Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Sofyflora98    30/09/2015    1 recensioni
Dal primo capitolo:
"Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
Fino a che non colsero sul fatto l'assassino. Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri."
****
Johnlock
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fu con sollievo che John uscì dal 221B, quella sera. Tutta quella situazione si era rivelata diventare estremamente imbarazzante: quel tipo strambo trovato mezzo morto al St. James's Park, aveva tranquillamente fatto un riassunto della sua situazione psicologica e familiare, arrivando ad affermare pure che suo fratello avesse lasciato la moglie e fosse un alcolista. E queste ultime due cose le aveva capite dal suo cellulare. Certo non aveva potuto intuire che Harry fosse in realtà sua sorella.
Dopo quella stupefacente dimostrazione, John era rimasto a bocca aperta, e non era riuscito a trattenersi dall'impulso di esclamare cose come “Incredibile!” e “Fantastico!”, cosa che parve lusingare il giovane detective, il quale gli aveva fatto notare quanto raramente gli venissero fatti i complimenti. Ma questo era stato solo l'inizio del suo improvviso coinvolgimento con quell'individuo: la signora Hudson aveva quasi innocentemente proposto che Sherlock Holmes restasse lì per qualche notte, solo il necessario perché potesse rimettersi in salute. Entrambi avevano espresso il loro stupore, anche se in modi molto diversi. John aveva cercato di farle notare quanto la cosa avrebbe potuto venir fraintesa se qualcuno dei suoi conoscenti fosse venuto a saperlo. Holmes, invece, aveva ribattuto con stizza che non aveva bisogno di nulla del genere, che sapeva cavarsela da solo. Su questo Watson aveva forti dubbi, dato che se non fosse stato per lui sarebbe rimasto sulla stradina di terra battuta ad agonizzare ancora per un bel pezzo, ma non ritenne necessario contraddirlo.
Ciononostante, dopo diverse ulteriori insistenze della padrona di casa, e qualche breve scambio di battute tra i due, lei aveva finito per avere la meglio, e Sherlock Holmes era rimasto al 221B di Baker Street, dove la signora avrebbe potuto assicurarsi che non si trascurasse troppo. Perché, sosteneva, l'investigatore tendeva a maltrattare il proprio corpo, ed essendo indebitata con lui non poteva permettergli una cosa del genere.
Insomma, quando l'ex medico militare uscì a prendere una boccata d'aria, si sentì come se gli avessero tolto un tappo che gli ostruiva i polmoni. La situazione era stata tesa per tutto il tempo. Quando aveva cenato, l'altro era rimasto a fissarlo costantemente, come del resto aveva fatto tutta la giornata. Non era riuscito a togliersi di dosso l'idea che lo stesse giudicando, analizzando. E, accidenti, lui non era un dannato campione da laboratorio!
S'incamminò verso il pub dove aveva programmato di incontrare Greg per una sana chiacchierata tra amici. Più o meno. Non erano proprio amici, ma nemmeno semplici conoscenti. Qualunque fossero, era sempre una piacevole compagnia.
Lo trovò esattamente dove credeva di trovarlo, già accostato al bancone ad attenderlo. Lo salutò con la mano già prima che fosse a portata d'orecchio. - Ehilà, John! -
Il medico si appoggiò stancamente al bancone. - Buonasera anche a te, Greg – disse, con un mezzo sorriso. Ordinarono due birre, e si sedettero sugli alti sgabelli proprio lì davanti.
Il poliziotto gli fece un resoconto di tutti i casi irrisolti degli ultimi tempi, dall'ultima volta che erano riusciti a vedersi. Non faceva che lamentarsi di come da qualche anno, con quelle Creature in circolazione, anche i criminali sembravano più entusiasti di prima, oltre che più subdoli. John annuì ripetutamente, ma con la testa era rimasto a Baker Street, e si domandava se quello strano consulente investigatore fosse ancora dov'era quando gli aveva detto che sarebbe uscito; magari a fissare intensamente una macchia sul pavimento ora che l'ex soldato non era più lì a catalizzare quegli sguardi perpetui.
- E pensare che sarebbe tutto risolto in un lampo se quell'idiota rispondesse alle mie chiamate! - esclamò all'improvviso Lestrade, battendo un pugno sul legno appiccicaticcio, che probabilmente non veniva pulito da diversi giorni.
John si riscosse, temendo di essersi perso un po' troppi pezzi del discorso ed essere rimasto indietro. - Di che idiota stai parlando? - gli chiese, alzando gli occhi.
Greg sbuffò – Un uomo che ho conosciuto tempo fa in circostanze assurde. Una specie di genio, ti sa leggere come se fossi un libro aperto, e lo chiamiamo sempre quando non sappiamo come raccapezzarci. Un tipo strano. Una via di mezzo tra autismo e sindrome di Asperger, non so se mi spiego. Un detective privato che lavora anche per la polizia. Consulente investigatore, dice lui – a quelle ultime parole, John quasi si strozzò con la birra.
