Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Sofyflora98    09/10/2015    0 recensioni
Dal primo capitolo:
"Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
Fino a che non colsero sul fatto l'assassino. Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri."
****
Johnlock
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Professore, c'è una rivolta ai piani inferiori! - gridava terrorizzata una delle ricercatrici. Un uomo di mezza età, chino su dei vetrini al microscopio, alzò di scatto la testa. La donna era scarmigliata, i vestiti laceri in più punti, e aveva dei graffi sul viso e sulle braccia.
- Una rivolta? Questo è impossibile! Le misure di sicurezza... - stava per replicare, ma le parole gli morirono in gola, quando la porta blindata che chiudeva la scalinata per i laboratori sotterranei fu scardinata come se fosse stata di carta. I soggetti sperimentali si riversarono nel laboratorio del piano terra come una valanga, soffiando, ringhiando e urlando inferociti.
La donna fu la prima ad essere investita. Un giovane ragazzo dagli occhi neri come il carbone le spezzò la schiena, dandole una frustata con la coda flessuosa e coperta di scaglie coriacee e taglienti che gli spuntava dalla base della spina dorsale. Lei morì sul colpo.
Il dottore fece in tempo a nascondersi dietro un armadio, per non essere trucidato come il resto dei suoi colleghi. Era il finimondo, il caos più totale. Arti strappati dai loro corpi, artigliate che recidevano vene e tendini, morsi velenosi e profondi venivano distribuiti a chiunque si parasse sul cammino dei fuggitivi. Nei volti di quegli esseri dai corpi misti, vi si leggevano rabbia, furore, odio, disperazione. Facevano a pezzi gli scienziati, neanche fossero stati delle bambole, lottando come bestie ferite.
Quando terminarono la carneficina, si precipitarono verso l'uscita protendendo le mani in avanti. Non vedevano la luce del sole da mesi, alcuni anche da anni. Da quando erano ancora umani.
Il dottore tirò un sospiro di sollievo quando rimase solo. Si asciugò il sudore freddo dalla fronte, tentando di regolarizzare la respirazione. Aveva davvero temuto di fare la stessa fine degli altri, mentre osservava i suoi colleghi venire massacrati, dal suo nascondiglio. Per fortuna quegli esseri mostruosi desideravano più la fuga che la vendetta, in quel momento, e non avevano badato a controllare che qualcuno fosse loro sfuggito. Probabilmente era l'unico sopravvissuto, comunque.
Si alzò lentamente, guardandosi attorno con circospezione. Nessuno era rimasto lì. Poteva considerarsi momentaneamente al sicuro. Avrebbe dovuto togliersi da lì, andarsene al più presto, senza farsi notare, e senza farsi seguire se uno di quei cosi fosse stato ancora in circolazione. Doveva fermare i brividi alle gambe, e uscire dall'altra porta, per non trovarsi sulla loro strada.
Per poco non gli venne un colpo quando sentì uno scalpiccio venire dalla porta scardinata. Si girò, temendo già il peggio. Invece non accadde nulla.
Ce n'erano altri due, però. Stavano ancora uscendo dal laboratorio blindato. Erano rimasti notevolmente più indietro del resto della massa. Magari erano quelli più deboli, si disse lo scienziato, o più paurosi. Magari lo avrebbero lasciato in pace, e sarebbero scappati di corsa non appena l'avessero visto.
Si fecero avanti cautamente. Il primo, il più vecchio, aveva sporto il capo oltre la porta. - Via libera, è tutto calmo – sussurrò a quelli più basso dietro di lui. Trascinandolo per la mano, fece capolino un ragazzino, spaventato a morte, che tremava dalla paura, e si aggrappava al braccio del primo come se ne andasse della sua vita.
Quando vide i corpi mutilati, però, il più vecchio dei due afferrò il ragazzino e gli coprì gli occhi con le mani.
- Non guardare. Va tutto bene, e presto saremo fuori. Non guardare. Ti fa male la schiena? -
- Sì! Brucia da morire! Anche gli occhi mi bruciano da morire! - singhiozzò angosciato. Era molto sottile ed esile per la sua età. Il maggiore, quindi, lo prese in braccio, e lo lasciò schiacciare il viso contro la sua spalla. Gli accarezzava i capelli, cercando di tranquillizzarlo.
Vide il dottore ovviamente, ma non lo aggredì. Si limitò a schivarlo, rivolgendogli uno sguardo carico di disgusto e rancore, ma non si arrischiò ad attaccarlo, perché altrimenti avrebbe lasciato al più giovane la vista libera.
Già, il ragazzino. Quello era l'ultimo soggetto, ricordò il dottore. Lo riconobbe non dal viso, ma da quei due tagli obliqui sulle scapole.
Se ne andarono, lasciandolo lì, solo, in mezzo ai cadaveri.
