messaggio, freneticamente, per poi inviarlo.  


Just yesterday morning, they let me know you were gone.
Suzanne, the plans they made put an end to you.
I walked out this morning and I wrote down this song,
I just can't remember who to send it to.
I've seen fire and I've seen rain. I've seen sunny days that I thought would never end.
I've seen lonely times when I could not find a friend, but I always thought that I'd see you again.


Won't you look down upon me, Jesus, You've got to help me make a stand.
You've just got to see me through another day.
My body's aching and my time is at hand and I won't make it any other way.
Oh, I've seen fire and I've seen rain. I've seen sunny days that I thought would never end.
I've seen lonely times when I could not find a friend, but I always thought that I'd see you again.

Alberto aveva riposto la chitarra, si era fatto tardi. Si era dimenticato di scrivere a Virginia, quel giorno, e se ne rese conto solo in quel momento. Camilla gli avrebbe detto di rimediare, di mandarle almeno una faccina, un saluto. Eppure lui non ne aveva voglia e il solo pensiero di scriverle l'irritava. Ci sarebbe rimasta male, molto probabilmente, e intuì che, il giorno avrebbero litigato, e si sarebbe fatto perdonare soltanto con qualche bacio e qualche carezza. Ma non era giusto, non era così che funzionava, lo sapeva anche lui.

"Non c'è magia, fra di voi. E poi sei pure un bello stronzo, a stare con Virginia anche se non ti piace davvero.", gli ripeté la voce di Camilla, più nitida e chiara che mai, nella sua mente. Beh, se iniziava a sentire la sua migliore amica persino quando non c'era, aveva delle turbe mentali piuttosto serie. Poi però il suo cellulare vibrò e lui sorrise, nel vedere che a scrivergli era stata proprio Cami.

"Buonanotte, e grazie per l'atmosfera bellissima di stasera. Grazie per la Compilation, so già che sarà meravigliosa, e, credimi, sono contentissima che tu venga con me, all'aeroporto. Però impiccati, così, perché sei tu e non posso scriverti un messaggio troppo affettuoso. Ti voglio bene, comunque, anche se ogni tanto ti comporti come una cacca di gabbiano spiaccicata."

Lui non sapeva cosa replicare, a quel messaggio infinitamente tenero. Gli mancavano le parole per dire alcunché, per provare a ringraziarla a sua volta, perché quella serata era stata speciale. Alla fine riempì l'sms di faccine sorridenti, e glielo spedì. Bastava, lei avrebbe capito e l'avrebbe preso in giro, perché non aveva la proprietà di linguaggio sufficiente per rispondere adeguatamente ad un sms. Ma andava bene così, perché lei aveva tutto il diritto di rimproverarlo, d'insultarlo per ore, di dargli del cretino.

 

Due giorni dopo, alle sette del mattino, si ritrovarono stretti sul sedile posteriore dell'automobile del papà di Camilla. Quest'ultima aveva appena abbracciato sua madre cercando di non piangere, perché per lei la nostalgia di casa, nonostante i suoi diciassette anni, era sempre stata un problema. Però Alberto le si era seduto vicino e le aveva offerto un cornetto alla crema mezzo morsicato  e un auricolare. Non si erano detti niente, per tutto il tragitto, continuando a fissare il panorama che scorreva dall'altra parte del finestrino. All'ipod c'erano gli Eagles, artisti perfetti per quella mattinata dall'atmosfera incerta. Però al momento erano tutti e due troppo immersi nei loro pensieri, per badare alla musica o per cercare di chiaccherare. Alberto cercava di rimuovere dalla mente la discussione furiosa con Virginia avvenuta la sera prima. Si erano riappacificati, avevano fatto l'amore e, in qualche modo, le cose si erano sistemate. Però si era odiato per tutta la sera, perché sapeva che quello non era il modo giusto di comportarsi. La tenerezza che riservava a Virginia non era autentica, proprio per niente. A volte persino la sua voce, i suoi capelli, i suoi baci riuscivano ad irritarlo. Lui non la voleva accanto a sé. Non era lei che voleva stringere, carezzare, ascoltare. Ma non doveva pensarci, non ora.

Camilla era un po' triste un po' felice. Le sarebbero mancati tutti quanti, lo sapeva. Avrebbe sentito nostalgia per la sua camera, i suoi genitori, i suoi amici, e soprattutto Alberto, che sembrava pensieroso e guardava fuori dal finestrino con la testa immersa in riflessioni che, almeno per ora, non le avrebbe rivelato. Però lei stava per partire, per rivedere Londra, per conoscere meglio un paese per il quale stravedeva, per ingozzarsi di biscotti  e per mettersi un po' alla prova. E tutto questo la riempiva di allegria e di stupore, e un po' la terrorizzava, ma andava bene così.

Camilla si lasciò abbracciare da suo padre con un sorriso e un nodo alla gola, perché, anche se fra loro ultimamente c'erano stati degli screzi, gli voleva dannatamente bene.

"Fai la brava, e vedi di fidanzarti. Li preferirei scandinavi, o perlomeno europei. Gli asiatici no, ecco, non sono il mio tipo."

"Papà... a parte che non ho la minima intenzione di trovarmi un ragazzo, a me di cosa sia o non sia il tuo tipo, onestamente, non importa niente!", aveva riso lei, lasciandosi abbracciare una seconda volta e guardandolo andare via.

Alberto si era messo un po' in disparte, portando con sé la valigia della ragazza che, quando lo raggiunse, gli rivolse un sorriso storto e gli propose di mangiare un'altra brioche.

"Alla marmellata, stavolta. I cornetti alla crema li odio, hanno un che di molliccio e di viscido, ecco. E tu dovresti saperlo, ma non importa, sei stato carino a lasciarmene mezzo, stamattina."

"Possibile che io sia così distratto da dimenticarmi che stravedi per i croissant alla marmellata? Dal panettiere mi sono pure scervellato, oggi, e ho concluso che quelli alla crema fossero i tuoi preferiti."

"Sì, è possibile, possibilissimo. Ma del resto sei un disastro, tu, e non puoi farci niente."

Si diressero a braccetto verso il bar, trascinandosi dietro la valigia e urtando chiunque. A un certo punto, Alberto travolse una signora anziana che, accigliata, inveì contro ai due ragazzi:

"Santo cielo, un po' d'educazione! Ah, queste coppiette di oggi, pensano solo a loro stesse! sempre lì a scambiarsi paroline dolci, e poi... e poi non vi curate degli altri, e fate danni! Dio, ai miei tempi...", ma i due ragazzi non sentirono il resto della tirata, perché se n'erano già andati, cercando di non riderle in faccia.

"Ci ha preso per una coppietta, la signora... non è normale, no! E poi io in realtà ti stavo insultando e non ti stavo assolutamente dicendo paroline tenere, ma dettagli.", rise Camilla.

"Che poi, ai suoi tempi... non è che le coppiette, nell'Ottocento, fossero particolarmente educate, o rispettose. Pensa a tutti i fidanzati che si infrattavano nei frutteti, o nei campi di grano perché non trovavano altro posto per dirsi paroline dolci!", aggiunse Alberto, causando all'amica un attacco d'ilarità isterica che la fece sbattere contro un muro.

"Cristo, Cristo, Cristo... menomale che in Inghilterra non ci vieni, con me, faresti solo danni e ostacoleresti i miei rapporti con i ragazzi stranieri, facendomi fare una figuraccia dietro l'altra e compromettendo irrimediabilmente la mia reputazione!"

"Ah, ma allora conoscere degli aitanti scandinavi t'interessa! E dimmi, che preferiresti fra estoni, lituani o lettoni?"

"No, Berto, no! La Scandinavia non è composta da quei posti lì, loro sono i paesi del Baltico, e in Scandinavia ci sono Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda e Finlandia. Capito? E comunque non m'interessano quelli, sono troppo biondi... preferirei, chessò, un turco, o un armeno. Dici che lo trovo, un armeno, in Inghilterra?"

"Per ora preoccupati del cornetto che stai sbriciolando tutt'intorno peggio di Pollicino che dissemina le molliche di pane, al fidanzato conosciuto in vacanza studio ci pensiamo."

"Io non ci penso affatto, in realtà...", aveva mormorato Camilla, con occhi d'improvviso più seri, quasi tristi.

"In che senso?"

"Nel senso che... non sarei mai abbastanza, per un ragazzo. M'importano solo i libri, le belle parole, e non credo lo troverei mai, un fidanzato capace di soddisfare tutti i miei sogni, le mie aspettative, le mie illusioni. Leggo troppo, ecco cos'è il problema."

Alberto non sapeva cosa dirle. Sapeva solo che i suoi occhi, nonostante la tristezza di quel discorso, brillavano troppo, che i suoi capelli erano ovunque tranne che nel posto in cui dovevano restare, che le sue guance s'erano fatte troppo rosse, e che quel discorso era semplicemente assurdo. Perché era impossibile, secondo lui, non perdere la testa per una come Camilla, che era sempre gentile con tutti e s'affezionava persino al professore di educazione fisica, che piangeva sui compiti di matematica eppure non mollava, che era di dare capace tutta se stessa a persone come lui, che puntualmente riuscivano a ferirla e a farle male. Perché Camilla non si credeva abbastanza per nessuno eppure per lui era tutto, e lo capì lì, in quella sala d'attesa, mentre lei stava per partire per una vacanza studio dalla quale, chissà, sarebbe tornata più spigliata, più disinvolta, con meno complessi e un inglese un po' più fluente. E con un ragazzo, chissà... ma lui, a quello, non doveva e non voleva pensare. Non poteva immaginarsela dare il suo primo bacio a uno sconosciuto, dando tutta la tenerezza che aveva riservato a lui a un altro, che forse se la meritava, però faceva troppo male, anche se lui aveva Virginia, Virginia di cui non si fidava e che non provava nemmeno a conoscere. Eppure voleva Camilla, con i suoi capelli biondo cenere, l'insicurezza che minacciava di travolgerla, le unghie divorate a sangue e i discorsi pieni di magia che riuscivano sempre ad incantarlo.

Però lui non le aveva ancora risposto e lei lo guardava, con quegli occhi verdazzurri pieni d'incertezza e di paura, in attesa, forse, di una rassicurazione. Ma lui, onestamente, che poteva dirle? Che l'idea di passare un po' di quell'estate senza di lei gli  era intollerabile e che aveva paura di non farcela? Che lei era abbastanza per chiunque, che era lui quello sbagliato, eppure non riusciva a togliersela dalla testa? 

Non poteva, no... si limitò a liquidare le insicurezze di Camilla e i suoi pensieri sbagliati con una battuta:

"No, dai, seriamente, chi è che non vorrebbe una ragazza che gli parla per ore del dissidio dI petrarca? È l'ambizione di qualunque adolescente, avere una ragazza che discuta di queste cose!"

Era riuscito a farla ridere, l'aveva presa per mano e l'aveva trascinata in giro per l'aeroporto. Lei aveva sorriso d'istinto, perché a cretinate galattiche come quelle di Berto mica si poteva restare indifferenti. Però non le bastava il modo in cui aveva liquidato la sua insicurezza e i suoi dubbi. Non era abbastanza,  e lo sapeva benissimo. Non aveva mai avuto un ragazzo che la corteggiasse, uno che le chiedesse di uscire sul serio, uno che, in poche parole, ci provasse con lei. Non se n'era mai curata, non in maniera ossessiva, però un po' le dispiaceva. Si reputava strana, semplicemente; allontanava gli altri parlando di letteratura, ficcava il naso in un libro o metteva le cuffiette, disinteressandosi completamente del mondo circostante. Che poi non era vero e lo sapeva benissimo, e quelle erano solo riflessioni autodistruttive e insensate, però... però le sarebbe piaciuto essere rassicurata da qualcuno, e Alberto sarebbe stato perfetto per questo. E non era stata abbastanza nemmeno per lui, che infatti aveva scelto Virginia, con i suoi occhi scuri e vivaci, il suo sorriso pronto, la sua corte di amiche un po' smorfiose. Eppure lui Virginia la trattava solo con insofferenza e freddezza, riservando a lei, chissà perché, tutta l'arruffata dolcezza di cui era capace. Ma non sarebbe mai stata la sua ragazza, non lei, era normale. Lei andava bene per fare da grillo parlante, da Wendy ad un Peter Pan incosciente, per raccogliere confidenze e per fare discorsi idioti. Ma la sua ragazza doveva essere più bella, con il sorriso più smagliante, il carattere più aperto e senza quella stupida ossessione per i libri che aveva lei.

Però che poteva fare, ora? Stava per partire, e non era certo il caso di piangere o di dire ad Alberto quel che temeva di star provando nei suoi confronti. Lui la stava guidando fino alle poltroncine dell'aeroporto, stordendola di parole idiote, mentre le teneva la mano e gliela stringeva più forte di tutto.

E poi era venuto il momento di separarsi, di salutarsi, di scambiarsi mille promesse sceme per quelle settimane, le stesse che si erano ripetuti nei giorni prima.

Ma non c'era stato niente, niente di tutto questo. Perché Camilla gli aveva buttato le braccia al collo con gli occhi lucidi, e i suoi capelli erano troppo morbidi e troppo fragranti, e il suo corpo esile, malgrado lo zaino enorme, premuto contro il proprio aveva fatto ad Alberto un effetto strabiliante.

E così l'aveva baciata, con tutta la goffaggine, la frenesia, la passione di cui era capace. Solo premendo le sue labbra con urgenza e tenerezza contro la bocca di lei capì che era quello che aveva desiderato fare da che la conosceva, l'unico gesto sensato da fare lei, che non era solo la sua migliore amica, il suo grillo parlante, il suo angelo custode. La strinse forte desiderando di godere di quel contatto ancora a lungo, ma sapeva che non poteva durare, quella magia.