- Consulente investigatore, hai detto? - boccheggiò, nel tentativo di riprendere aria.
Greg annuì. - Ma non lo vedo da mesi, e anche se gli scrivo e lo chiamo, non da segni di vita – borbottò.
- Alto e pallido, con ricci neri e occhi azzurri? -
L'ispettore alzò le sopracciglia, sorpreso. - Sì, certo. Sherlock Holmes, si chiama. Ma come fai a...? -
- Mi sono... imbattuto in lui stamattina al St. James's Park. È normale trovarlo per terra, con innumerevoli ferite da taglio e semi svenuto? -
- In verità sì, abbastanza! Non sarebbe la prima volta, né la più clamorosa ed urgente! – Gregory scoppiò a ridere – E tu che hai fatto, quando l'hai visto? -
- Beh, l'ho soccorso naturalmente! Tu l'avresti lasciato lì? -
- No. Io avrei ignorato le sue suppliche di non chiamare il pronto soccorso. Ma tu d'altronde non lo conosci ancora bene. E non chiedermi come faccio a sapere che ha supplicato di non chiamare niente e nessuno, perché fa così praticamente sempre. Non vuole che si sappia come ha fatto a ridursi in certe maniere, ed onestamente, è meglio non chiederglielo -
Il dottore lo ascoltava, ora. Non immaginava che potesse essere un conoscente di Lestrade (che poi gli aveva raccomandato di far sapere a Sherlock che era richiesto il suo cervello a Scotland Yard), ma in effetti aveva detto di lavorare con la polizia, ed era più che logico che si conoscessero.
Il tragitto verso casa lo fece come in trance. Ormai non si trattava più solo di curiosità verso uno sconosciuto. Era affascinato da Sherlock Holmes, c'era in lui un qualcosa di magnetico che aveva catalizzato tutta la sue attenzione. In maniera assolutamente etero, ovviamente. Ciononostante, si prefisse l'obiettivo di scoprire il più possibile su di lui.
Quando rientrò nell’appartamento, era accesa solo una lampada nel soggiorno. La luce era soffusa, e gran parte della stanza restava comunque in ombra.
Trovò Sherlock Holmes esattamente dove l’aveva lasciato, sul divano. Per gran parte della giornata era stato disteso sulla pancia, seguendo ogni suo movimento con interesse. Ora, invece, era sdraiato sulla schiena ed era almeno in apparenza addormentato. Fu il turno di John, quindi, di studiare quello strano essere che gli era piombato davanti così all’improvviso.
Il suo volto, ora rilassato, aveva un nonsoché di innocente, quasi infantile; ancora incontaminato dal dolore e dalla costante apprensione della gente. In effetti Greg gli aveva accennato il fatto che fosse una specie di asociale (dire che fosse autistico o che avesse la sindrome di Asperger gli sembrava esagerato, per quel che aveva potuto vedere finora). Era possibile che non si fosse scontrato con certi tipi di emozioni.
Che stava andando ad immaginarsi, tra l’altro? Lui non sapeva nulla di Sherlock Holmes, e basta. Magari aveva semplicemente un volto efebico, e finita lì. Si stupì di se stesso. Non era da lui mettersi a fare elucubrazioni sulle vite degli altri. I pettegolezzi erano prerogativa della signora Hudson e il suo gruppetto di vecchie amiche zitelle e con molto tempo da perdere, non certo del quinto fuciliere Northmberland in congedo John Watson.
Si sedette pesantemente sulla poltrona più piccola, che stranamente lo aveva sempre messo più a suo agio dell’altra, ed accese il computer portatile, appoggiandoselo sulle gambe.
Non riuscì a trattenersi dal digitare “Sherlock Holmes” sulla barra di ricerca.
 
 
Si risvegliò con un lieve bruciore agli occhi. Guardare lo schermo luminoso del laptop, in una stanza semibuia, e per di più in tarda serata non era il massimo, in effetti. Se ci teneva alla vista, avrebbe fatto meglio a rifarlo il meno possibile.
Tra l’altro, non aveva nemmeno dormito molto bene: i suoi sogni l’avevano riportato in Afghanistan, ancora una volta. Si era svegliato di soprassalto alle tre del mattino, quando aveva sentito un lieve fruscio. Si era accorto di essere ancora sulla poltrona, e che Sherlock Holmes non era più sul divano. Probabilmente era in bagno, si era detto, prima di dirigersi verso la camera di sopra. Aveva pensato che fare la scale non sarebbe stato semplice per l’altro, con tutte quelle ferite aperte a tirargli la pelle ad ogni movimento, per cui si era trascinato su per i gradini, ancora intontito dai ricordi degli spari.
Quando era finalmente riuscito a sopirsi di nuovo, gli si erano materializzati davanti degli strani esseri con denti aguzzi, ali membranose e occhi come gemme incastonate su visi marmorei, che lo braccavano con tutta l’intenzione di divorarlo.