Ed ora che erano a piede libero, che cosa avrebbero fatto, quelle Creature?
 
 
 
 
- Queste sono tutte cose tue, Sherlock? - domandò John. L'appartamento era abbastanza a soqquadro. Il detective doveva aver già trasportato i suoi effetti al 221B, evidentemente. Ma non aveva molto il senso dell'ordine. No, per nulla.
- Sherlock, mi rispondi? - chiese ancora, a voce più alta. Il giovane uomo era sdraiato sul divano, gli occhi chiusi e le dita delle mani congiunte. Li spalancò di colpo quando l'altro gli scosse la spalla.
- Cosa...? Oh! Sì, è tutta roba mia -
- Beh, dovremmo sistemarla un po'... quel teschio è vero? - si accorse solo ora del cranio umano appoggiato sulla cornice del camino.
- Ah, sì, un mio amico -
John si augurò che intendesse che il teschio fungeva da surrogato di amico, e non che fosse il teschio di un suo amico.
- Cosa stavi facendo? Sembrava stessi dormendo – chiese invece.
- Pensavo. Quella donna aveva sicuramente un cellulare ed una valigia. Probabilmente li ha entrambi l’assassino. O almeno li aveva. Devo cercarli. A cinque minuti d’auto dal luogo del delitto, circa – si alzò in piedi – Ci vado ora. Vuoi venire con me? In due faremo prima –
- E questa confusione? –
- Oh, noioso! – sbuffò il detective. John soffocò una risata. Un bambino, Sherlock Holmes si comportava come un bambino. Aveva iniziato a conoscere parte di quelle stranezze di cui gli aveva parlato Lestrade.
La sera prima non ci avevano messo molto a discutere dell’affitto. Avevano semplicemente deciso quando Sherlock avrebbe potuto portare la sua roba nell’appartamento, e stabilito chi avrebbe dovuto dormire nella camera da letto di sopra. John si era offerto di andarci lui, pensando che sarebbe stato un gesto carino lasciare che Sherlock tornasse nella stanza dove dormiva quando ci aveva abitato tempo addietro.
Accettò di seguirlo nella caccia alla valigia rosa di buon grado.
Scoprì, mentre l’altro lo faceva correre da una via all’altra, che conosceva Londra come le sue tasche, e ci si orientava di certo meglio di quanto John si orientasse nell’appartamento di Baker Street. E scoprì anche che niente sembrava esaltarlo come dare la caccia ad un serial killer. Nulla riusciva a distoglierlo dall’indagine, finché non risolveva il caso.
La trovarono, la valigia trolley della donna in rosa, come John aveva preso a chiamarla nonostante sapessero che il suo vero nome fosse Jennifer Wilson. Era, come aveva predetto Sherlock, a circa cinque minuti di auto da dove avevano trovato il cadavere, vicino a dei bidoni della spazzatura che a giudicare dalla quantità di sacchi di plastica accumulati vicino ad essi, non venivano svuotati da un bel pezzo.
Non si pentì affatto di averlo seguito; da moltissimo tempo non si divertiva così, anche se forse non era molto moralmente corretto dire di divertirsi in un'indagine per pluriomicidio. Ma era un fatto, e negarlo sarebbe stato da stupidi. Era troppo, davvero troppo tempo che era quasi completamente isolato e solo. Greg aveva ragione: quella convivenza con Sherlock Holmes non gli avrebbe fatto che bene.
Rientrarono nell'appartamento, quindi, portandosi dietro una valigia rosa shocking e qualche filamento dei sacchi nei della spazzatura, nonché l'odore di questi ultimi. Era talmente assurdo che John scoppiò a ridere sul pianerottolo, appoggiandosi alla parete per non scivolare giù. - Ridicolo! Questa è la cosa più ridicola che abbia mai fatto! -
- Ed hai invaso l'Afghanistan! - rispose Sherlock, contagiato dalla sua ilarità.
- Non ero solo. E non avevo con me una valigia rosa -
A questo, entrambi risero più forte.
Trasportarono il trolley su per le scale, nel salottino, tra le due poltrone.
Sherlock lo aprì, per verificarne il contenuto. Vestiti, biancheria intima ed una borsettina con spazzolino, dentifricio e altre cose da bagno. Più frugava tra gli oggetti della donna in rosa, e più sembrava soddisfatto. Chissà poi per quale ragione. John aveva vagamente intuito qual era il suo metodo di indagine, in che modo riusciva a capire tutte quelle cose. Ma metterlo in pratica era impossibile. Per quanto uno potesse sapere come doveva cercare, notare tutti i dettagli era tutta un'altra faccenda. Era sempre più convinto che la persona di fronte a lui avesse delle capacità straordinarie.
- Manca il cellulare – annunciò il detective.