Camilla si era ritratta come se si fosse scottata, ed era scappata, o quasi.

Gli aveva mormorato un "ci vediamo" detto con voce incerta, e poi era corsa via, con lo zaino enorme che le sbatteva contro la schiena. Si era imposta di non voltarsi, di salire sull'aereo e di pensare a quel bacio solo una volta fra le nuvole.  Adesso, davvero, non doveva farlo, perché, altrimenti, col cavolo che sarebbe partita per l'Inghilterra.

Aveva preso posto con le mani tremanti e quando a fianco a lei si era seduto un signore obeso che aveva finito per invadere il suo spazio vitale, lei non ci aveva badato più di tanto, limitandosi a strizzarsi nell'esigua porzione di poltroncina che le era rimasta. Aveva il cuore in gola, e non si accorse nemmeno che l'aereo aveva abbandonato la pista per decollare, librandosi nell'azzurrissimo cielo di Milano. Tirò fuori il quaderno blu zaffiro che aveva comprato apposta per quel viaggio. Progettava di usarlo come diario di bordo e pensava ci avrebbe annotatoi suoi pensieri durante quella vacanza studio, incollando i biglietti dei musei, le fotografie che avrebbe scattato, i tovaglioli dei bar. E l'avrebbe dato ad Alberto, forse, per fargli leggere tutto, perché potesse vivere anche  lui un po' della magia e dell'incanto del suo viaggio. Eppure adesso nulla di tutto questo aveva senso, perché quel bacio aveva cambiato le cose e lei, all'Inghilterra, non pensava nemmeno più di tanto.


Domenica, 30 Giugno 2013

Caro diario, caro quaderno,

Non so bene come chiamarti e in questo momento non riesco a decidermi perché, francamente, ho millemila cose per la testa, tutte più importanti della scelta fra la parola "diario" o "quaderno" per definirti.

Che poi, io avevo progettato di aprire la prima pagina di questo taccuino una volta sull'aereo, ed è esattamente quello che sto facendo ora. Solo... che le cose non dovevano andare così, non esattamente. Sono cambiate millemila cose nel giro di pochissimi istanti, oggi, e tutti i miei piani se ne sono andati, a cominciare proprio dal progetto di scrivere in questa primissima pagina del volo, delle nuvole, delle persone che vedo sull'aereo.

Perché, Cristo, io ho dato il mio primo bacio, oggi, dopo tante giornate passate ad immaginarmelo, a pregustarlo, a pensare che, in fondo, non sarebbe stato un granché, sicuramente meno intenso che nelle mie fantasie. Solo che a darmi il mio primo bacio è stato Alberto, e questo, nei miei sogni ad occhi aperti, era escluso. Perché lui era il mio migliore amico, fino a venti minuti fa, nient'altro.  Però... però, come primo bacio, credo sia stato fantastico. A spaventarmi tremendamente è  quel che succederà dopo queste tre settimane. Alberto è fidanzato, in teoria, anche di Virginia ormai si è stancato, e quando ne parla sembra irritato, più che altro. Eppure non credo la lascerà, non ancora. A lui, l'idea di avere una ragazza, non spiace affatto. Io, in tutto questo, non so cosa pensare, non so davvero che ruolo avrò. E forse questo bacio, dopotutto,  è stato solo un terribile e gigantesco sbaglio, che non cambierà le cose.  Eppure fa male, fa male anche questo, perché è stato bello, tanto, e quando Alberto mi ha stretta così, come se per lui fossi davvero la cosa più importante al mondo, a me è mancato il respiro. E forse innamorata di lui, dopotutto, lo sono davvero, lo sono sempre stata, anche se mi sono imposta di non ammetterlo mai a me stessa, tantomeno di confessarlo a lui. Solo Alberto ha la capacità di raddrizzare le mie giornate più storte, di farmi star male con i suoi silenzi e le sue parole brusche, di strapparmi mille sorrisi involontari.  Mi illumino, ecco, quando sono con lui, anche se poi riesce a spezzarmi il cuore, come quella volta in cui, dopo avergli raccontato della mia partenza per l'Inghilterra, mi ha parlato con una durezza che non mi sarei mai aspettata, per poi sistemare tutto dicendo qualcosa di idiota che, puntualmente, mi ha fatto brillare gli occhi. E io sono stata stupida ad invaghirmi di lui, perché i suoi difetti li conosco a memoria e non sono affatto sicura di essere abbastanza forte per aiutarlo davvero, per mettere  a tacere i demoni che ha in testa, per aiutarlo a rialzarsi quando  la musica non basta e le sue paure minacciano di schiacciarlo, di abbatterlo. Eppure è stato lui, a baciarmi, io non avrei mai avuto il coraggio di farlo. E si è aggrappato a me con tutta la disperazione di questo mondo, perché l'idea della mia partenza gli era intollerabile, come se, senza di me a fargli da grillo parlante, lui si sentisse perso. Che cavolo, io adesso non dovrei pensare a lui così. Dovrei farmi un selfie sull'aereo, fare una faccia idiota in modo che, quando vedrà la foto, gli verrà da ridere. Eppure non ce la faccio, non dopo questo bacio. Non ce l'ho, il coraggio necessario per scrivergli raccontandogli la mia vacanza studio, per accendere il cellulare e trovare un suo messaggio in cui mi dice che questo bacio  è stato solo uno sbaglio, e dobbiamo restare amici, amici e basta.

Forse dovrei dimenticarmi di quello che è successo,  e provare a vivere la vacanza studio senza sentirlo, senza pensarlo, senza immaginarmi quello che starà facendo. Forse dovrei chiamare Amelia, che sicuramente mi prenderà in giro per tutte queste paranoie,  e mi consiglierà di pensare a imparare l'inglese e di scordare ogni cosa. Amelia, beata lei, ai ragazzi non ci pensa. E fino a poco tempo fa nemmeno io lo facevo più di tanto, anche se fantasticavo spesso sul mio principe azzurro ideale, che dovrebbe essere più arruffato e cretino di quello delle fiabe. E appunto, Alberto, in questo senso, sarebbe perfetto, perché con i capelli che si ritrova arruffato lo è davvero, e quanto all'essere cretino, beh, è semplicemente perfetto. Ma io, adesso, non devo pensarci, mi conviene concentrarmi, piuttosto, sull'Europa che sto sorvolando, sul cielo azzurrissimo che stiamo attraversando, sul tizio obeso che, oltre ad aver occupato  metà della mia poltroncina, suda tremendamente e diciamo che non profuma granché.

E ora il diario devo chiuderlo, altrimenti probabilmente continuerò a scrivere e a pensare Alberto, e io non devo.

Camilla


You found a new world and
You want to taste it
But that world can turn cold and
You better face it
(Who will you run to, Heart)



 

Durante quelle settimane in Inghilterra, Camilla aveva ficcato l'ipod nel cassetto e si era imposta di non sentire musica. Era inevitabile, ormai, che ogni canzone  le provocasse un sussulto e le ricordasse Alberto, che aveva fatto di tutto per rimuovere dalla sua mente. Ci era riuscita abbastanza bene, doveva ammetterlo. Quei giorni in Inghilterra, malgrado l'atmosfera rilassata, erano assolutamente frenetici  e non aveva affatto il tempo di perdersi in fantasticherie. Si concentrava più che poteva, a lezione, e il tempo libero lo trascorreva con le sue amiche, per la maggior parte italiane. Chiaccherava con tutti, e all'interno del college aveva acquisito la fama di ragazza solare, luminosa ed estroversa, ed era una delle poche a mischiarsi con ragazzi di ogni nazionalità, malgrado questi non sempre la accogliessero volentieri, preferendo starsene con i propri connazionali.

"Che poi, cosa cavolo vengono in Inghilterra a fare, questi, se stanno solo con chi parla la loro lingua..", aveva sbuffato Camilla al telefono con Amelia, che aveva riso di cuore.

Era strano come, nel giro di pochissimi giorni, la ragazzina innamorata dei libri, timida e giudicata strana da molti avesse lasciato il posto a questa nuova Camilla spigliata, socievole e quasi popolare. Eppure, nonosante i suoi sforzi, non era riuscita ad affezionarsi a nessuno dei suoi compagni, italiani o stranieri che fossero. Perché loro, nonostante fossero abbastanza amichevoli, non sapevano niente della vera Camilla. Non conoscevano la sua ossessione per i libri, il suo amore per John Lennon, la sua iinsicurezza e i suoi attacchi di panico prima dei ocompiti in classe. Amelia, Alberto, Stefano e gli altri le volevano bene proprio per la sua eccentricità, per il suo essere un po' sopra le righe e nonostante le sue fragilità, la sua timidezza e la sua paura di non essere abbastanza.

In Inghilterra no. Non poteva raccontare alla sua compagna di stanza, una ragazza biondissima e danese fissata con le diete, dei libri che leggeva, né poteva raccontare al ragazzo tedesco dalle fattezze elfiche che un po' ci provava con lei del suo inguaribile amore per i Beatles, perché nessuno dei due l'avrebbe capita. E i suoi amici le mancavano da morire in quei giorni, perché, semplicemente, in quel college non riusciva ad essere se stessa, non davvero. Eppure a molti  la nuova Camilla piaceva e c'era quel ragazzo tedesco, con i capelli biondo grano e due occhi verdissimi che toglievano il fiato, che le aveva fatto capire, in più occasioni, di essere interessato a lei. Era uno dei ragazzi più ambiti, lì dentro, sia per il bell'aspetto sia perché era estroverso ed era  uno dei pochi a parlare con ragazzi provenienti da ogni dove.

"Sareste tanto carini, insieme.", aveva detto una ragazza italiana a Camilla, che, per tutta risposta, era scoppiata a ridere.

"Siete biondi entrambi, chiaccherate volentieri con tutti e sembrate sempre disponibili. Sareste la coppia più carina del college, e tutte le ragazze ti invidierebbero, ma non troppo, perché sei bella, parli strabene l'inglese, e non sei per neinte snob.", aveva continuato quella.

Camilla si era resa conto che lei, ad interpretare il ruolo della principessina del college, non teneva per niente. Aveva passato anni a sognare di avere la disinvoltura delle sue compagne e adesso che le si presentava l'occasione di essere popolare, scopriva che non le importava affatto. La compagnia di tutti quei ragazzi, sebbene non spiacevole, non bastava, e la corte del ragazzo tedesco la metteva soltanto a disagio, e non sarebbe mai riuscita a ricambiarlo come doveva.

"Dovresti provare a stare al gioco fino in fondo. A baciarlo, a fargli mille moine, a vivere una storia d'amore non destinata a durare, solo per vedere com'è.", le diceva la voce di Greta nella sua testa. Eppure non voleva vivere quell'avventura fino in fondo, perché stare con un ragazzo giusto per il tempo di una vacanza studio non era decisamente nelle sue corde.

E poi c'era il pensiero di Alberto che, sebbene avesse fatto di tutto per scacciare, si presentava, puntuale come sempre, quando stava per addormentarsi e la seguiva nel sonno. Lui le mancava tremendamente, anche se non era sicura di cos'avrebbe pensato nel vederla così estroversa e quasi disinvolta. Avrebbe semplicemente voluto chiamarlo, mandargli un selfie idiota, ascoltarlo delirare di musica. Avrebbe voluto sapere come stava, se quell'estate si stava rivelando difficile con le altre, perché i mesi estivi, per Alberto, non erano mai semplici, eato che cercava per più tempo possibile di stare alla larga da sua mamma. Avrebbe poluto sapere di Virginia; chissà de l'aveva lasciata, come andavano le cose, come si sentiva Alberto. Di Virginia fondamentalmente non le importava, però del suo migliore amico - perché era solo un amico, per lei, nient'altro - sì, e avrebbe voluto essere lì, a sentire i suoi fiumi in piena di parole, ad ascoltare i suoi insulti a Virginia e, anche, a subire il suo malumore e la sua indifferenza. Avrebbe dato qualsiasi cosa, ecco, per vedere i suoi occhi, il suo sorriso storto, le sue dita  che rincorrevano accordi persino nell'aria.

Eppure aveva resistito: non gli aveva telefonato né scritto, limitandosi a chiedere, ogni tanto, ad Amelia o s Stefano come stesse. Ad Amelia aveva raccontato del bacio, anche se con mille esisazioni, incerta se la sua migliore amica avrebbe capito o no.

"Beh, hai sacrificato anche tu la tua intelligenza, il tuo potenziale e il tuo essere una donna libera ed emancipata per un ragazzo.", era stato il sardonico commento di Amelia. Camilla era troppo abituata a frasi sprezzanti di questo tipo per potersi offendere e, in fondo, sapeva che la sua amica era soltanto preoccupata per lei. Solo che, ecco, non lo dimostrava in maniera classica.

"È stato solo un bacio, Melia. E poi, francamente, per come lo conosco dubito che avrà un seguito, questa cosa. Forse ci conviene scordare tutto e andare avanti come prima, perché la nostra amicizia è troppo bella per essere rovinata da una cotta."

Amelia condivideva abbastanza l'idea dell'amica, ma sapeva che non sarebbero andate così, le cose. Aveva visto Alberto, in quei giorni, guardare Virginia senza realmente vederla, mentre era immerso in pensieri tutti suoi. Quando Stefano aveva menzionato Camilla per caso lui era stato scosso da una sorta di sussulto, e nei suoi occhi era passato un groviglio di emozioni che lei, incapace di psicoanalizzare una cavalletta, non aveva saputo decifrare.