Caracollò fuori dalla camera da letto, con il pensiero fisso di una bella tazza di tè. Non aveva idea di come avrebbe fatto a rimanere sveglio, quel giorno. Il pensiero di tutti quei pazienti da visitare, parte dei quali tendenti ad amplificare qualsiasi minimo malessere avessero, gli fece venire un gran voglia di tornare tra le coperte.
- Dottor Watson – la voce del detective lo fece trasalire. Si era quasi scordato di lui, dopo quel sogno bizzarro.
Era seduto elegantemente sulla poltrona da lui inutilizzata, già perfettamente vestito, sebbene si trattasse degli stessi abiti lacerati del giorno prima. E già completamente sveglio e attento, specialmente.
- Signor Holmes, buongiorno. Come vanno quelle brutte abrasioni? – mormorò con voce assonnata.
- Molto meglio, grazie -
- Vuole... fare colazione? - chiese dopo un istante di esitazione. Holmes ci mise un po' a rispondere. Aveva ancora la brutta sensazione di essere soggetto d'esame di quell'individuo.
- Solo una tazza di tè, va bene -
Armeggiare con bollitore, tostapane e stoviglie varie, lo aiutava a schiarire la mente di prima mattina. Preparare la colazione gli impediva di tornare a rimuginare sugli incubi ricorrenti, e gli dava quel senso di casalingo che quando era in guerra tanto gli era mancato. Ecco, quella era una delle piccole cose che gli piacevano della vita normale. Il problema era il resto.
Versò l'acqua nella teiera, aggiungendo due bustine di tè. Annotò mentalmente di cercarne una marca più forte, per cui fosse sufficiente una sola bustina magari. Non gli avrebbe fatto per niente male.
Mentre metteva il pane tostato su un piatto, Sherlock Holmes era scivolato in cucina. John si accorse di lui solo quando si girò per versare il tè nelle due tazze che aveva posato sul tavolo. Per poco non gli venne un colpo: era stato incredibilmente silenzioso.
- Ehm... si sieda, il tè è pronto -  borbottò a disagio. Stette ad osservarlo mettere due zollette nel liquido ambrato, e mescolare con un movimento sciolto. Quando si rese conto di essere rimasto lì come un baccalà, si riscosse, e sedette anche lui, prendendo a imburrare il pane con molta più meticolosità del necessario.
- Per quale ragione avete portato uno sconosciuto in casa, piuttosto che chiamare semplicemente il pronto soccorso, Dottor Watson? - gli chiese Sherlock a bruciapelo. John si bloccò con il coltello a mezz'aria.
- Istinto del medico? Non ne ho idea, in verità... -
Il giovane uomo non parve sorprendersi della risposta.
- Ieri sera ho incontrato l'ispettore Lestrade, e a quante pare lui vi conosce –
- Sì, è esatto. Ho lavorato con lui per diversi casi. Sembra che la polizia, al giorno d'oggi, sia davvero incompetente -
- Le chiede di contattarlo. Ha cercato di chiamarvi, ma senza risultato – l'espressione sarcastica del detective, però, riuscì a strappargli una mezza risata.
- Ho avuto da fare – finì di bere il suo tè in un'ultima sorsata  – Vi ringrazio per il vostro aiuto, dottor Watson, ma non vorrei arrecarvi altro disturbo con la mia presenza. Inoltre fintanto che sarò qui, voi sarete a rischio. È meglio che me ne vada al più presto – detto questo, si alzò di scatto, ma solo per bloccarsi a metà movimento con una smorfia di dolore.
Un uomo orgoglioso, pensò l'ex soldato. - Restate pure ancora un po'. Non potete andarvene in giro conciato in quel modo, e la signora Hudson inoltre si preoccuperebbe. Sembra esservi affezionata -
Sherlock Holmes sbuffò a quelle ultime parole, ma tornò a sedersi.
- Voi vi annoiate – mormorò. John alzò lo sguardo su di lui, e vide un sorrisetto affiorargli sulle labbra.
- Scusate? -
- Vi annoiate. Non credo che il vostro zoppicare sia dovuto al trauma della guerra. Piuttosto, vi manca l'adrenalina -
John rimase a bocca aperta.
- Devo... devo andare al lavoro –
Uscì dalla cucina con la certezza di avere quei due occhi color ghiaccio puntati sulla nuca.
Quando lo vide sparire dietro la porta, Sherlock si spostò sulla poltrona in pelle del soggiorno, a meditare. Fece congiungere le punte delle dita, e chiuse gli occhi, reclinando la testa all’indietro. Pochi minuti dopo venne interrotto dalla signora Hudson, che entrava chiamandolo ad alta voce.