- Ehm... bene? Oppure no? Okay, non ho idea di che importanza possa avere -
- Se non ce l'ha in valigia, significa che lo aveva in tasca. Ma sul cadavere il cellulare non c'era, quindi deve averlo l'assassino -
- Non potrebbe semplicemente averlo lasciato in albergo? -
- Non ci è mai arrivata all'albergo, e comunque aveva molti amanti, non lascerebbe il telefono in giro così. Per fortuna... - allungò la mano a sollevare un cartiglio attaccato alla cerniera della valigia – qui è scritto il suo numero -
- Non vorrai mica provare a contattare l'assassino, vero? -
- Per verificare che la mia ipotesi sia corretta, sì. Prendi il cellulare e scrivi esattamente quello che ti dico -
John rimase senza parole. Sarà stato un genio della deduzione, ma era anche un perfetto idiota. Che voleva fare, attirare a sé un maniaco omicida? Era completamente pazzo.
Ciononostante, gli obbedì, e iniziò a digitare il numero che gli veniva dettato. - Stai scrivendo? -
- Sì -
- Hai finito? -
- Aspetta un attimo! - sbottò.
Dopodiché si apprestò a scrivere il messaggio. Forse aveva capito il ragionamento dell'investigatore: se avessero ottenuto una risposta, allora l'assassino aveva il cellulare. Altrimenti era stato buttato via assieme alla valigia, e se anche qualcuno l'avesse raccolto, non si sarebbe interessato ad un messaggio come quello, perché avrebbe avuto significato solo per l'omicida.
- A proposito, c'era una cosa che dovevo dirti. È venuto un uomo in ambulatorio. Un tuo nemico. Acerrimo nemico, a sentir lui -
Sherlock sollevò le sopracciglia. - Davvero? Con un ombrello ed una donna che lo segue? -
- Certo, come fai a saperlo? -
- Non mi lascia mai in pace, ma non è un problema; non ora almeno – si sdraiò sul divano.  John rimase in attesa di ulteriori spiegazioni, ma queste non vennero mai. Il detective aveva chiuso gli occhi. Sembrava quasi che dormisse, ma probabilmente stava pensando.
- Sherlock? - disse nel tentativo di attirare la sua attenzione, ma fallì miseramente. L'altro non parve essersi nemmeno accorto della sua voce. E non poteva essere così indisponente da ignorarlo così, o almeno è quello che John sperò.
Comunque fosse, il dottore prese la decisione di uscire di casa, e magari prendere un fish and chips: non aveva ancora avuto modo di fare la spesa, e Sherlock gli aveva detto di non aver alcuna intenzione di cenare, per cui per una volta non si fece tanti scrupoli, nonostante non fosse esattamente sano per il suo stomaco. Come mai Sherlock non volesse cenare era un mistero. Ed era un mistero ancora più grande come facesse a non aver fame.
Non che fosse affar suo. Solo, era strano.
 
 
Quando sentì la porta chiudersi alle spalle del suo nuovo coinquilino, Sherlock si alzò di scatto. Sbirciò fuori dalla finestra per assicurarsi che non tornasse indietro, e quando fu fuori dalla sua vista, uscì anche lui.
Chiamò un taxi, e disse al conducente un indirizzo nell'East End, il lato della città ad Est del Tamigi , dove si trovavano da secoli i quartieri più degradati di Londra.
Come al solito, si fece portare ad un paio di vie di distanza dalla sua vera meta, che raggiunse a piedi. Nessuno sapeva che in quel posto c'era vita, nessuno tranne alcuni individui particolari.
Una volta era stata un negozio probabilmente, ma doveva essere chiuso da decenni. I pochi mobili che erano rimasti avranno avuto ottant'anni o giù di lì. Ma sebbene sembrasse completamente vuoto se visto dall'esterno, c'era molto movimento in quel posto.
Era una delle aree neutrali, dove le due fazioni potevano comunicare senza dover irrompere nei territori dell'altra. Nessuno realmente rispettava la questione dei territori, e tutti andavano ovunque, ma chi veniva scoperto a cacciare nei possedimenti degli altri, poteva venire punito molto duramente. Lì però no: la caccia era off limits, e lo erano anche gli scontri. Lì si comunicava, ci si teneva aggiornati con gli avvenimenti. E alcuni di loro, per quanto pochi, si scambiavano informazioni pacificamente senza venire accusati di tradimento della fazione.
Le fazioni erano nate poco dopo la “Fuga”, come loro amavano chiamarla. Due fazioni, con due leader diversi e due linee etiche diverse e rivali.
E poi c'era lui, che si ostinava a non voler appartenere a nessuna fazione, ma che purtroppo veniva sempre considerato membro della fazione “di sopra”.
In quel vecchio negozio sgangherato e polveroso, c'era un uomo accovacciato in un angolo, in attesa di visite.