Dopo quella telefonata piuttosto breve in cui Amelia le aveva consigliato di dimenticare quel bacio le cose erano andate avanti più o meno normalmente per diverse settimane. Di giorno lei chiaccherava, rideva ed era amichevole con tutti e di notte, quando non dormiva, pensava ad Alberto, che ogni giorno le mancava sempre di più.  A volte, durante le ore di lezione, si voltava e si stupiva di non trovarlo lì, a scimmiottare il professore d'inglese che sicuramente avrebbe trovato buffo, con quel suo accento cantilenante e la sua incapacità a pronunciare i nomi stranieri correttamente. Però Alberto, al momento, non c'era; non era lì a infilarle un plettro nel libro di greco, a fumare una sigaretta per metà e a far finta di ascoltarla quando lei gli diceva che il fumo uccideva, ad afferrarle il braccio quando doveva dirle qualcosa, foss'anche una cavolata che gli era appena passata per la testa.

 

Everytime I think of you, I always catch my breath
And I'm still standing here, and you're miles away
And I'm wonderin' why you left
And there's a storm that's raging through my frozen heart tonight


I hear your name in certain circles, and it always makes me smile
I spend my time thinkin' about you, and it's almost driving me wild
And there's a heart that's breaking down this long distance line tonight

I ain't missing you at all since you've been gone away
I ain't missing you, no matter what I might say

(Missing you, John Waite)


[…]


Waiting for you again
Seems like this never ends
I close my eyes and I see your face
And I see it all fading away

(Only you, Toto)


Alberto, a Torino, non se la passava molto meglio. Aveva guardato Camilla andare via, dopo averla baciata, desiderando correrle dietro e darle qualche spiegazione, anche se non sapeva davvero cos'avrebbe potuto dirle. Avrebbe potuto scusarsi, dirle di dimenticare il bacio, ammettere, molto semplicemente, che si era innamorato di lei, che l'aveva capito qualche giorno prima ma, probabilmente, lo era sempre stato. Perché da quando Camilla era piombata nella sua vita, con gli occhi stralunati e il sorriso gentile, lui aveva perso un po' della sua durezza, della sua spavalderia, del suo dolore. Lui che non aveva mai dato il suo cuore a qualcuno, non completamente, perché aveva troppa paura di togliere i panni da Dio, da ragazzino ribelle  e un po' strafottente, anche se la parte del bello e dannato non l'avrebbe mai recitata in maniera convincente, poiché non era né abbastanza bello né abbastanza dannato, solamente bacato  e un po' melodrammatico. Ma Camilla era stata la prima a capirlo, a dargli una scrollata e a ficcargli un gomito nel costato, guardandolo con un cipiglio severissimo e poco convincente, dicendogli, con un sorriso, di darsi una ridimensionata, che con lei fare la parte del tenebroso non attaccava.

E adesso  l'aveva baciata, rovinando ogni cosa, ogni loro sorriso, ogni momento magico. Perché non c'era la minima possibilità che Camilla desiderasse mettersi con lui, che come fidanzato, nonostante tutto, non valeva niente, e lei lo sapeva meglio di tutti, perché  conosceva i suoi difetti le sue manie di protagonismo, i suoi malumori e i suoi scatti improvvisi. Poteva ingannare una come Virginia, giocando a fare il Dio, il ragazzino appassionato di musica e dall'animo ribelle, però con Camilla niente di tutto questo aveva senso, siccome lei sapeva leggergli dentro così bene. Però gli mancava, adesso, mortalmente, solo che non poteva dirglielo. Ci aveva provato, a scriverle, solo che poi fissava lo schermo del cellulare con disperazione muta; con le parole non se l'era mai cavata troppo bene, era Camilla quella brava a scrivere, e in più lui non sapeva neanche che dirle, in quel messaggio.

Quei giorni erano stati difficili: il bacio con Camilla che gli ronzava in testa, Virginia che gli chiedeva mille spiegazioni per i suoi silenzi e le sue sparizioni sempre più frequenti, i suoi amici che lo guardavano preoccupati  e sua madre, che d'estate incrociava più di frequente del solito. E Camilla avrebbe risolto tutto, ne era sicuro, con quel suo sorriso morbido, delle parole assennate, un sopracciglio inarcato e una brioche alla marmellata. Ma lui aveva rovinato ogni cosa, cretino, cretino, cretino.

Non poteva pensarci prima, no? Non poteva evitare di baciarla, facendo la figura dell'idiota? Lo sapeva, che Camilla non si sarebbe innamorata di lui, che il principe azzurro l'avrebbe trovato da qualche altra parte. Magari già ora, in Inghilterra; chissà, probabilmente adesso un ragazzo che sapesse consolarla, sorprenderla con qualche trovata romantica e strapparle mille sorrisi incantati, lei, ce l'aveva già. Che fuori da Torino, una come Camilla, con la sua luce, la sua gentilezza e la sua magia, mica poteva passare inosservata.

Chissà come stava. Chissà se l'avevano presa di mira, le altre ragazze, come capitava a scuola, perché Camilla era sempre stata oggetto di certi commenti un po' maligni, lui lo sapeva, per quella sua tendenza ad avere la testa fra le nuvole, per il fatto che si portava sempre un libro in borsa, per l'aria perennemente seria durante le lezioni. Dovevano lasciarla in pace, almeno in Inghilterra, che il Regno Unito era il suo sogno e nessuno aveva il diritto di rovinarglielo. Anche se, a ben guardare, lui, quando lei gli aveva confidato le sue intenziondi partire, l'aveva presa a male parole e l'aveva proprio calpestato, il suo sogno. Cretino, cretino che non era altro.

 

L'aveva raccontato a Stefano, del bacio, un giorno che erano soli a rimettere in ordine il garage in cui avevano appena finito di provare. Fabio ed Enrico si erano dileguati, mentre Alberto gironzolava tutt'intorno stringendosi addosso la chitarra, come se fosse una sorta di animale domestico da proteggere e al quale fare tante coccole. Era stato Stefano, stranamente, a farsi serio e a chiedergli:

"Berto, che succede? In questi giorni sei... strano, stralunato, sembri immerso in pensieri tutti tuoi che sono ben al di là della nostra comprensione. E poi, senti un po', è ora che la pianti con questa storia di Virginia. Si capisce lontano un miglio che non te ne importa, ok? La tratti come se fosse un giocattolo da riporre a tuo piacimento, e poi non sei per niente preso o perso per lei, e non è una bella cosa.", aveva iniziato, gentile ma risoluto. Ecco perché Alberto lo adorava e lo riteneva il più fantastico dei migliori amici: perché era diretto, perché era pacato e perché, Cristo, riusciva a intuire quel che provava e a forzarlo, seppur gentilmente,  a parlarne.

"Ho baciato Camilla all'aeroporto, ok? Prima che lei partisse... E Virginia potrebbe anche andarsene al diavolo, per quel che me ne importa."

Stefano, nel sentir parlare del bacio, aveva sgranato gli occhi. Non se l'aspettava, quello, nemmeno lui, così perspicace e ricettivo.

"Cristo, Berto... l'hai baciata? Ma sul serio? Proprio Camilla? La nostra Camilla?"

"Stefano, non... non fare così con i tuoi futuri pazienti, quando farai lo psicologo, ti prego. È la reazione meno professionale che abbia mai visto."

"Sì, ma io non sto lavorando, adesso. E non l'avevo previsto, il bacio, non era contemplato nei miei ragionamenti da psicologo. E poi, santo cielo, sei tu quello che nel vedere la tua migliore amica partire ha avuto una reazione, come dire, inconsueta. E adesso?"

"Adesso che cavolo ne so, io, Stefano... è stato bellissimo, bellissimo e inevitabile, e  penso che lo rifarei un milione di volte, se solo potessi. Ma lei non mi merita, io... io sono troppo imbranato, troppo egoista, troppo cretino per una come lei. Non so nemmeno perché l'ho fatto, è stata una cavolata..."

"Non sai perché l'hai fatto? Ascolta, se stavi giocando, o facendo una delle tue cagate di cui poi ti penti, o qualcosa del genere, beh, io ti uccido. Perché Camilla è straordinaria, e stravede per te, è questo il problema. L'ho sempre saputo, da come ti guarda, da come si illumina non appena ti vede, da come dimentica il mondo per tuffarsi nel tuo universo.  Tu, il sorriso di Camilla quando ti guarda, non l'hai mai visto, o non ci hai mai fatto caso. Ma è una delle cose più abbaglianti e  dolci che abbia mai visto, e solo tu sei riuscito a non farci mai caso."

"Ma non è che ti sei innamorato un po' tu, di Camilla? La adori, la reputi una delle persone più meravigliose che esistono, e... davvero, io non ci ho mai creduto, a questa storia di te e di Camilla, anche se i tuoi genitori progettavano già il vostro matrimonio, però forse, in fin dei conti, te la meriteresti tu, più di me. Perché sapresti farla felice, sapresti..."

"Vuoi stare zitto? Oh, santo cielo, ma sei demente, e proprio tanto. Io adoro Camilla perché è lei, perché in quello che fa, in quello che legge, mette una passione e uno slancio bellissimo, a vedersi, perché ha una parola gentile per tutti e perché sembra capire le persone meglio di loro stessem, e anche perché non ti ha ancora strangolato, pur avendo tutti i buoni motivi di questo mondo. E sì, la reputo una persona meravigliosa, però non mi innamorerei mai di lei. Sarebbe troppo facile, cosa credi?"

"Già. Scusa, hai ragione, è che certe volte dico cose senza senso."

"Tante volte, tante, Berto."

"Cosa dovrei fare, secondo te?"

"Dichiararti. Dirle quel che provi, sempre che sia abbastanza serio. E provarci, Berto. Magari non sarà l'amore della tua vita, però non devi fare l'idiota, non con lei, ma neanche con nessun'altra, ci mancherebbe. E, a proposito, quella povera Crista di Virginia, per favore, si merita un trattamento più decente. Lasciala, parlaci, chiarisci, dille che ti sei accorto che la vostra storia, un senso, non ce l'ha. Perché, a parte che non è esattamente la ragazza più simpatica e carismatica del pianeta, non è cattiva, e non se le merita, le tue lune storte."

"Sì, però, Stefano... io non ce la faccio, a fare niente di tutto questo. Perché Camilla se n'è andata, quando l'ho baciata, senza una parola e senza voltarsi indietro. _E stare con Virginia, avere una ragazza, beh, mi facilita la vita. Nel senso, è comodo averla lì, quando tutto va male, quando ho bisogno di un po' di conforto, mi fa comodo, in un certo senso, e...", ma non aveva finito la frase, perché Stefano, in uno slancio di stizza, gli aveva lanciato addosso il cestino della carta straccia, pieno di fogli, di fazzoletti, di pagine di quaderno.

"Sei un idiota, e pure uno stronzo. Uno stronzo egoista, per giunta, perché non posso capacitarmi che tu, il mio migliore amico, dica certe cose. E prima di dichiararti a Camilla, beh, farai bene a chiudere definitivamente con Virginia. E non azzardarti a chiamare Camilla, a farle scenate apocalittiche via Whatsapp, a spezzarle il cuore. Comportati da adulto, per una volta, e non azzardarti più a dire una cosa del genere. Tieni Virginia come fidanzata perché ti fa comodo? Non è che sia una borsa della spesa, o una coperta che tiene caldo quando guardi un film, ok?"

Alberto aveva guardato il suo amico, attonito. Non l'aveva mai sentito urlare, non l'aveva mai visto scaraventare oggetti, ma in qualche modo sapeva che se l'era cercata. Le cose su Virginia le pensava veramente, anche se non avrebbe voluto dirgliele in quei termini. Perché lui si sentiva fragile, fragile e dannatamente vulnerabile,  e l'avere una ragazza da stringere, alla quale chiedere e dare calore era assolutamente rassicurante, e serviva a rasserenarlo, almeno un po'. Però era scorretto, profondamente sbagliato, comportarsi così. Era stato meschino, nel giocare così con i sentimenti di Virginia, nel trattarla come una bambola un momento e nel dimenticarsi di lei subito dopo, nel darle i suoi baci, non rivelandole mai quel che pensava e provava realmente. Non che lei fosse stata un angelo, questo no; spesso era superficiale, non aveva la luce di Camilla, non c'era nulla per cui s'indignasse o s'entusiasmasse sul serio. Però, era inutile, la parte del bastardo, in tutta quella storia, l'aveva fatta lui.

"Hai più sentito Camilla, dopo il bacio?", gli chiese Stefano, più pacato.

"No. C'è stato una sorta di.... di accordo implicito, fra di noi. Penso che neanche lei mi vuole sentire, è meglio se forse ce ne stiamo soli entrambi per un po', con i nostri pensieri, i nostri sentimenti, e prendiamo una decisione a riguardo."

"Wow, questa è la prima cosa ragionevole che ti sento dire oggi. Magari è meglio se vi vedete una volta a Torino, e vi chiarite."

"Ma cosa c'è da chiarire, secondo te? Io l'ho baciata, ho fatto una cavolata, lei sicuramente in Inghilterra si sarà messa con un macedone,  e io farò ancora la figura del cretino. E non potrò neanche tornare ad essere suo amico, perché un bacio come quello che le ho dato all'aeroporto non se lo può scordare, lei."

"Sono gli armeni, non i macedoni, ad affascinarla. Ma comunque, Berto, penso davvero che non si sia fidanzata, in Inghilterra. Se vuoi glielo chiedo per messaggio, ma sinceramente dubito. E poi tu le piaci, ne ho la certezza, anche se probabilmente l'ha iniziato a capire quando ti sei messo con Virginia, perché quando tu non c'eri lei sembrava così mogia."

"Dici davvero? Ma poi, io, come dovrei fare, con lei? Cioè, non è mica una ragazza qualsiasi."