Vederlo lì seduto la fece sorridere in maniera complice. – Allora? –
- Avevate ragione, signora Hudson. Mi verrà dietro -
 
 
- Cosa significa che non sapete di cosa sto parlando? - sbottò infuriato all'altro capo fazione. Avrebbe dovuto aver già reagito alla sua provocazione da un bel pezzo, ma invece non era accaduto, per cui era andato di persona a cercarlo. Quando gli aveva domandato se aveva accolto il suo regalino, l'altro l'aveva fissato sconcertato. Non aveva idea di cosa stesse parlando. E lui sapeva sempre tutto. Com'era possibile?
- Davvero, non so a quale regalino vi riferiate. Se si tratta dell'ultima vittima, non è una grande novità. Lo fate sempre -
Digrignò i denti dalla frustrazione, facendo guizzare la coda. - Ditemi, come se la passa junior? - sibilò, ostentando un'espressione di canzonatura.
Finalmente ottenne la sua piena attenzione. Il capo della fazione opposta alzò lo sguardo di scatto, e lo guardò come se volesse scuoiarlo vivo. - Che intendete dire? - gli chiese con voce serafica. Dopotutto, non perdeva mai la sua compostezza.
- Mhm... credo proprio che l'altra notte abbiamo avuto una piccola conversazione -
Confusione, un fremito di ansia, e poi odio allo stato puro trasudarono dall'altro come una valanga in piena, solo all'accenno. A quella visione rise di gusto.
- Che cosa gli avete fatto? -
- Non l'ho mutilato, stai tranquillo! Il suo bel visino è integro – si sporse sulla scrivania dell'altro – Ma non vi conviene continuare ad intralciarmi. Voi continuate pure con quei vostri stupidi principi morali, ma provate ancora a mettere i bastoni sulle ruote alla mia fazione, e ti assicurò che non mi limiterò a qualche taglio -
- Sei un folle! -
- E te ne accorgi ora? -
Gli diede le spalle, e se ne andò senza aggiungere altro.
Il messaggio era giunto alla fine, ma non riusciva a spiegarsi come facesse l'altro a non sapere cosa fosse successo. Forse era riuscito a rintanarsi in uno dei suoi nascondigli, ed ora era lì a leccarsi le ferite. Oppure era stato trovato prima da una delle sue conoscenze, per quanto poche fossero.
Cercò nella rubrica del cellulare il numero del suo braccio destro. Non ci mise molto a rispondere, come sempre.
- Capo? – disse la voce del suo aiutante, attraverso l’apparecchio.
- Vedi di trovare la nostra piccola e adorabile aberrazione, alla svelta –
Nell’ufficio, intanto, anche l’altro capo fazione stava alzando il telefono.
- Si è verificato un incidente. Cercate mio fratello, e che venga trovato entro stasera -
 
 
Passare la giornata in ambulatorio ad ascoltare il continuo blaterare di vecchiette paranoiche fu noioso e tedioso come non mai. I suoi pensieri continuavano a rifugiarsi in Baker Street, e ronzare attorno al misterioso detective. E alle due cicatrici che aveva visto sulla sua schiena mentre gli disinfettava quel brutto squarcio alla spalla. Non aveva mai visto due cicatrici come quelle. Non erano incave rispetto alla cute, ma nemmeno sporgenti. Si trattava di due segni ancora più chiari della già pallidissima pelle, e nient’altro. La cosa davvero strana, però, era che fossero due cicatrici gemelle. Si trovavano sulle scapole, ed erano perfettamente identiche, con una simmetria a specchio.
Anche i suoi occhi erano strani: non era riuscito a capire di che colore fossero, sembrava che mutassero ad ogni minimo cambio di luce, in una serie di gradazione tra il verde, l’azzurro e il grigio. Aveva già una mezza idea che fossero più azzurri, e che quindi doveva essere la vera tinta.
- La sua tosse non è un sintomo di polmonite, signora. Ha solamente il raffreddore. Si vesta più pesante e si metta della pomata sul naso per l’arrossamento, ma di più non posso fare. Buona giornata, e arrivederci –
L’ultima paziente prima della pausa pranzo sgombrò borbottando infastidita. Aveva poco da lamentarsi. Non poteva certo pretendere che lui le prescrivesse degli antibiotici per la polmonite, quando probabilmente era solo uscita di casa con la gola scoperta.
Si alzò in piedi e stirò le braccia. Una volta tanto non gli sarebbe dispiaciuto che la gente andasse in ambulatorio avendo davvero qualcosa da curare. Almeno avrebbe saputo cosa farci.
- Dottor Watson? – John si voltò sorridendo verso Sarah Sawyer, che si era affacciata dalla porta. – C’è un signore che chiede di lei. Lo faccio entrare? –
- Di chi si tratta? –
- Non ne ho idea. Dice che è importante. Non credo si tratti di un paziente –
- Va bene, lo faccia entrare –
Sarah si fece da parte, per lasciare spazio ad un uomo di mezza età, vestito di tutto punto e con un’aria di superiorità, quasi di divertimento. Nonostante fuori non piovesse quello portava con sé un ombrello nero. Al suo seguito c’era una giovane donna piuttosto attraente, tutta intenta a digitare sul suo cellulare.
