III
La tierra donde cae el Sol
Restai
con la ghenga del Rosso poco più di dodici mesi: un pezzo di vita
breve, ma memorabile.
Ho
già detto di avere i problemi a dormire in posti chiusi: nello
stanzone adibito a dormitorio in cui dormiva una parte del gruppo,
tra il caldo soffocante dei primi tempi – i primi mesi d’inverno,
in cui l’aria non gelava completamente -, la polvere e l’ansia,
ho avuto più attacchi d’asma che in tutto il resto della mia vita.
Era
un inferno per me, per quelli che volevano dormire, incuranti della
mia sorte, e per quei pochi che si preoccupavano che io morissi.
Tra
questi, oltre a Blanca, c’erano altri due ragazzini con cui avevo
stretto amicizia - o una relazione del genere.
Il
Gamba era uno spilungone magro magro che era scappato
dall’orfanotrofio poco prima del mio arrivo, e Rob O’Neill, una
lingera con la faccia da santo.
Dopo
un paio settimana di crisi sistematiche, anche due volte a notte, il
Rosso mi lasciò a dormire nello stanzone principale dello
scantinato, quello in cui di giorno stavano tutti.
Faceva
più freddo, ma essendo estremamente ampio, riuscii finalmente a
passare notti tranquille. A volte il Gamba e Blanca venivano giù a
farmi compagnia nelle sere di vento, quando nessuno di noi riusciva a
dormire.
Mangiavo
abbastanza e avevo ricominciato a prendere peso, dopo qualche mese
l’asma si affievolì tanto da non rappresentare un problema
particolare.
Il
lavoro consisteva nel rubacchiare a destra e sinistra, al mercato e
nelle tasche delle persone vestite un po’ meglio. Poi si portava
tutto al Rosso, e lui portava le cose più preziose da qualcun altro.
Per noi teneva le cose che servivano a campare.
Quelle
ragazze ben vestite si prostituivano.
Blanca
no, perché sembrava un maschio, diceva. E non si capiva se la cosa
le desse sollievo o la mettesse incredibilmente in crisi.
Rob
aveva fatto del rubare una vera e propria arte: aveva un tocco così
leggero e una presenza tanto discreta che sapeva starti seduto
vicino, parlarti amichevolmente e rubarti il cibo dal piatto. Mentre
lo guardavi.
“Mio
padre veniva dall’Inghilterra, a Londra il furto è maestria!”,
vantava.
Dicevano
che una volta avesse provato – e fosse riuscito - a fregare
qualcosa anche al Rosso. Solo che poi quello lo aveva preso da parte
e chiuso in una stanza con sé.
Rob
non aveva mangiato per una settimana e non aveva mai più guardato il
Rosso dritto negli occhi.
Fatta
eccezione che con il capo,
egli aveva
un perenne sorrisetto sardonico sul viso.
Quella
pelle lattea, gli occhi cilestrini e il ciuffetto biondo che scendeva
in mezzo alla fronte gli davano un aspetto così innocente da far
venire naturale l’impulso di fargli del male.
Mentivano:
se qualcuno avesse veramente a fargli qualcosa, poi lui si sarebbe
vendicato. Ed era cattivo.
Non
credo di aver mai conosciuto una persona capace di tali e gratuite
crudeltà come Rob.
Dicevano
che fosse diventato così per colpa di un padre alcolizzato. La
leggenda narra che fosse stato buono come il pane una volta.
Rob
era stato colui che aveva deciso che io mi sarei chiamato Manigoldo.
Perché era un nome tosto, mi stava bene addosso.
Se
non fossi abituato a farmi chiamare Rob, ti darei il mio nome e mi
prenderei il tuo.
Pure
quello si sarebbe fregato, il bastardo.
Il
Gamba era un individuo totalmente diverso. Era altissimo, malaticcio
per esser cresciuto troppo, troppo in fretta, con quei capelli bruni
e sempre sugli occhi, dei quali invece non ho idea di quale fosse il
colore.
Era
un buon amico, silenzioso, anche se a volte petulante.