"No, appunto. Cerca... cerca solo di non fare il bastardo, come ti ho detto. Al resto ci penserete insieme."


It's five o'clock
And I walk through the empty streets
Thoughts fill my head
But then still
No one speaks to me
My mind takes me back
To the years that have passed me by

(It's five o'clock, Aphrodite's Child)

L'aveva chiamata la notte dopo, alle cinque del mattino, perché non ce la faceva più a camminare per una Torino deserta e vagamente spettrale, ad attraversare strade semibuie e vuote, a passare accanto a tutti i luoghi che erano stati loro, alle librerie chiuse, ai parchi giochi, alle gelaterie. Mancavano cinque giorni al ritorno di Camilla, eppure la sua assenza gli era intollerabile per un migliaio di ragioni. Ed erano le quattro del mattino, in Inghilterra, mentre da lui erano le cinque. "It's five o'clock", come nella canzone degli Aprhodites Child. Ecco, lui quelle analogie non poteva, non voleva farle. Perché quel brano era straziante, come tutto quel che era stato composto dagli Aphrodites Child, e qualunque innamorato, sentendolo, avrebbe avuto l'impulso di tagliarsi le vene, o di squarciarsi il petto, perché quel pezzo aveva il potere di far affogare chiunque in un mare di lacrime. Che poi, era proprio come nella canzone. Erano le cinque del mattino, e lui si ritrovava a vagare a Torino - ok, forse il cantante degli Aphrodites Child vagava per Londra o per Atene, visto che era greco-, a pensare alla sua amata lontana.

Se fosse stato a Londra, pensò, sarebbe stato più facile comporre una canzone, mentre qui, a Torino, lui non riusciva a scrivere, poteva solo struggersi pensando a Camilla, che in Inghilterra ci era davvero, probabilmente addormentata. Chissà  com'era la sua camera inglese, la sua compagna di stanza proveniente da chissà dove, il panorama che si scorgeva fuori dalla finestra. Chissà se c'erano tanti gabbiani come avevano immaginato e se l'alba, lì sul mare, era tanto spettacolare.

Non doveva chiamarla, lo sapeva. L'aveva anche detto a Stefano, doveva prendere delle decisioni da solo, pensare a come comportarsi con lei e con Virginia. Doveva soltanto riflettere a fondo su cosa fare, prima che lei tornasse, prima di commettere l'ennesimo errore.

Ma come gli mancava lei, quella notte, non poteva spiegarlo a nessuno. Si sentiva maledettamente solo, su quella panchina, la stessa dove avevano mangiato innumerevoli gelati, dove aveva guardato Camilla macchiarsi e stizzirsi con i coni che franavano sempre sulla sua camicietta.

Perché se lei fosse stata lì, nonostante tutto, lui avrebbe trovato il conforto e il calore che desiderava.


We said we wouldn't talk to one another on the phone
A little time apart to try to make it on our own
Well, I don't know about you but I'm feelin' kinda lonely tonight


Maybe it's better, maybe it's not

Maybe we should look at everything we've got

Maybe those bad times weren't so bad

Maybe those sad times weren't so sad

(Feelin' kind of lonely tonight, Shelby Lynne)

[...]

Call you up in the middle of the night
Like a firefly without a light
You were there like a slow torch burning
I was a key that could use a little turning

So tired that I couldn't even sleep
So many secrets I couldn't keep
Promised myself I wouldn't weep
One more promise I couldn't keep

It seems no one can help me now
I'm in too deep
There's no way out
This time I have really led myself astray
(Runaway train, Soul Asylum)

E allora la chiamò. La chiamò perché non c'era altro da fare, perché probabilmente l'avrebbe mandato all'inferno o non gli avrebbe risposto neppure, perché lui era un povero cretino, perché aveva bisogno di sentire la sua voce e i suoi insulti. Compose il suo numero con dita incerte e aspettò, aspettò che lei rispondesse, o riattaccasse, o lo ignorasse.

Fu solo dopo diversi squilli, quando ormai stava per arrendersi e chiudere la chiamata, che sentì la voce di Camilla, sottile, esitante, assonnata.

"Alberto?", gli chiese e nel suo nome, detto così, c'era tutta l'incredulità, lo stupore, la dolcezza del mondo. Pensò a quando l'aveva chiamata nel cuore della notte, anni prima, per dirle che lui e gli altri erano stati ingaggiati per suonare in quello squallido pub e al modo in cui lei l'aveva insultato per l'orario assurdo della chiamata, per poi entusiasmarsi, subito dopo, quando aveva saputo la buona notizia.

Ora, però, era tutto diverso. Lei non lo stava insultando, sembrava solo stupita di sentirlo, anche se non pareva infastidita.

"Io... dormivi?", le chiese, quasi sperando che lo prendesse a male parole, perché sapeva che, se l'avesse fatto, sarebbero riusciti a ritrovare l'intesa e la complicità di prima.

"Sì, ma non importa.", gli rispose invece, con la solita voce sottile ed esitante, quasi avesse paura a dire una parola di troppo.

"Lo so, scusa l'orario indecente, è solo che è un po' come in "it's five o'clock", capisci?", quella frase non aveva senso, ed era una cosa così stupida, da dire.

"Ok... fantastico, davvero. Io dormivo, invece, non vagavo per strade deserte.", rise lei, e per la prima volta, nella sua voce, c'era quell'affettuosa sfumatura canzonatoria che, come sempre, lo fece sorridere. Perché lei capiva persino i suoi sproloqui più assurdi,  sapeva leggere dentro ai riferimenti alle canzoni, siccome amava la musica quanto lui e gli Aphrodites child, a pensarci, glieli aveva fatti sentire proprio Camilla, se no col cavolo che avrebbe scaricato una lagna del genere sull'Ipod.

 "Com'è l'Inghilterra?"

"Magnifica, non puoi capire. Ci sono millemila gabbiani, e il mare... il mare è qualcosa di così strano, non è il Mediterraneo, è più... nordico."

"E la gente? Hai trovato i Beatles, o Eric Clapton, o chiunque?"

"Oh, no, però ho incontrato Johnny Rotten che prendeva la metropolitana, ti saluta."

"Davvero? Wow, è..."

"No, idiota, stavo scherzando."

"Ah...."

"E tu? Come va a Torino? Hai incontrato il fantasma di Pavese, nei tuoi vagabondaggi notturni?"

"Io... senti, io... lascia perdere il bacio, ok? Non era niente, non voglio rovinare così la nostra amicizia, ho fatto una cosa che non dovevo fare, io...", disse d'impulso tutto. Aveva troppa paura che lei, dopo quel bacio, fosse arrabbiata con lui. Che diritto aveva avuto di baciarla, di prenderla così alla sprovvista, poi...

"Oh, lascia perdere, non importa, io... non fa niente, ecco.", ma aveva la voce che tremava, Cami, e forse era la distanza, forse era la linea telefonica disturbata, ma nelle parole che aveva pronunciato c'era un'incrinatura, una sofferenza che non sapeva spiegarsi.

"Io lo so, ecco, che sono le cinque di mattina, le quattro, da te, e devi scusarmi per tutto. È tutto così complicato, adesso, tu non ci sei e io ho il cervello in pappa, più del solito, ho pensieri sbagliati, o magari no, magari devi solo tornare perché si sistemi tutto, magari sto soltanto dicendo più cretinate del solito. È che dovrei spiegarti un po' di cose, però al telefono non ci riesco, e neanche dal vivo, temo, ma tu... tu resti, vero?"

Lei aveva sorriso, dall'altra parte del telefono; Con incertezza, con un po' di malinconia, senza capire bene cosa intendesse, Alberto, ma aveva sorriso. E lui l'aveva sentito, quel sorriso, aveva sentito la voce di Cami che in un mormorio gli assicurava che sì, lei sarebbe tornata, gli sarebbe restata vicino.

"È tutto così bello, qui. Il college che è una villa e sembr a essere uscita direttamente da Jane Eyre o da uno dei libri della Austen, la campagna inglese che è come nel Giardino Segreto, Londra che è la stessa di quando c'erano i Beatles eppure  è completamente diversa. Che ci sono andata da sola, ad Abbey Road, mi sono fatta una foto idiota e mi sono messa a piangere come un'idiota, perché non c'erano più, i Beatles, non come ai tempi della loro foto, anche se ormai i loro rapporti si erano guastati ed erano tutti un po' meno amici di prima. E forse, forse se ci fossi stato tu John e George mi sarebbero mancati di meno, ma tu non c'eri, e io allora mi sono fatta quel selfie stupido con il cellulare, e l'ho tenuto, ma devi promettermi che ci andremo insieme."

Lui avrebbe dato qualsiasi cosa per colmare la distanza che c'era fra loro, per solcare il mare ed andare da lei, in Inghilterra, per mettere un braccio intorno alle spalle e strapparle un sorriso, facendole dimenticare la malinconia che la prendeva, ogni tanto.  Che i Beatles mancavano tanto anche a lui, lei lo sapeva, però insieme sarebbe stato tutto diverso, tutto meno straziante.

"Però fra poco torni, e so già che non mi darai tregua nei tuoi vagabondaggi per gelaterie e librerie.  E ad Abbey Road ci andiamo insieme, basta che non piangi, ok?"

"D'accordo, promesso. Però o^ra vado a dormire, che domani andiamo a Londra, di nuovo, e le ragazze che sono con me si perderanno in ore di inutile shopping, mentre io girerò per le stradine sulle tracce di Oscar Wilde e di Shakespeare. D'altronde, gli altri pensano al taffettà, io alle poesie."

"Eh? Che è il taffecoso?"

"Niente, è una citazione dal prossimo libro che scriverò. E il taffettà è una stoffa molto pregiata, di cui dubito sinceramente le mie compagne di college siano a conoscenza."

Come facesse Cami a trasformarsi da ragazzina smarrita e potenzialmente adorabile a creaturina saccente e pedante, per Alberto era sempre stato un mistero. Ma l'importante era poterla sentire, mandarle sms ogni momento, aspettarla quando sarebbe tornata anche se, a ben guardare, non era riuscito a dirle la metà delle cose che avrebbe voluto, anzi, aveva combinato più pasticci che altro, perché adesso Cami era convinta che per lui quel bacio fosse stato uno stramaledetto incidente, e non c'era niente al mondo di più falso. Perché quel bacio non era stato un incidente, no, era stato... oh, che diamine era stato? E poi c'era ancora Virginia, alla quale non sapeva bene cosa dire, come scusarsi per il suo silenzio, per la sua ritrosia, per averla trattata così. Ma ora c'era Cami, con la voce ancora impastata di sonno, che gli aveva aperto il cuore soltanto dopo tre frasi, che riusciva a intenerirlo come nessuno, perché aveva dei modi di fare così da bammbina, a volte, eppure era più matura di tante diciassettenni, lui lo sapeva.

"Beh, buonanotte, befana. Ci vediamo fra cinque giorni, grazie al cielo."

"Oh, beh, anche io sono contenta di ritornare a casaa. E anche di rivederti, sì.", disse, un po' a malincuore, per poi riattaccare.

La verità, pensò Camilla, era che era maledettamente contenta di rivederlo, di rivedere i suoi amici al gran completo, la sua casa, la sua Torino. E Alberto, beh, Alberto le mancava più di chiunque, perché lui conosceva a memoria le sue insicurezze, le sue paranoie, le sue idiosincrasie. E sapeva farla sorridere più di qualsiasi altra persona, anche se la feriva con la sua indifferenza e i suoi ostinati silenzi, a volte, regalandole quella sua arruffata tenerezza nei momenti più inaspettati.  E quindi sì, lei voleva tornare a casa, si era stufata di giocare il ruolo della ragazza carina e disinvolta, del college, di tutti quei ragazzi stranieri che non avrebbe rivisto mai più.

 

Alberto, invece, aveva riposto il telefono con un misto d'angoscia e di speranza. Perché non si era spiegato, con Camilla, le aveva fatto capire che quel bacio era stato un incidente, o qualcosa del genere, e non era vero, nient'affatto, però lei era ancora lì, a sorridergli a chilometri di distanza, a chiedergli la forza che non aveva e a dargliene a sua volta, incondizionatamente.

E sarebbe tornata, grazie al cielo, cinque giorni dopo, con i suoi racconti di metropolitane, di negozi di dischi in cui perdere la cognizione del tempo, di quegli intrugli di caffè freddo bevuti in bicchieri enormi, che lui schifava ma che lei definiva, ostinatamente, fantastici. E non vedeva l'ora di ascoltarla raccontare, appollaiata sul bracciolo di una poltrona o seduta sul letto, non vedeva l'ora di guardare di nuovo quei suoi sorrisi così limpidi, di respirare un po' del suo candore, del suo entusiasmo, della sua luce.  

Però lui con Virginia, adesso, doveva parlare davvero, perché doveva mettere fine a quella storia, al rancore che lei provava per lui, alle sue bugie, ai suoi silenzi, al suo trattarla con indifferenza per poi fare marcia indietro e concederle una tenerezza raffazzonata, che a lei non bastava, non bastava a nessuno dei due.

Però Virginia, ancora una volta, l'aveva battuto sul tempo, e poco dopo gli aveva telefonato, chiedendogli con voce neutra di vedersi. E allora lui non ce l'aveva fatta ad essere corretto, ad essere giusto, almeno quella volta, e le aveva detto tutto quel che pensava per telefono, con il tono più secco e distaccato del mondo, come se lei fosse soltanto un peso, un peso di cui liberarsi.