L’uomo si fermò di fronte a lui, e lo squadrò da capo a piedi. – Oh, capisco! – disse infine.
John aggrottò le sopracciglia. – Mi scusi, lei chi è? –
Quello alzò lo sguardo fino ad incrociare il suo. – La vera domanda è chi è lei, dottor Watson –
- Prego? – qualcosa nel modo di guardarsi attorno di quello sconosciuto gli ricordò l’investigatore dagli occhi azzurri (aveva deciso per quel colore) che aveva trovato la mattina precedente.
- Ex medico militare, con zoppia psicosomatica. Decisamente annoiato dalla sua vita attuale, non riesce a mantenere una relazione per più di qualche mese. Ma ci sfugge il collegamento. Qual è la sua relazione con Sherlock Holmes? –
Ecco, avrebbe dovuto immaginarlo. Era a causa di quell’individuo.
- Nessuna. Ci siamo conosciuti ieri –
L’altro sembrò divertito dalla sua risposta. –Ah sì? Eppure lei ha problemi di fiducia. Come mai ha deciso di fidarsi a prima vista proprio di Sherlock Holmes? Ammetterà che è strano –
Ottima domanda. Se lo chiedeva anche lui. Certo si era fidato della signora Hudson quando aveva scoperto che erano conoscenti, ma quello era successo dopo la sua decisione di trascinarlo in casa senza saper nulla sul suo conto.
- Lei si annoia, come ho detto. E ha visto qualcosa in Sherlock che suscita il suo interesse. Penso che potrebbe funzionare –
John indurì lo sguardo. – Chi è lei? – ripeté molto più freddamente di prima.
- Qualcuno che si preoccupa per Sherlock costantemente, anche se lui mi definirebbe il suo acerrimo nemico, temo – criminale, quasi di sicuro; capo di qualche associazione criminale che dava la caccia al detective per qualche ragione. E probabilmente anche gli stessi che l’avevano ridotto in quello stato.
- Se volesse riferirmi i suoi movimenti, dottor Watson, verrebbe ricompensato lautamente – ecco, infatti. Criminali.
- Mi dispiace, ma non sono interessato. Ora la prego di lasciare l’ambulatorio – ribatté, e sentì il soldato tornare ad uscire dall’angolino buio dove lo aveva recluso negli ultimi anni.
Ma l’estraneo non sembrò minimamente impressionato. – Ma certamente. Ci vediamo, dottor Watson. Saluti Sherlock da parte mia –
Quando se ne fu andato, John ricadde sulla poltroncina girevole, stupefatto. Si chiese se per caso non si era cacciato in un guaio ben peggiore di quanto pensasse. E così, se nella prima parte della giornata lavorativa aveva avuto il pensiero fisso dell'ospite a Baker Street, nel pomeriggio si ritrovò a visitare i pazienti con in testa l'uomo con l'ombrello.
Pensava che avrebbe potuto chiedere spiegazioni una volta tornato a casa, sempre che Sherlock Holmes non se ne fosse andato senza dire una parola durante la sua assenza, e pensava anche che sarebbe anche riuscito ad affondare nella poltrona dopo aver cenato, con una tazza di tè in mano e un episodio di Doctor Who davanti agli occhi. Si sbagliava.
Quando rientrò, non solo scoprì che Sherlock Holmes era in piedi ed arzillo come non avrebbe dovuto essere possibile con delle ferite come quelle che aveva, ma trovò anche Lestrade, intento a discutere animatamente con l'investigatore.
- Io e Anderson non lavoriamo bene assieme, lo sai! - stava sbottando il più giovane dei tre, incrociando le braccia al petto magro. Lestrade alzò gli occhi al cielo, e quando si accorse di John gli fece un cenno di saluto, prima di tornare a rivolgersi al detective.
- Non deve essere per forza il tuo assistente, Sherlock – disse, esasperato.
- Ma io ho bisogno di un assistente! -
- Allora, vuoi venire o no? -
- Non con la macchina della polizia – sentenziò infine Sherlock, voltando stizzosamente il viso dall'altra parte.
Greg sospirò, e sorrise con stanchezza al medico. Lui ricambiò, e gli rivolse anche uno sguardo interrogativo.
- Che sta succedendo, qui? -
Fu Lestrade a rispondergli, dato che l'altro era occupato a scrutare qualcosa dalla finestra. - Avevo bisogno di Sherlock per quei suicidi identici che sono successi uno dopo l'altro poco tempo fa. Grazie al cielo mi avevi detto che era da te, altrimenti proprio non so come avrei fatto a mettermi in contatto con lui. Ce n'è stato un quarto... -
- … e stavolta qualcosa è diverso. La vittima ha lasciato un messaggio prima di morire – completò Sherlock, tornando a voltarsi. - Vai pure avanti, Lestrade. Io ti raggiungo tra un po' -
L'ispettore di polizia stavolta annuì, lasciandoli soli. Appena fu fuori portata d'orecchio, il detective esultò. - Oh, grandioso! Tre suicidi identici ed ora un messaggio, sembra Natale! - esclamò, e quasi si mise a saltare dalla contentezza. - Erano secoli che non trovavo un caso così interessante! -
Poi si voltò di scatto verso John, che per istinto si ritrasse di un passo.