Aveva
un perenne senso di colpa addosso che gli avvelenava il sangue senza
motivo. Aveva la mia età ma sembrava incredibilmente vecchio con
quel modo di fare composto e pacato.
Non
l’ho mai stimato abbastanza, sebbene fosse di gran lunga migliore
di Rob.
Subiva
le prese in giro da parte di tutti gli altri tre.
Blanca
era la più cattiva di tutti nei suoi confronti, ma solo perché era
l’unico su cui potesse accanirsi pure lei.
Lui
alzava le spalle: era forte in maniera così discreta da risultare
insopportabile.
Era
la sua maniera di essere aristocratico.
Gamba
faceva il palo, di solito.
Poi
andava per conto suo a rubare nelle librerie, ma lo faceva in buona
fede: riportava sempre il libro preso dopo uno o due mesi. Per
ricordarsi del negozio a cui appartenevano strusciava con il dito
sporco su un angolo della prima pagina. A seconda di quale angolo
fosse, lui sapeva dove riportarlo.
A
volte li prestava a me, con l’imperativo di non rovinarli. Ero
arrivato ad ordinargli dei libri precisi, avevamo gusti simili,
assecondava le mie richieste, altre volte facevo scegliere lui.
Un’unica
condizione: i volumi dovevano essere sottili, chiaramente. Bisognava
nasconderli sotto la giacca, altrimenti non poteva farla sotto al
libraio, se gli passava davanti con strane escrescenze.
***
I
giorni passarono veloci, passarono in strada, tra la confusione, la
polvere e il rischio di essere sempre schiacciati dalle carrozze che
correvano, correvano tutti il giorno. E chissà dove andavano, così
eternamente di fretta, mi chiedevo.
Eravamo
sguaiati, fuori luogo, beffardi - piccoli adulti rovinati dalla vita.
Oserei
dire che rischiavamo di essere felici.
In
realtà devo dire, per quel che mi riguarda, che ero perennemente
lacerato da una strana malinconia, una tristezza soffocante, che mi
prendeva alla sera nei vicoli in cui baluginavano le fiaccole, o
quando mi trovavo in mezzo ad una folla particolarmente densa.
Non
so cosa mi mancasse, dato che non ricordavo praticamente niente
(recuperai infatti qualche pezzo di memoria solo con gli anni).
Pensavo:
farfalle.
Ma non ne
vedevo.
I
ritagli di cielo sopra la città era così risicati che ogni volta
che guardavo in alto non riuscivo a provare né pace né deferenza.
Non
mi sono mai più liberato di quella sensazione.
***
Quando
si preparava ad allungare le mani nelle tasche della gente, Blanca si
calcava il cappello in testa con tale forza e concentrazione che
sembrava volesse infilarcisi tutta dentro.
Era
un rito che le aveva fatto perdere qualche capello. Aveva la
frangetta un po’ diradata per le continue frizioni con la flanella.
“Non
diventi invisibile a schiacciarti il cappello in fronte”, la
stuzzicai, “solo calva.”
“Non
diventi furbo a guardare cosa faccio io, resti solo senza cena.”
Tutto
così: lei perdeva veramente i capelli e io restavo senza cena solo a
volte.
Una
sera eravamo seduti in silenzio su un attracco del molo, Blanca dava
le spalle al mare, in favore dei monti. Il buio stava risalendo il
cielo a partire da lì.
Alle
nostre spalle, bassa sull’orizzonte, Venere.
Mi
piaceva quella stella: di notte, fra le altre, mi sembrava a malapena
riconoscibile per la sua luce verdina, ma alla sera e al mattino –
quando la chiamano Lucifero - era sempre la regina. Quando gli altri
astri cedevano il passo al Sole, lei rimaneva lì e si prendeva la
sua meritata gloria.
Pensando
all’alba mi nacque quella curiosità: “Ma tu, tu da dove vieni?”,
le chiesi.
Non
sapevo molto di lei.
Blanca
restò ancora in silenzio per un istante, poi tese il dito verso
nord-ovest, un ovest lontanissimo, e lo mosse lentamente in direzione
est, avvicinandolo piano piano a se stessa.
Aveva
un’espressione indecifrabile.