"Io non ce la faccio, Virginia. Non è colpa tua, ma io non la sopporto più, questa storia. È stato maledettamente sbagliato, metterci insieme, perché io lo sapevo benissimo, che nei tuoi confronti non provavo granché.", aveva detto con voce piatta, e Virginia, allora, era esplosa, con un tono petulante, forse rotto da un accenno di pianto non certo disperato, ma che comunque tradiva l'insofferenza e l'amarezza che aveva accumulato in quei mesi.

"E dirmelo prima, no, non potevi? Io non ti amavo, non come nelle canzoni che suoni, almeno, però... però  volevo stare insieme a te in maniera normale, e tu in questi mesi sei stato orribile, nei giorni in cui non mi calcolavi, quando facevi marcia indietro, quando provavi ad aggiustare tutto con qualche bacio e in realtà incasinavi solo le cose."

"Lo so, Virginia, io..."

"E adesso mi lasci per telefono, non hai neppure il coraggio di guardarmi negli occhi, e... e cosa direbbe la tua Camilla, con tutti quei suoi cavolo di sogni e di libri, se sapesse che mi hai lasciato per telefono, nella maniera meno delicata, meno corretta possibile? Vai al diavolo, tu, la tua Camilla che spero capisca con che razza di cretino ha a che fare, il tuo cellulare, la tua chitarra, il tuo John Lennon che tanto suonerà sempre sempre meglio di te....", e gli aveva sbattuto il telefono in faccia, prima che lui potesse rendersene conto.

Lei non la conosceva, la sua Camilla. Non aveva nemmeno il diritto di pronunciare il suo nome con quella stizza, quella rabbia, quel disgusto, però... però in fondo aveva ragione, perché se Camilla avesse saputo del suo comportamento così idiota, sarebbe inorridita. Perché lasciare una ragazza per telefono era da meschini, da codardi, semplicemente da idioti. Avrebbe dovuto acconsentire alla sua proposta di vedersi e poi parlarle lì, con calma, in maniera civile e garbata, scusandosi, anche, per i mesi difficili che le aveva fatto passare. E invece no, lui aveva reagito d'impulso ed era sbottato, gettandole addosso un fiume di parole piuttosto velenose, anche se non l'aveva accusata di niente, almeno questo. Cos'avrebbe pensato di lui Camilla, adesso? L'avrebbe insultato, gli avrebbe dato dell'idiota e avrebbe sorriso, fugacemente, però avrebbe deluso persino lei, che aborriva questo genere di comportamento.

I giorni che aveva trascorso attendendo il ritorno di Camilla, per lui, erano stati a dir poco orribili. Aveva rimuginato di continuo sul da farsi, su come spiegarle che la faccenda del bacio non era stata un incidente, anzi, e non sapeva bene se confessarle il modo in cui aveva chiuso la storia con Virginia. Aveva provato a chiamare quest'ultima un paio di volte, ma lei puntualmente non gli aveva risposto. E come darle torto, d'altronde, se lui se lui non era stato capace nemmeno di mettere fine alla loro storia in maniera corretta.

 

E poi Camilla era tornata, e la sera, quando erano usciti tutti insieme, Alberto l'aveva guardata incantato per un po', prima di riuscire a gettarle le braccia al collo e baciarle una guancia. Perché era meravigliosa, Camilla, con quel vestitino blu con le farfalle e gli stivali leggeri, i capelli che piovevano in ogni direzione e quel suo solito sguardo luminoso e un po' incerto, che come sempre riuscì ad intenerirlo a dismisura. Le aveva messo un braccio intorno alle spalle,  per poi accorgersi che, cavolo, il contatto fisico con lei non era più soltanto un gesto giocoso, ma il solo sfiorarla gli procurava un brivido incontrollabile.  

"Come stai? Sei sopravvissuto a tre settimane senza il tuo grillo parlante personale?", gli aveva chiesto, gli occhi scintillanti d'ironia.

"È ancora vivo, hai visto? Ed è persino riuscito a lasciare Virginia, in queste tre settimane!", aveva detto Stefano, con tono leggero.

Ma non era uno psicologo, il suo migliore amico? Non era una persona piena di tatto e di delicatezza? E allora perché diavolo faceva quell'uscita così infelice, perché cavolo non poteva starsene zitto, zitto e basta?

 Camilla lo aveva guardato con occhi disorientati e incerti, nient'affatto sicura su cosa dire.

"Oh... davvero?", si limitò a chiedergli, perché le pareva la cosa più innocua e blanda da dire, ma in fondo, pur sapendo che era profondamente sbagliato, si sentiva profondamente sollevata.

"Sì. Era meglio così, alla fine stare insieme non aveva senso.", rispose, seccamente, lui. Forse a lei, solo a lei, avrebbe potuto dare una spiegazione migliore, ma davanti a tutti non se la sentiva di raccontare, di chiarire, di ammettere i suoi sbagli e le sue colpe.

"E lei? L'ha presa molto male?", insisté Camilla, con voce neutra che però tradiva una certa esitazione.

"No. Ha capito, credo.", liquidò tutto Alberto, incenerendo Stefano con lo sguardo e accelerando il passo, senza però togliere il braccio dalle spalle dell'amica.

Quella sera gli altri non poterono fare a meno di notare il modo in cui Alberto e Camilla si cercarono in ogni modo. Non riuscivano a non guardarsi di sottecchi ogni venti secondi, e Alberto, praticamente, si era incollato alla ragazza per tutta la serata, senza staccare quasi mai il proprio braccio dalle spalle di Camilla. La cosa ancora più strana, avrebbe detto Greta a Maya al telefono, era che Cami, che normalmente lo mandava al diavolo ogni cinque secondi e se lo sarebbe scrollato di dosso, quella sera se n'era stata insolitamente buona, lasciandolo fare, e persino quando lui le aveva tirato i capelli più del solito lei aveva sorriso, con l'aria vagamente stordita, e non l'aveva preso a male parole, cosa che di solito accadeva.

"Maya, non l'ha mai insultato, ti rendi conto?",, avrebbe esclamato Greta concitata.

"Dici che è arrabbiata per qualcosa?", avrebbe chiesto Maya.

"No, idiota, no! Si vede proprio che sei cresciuta in un paese arretrato, con una mentalità ristretta... non per offenderti, Maya, davvero, tu sei fantastica, ma non hai capito niente. Quei due sono innamorati, innamoratissimi, love is in the air, ok?"

 

***

 

Era passato un mese, e non era cambiato niente. Alberto e Camilla erano tornati ad essere inseparabili, a battibeccare come bambini e a fare la pace venti secondi dopo, a scambiarsi canzoni e sorrisi, eppure c'era qualcosa di diverso, fra loro. Forse, nonostante tutto, erano entrambi più gentili e cauti del solito l'uno con l'altra, ed erano entrambi estremamente attenti a non menzionare Virginia e il loro bacio. Eppure nessuno dei due riusciva a dimenticarlo, quello stramaledetto bacio: entrambi ci pensavano, un po' cullandosi con il ricordo di quel loro momento di tenerezza così magico, un po' chiedendosi come avrebbero fatto a scordarsene, a voltare pagina.

Era stato Stefano, ancora una volta, ad intuire i pensieri aggrovigliati che si celavano nella testa di Alberto. Era successo uno dei primi giorni di Settembre, un pomeriggio in cui erano usciti tutti insieme per un giro in centro. Al momento di rincasare, Camilla si era avviata con il sacchetto della Feltrinelli stretto al petto e Alberto era restato lì, a guardarla, un po' idiota un po' semplicemente abbagliato. Stefano, dello sguardo da triglia del suo migliore amico, si era accorto benissimo, perciò l'aveva afferrato per un braccio, l'aveva guardato con molta intensità e gli aveva detto, con tono perentorio:

"Allora, quand'è che ti decidi?"

"A fare che cosa?"

"Non fare il cretino, lo sai benissimo. A dire a Cami quello che provi, ecco."

"Mai, Cristo santo, mai!", aveva esclamato con veemenza, lasciando Stefano sbigottito.

"E perché?"

"Perché è sbagliato, è innaturale, noi siamo migliori amici, nient'altro. E poi lei si merita un ragazzo con la testa a posto, uno in ordine, che la aiuti in matematica e in tutto il resto."

"Oddio. Ma ti rendi conto dell'insieme di cavolate che hai appena detto? L'unica cosa sensata dell'ultima frase, ecco, è che non hai la testa a posto, su questo ti do ragione."

"Ma..."

"Camilla non ha bisogno di uno che le dia ripetizioni di Matematica, per quello ci siamo io  e Fabio. E neanche di uno con la testa a posto, perché, se è te che vuole, io non posso certo impedirglielo, anche se credimi, a volte sono tentato di metterla in guardia."

^"Ma cosa devo fare? Mica posso mettermi in ginocchio, o suonarle qualcosa di struggente, e darle un anello..."

"Quelle sono proposte di matrimonio, Berto, non dichiarazioni d'amore. Ma non so, invitala da qualche parte, offrile la cena, fate qualcosa di romantico, e poi... e poi dille che lei ti piace, non solo come amica, che quel bacio ha significato molto, per te, e poi vedi che capita."

"Ehi... E se venissi con me?", chiese Alberto con aria speranzosa, "Voglio dire, sarebbe tutto più semplice, mi suggeriresti quello che devo dire, potresti aiutarmi con la scelta del posto in cui portarla e tutto il resto,  e poi se ci sei tu è tutto più rassicurante."

"Ma chi, io? Io dovrei venire con te ad un appuntamento galante e fare da terzo incomodo?"

"Ma tu non saresti mai un terzo incomodo, Cami ti vuole troppo bene, sono sicuro che farebbe piacere anche a lei!"

"Ma a te sembra il caso, sinceramente, di portare un tuo amico ad una cena romantica?"

"E perché no?"

"Perché tu stai per dichiararti, e confessare ad una ragazza che sei innamorato di lei è una cosa, come dire, intima."

"Ma tu sei di famiglia!"

"Berto, io non vengo, punto."

"Almeno mi aiuti a provare quel che devo dirle? Non so, tipo un copione, in cui tu fai la parte di Cami e io  provo a confessarti che ti amo."

"Ma per favore... Berto, seriamente, andrà tutto benissimo. Lei ti adora, davvero,  e tu, al di là delle tue tare mentali, sei l'unica persona che riuscirà mai a renderla felice, almeno per ora. Non ti garantisco sarà l'amore della tua vita, però adesso lei per te è troppo importante, e non puoi certo tenerti dentro quel che provi per lei in eterno."

"Oh, mi sento così cretino, sai? Non dirmi che lo sono, non dirmelo, ma mi sento così sbagliato, perché io non sono in grado di fare la cosa giusta al momento giusto. E  Cami lo pensa, che sono stupido, anche se mi vuole bene, e non potrei mai affascinarla, proprio perché pensa che sono stupido."

"La chiarezza espositiva del tuo pensiero, Berto, è una cosa sconvolgente."

"Chiarezza espositiva? Io non ho neanche chiare le idee, mica pretenderai che le esponga in modo logico e ordinato."

"Come vuoi, Berto, come vuoi. Ti assicuro che sarà tutto naturale, a un certo punto, comunque, perché fra voi due è sempre stato tutto spontaneo, e non può essere altrimenti."

 

"E se non fosse tutto spontaneo? Se, una volta fidanzati, fossimo talmente imbarazzati, talmente poco noi stessi, talmente... non so, metti che io per stupirla, o per affascinarla, la smetto di dire cavolate, poi cosa succede?"

"Beh, vorrà dire che inizierai a dire cose vagamente intelligenti e il mondo sarà un posto migliore! Ma comunque, seriamente parlando, voi due non potete non essere spontanei, vedrai."

"Se lo dici tu..."

 

   

***

  

Era stato un errore, Camilla l'aveva capito subito, spiattellare alle sue tre migliori amiche che Alberto l'aveva invitata ad uscire, solo loro due, quella sera. Amelia, stranamente, era la più innocua di loro, perché se ne stava sul letto imbronciata, a blaterare sul fatto che, ora, anche Camilla avrebbe sacrificato la sua indipendenza e il suo status di donna emancipata per un ragazzo, ma per il resto era inoffensiva. Ad essere preoccupanti, più che altro, erano Maya e Greta.

"Veniamo da te prima che tu esca, perché dobbiamo sistemarti!", aveva trillato Greta per messaggio vocale quella mattina, e allora a Camilla non era restato altro da fare che chiamare Amelia, perché, nonostante non fosse esattamente la migliore delle psicologhe e la più incoraggiante delle amiche, almeno era in grado di offrirle sostegno morale per affrontare Maya e Greta in veste di parrucchiere e truccatrici provette.

"Ma non posso andare in jeans? Voglio dire, magari non è niente, deve solo dirmi qualcosa, e se mi metto tutta in ghingheri sembrerò un'idiota."

"Cami, mi hai fatto leggere il messaggio, e ti assicuro che quello era un invito a uscire serio, un appuntamento galante o qualcosa del genere.", aveva borbottato Amelia dal letto.

"Cosacosacosa? A lei hai fatto leggere l'sms e a noi no?", si era infuriata Greta, e allora le ragazze si erano messe a setacciare la sua stanza alla ricerca dell'Iphone di Camilla, per poi leggere l'sms e commentare fra loro, senza badare affatto alla diretta interessata.

"Comunque tu in jeans, stasera, non ci vai.",  sentenziò Maya, e con l'accento arabo, le sue parole suonavano ancor più minacciose e perentorie.

Prima che potesse anche solo obiettare, ecco che Maya e Greta avevano spalancato le ante del suo armadio e si erano messe a rovistare, ad approvare e a buttare abiti sul letto sommergendo la povera Amelia, pche, piuttosto contrariata, cercava di sfuggire all'ammasso di tessuto che la stava inesorabilmente ricoprendo.