- Lei era un medico militare -
- Sì – rispose. Ecco di nuovo quello sguardo penetrante intento a giudicarlo e analizzarlo. Dopo aver sentito la conversazione tra i due, non gli fu difficile capire cosa stesse per chiedergli. E non sapeva se aveva intenzione di rifiutare.
- Uno bravo? -
- Molto bravo -
- Avrà visto molte morti violente. Magari anche qualche malattia -
- Sì, certo. Ne ho viste anche troppe -
Un bizzarro sorrisetto fatto con solo metà della bocca incurvò le labbra rosee dell'investigatore. - Vuole vederne altre? -
- Oh, Dio, sì! - sospirò John.
E in men che non si dica, si ritrovò trascinato in un taxi, che stando alle parole di Holmes, li stava portando alla scena del delitto. Quando raggiunsero il posto, John scoprì che si trattava di un palazzo abbandonato, già circondato e sigillato dai nastri gialli della polizia.
Una giovane donna dalla pelle color caffellatte li notò immediatamente, e si diresse verso di loro. Dal modo in cui guardò il detective, non sembrò molto bendisposta nei suoi confronti.
- Ma tu guarda se il freak non si fa rivedere dopo essere stato introvabile per quattro mesi! - esclamò, e quella che prima era stata un'impressione di antipatia tra i due, ora era una certezza chiara e limpida.
- Sally, è sempre un piacere venire a farvi visita – rispose sarcasticamente Sherlock Holmes. - Dottor Watson, ti presento il sergente Sally Donovan -
Lei parve piuttosto stupita, e gli strinse la mano con lentezza. - E questo chi sarebbe? Un altro spostato come te, o un tuo fan? -
- Il dottor John Watson, è con me – tagliò corto Holmes. Alzò il nastro della polizia e ci passò sotto, facendo segno anche a lui di fare lo stesso.
Non fece in tempo ad accostarsi all'entrata del palazzo, che già un altro uomo li intercettò, e sembrava ancora meno tollerante della donna appena incontrata. Si fece avanti con lo sguardo carico di disapprovazione.
- Questa è una scena del crimine, non voglio contaminazioni – intimò subito al loro avvicinarsi.
- Anderson, tua moglie è via da molto? Deve esserlo, a sentire il tuo deodorante! - Anderson sembrò ancora più perplesso di John, a quell'affermazione.
- Perché, che ha il mio deodorante? -
Watson dovette davvero trattenersi dallo scoppiare a ridere davanti a tutti, quando Sherlock fece notare come il deodorante di Anderson e della donna, Sally Donovan, fossero identici. E gli scappò anche un'occhiata di sbieco quando fece alcune tutt'altro che innocenti insinuazioni dopo aver dato un'occhiata alle ginocchia di lei. E di certo non era per lucidare il pavimento che lei si era recata da Anderson recentemente.
Dopo averli messi a tacere entrambi, il detective entrò nel palazzo, e John lo seguì, alla velocità che gli permetteva la sua maledetta gamba.
Lì Lestrade li stava già aspettando, con indosso una tuta di plastica blu per non contaminare il luogo del delitto. Ne fece indossare una anche a John, ma non fu in grado di fare lo stesso con Sherlock. Non sembrò affatto sorpreso di vederli insieme. Disse al detective che aveva due minuti, non di più.
Nella stanza dove si era verificato il “suicidio”, c'era una donna vestita di un colore rosa acceso da capo a piedi, sdraiata sulla pancia. Vicino alla sua mano si trovava una scritta incisa direttamente sul legno del pavimento, che diceva “Rache”.
Sherlock si chinò immediatamente sul cadavere. - Dottor Watson, si avvicini, per favore – gli disse.
Volle sapere da lui soltanto da quanto più o meno era morta la vittima, prima di iniziare ad esaminarla lui stesso. Non gli ci volle molto, e da lui vennero a sapere che veniva da Cardiff, che probabilmente lavorava nello spettacolo, e che regolarmente tradiva il marito. A stento John riuscì a star dietro alle sue spiegazioni quando illustrò da cosa aveva carpito tutte quelle informazioni, tale era la velocità con cui parlava, ma ciononostante rimase a bocca aperta. Quello non era semplicemente un bravo detective, era un vero e proprio genio.
- Fantastico! - esclamò.
- L'ha detto ad alta voce – gli fece notare il più giovane.