“Vieni
da lontano?"
Rifletté
un ultimo istante: “Dalla Spagna”, rispose senza calore,
concentrandosi sul lavoro di un pescatore dal viso sporco, che
sistemava le reti.
Tuttavia,
quando cominciò a parlare, non riuscì a fermarsi: “O almeno da lì
viene la mia gente. Io non sono sicura di esserci mai stata. Non la
ricordo affatto, eppure per me è davvero la patria a cui tornare.
Capii
dal suo racconto – lei non lo disse esplicitamente – che era nata
tra i gitani, gli zingari spagnoli.
Era
cresciuta girovaga sui loro carri colorati, era sopravvissuta
danzando: aveva ballato in ogni piazza per guadagnare soldi e in ogni
vicolo per dimenticare la fame.
Aveva
indossato le loro gonne lunghe e colorate, con i sonagli attaccati,
suonato il tamburello e portato i capelli lunghi.
Confesso
che questa immagine di lei mi fece un certo effetto. Se ne accorse, e
si calcò meglio il cappello verde sugli occhi.
Il
suo primo ricordo erano le coste scoscese e avare – di una bellezza
amara e folgorante - del mar Ligure, il vento tremendo che tirava nei
caruggi di Genova, un vecchio sdentato a cui aveva fatto l’inchino
dalla cima di una creuza.
Era
stata con una carovana fino in Calabria, poi il suo racconto si
interruppe bruscamente e seppi solo che, da sola, aveva attraversato
lo Stretto.
“Ho
vissuto qui per sei mesi, altrettanto sola, ed è stata dura.
Un
giorno ho cercato di mettere le mani nelle tasche di Rosso.”
A
quel punto sorrise, e percepii un terribile tarlo rodermi dentro.
Non
ho più parlato direttamente con il Rosso dopo il giorno del mio
arrivo, eppure la sua presenza gravava sempre su di noi come un
temporale: egli era il nostro salvatore e il nostro terrore. Blanca
lo venerava.
“Mi
ha beccato subito”, continuò: “Un
gatto non può fregare una volpe, è
stata la prima cosa che mi ha detto.
Mi
ha bloccato per il polso. Avrebbe potuto fare qualunque cosa volesse:
chiamare la vigilanza o farsi giustizia da solo, tanto qui nessuno
protesta per la vita di quelli come noi.
Mi
ha detto solo che ero stata brava, mi avrebbe lasciato stare se
avessi continuato a fare quello che stavo facendo, ma per lui.
Mi
ha salvato la vita.”
Tuttavia,
voleva tornare
in Spagna
- come fosse sicura di voler tornare in un posto in cui non era
sicura di essere mai nemmeno stata, proprio non lo so.
Non
aveva un cuore gitano, lei voleva un posto in cui tornare e fermarsi,
ed era una sognatrice.
“So che questa non è casa mia e che quello è l’unico luogo possibile in tutta la Terra.”
La
Spagna dei giorni che non tramontano mai, del sole eterno e delle
notti giovani; dei fieri cavalli bianchi, delle ballerine di flamenco
in abito rosso – volta la carta, un toro squarcia la muleta.
La
Spagna lontana, nello spazio e nel tempo, ma non irraggiungibile,
l’irresistibile richiamo del sangue.
“Quando?”
“Quando
Rosso non avrà più bisogno di me.”
Quando
non sarà più una ragione sufficiente per restare, pensai.
Aveva percorso a ritroso la strada del sole, da ovest ad est. Ora voleva seguire la giusta linea, tramontare ad ovest, e quando lo disse aveva i brividi.
Ricordo
bene la sagoma delle sue spallucce, quella sera. Al lobo destro aveva
un anellino dorato, una ciocca le scappava dal cappello.
Io
continuavo a guardare Venere, ma ben presto non riuscii più a
trovarla – si era fatta tarda sera.
Chissà
a cosa pensai quel giorno. L’avrei portata ovunque pur di non
lasciarla al Rosso.
L’avrei
portata ovunque purché restasse con me, lo giuro.
Ironia della sorte, Blanca finì a tramontare ancora più ad est.