"Ma possibile che tu abbia tutti questi abiti da scolaretta?  Non pretendo dei miniabiti, cielo, ma un po' più di trasgressione! Sembri la figlia di un proprietario terriero del Kentucy, una brava ragazzina di campagna  con abitini inamidati e castigati!", esclamò Greta.

 

"Ma a me piacciono.."

"non me ne frega niente, sono da scolaretta. Come credi di conquistare un uomo con dei vestiti così?"

"Greta, chiunque dovesse essere attratto da Cami, lo sarà per la sua intelligenza, il suo carattere, la sua personalità, non certo per la sua bellezza! Perché lei è una donna vera, e di queste cose non si cura, e non sarai certo tu, con le tue frivolezze, a farle cambiare idea!", strillò Amelia, forse contrariata dal fatto che le era appena piombata una ballerina celeste di vernice in faccia. Camilla la guardò, grata: sapeva che l'affermazione dell'amica era, come dire, un tantino estrema, però non poteva non esserle riconoscente, perché la stava salvando dalla furia di Greta e di Maya. Quest'ultima, benché più silenziosa e meno insopportabile, frugava fra i vestiti dell'amica con fare scientifico. Non era certo ossessionata dagli abiti come poteva esserlo Greta, però al vestirsi con cura ci teneva davvero.

"Per anni mi hanno obbligata a portare il velo, mentre voi occidentali potevate vestirvi come volevate. Quindi d'ora in poi mi vestirò meglio che posso, anche solo per andare a fare la spesa.", era solita dire. Lei ci teneva davvero, al fatto che una delle sue migliori amiche si vestisse in modo adeguato per il primo appuntamento della sua vita.

"Devi essere bellissima, stasera.", disse a Camilla con un sorriso, e a quel punto la biondina, suo malgrado, si addolcì, e si  lasciò perlomeno raccogliere i capelli in una treccia piuttosto elaborata.

"Tadan, questo vestito, sebbene troppo da Country Girl, va bene.", esordì Greta, e Camilla sussultò. Era un vestito azzurro, molto fluttuante e molto poco scollato, che a lei piaceva davvero tanto. Solo che non era certo all'altezza di indossare un abito simile, lei che si sporcava con un niente e non aveva certo la grazia di Greta.

"Ma io non posso metterlo, stasera... se poi non è un appuntamento, davvero, che figura faccio?"

"Beh, se non ti bacia entro stasera andrò io sotto la porta di casa sua e lo minaccerò di morte.", fu il lapidario commento di Greta.

"Sei meravigliosa!", commentò Maya qualche minuto dopo. L'avevano vestita, pettinata e, con suo sommo orrore, truccata, e ora Maya e Greta le stavano girando attorno, contemplando il loro operato.

"Sì... sei un po' troppo angelica, un po' troppo poco sensuale  e un po' troppo educanda inglese, ma puoi andare.", fu invece l'osservazione di Greta.

"Prima ero una contadinella del Kentucy  e poi un'educanda inglese.... cosa ne sarà di me fra cinque minuti?"

"Guardati allo specchio   e stai zitta."

 

Camilla si mosse verso la specchiera, esitante, e quello che vide la lasciò a bocca aperta perché, semplicemente, non era lei. Il vestito le piaceva da morire, la pettinatura più o meno, ma il trucco non le si addiceva. Certo, probabilmente era più bella davvero, con il rimmel ad allungarle le ciglia e qualcos'altro a farle uno sguardo più da donna, però lei non ci si ritrovava.

Fu Amelia ad accorgersi dello sguardo dubbioso  e incerto dell'amica, e forse dovette intuire il suo disagio, perché, senza mezzi termini, la prese per un braccio, disse alle altre di aspettarle e la portò fuori, in corridoio, dirigendosi verso la cucina.

"Che c'è? Tutte quelle cose sul sacrificare la tua indipendenza per un ragazzo, Cami, le dicevo per scherzare. E sei meravigliosa sul serio, stasera, anche se..."

"Il trucco, Melia, io non lo voglio. Perché non sono io, anche se forse sono più carina, ma io non mi ci ritrovo, con quella roba sulla faccia. Il vestito  e i capelli possono andare, però io non mi sento a mio agio, così in ghingheri. E poi...", ma non riuscì a continuare, perché un singhiozzo le salì alla gola inaspettatamente.

"Che c'è adesso? Perché piangi? Il trucco te lo sciacquo io, se vuoi, ma non è il caso di piangere per questo..."

"No, è che ho così paura, non ho mai avuto un ragazzo, non so neanche da che parte cominciare. E sono così goffa, così incapace di vestirmi per bene e di sentirmi bella sul serio. Ma non sarò mai all'altezza di Berto, lo capisci? Lo deluderei, perché sono così imbranata, perché di ragazze lui ne ha avute un po' e io, se escludiamo il nostro bacio in aeroporto, sono un disastro completo, in materia."

"Ehi... non starai mica piangendo per questo, vero?  È una stronzata immane, Cami, prima di tutto perché le tue sono preoccupazioni piuttosto idiote, e poi... e poi Berto lo sa benissimo, che non hai mai avuto un ragazzo prima, e se ti ha chiesto di uscire l'avrà messo in conto, che non sei certo una donna fatale o cagate varie. Credimi, per quanto Maya e Greta reputino fondamentale che tu sia spettacolare, stasera, il modo in cui ti vesti, in cui ti trucchi, in cui ti pettini, non ha nessunissima importanza, in primis perché Berto ti ha vista tutti i giorni a scuola e sa almeno quanto me che disastro sei quando ti dimentichi di spazzolarti i capelli,  e poi perché alla fine quello che conta davvero è che tu sia brillante, intelligente, gentile  e tutto il resto, e tu sei tutte queste cose, se non ti metti a strillare istericamente."

"Ma sono così in imbarazzo, perché un conto è essere la sua migliore amica, un altro diventare la sua ragazza."

"Non cambierà poi molto, Cami, davvero. Potrai sempre mandarlo al diavolo ogni cinque secondi, insultarlo fino alla nausea e tutte quelle cose lì che fate sempre. In più dovrai tenerlo per mano, anche se a pensarci bene già lo fai. E poi, beh, quello che farete in privato saranno affari vostri, volendo puoi limitarti anche ad una relazione platonica."

"Va bene, va bene, ho capito. Ora mi aiuti a togliermi questa roba dalla faccia?"

"Sì, certo, anche se non ho delle pasticche struccanti, e col cavolo che salgo a chiedere a quelle due cospiratrici di darmene."

"Sono salviettine struccanti, non pasticche. Ti immagini, delle pillole che tolgono l'ombretto e il mascara appena le ingoi?"

"Oh, sarebbero utili, e ora taci che sto facendo un'operazione meticolosa, a toglierti 'sta roba dalle ciglia."

"Melia?"

"Ti avevo detto di stare zitta..."

"Grazie, grazie davvero. Solo tu puoi aiutarmi a struccarmi prima di un appuntamento, sei fantastica. E anche per le cose che mi hai detto... non è che mi siano passati i complessi, però, anche se nessuno lo comprende per davvero, come migliore amica sei straordinaria."

"Basta smancerie, mi nauseano... ma andrà benissimo, in ogni caso, perché tu sei tu, sei magnifica, come persona, anche se certe volte sei troppo angelica per poter essere sopportabile, ma poi sento come tratti Berto e mi ravvedo."

"Grazie, e scusa per il pianto di prima. È che sono un po' frastornata, e da quando Alberto si è messo con Virginia e ho cominciato ad ingelosirmi non ho capito più nulla."

"Però grazie al cielo di Virginia si è stufato, cominciavo a non sopportarla più. Almeno se Berto si mette con te sappiamo già con che razza di persona abbiamo a che fare, no?"

"Se la metti in questi termini..", ma Camilla non riuscì a finire la frase, perché si senntì il campanello trillare, e subito dopo si udì il tramestio di passi affrettati, segno che Maya e Greta le stavano raggiungendo.

Fu Amelia ad andare ad aprire ad Alberto, mentre Camilla se ne restò lì, a tamponarsi il viso bagnato con un canovaccio, cercando di ignorare le occhiate  truci delle amiche, arrabbiate perché non sfoggiava più il loro strepitoso make up.

Berto indugiò un istante sulla soglia, stupito nel vederle tutte quante lì, che lo fissavano come se dovesse fare chissà che cosa.

"Non ti preoccupare, non devi portarci tutte e quattro a cena.", trillò Greta in tono gaio.

"Ma abbiamo pensato che Cami non sarebbe mai riuscita a prepararsi senza di noi, e quindi eccoci qui. Guardala bene, non è meravigliosa? Troppo simile a Belle della Bella  e la Bestia, con quell'aria così sognante, per i miei gusti, però...", aggiunse poi.

Sia Alberto sia Camilla, in quel momento, desideravano sprofondare, e persino Alberto, che di norma aveva una faccia di bronzo assolutamente invidiabile, era in imbarazzo, perché gli occhi delle tre migliori amiche di Camilla, soprattutto quelli di Amelia e di Greta, sembravano volerlo mettere a ferro e fuoco. 

"Beh, allora, cosa aspettate? Andate, baciatevi, ditevi qualcosa!", esclamò Greta.

"Anzi, sai una cosa?  Magari usciamo anche noi con voi, giusto per fare a Cami da damigelle! Non si è mai visto che una signora per bene esca senza dame di compagnia!", aggiunse poi.

"Andiamo?", tagliò corto Cami, appendendosi letteralmente al braccio del ragazzo.

"Sì, meglio. Bye bye, ragazze, è stato bello incontrarvi."

E così uscirono, e a Camilla sarebbe sempre restata impressa l'immagine delle sue migliori amiche che, sedute al tavolo, le sorridevano sincere, facendole cenni d'incoraggiamento e d'approvazione. Amelia, che di solito non era il tipo, aveva addirittura mimato un "buona fortuna", con le labbra, e alla ragazza si era allargato il cuore, perché per quanto squilibrate, disagiate, ingombranti e sfiancanti potessero essere, loro erano le sue migliori amiche ed erano assolutamente straordinarie.

 

"Sei assolutamente incantevole, con quel vestito.", e Camilla, a quel complimento, arrossì furiosamente suo malgrado. Non era mai stato da lei e Berto, farsi complimenti e arrossire, assolutamente no. Perché loro erano cretini, e mica potevano sentirsi in imbarazzo, o essere gentili, non era nell'ordine naturale delle cose.

Anche Alberto, di fronte alla ragazza che abbassava gli occhi, si era sentito un idiota. Camilla era magnifica davvero, con i capelli stranamente pettinati e gli occhi scintillanti, il sorriso morbido e, in generale, l'aria più tenera dell'universo. Quello che adorava di CAmilla, alla fine, era proprio la sua tenerezza, la sua fragilità, il fatto che non riuscisse, o non provasse nemmeno, a risultare attraente, perché non riusciva certo ad atteggiarsi in maniera studiata, eppure era adorabile lo stesso, anche se adesso, per la prima volta in tutti quegli anni, fra loro c'era disagio.

"Dove vuoi andare?", le chiese il ragazzo.

"Mah,  a mangiare qualcosa, dove vuoi tu."

"Non saprei, non avevo previsto niente, i miei piani e le mie elucubrazioni si fermavano al momento di venirti a prendere a casa, perché già sopravvivere  a quello era un'impresa disperata."

Camilla rise nervosamente, intuendo che avrebbe dovuto fare una battuta, però era troppo agitata e sentiva la bocca dello stomaco semplicemente troppo serrata.

 

"Proposta innocente: perché non ce ne andiamo a prendere due focacce adorabili, non le mangiamo da qualche parte, per poi prenderci un simpatico cono? Così, se almeno ti sporchi, le cose inizieranno ad andare come al solito."

"Ottima idea, approvo il piano.", sorrise lei.

"Prima però... una libreria no, eh? Lo so che tecnicamente mi hai invitata a cena, ma io non posso non comprare libri, quando vado in centro."

L'atmosfera, tutt'un tratto, si distese. Alberto acconsentì con un sorriso alla proposta dell'amica, sperando che la capatina in libreria avrebbe dissipato quel po' di tensione che c'era fra loro. A quel punto Alberto le afferrò la mano e lei, per una volta, lo lasciò fare, caracollando verso la Feltrinelli.

 

"Voglio regalartelo io, questo.", le disse Alberto una decina di minuti dopo. Aveva guardato Camilla aggirarsi per gli scaffali con un sorriso esitante, mentre soppesava libri su libri per poi lasciarli ricadere, affranta perché non aveva abbastanza soldi con sé e non riusciva a scegliere. Infine doveva aver trovato un romanzo che la convincesse, perché si era diretta verso la cassa con passo  spedito. Alberto l'aveva affiancata e le aveva preso il libro di mano. Voleva regalarglielo lui, sia perché, dopotutto, quello era l'unico gesto per esprimere davvero ciò che provava per lei, sia perché, a ben guardare, quella sarebbe stata la prima volta che si avvicinava alla cassa di una libreria per pagare qualcosa di diverso da un testo scolastico.

"Ma no, dai, non mi sembra il caso...", ma Alberto le aveva già sfilato il romanzo - un tomo, per giunta - di mano, e si stava dirigendo verso la cassa, e Camilla non poté far altro che seguirlo con lo sguardo.

La libraia alla quale si rivolse Alberto doveva avere pochi anni più di loro, e, se non fosse stato per i capelli neri e corti, sarebbe potuta tranquillamente essere una versione più vecchia di Camilla: stessi occhi azzurri  e luminosi, stessa aria sognante, stesso sorriso gentile. Forse era la vicinanza con i libri che rendeva le donne così angeliche ed eteree, pensò Alberto intanto che la ragazza gli stampava lo scontrino. Lei aveva visto Camilla aggirarsi con aria pensosa fra gli scaffali, e a ben pensarci non era la prima volta che scorgeva quella ragazzina esile studiare con attenzione libri su libri, quasi come se dalla scelta del romanzo che avrebbe letto dipendesse la sua stessa esistenza. E quel ragazzo spettinato e dal sorriso un po' esitante era stato maledettamente tenero a pagarle il libro.