- Oh, mi scusi -
- No, no... va bene -
C'era una cosa, però, che riuscì a dedurre anche il dottore. Alle sue parole, Sherlock era arrossito; non vistosamente, ma indubbiamente. Aveva già saputo che non gli venivano fatti complimenti molto spesso, ma da quell'espressione capì che non erano solo occasioni rare, ma che si potevano letteralmente contare sulle dita. Sembrava anche più imbarazzato di quando lui era partito a dirgli “Incredibile!” a ruota libera dopo essersi sentito dedurre la propria vita.
“Forse la gente reagisce come me solo la prima volta che lo vede?”
All'improvviso, però, Sherlock si bloccò. Tornò ad esaminare il corpo della donna in rosa, e stavolta le alzò il viso, accostando il naso alle sue labbra.
- Lestrade, con cosa si erano avvelenati i tre precedenti? - domandò, ora preso da una bizzarra frenesia. Gli tremava tutto il corpo, ma non di paura: piuttosto, di euforia.
- Quelli della scientifica dicono che si tratta di una sostanza tossica di origine animale, probabilmente di una rana o qualcosa del genere. Non lo sanno ancora con precisione. È importante? -
Sherlock Holmes si alzò in piedi, con aria trionfante.
- Non si tratta di suicidi, ma di omicidi. E molto probabilmente l'assassino è una Creatura, o qualcuno che vive a stretto contatto con una di esse. Ho bisogno di analizzare in laboratorio i residui della sostanza prima di esserne sicuro, ma dubito di sbagliarmi. E c'è anche una valigia rosa da trovare, una valigia di piccole dimensioni! -
Corse fuori, quasi saltellando, al settimo cielo.
Stavolta John fu sicuro che la sua espressione sbalordita era identica a quella di Greg, o almeno molto simile.
- Come fa a sapere che si tratta di una Creatura? - gli chiese.
Greg alzò le spalle. - Non ne ho la più pallida idea. Però lui sa un sacco di cose sulle Creature. Sapevi che è stato Sherlock a permettere alla polizia di catturare la Creatura che poi è stata interrogata, prima che si togliesse la vita? -
John scosse il capo – No, non ne avevo idea. Il suo nome non appariva sul giornale -
- Ovvio, non possiamo far sapere in giro che mezza Scotland Yard lo usa per risolvere i suoi casi. Non so nemmeno cosa gli abbia permesso di sapere dove trovare quell'essere in quel preciso momento – Lestrade sospirò, passandosi le mani sul viso. Tornò a guardarlo, ma stavolta con un'ombra di allusività. - Piuttosto, John, che intendi fare con lui? -
Il medico aggrottò la fronte. - In che senso, scusa? -
- So che tempo fa si lamentava perché non trovava un coinquilino che riuscisse a sopportarlo. Dubito che abbia trovato una sistemazione, la maggior parte del tempo vaga un po' qua e un po' là. E tu sembri piacergli -
- Cosa te lo fa pensare? Non mi ha badato minimamente, dopo aver visto il cadavere -
- Ma non ti ha mai insultato, ne ti ha intimato di stare zitto, quindi gli piaci. Con lui funziona così. Se non ti insulta apertamente vuol dire che non gli stai antipatico, quindi hai buone probabilità di entrare nella sua categoria delle persone non fastidiose. Poi sei il primo che lui porta con sé ad una scena del crimine dopo averlo conosciuto da così poco tempo. E la signora Hudson farà di tutto per riportarlo a Baker Street: viveva dove abiti tu ora quando l'ho conosciuto, e lei stravede per Sherlock. Anche tu dicevi che l'appartamento ti sembrava vuoto, no? -
- Greg, lo conosco appena! E temo che tu stia fraintendendo la situazione! - esclamò John, colto di sorpresa.
Ma Greg si limitò a ridere, mentre lo accompagnava fuori dall'edificio. - Non sto fraintendendo niente. Dico solo che sarebbe la tua occasione di non essere più lì solo come un cane, e la sua di restare fermo in un posto, con qualcuno a tenerlo d'occhio senza doverlo spiare. Ma ovviamente non sono affari miei! - concluse, alzando le mani ai lati della faccia. Si diresse verso i suoi colleghi, per informarli sulle scoperte del detective.
John ripensò all'incontro di qualche ora prima nell'ambulatorio, quando quello strano signore con l'ombrello aveva indagato sul suo coinvolgimento con Sherlock Holmes. “Potrebbe funzionare” aveva detto. E aveva anche subdolamente chiesto come mai lui, che da un po' aveva difficoltà a fidarsi delle persone appena conosciute, non avesse esitato a farlo con un estraneo appena trovato in giro. E la signora Hudson, pure lei, gli aveva così insistentemente chiesto di ospitarlo per un po'. Per non parlare di quel modo in cui Holmes e lei aveva confabulato tra di loro, osservandolo in quella maniera strana. E ora ci si metteva anche Greg! Sembrava quasi che stessero complottando tra loro per tenerli assieme, ora che si erano incontrati!