"No, è che sa... io non ho mica tanta dimestichezza, con le librerie, e ci vengo solo per fare compagnia a Camilla, di solito.", disse lui, quasi come se le avesse letto nel pensiero. L'aveva fissata negli occhi con aria fra il solenne e il disperato, come se stesse confessando chissà quale crimine, facendo sorridere la libraia, se possibile, in modo ancora più ampio.

"Migliori amici?", chiese lei, anche se di solito la professionalità le impediva di essere troppo ficcanaso.

"Sì... beh, per me no, anche qualcosa di più, mentre per lei... lo scoprirò stasera, se non mi viene un infarto prima."

"Oh, buona fortuna.", mormorò la libraia con occhi sfavillanti, per poi guardarlo mentre si voltava  e tornava dalla ragazzina bionda, che lo squadrava un po' dubbiosa.

"Ecco fatto. Ci ho messo unn po', è che..."

"Lo so, lo so, quella libraia è tremendamente carina."

"Ma no, che dici? Mi ha solo chiesto... se dovessi leggere quel libro per scuola, e mi ha detto... che questo libro è meraviglioso, sì, ecco cosa mi ha detto.", farfugliò incoerentemente il ragazzo.

"Va bene, va bene. Però sembra davvero fantastico, il libro."

Alberto, contento di poter cambiare argomento, studiò la copertina del romanzo con interesse.

"Come si chiama? Oh, "una ragazza disobbediente". E di che parla?"

"Credo siano due storie che si intrecciano, e il tutto è ambientato in Sri Lanka."

"Perdonami, ma faccio fatica a collocarlo su una carta geografica, lo Sri Lanka...."

"Vicino all'India."

"Ma quello non era il Bangladesh?"

"Anche, ma sai... l'India confina con un sacco di posti, e poi lo Sri Lanka è un'isola."

"Oh, fantastico! E vediamo, come si chiamano le protagoniste del libro... oh, ecco, Latha. Ma che razza di nome improponibile è, Latha?", esclamò il ragazzo sfogliando le prime pagine del libro alla ricerca dei nomi dei personaggi.

"Un nome cingalese, presumo."

"E, oddio... Tara! Secondo me avrà qualche turba mentale, questa tipa, perché una che si chiama Tara non può non avercela, una qualche tara, capisci?"

"Dubito che l'autrice, che ti ripeto, viene dallo Sri Lanka, conosca il significato della parola tara, in italiano."

 "Sì, ma secondo me qualche tara, Tara, l'avrà davvero.", e Camilla, nel ripensare a quel discorso pochi giorni dopo, una volta finito il libro, non avrebbe potuto fare a meno di costatare che sì, Alberto effettivamente aveva ragione.

 

Il parco, quella sera, era deserto. Avevano scelto un parco giochi del centro, perché i giardini pubblici sarebbero stati troppo affollati, dato che la serata si preannunciava limpida e tiepida. Il cielo era di un azzurro intenso, e l'atmosfera era quella malinconica e romantica di fine estate. Camilla non poté fare a meno di pensare all'ultima volta che erano usciti insieme, loro due, qualche sera prima che lei partisse per l'Inghilterra. Avevano fatto così tanti discorsi dementi, quella volta, eppure lo spettro di Virginia aleggiava fra loro, rovinando, in qualche modo, la loro complicità, la loro intesa. E adesso Virginia non faceva più parte delle loro vite,  e restavano loro due, su quella panchina,  a sorridersi, un po' a disagio per la situazione in cui si trovavano, ma sarebbe passata, prima o poi.

Solo che Alberto non poteva più tergiversare, adesso, anche se probabilmente dichiarare il proprio amore a una ragazza con una focaccia unta e colante olio in mano non era una buona idea. Camilla, a fianco a lui, scrutava la propria focaccia con estremo interesse, quasi l'avere qualcosa da guardare fosse rassicurante.

"Perché non mangi?", le chiese il ragazzo, titubante.

"Potrei chiederti la stessa cosa. Stai stringendo quella focaccia come se, tipo, volessi strozzarla. Ma non si può."

"Oh, beh, allora...", e Alberto iniziò ad azzannarla, letteralmente, quella focaccia, disseminando una quantità di briciole a dir poco improponibile.

"Preparati, fra poco un'orda di piccioni famelici ci assalirà entrambi, visto lo scempio che stai facendo..."

"Sì, però i piccioni si dirigeranno sicuramente verso di te, che manco l'hai toccata, la focaccia.", e a quel punto anche Camilla iniziòo  a mangiare, anche se con meno foga. Non era tipo da giocare col cibo, lei, nient'affatto, però in quel momento non riusciva quasi a mangiare, e continuava a rigirare la focaccia fra le mani.

"Non hai portato la chitarra, oggi."

"Uhm, no, non mi andava.", mormorò Alberto. Non poteva spiegarle che, per una volta, non aveva intenzione di nascondersi dietro agli accordi, alle canzoni, alla musica, perché quella sera, per una volta, il rock non aveva spazio nella sua vita. C'era solo Camilla, quella sera,  con il vestito azzurro, l'aria un po' incerta e quella luce negli occhi così speciale che aveva solo lei. John Lennon, Eric Clapton, Bob Dylan e gli altri non dovevano esserci, quella sera, anche se, a ben guardare, aveva trascorso tutto il pomriggio cercando di imparare "love is a rose", di Neil Young, che, tra parentesi, non poteva certo dedicare a Camilla, perché nessun ragazzo sul punto di dichiararsi avrebbe potuto suonare alla propria innamorata una canzone che iniziava con una frase tipo "l'amore è una rosa che farai meglio a non raccogliere", no. Ma questo, a Camilla, non poteva dirlo, come non poteva riferirle di tutte le sue inquietudini pazzesche, i suoi timori da tardo adolescente troppo innamorato, né tantomeno farle una lista delle canzoni che non poteva dedicarle. Al contrario, doveva spicciarsi a dire qualcosa di coerente, potenzialmente intelligente e dalla notevole chiarezza espositiva, come avrebbe detto Stefano. Perché non era venuto con llui, poi, Stefano, doveva ancora capirlo.

"Cami..."

 Ecco. Era tutto quel che sapeva dirle, Cami. Ma doveva dirle per forza qualcosa, non poteva permettersi a baciarla di nuovo di sorpresa,  come all'aeroporto. Già, il bacio dell'aeroporto, poteva cominciare da quello, per il suo discorso...

"Io  non volevo davvero baciarti così, all'aeroporto.", iniziò, e si rese conto, d'improvviso, che quelle parole erano sbagliate, sbagliatissime.

"No, aspetta... non dirmi che va tutto bene, perché non va tutto bene, nient'affatto. Non è tutto a posto, non è tutto come prima. Io, quel giorno, quando ti ho baciata...  avevi appena finito di dire che un ragazzo, tu, non l'avresti mai trovato, perché eri troppo timida, troppo diversa, troppo fra le nuvole. E io quando ti ho baciata ero disperato, perché partivi e perché non ce l'avrei fatta, da solo, a Torino senza dite, ma volevo anche farti capire, in qualche modo, che tu potevi essere abbastanza per chiunque, che nessuno doveva provare anche solo a pensare il contrario. E allora ti ho baciata, ed è stato maledettamente meraviglioso, ma poi tu sei corsa via e non ho saputo cosa pensare, e poi ho capito che, forse, la cosa migliore da fare era andate avanti come se nulla fosse successo. E così ho fatto, però.... però io non ci riesco neanche un po', perché mi passi accanto e penso che sei il mio grillo parlante, come dici sempre tu, ma sei anche l'unica ragazza che ama la musica e John Lennon quasi quanto me, ma questo non c'entra, insomma.... sto cercando di dirti che, Cristo santo, tu sei l'unica ragazza che vorrei sempre vicino, perché hai un modo di sorridere tutto tuo, perché riesci sempre ad esserci, anche se sono la persona più orribile dell'universo. Tu sei la mia little girl, la mia Yoko Ono - non ti offendere, Cristo, ma non mi viene altro paragone. Il succo del discorso, ecco, è che credo di essermi innamorato di te, e io ti ribacerei anche, di nuovo, sempre che tu lo voglia."

Solo  a quel punto il ragazzo guardò veramente Camilla. Prima, si rese conto, aveva tenuto gli occhi ostinatamente fissi sul suo grembo dove si trovava l'ultimo quarto di focaccia che gli era restato. Camilla aveva ascoltato il discorso di Alberto con il cuore in gola e le orecchie che le fischiavano. None ra riuscita ad interromperlo per dirgli di fermarsi, che aveva capito, che andava bene così e che certo, poteva ribaciarla, anche se lei non era certa di saper contraccambiare in maniera normale, sia per la sua poca esperienza sia, soprattutto, per il capogiro che la stava cogliendo. In quel momento era commossa, raggiante, intimidita, sorpresa, semplicemente incapace di proferire verbo. Alberto non sapeva come interpretare il silenzio della ragazza, che teneva gli occhi ostinatamente fissi in grembo e stava torcendosi febbrilmente la treccia, rovinando la pettinatura che Maya aveva messo tanto a farle.

Poi, finalmente, rialzò gli occhi anche lei. Quegli occhi verdazzurri che, la prima volta in cui Alberto si era degnato di parlare davvero con Camilla, aveva trovato veramente meravigliosi, così limpidi ed espressivi, sempre pronti a sgranarsi e ad illuminarsi per qualsiasi cosa. E ora in quegli occhi non sapeva che scorgere, se non tanto, tanto stupore. Poi però lei gli sorrise, anche se timidamente, e alla fine si decise a parlare.

"Oh, accidenti, io... non so cosa dirti, perché in queste cose sono una frana, però... però credo che sì, puoi baciarmi di nuovo, e giuro che non scappo, stavolta. E sì, credo di essermi innamorata anche io, di te, più o meno da quando è  entrata in scena Virginia e io mi sentivo così... così agitata, così confusa, così frastornata, e non era giusto che fossi gelosa e mi sentivo così in colpa, per quel che provavo, e ho tentato così tante volte di non pensarci, però era così difficile...", ma non riuscì a finire la frase, perché Alberto l'aveva attirata delicatamente verso di sé e l'aveva baciata, di nuovo, anche se con meno disperazione dell'aeroporto. Perché adesso Virginia non c'era, e lei non aveva nessun motivo di sentirsi in colpa, e lui glielo voleva, glielo doveva far capire. E non c'era niente di più meraviglioso che stringersela addosso, sentire il suo respiro, avvertire la fragranza dei suoi capelli e guardarla dritto nei suoi occhi così chiari e immensi, nei quali, adesso sì, leggeva il suo stesso incanto per quella serata meravigliosa, per quella magia che si stava venendo a creare fra di loro.

 

 My love is the evening breeze touching your skin
The gentle sweet singing of leaves in the wind
The whisper that calls, after you in the night
And kisses your ear in the early light
You don't need to wonder, you're doing fine
And my love, the pleasure's mine
Let me go crazy on you


(Crazy on you, Heart)

 

"Ora capisco perché non potevo portarmi dietro Stefano, stasera...", mormorò Alberto diversi minuti dopo, quando si staccò da Camilla per finire la focaccia con la quale, stranamente, nessun piccione aveva ancora banchettato. A quella frase la placida tenerezza di Camilla si mutò in stupore, poi in rimprovero.

"In che senso, scusa?"

"Ecco, vedi... io  avevo chiesto a Stefano se potesse venire anche lui, stasera, per suggerirmi le cose che dovevo dirti."

"Senti,  ma si può sapere come fai a pensarle, certe cose? Voglio dire, a chi è che verrebbe in mente di portarsi il proprio migliore amico ad un appuntamento?"

"Ma infatiti, ora ho capito... se ci fosse stato Stefano io non avrei potuto baciarti in questo modo!"

 

"Diamine, che perspicacia. Fammi un favore, la prossima volta non dirmele, certe cose che ti passano per la testa. La considerazione che ho della tua intelligenza, che già di per sé è bassa, potrebbe risentirne."

"Però mi hai baciato."

"E allora?"

"Devi averlo fatto per qualche motivo."

"Mi sentivo inferiore rispetto alle mie compagne di classe, dato che tutte loro, a parte Melia,  vantano  esperienze di una vastità incredibile. E così ti ho baciato, per vedere com'era."

"E com'è?"

"Bagnato."

"Mi pareva di averla già sentita, questa frase..."

"Harry Potter e l'Ordine della Fenice. Harry ha appena baciato Cho e descrive a Ron ed Hermione quel che ha provato, e siccome quella smorfiosa cinese stava piangendo tutte le sue lacrime, era logico che il bacio non fosse esattamente asciutto."

"Oh, cavolo, e io che pensavo che, mettendoci insieme, avresti smesso di trattarmi come un idiota senza cervello."

"Oh, ma è quello che sei, mica posso fingere che tu abbia più neuroni di quelli che possiedi."

"Però stiamo insieme, ed è fantastico."

"Già, anche se non so come la prenderanno le nostre compagne di classe. Però non dobbiamo per forza dirglielo, possiamo sempre  fare in modo che si struggano per te e che mi chiedano consigli su come conquistarti, sarebbe divertente."

"Senti, ma chissenefrega delle nostre compagne di classe... non possiamo pensare a noi e basta, per una volta?"

"Oh, ottima idea. Per esempio, potresti offrirmi un gelato, sarebbe un gesto carino per un neo fidanzato, non trovi?"

 

"Ma potresti pure offrirmelo tu, visto che ti ho regalato il libro."

"Cielo, dov'è finita la galanteria?", chiese lei, ridendo e guardando in alto, quasi per evocare un cavaliere del passato che, prontamente, le avrebbe portato un cono gelato gigante.

"Beh, se la metti in questi termini io dovrei essere galante e cortese, certo, però tu saresti tenuta a comportarti in maniera molto rispettosa nei miei confronti, dato che sono il tuo signore."

"Touché. Hai ragione, devo ammettere, ma... ma andiamo a prenderci 'sto maledetto gelato."

Erano andati fino alla gelateria tenendosi per mano. Alberto a volte si fermava per provare a baciarla, e lei un po' lo lasciava fare un po' s'irritava, perché voleva quello stramaledetto cono, diamine, e la loro gelateria preferita, che per colmo di sfortuna era gestita da degli svizzeri che non avevano ancora capito che Torino non era Zurigo e che i negozi restavano aperti fino a sera inoltrata, stava per chiudere. E di baci lei ne aveva avuti fin troppi, quella sera, e c'era sempre tempo per riceverne altri, ma di occasioni per acquistare al volo un cono cioccolato e yogurt ne aveva solo una.

Arrivati al negozio, Alberto si era reso conto, terrorizzato, di non avere abbastanza soldi per pagare il gelato sia a lui sia a Camilla.


Alla fine, optò per essere galante ed ordinare il solito cono cioccolato e yogurt per la ragazza, decidendo di rinunciare alla propria dose quotidiana di stracciatella.

"Ma non prendi niente?", gli chiese interrogativa la ragazza.

"Nah. Devo fare in modo che non ti sporchi, questo vestito è troppo bello, e Greta potrebbe strozzarti."

"Sei sicuro? Riesco a macchiarmi in ogni caso, anche se mi imbocchi, e poi... se è per i soldi non è un problema, potrei sempre pagartelo io, il gelato. Le cose che dicevo prima sulla galanteria erano stupidaggini, ti assicuro."

"Ma no, va bene così, davvero. E poi se fosse stato per i soldi non avrei esitato a scippare una vecchietta, non credi?", le chiese lui. Camilla lasciò perdere, intuendo che, se avesse insistito, l'avrebbe messo fin troppo a disagio.

"E ora... ora sediamoci, e vediamo cosa posso fare perché tu non ti macchi."

Alla fine, Alberto tornò in gelateria chiedendo alla ragazza che stava dietro il banco di dargli una bracciata di tovaglioli. Quella, perplessa, glie ne mise in mano quanti più poteva, e lui tornò da Camilla, che reggeva ancora il cono intatto, anche se un po' gocciolante.

"Ora ti preparo un burqa di tovaglioli, guarda quanti me ne ha dati la signora! Le ho chiesto di darmene una bracciata, ma scherzavo..."

"Beh, ti ha interpretato alla lettera, evidentemente."

Alberto, con una tenerezza che Camilla non gli aveva mai visto e che le spezzò il cuore, iniziò a ricoprirle il grembo di tovaglioli, per poi depositargliene un po' ovunque credeva che il cono sarebbe potuto colare.

"Puoi anche evitare di farmi il turbante con i tovaglioli, capelli e orecchie dovrei riuscire a non sporcarli."

"Staresti bene, però, con una bandana di carta in testa, no?"

Camilla, però, si era cimentata nell'impresa di mangiare il gelato senza sporcarsi e senza far cadere i tovaglioli che Alberto le aveva poggiato praticamente su tutto il corpo. Il ragazzo la guardò, intenerito. Non riusciva a non macchiarsi, a non rimproverarlo, a non sorridergli con gli occhi pur provando a guardarlo male. E lui la adorava, ed era bello essere riuscito a dirle ciò che provava. Ed era meraviglioso stare con lei, averla accanto non solo come amica pronta a dispensare consigli assennati e a rimbeccarlo per ogni cosa, ma anche come ragazza, perché stringerla, provare a darle tutta la tenerezza di cui era capace e sentirsi amato, protetto, persino rimproverato da lei era quello che aveva sempre voluto, anche se non se n'era mai accorto pienamente. Le accarezzò i capelli, sciogliendo definitivamente la treccia che le aveva fatto Maya, e lei, a quel tocco, trasalì appena e il gelato finì per colarle sul viso, disegnandole degli adorabili baffi marroni.

"Ascolta, non provare mai, e dico mai, a dirmi qualcos a di importante o a toccarmi, quando mangio il gelato. Potrebbe essere pericoloso...", ma la frase restò lì, sospesa, perché altro gelato stava, inevitabilmente, sgocciolando sul braccio della ragazza, macchiando la manica del vestito.

"E tu, invece, devi stare zitta, quando macchi il gelato."

"VEro anche questo."

"Ok, lo mangio io, visto che continui a blaterare.", e con un sorriso furbo le strappò il cono di mano, iniziando a divorarlo ad una velocità assurda.

"Ma è mio!"

"No, strega che non sei altro. L''ho pagato io, e poi stiamo insieme, adesso."

"E quindi?"

"E quindi tutto ciò che è tuo appartiene anche a me, di diritto, mentre quel che è mio è mio e basta."

La ragazza sbuffò, divertita e scioccata dalle idiozie di Alberto, e lo lasciò finire il cono, maledicendo la sua incapacità di mangiare il gelato come una persona normale.

"Io dovrei andare a casa, fra poco...", osservò lei qualche minuto dopo. Alberto, malgrado le proteste di lei che non era esattamente il tipo da accettare smancerie in pubblico, l'aveva stretta a sé, e adesso lei respirava placidamente con la testa sul petto di Alberto, che giocava con i suoi capelli e non aveva ancora avuto il coraggio di rompere l'incanto di quel silenzio.

"Ti riaccompagno, e... e dobbiamo dirlo ai tuoi, che stiamo insieme. E a quelle arpie delle tue amiche, nonché a Enrico, Fabio e Stefano."

La ragazza, suo malgrado, arrossì, imbarazzata com'era alla prospettiva di doversi preparare al terzo grado di sua madre e di Greta.

"Alle nostre compagne di classe non lo diciamo, però. Tanto continueranno a chiedermi consigli su come conquistarti, io resterò sul vago e, prima o poi, lo scopriranno da sole. E allora sì che ci sarà da divertirsi."

"Oh, fantastico! Non possiamo fare così anche con Greta, vero?"

"No, temo di no.... tanto sarà a me che chiederà ogni dettaglio sul nostro appuntamento, non a te!"

"Vero anche questo, però... è strano, ecco. Ho sempre immaginato che la mia ragazza sarebbe stata esterna al mio gruppo di amici, e che sarebbe stato difficile farvi andare d'accordo."

"Virginia."

"Cosa?"

"Con lei è andata più o meno così. Melia l'avrebbe ammazzata, Greta pure, io cercavo di farmela piacere senza sforzarmi troppo e gli altri la soppportavano, più o meno. Mai conosciuto una ragazza con così pochi argomenti di conversazione..."

"Cielo, immagino gli insulti che le avrà tirato dietro Melia."

"Ne stavamo parlando giusto prima che arrivassi, sai? Ha detto, aspetta.... che se ti metti con me almeno loro sapranno già con che razza di persona avranno a che fare."

"Uh, splendido... ti riaccompagno a casa, dai."

La prese per mano, di nuovo, e s'incamminarono lasciandosi alle spalle il parco, la libreria, il centro di Torino.


"Non è che vieni a dormire da me? Mia madre chissà dov'è, e tu puoi inventare una scusa qualsiasi coi tuoi..."

La ragazza gli sorrise, un po' intimidita, ma scosse la testa.

"No, stasera va bene così. È stata una serata troppo piena di cose, ecco, e poi temo i miei farebbero troppe storie."

Camilla non poteva confessargli di vergognarsi: temeva che Alberto avrebbe voluto da lei qualcos'altro, qualcosa di più dei semplici baci, e lei, il resto, non era in grado di darglielo, non per ora. Temeva di risultare ridicola, di non essere all'altezza, né abbastanza bella né abbastanza sicura di sé per quel genere di cose, e di sicuro Virginia era più esperta di lei, ecco. Alberto, però, dovette aver intuito le preoccupazioni e la ritrosia della ragazza, quindi non insistette, e si limitò a cingerle le spalle con il braccio, attirandola di nuovo a sé. Fecero il restante tratto verso casa di Camilla stretti in quel modo, inciampando e ridendo della loro stessa goffaggne, cercando di stare il più vicini possibile e, al contempo, di reggersi in piedi.

Una volta arrivati sotto casa di Camilla, lei lo abbracciò di nuovo, di slancio, e lui la baciò in un modo che, di nuovo, le tolse il fiato. Era un bacio disperato, quello, come se Alberto, attraverso esso, cercasse di rubarle il respiro, di portarla sempre con sé, semplicemente di darle tutta la tenerezza e l'amore di cui era capace. E lei ricambiò, sentendosi semplicemente troppo leggera e troppo felice, perché quello era il momento più meraviglioso della sua vita, con Alberto che la stringeva come se fosse la cosa più importante al mondo, le sue mani che volavano fra i suoi capelli e la stoffa del vestito, i suoi occhi che sfavillavano. Alla fine dovettero staccarsi, per riprendere fiato e per evitare di essere visti da tutta Torino, però, nel guardarsi negli occhi, riconobbero l'uno nello sguardo dell'altra il medesimo bagliore, la medesima scintilla, e si sorrisero con quella complicità che era solo loro.

"Seii l'amore della mia vita, tu...", mormorò il ragazzo, e Camilla lo guardò, per una volta incapace di contraddirlo o di rispondergli in maniera caustica, commossa e sbalordita perché quel che le stava capitando era semplicemente straordinario.

"Oh, anche tu, temo, ma... al di là di tutto è fantastico, stare con te, perché... oh, per un migliaio di ragioni, però elencartele è troppo mieloso e svenevole, quindi sorvolerò."

"Scrivile."

"Cosa?"

"Le ragioni per cui stare con me è fantastico. Al di là di tutto quel che ti dico, non riesco a capacitarmi di come sia possibile ciò che ci sta succedendo, e quindi magari se ne scrivi tu, ecco, ha tutto più senso. E poi quel che scrivi tu è meraviglioso, sempre, e, anche se a me non piace leggere, se parli di noi potrei fare un eccezione."

"Vediamo, dai... ora vado dentro."

"Domani ci vediamo?"

"Con gli altri, però. Dobbiamo fare coming out e dichiarare a tutti che abbiamo fatto il grande passo. E poi, beh, penso che non dobbiamo dimenticarci di uscire con loro per stare insieme. Dopotutto, loro sono la nostra famiglia, e sono magnifici."

"Ok, ho già capito, stare da soli sarà un'impresa."

"Ma no, che dici.... buonanotte, honey. È stata una serata meravigliosa, ripeto, ma ora i miei mi strangolano, se non entro."

Lui seguì la sua figura con lo sguardo finché lei non si fu richiusa il portone alle spalle. Conservò per molti minuti l'immagine dei capelli biondo scuro di Camilla che le incorniciavano il viso e le piovevano un po' ovunque, e dell'ultimo sguardo fugace e raggiante che gli aveva lanciato. Non c'era niente di più straordinario di lei, del suo sorriso, del modo in cui lo faceva sentire amato, protetto, accolto, perché Camilla sapeva curargli ogni ferita senza smettere mai di ascoltare i suoi deliri, riusciva a strappargli un sorriso anche nei giorni di sconforto e, aveva imparato quella sera, era l'unica donna - perché ormai sì, era di questo che si trattava - che voleva accanto.

Per tutta la vita.


We gotta look right at each other and say it
turn on the radio and play it
and fall in love again
Can you feel the light shine
You now this song's yours and mine
ain't it good to know you've got a place to go
where the melody's fine
Sometimes I'm not so strong
and even now I could be wrong
but if you love me like music
I'll be your song

(Love me like music, I'll be your song, the Heart)


Note:


Non so se siete arrivati alla fine di questo capitolo indenni; non saranno tutti così, ve lo prometto, solo che questo, pur essendo il primo, non volevo spezzarlo. Ho impiegato moltissimi mesi per scriverlo, altrettante notti insonni e qualche sclerata. Resta la cosa più bella che abbia mai scritto penso, anche se il mio livello d'autostima fa schifo.

Da dove cominciare? Alberto e Camilla, i protagonisti, sono anche i protagonisti di "country dreamer", insieme ai loro amici, che qui ho solo accennato. La storia, che ho già pubblicato nel 2012 sotto un altro account (poi l'ho cancellata, la storia, perché non mi piaceva, era scritta con uno stile che non mi appartiene più) in realtà inizia da ben prima, e in teoria introducevo molto meglio i personaggi. Qui ho dato per scontato molte cose, che si andranno a spiegare, prima o poi.

I prossimi capitoli non so cosa potrebbero riguardare, forse saranno un salto indietro nel tempo, in modo da spiegarvi un po' meglio i legami fra i protagonisti, o forse no. Però a volte vi saranno flashback, a volte anticipazioni; parlerò di loro da ragazzini e da adulti, e spero vi piacciano, perché io, veramente, li adoro. Sono i miei protagonisti, i miei personaggi, soprattutto Alberto e Camilla.

Che dire? Grazie per esserbi subiti il primo capitolo più lungo della storia, per aver letto, capito, per aver deciso quantomeno di aprire questa storia. Vi sarei grata se lasciaste un commentino, è sempre bello ricevere un parere. :)

Un abbraccio, e a risentirci! :)

Ceci


   
 
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