- Dottor Watson? - lo chiamò la voce del detective. Sherlock Holmes, diversamente da come aveva creduto quando l’aveva visto correre via in fretta e furia, era ancora lì ad aspettarlo. Lo raggiunse, con insolita facilità di movimento.
- Allora, intendono lasciarvi esaminare i campioni di veleno, signor Holmes? - si sorprese a sorridergli amichevolmente, rilassato e disteso.
Lui annuì. - Non ne erano entusiasti, comunque. E, per favore, mi chiami Sherlock -
- D'accordo. Anche per me John va benissimo -
Sherlock si mordicchiò il labbro. - Volevo ringraziarla per avermi ospitato la scorsa notte -
- Si figuri, vedo che si è ripreso molto in fretta -
Voleva chiedergli di più su come faceva a sapere che c'era una Creatura di mezzo, ma il suo cellulare scelse proprio quel momento per squillare. John si scusò, e guardò chi era a chiamarlo. Vide scritto, sullo schermo, il nome di Mike Stamford. Si portò il telefono all'orecchio, sperando che Mike non finisse per parlare e parlare ininterrottamente per ore.
- John! - lo salutò entusiasta la voce dall'altra parte.
- Buonasera, Mike. È successo qualcosa? - le iridi color ghiaccio di Sherlock guizzarono attente, anche se il medico non ne capì la ragione.
- Ricordi quando hai detto che non ti sarebbe dispiaciuto avere un coinquilino con cui dividere l'appartamento? Beh, mi è venuta in mente una persona che ho conosciuto al Bart’s!-
- Oh, bene. E chi sarebbe? - aveva abbastanza fretta di finire la conversazione, a dir la verità. Il sorrisetto divertito del detective gli fece venire il dubbio che quel modo di parlare ad alto volume di Stamford lo facesse sentire anche da fuori.
- A volte viene a fare esperimenti nei laboratori. È una specie di detective. Si chiama Sherlock Holmes. Credo che potreste andare d’accordo –
Anche avendo allontanato il cellulare dal padiglione auricolare, la voce di Mike si sentiva forte e chiara. Sherlock doveva aver sentito tutta la conversazione. Ed ora sorrideva, ma forse era più un ghigno. John chiuse la conversazione e ripose l’apparecchio in tasca.
- Ha sentito tutto, vero? –
- Sì –
- Lei sta cercando un coinquilino, quindi? –
- Già –
- Immagino sia superfluo domandarle se ha mai pensato di tornare a Baker Street –
- Io suono il violino quando penso. A volte non parlo per giorni. Faccio esperimenti per i miei casi, ed ho orari irregolari a causa del mio lavoro –
- Non è un problema. Vogliamo discutere dell’affitto? –
 
 
 
Il dolore era terribile, ma sapeva che ce ne erano stati di messi peggio di lui.
Gli sembrava quasi di avere la schiena spezzata e trafitta allo stesso tempo, per non parlare degli occhi. Non vedeva nulla all’infuori di un bianco accecante interrotto solo ogni tanto da degli sfarfallii rossi, e bruciavano da morire. Forse sarebbe morto di lì a poco.
Ma no, nessuno moriva più lì, già da diverso tempo. Casomai perdevano la testa a causa della sofferenza fisica, ma non morivano. Ecco, doveva solo continuare a pensare, a tenere lontano il dolore, e una volta che il suo corpo si fosse sistemato non avrebbe avuto problemi. Per esempio, lui come sarebbe stato una volta terminato il processo? Aveva visto un ragazzo con una coda da rettile, e otto cose nere sulla schiena. Poi altri avevano lingue biforcute, occhi strani, artigli alle mani, zanne acuminate. Non c’era nessuno ad avere ali, però, forse temevano che potessero scappare, se avessero avuto le ali. Ecco perché nessuno aveva ali.
Continuare a pensare, continuare a pensare a qualsiasi cosa che non fossero quelle fitte lancinanti vicino alle spalle, e quelle migliaia di aghi negli occhi. Prima o poi sarebbero venuti a salvarlo. Magari li avrebbero salvati tutti, o forse no, sarebbero rimasti lì per sempre. Continuare a pensare.
Ah.
Ora vedeva qualcosa. Il bianco c’era ancora, ma non assoluto e accecante come prima. Niente più chiazze rosse. Ecco, intravedeva le figure degli altri, quelle code e quelle zanne, e quelle mani palmate.
- Stupefacente… - diceva qualcuno osservandolo, qualcuno di quelli senza coda e senza zanne. Cosa, cos’era stupefacente? Che cosa vedevano che lui non vedeva? Doveva saperlo. Odiava non sapere cosa gli stava accadendo. Cosa gli stava accadendo? COSA GLI STAVA ACCEDENDO?
Vide attraverso di loro. Inspirò di colpo. Sentì uno scricchiolio, come di carta che viene lisciata dopo essere stata appallottolata.
Oh.
Oh, dio.
 
   
 
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