Quando Sherlock aprì la porta scricchiolante, quello gli fece un cenno di saluto. Non era la prima volta che si incontravano lì, e non sarebbe stata nemmeno l'ultima.
- Buonasera, Sherlock – disse con voce roca – vedo che sei ancora tutto intero -
- Mi pareva fosse proibito per norme di sicurezza chiamarsi per nome proprio. Se qualcuno venisse a scoprire le identità degli altri, potrebbe approfittarne per un attacco. Non è quello che è successo a Victor Trevor? Per poco non ci ha rimesso la vita, solo perché era stato chiamato per nome qui -
L'uomo rise a voce alta. - Ma qui ora non c'è nessun altro! Sei paranoico, paranoico! Ma se ci tieni tanto, allora dico buonasera, W.W. -
- Così va meglio, per quanto io non ami le abbreviazioni. Buonasera anche a te, Empty Stare –
Gli occhi bianchi dalle pupille perlacee dell'interlocutore, rifletterono quel poco di luce che fluiva dall'esterno, mentre si alzava in piedi per stringergli la mano. Erano proprio quegli occhi quasi trasparenti il motivo per cui l'uomo veniva chiamato in quel modo. Era impossibile capire cosa stesse guardando, perché quelle iridi erano a malapena distinguibili dal bianco dell'occhio, e le pupille parevano costantemente perse nel vuoto. Per cui era stato battezzato “Empty Stare”, sguardo vuoto. Ma era solo in apparenza vuoto: in realtà poteva vedere molto più di ogni altro, con quegli occhi color perla.
- Mi chiedevo che fine avessi fatto – gli stava dicendo. - Mi era giunta voce che il capo della mia fazione ti avesse fatto a pezzi qualche giorno fa, ma era una menzogna, da quel che vedo -
- Mi ha solo pestato un po'. Ho trovato un nuovo coinquilino. Credo che stavolta sia uno a posto -
Empty Stare abbozzò un sorriso. - Fa sempre piacere sentirlo. A differenza dei miei compagni della fazione di sotto, non provo nessun odio nei vostri confronti. Ho solo alcune idee differenti su come dovremmo sviluppare il nostro stile di vita. Se sei qui, però, non è per chiacchierare con un mezzo rettile come me. Si tratta di quei finti suicidi? -
Sherlock non si chiese nemmeno come facesse l'altro a saperlo. Empty Stare era una di quelle persone che tendono le orecchie ed ascoltano i sussurri, che aguzzano la vista per guardare le mosche, e che in qualche modo finiscono per essere sempre un passo avanti rispetto agli altri.
- So già chi è l'assassino – sbuffò il più giovane – Ma non so come fare ad incastrarlo. Il rospo non è uno facile da incriminare: non si sa chi sia, e anche se la sua caccia è più che palese, nessuno può farci niente! -
- Già, il rospo... - il più vecchio – Mud Toad, è così che viene chiamato se non sbaglio... sì, qualche volta mi sono imbattuto anche in lui, proprio qui. È proprio un rospo a tutti gli effetti. Da poco nell'occhio, è flaccido e rugoso, e poco raffinato. Ma è meno innocuo di quanto non appaia. E si sa mimetizzare -
- Devo coglierlo sul fatto, oppure farlo uscire allo scoperto. Non lascerà mai tracce che possano far ricondurre i crimini a lui, vero? -
Empty Stare scosse la testa. - No, proprio no. Non lo farà. In fondo non è tutta opera sua -
- No, certo che no... - Sherlock sospirò. Stanare le Creature non era come stanare un comune criminale. Le Creature avevano un sistema di incriminazione e sanzione per conto loro, che a volte poteva differire da quello umano. E c'erano conseguenze alla punizione di uno di loro, anche se il condannato era nel torto.
- Ha a che fare il vostro capo fazione? - si rassegnò a domandare, sapendo già la risposta. Empty Stare annuì.
- Non farlo arrabbiare, Sherlock. Lui è un pesce troppo grosso anche per te. La prossima volta non si limiterà a picchiarti. Abbiamo bisogno di uno come te -
- Non gli importa un fico secco del rospo. Posso prenderlo senza che si rivolti contro di me -
L'altro fece un risata bassa di rassegnazione. - Non c'è modo di fermarti. Va bene, basta che resti vivo. Potresti attirare l'attenzione del rospo, e vedere se l'orgoglio non lo porterà a sfidarti apertamente. Poi saprai cavartela -
Sherlock annuì. Fece per voltarsi ed andarsene, ma l'uomo lo prese per la spalla.
- C'è qualcos'altro? - Empty Stare non rispose, ma mise una mano all'altezza della sua scapola. Sherlock sussultò, ma non si mosse.
- Quanto tempo? - gli chiese glaciale il più vecchio.
- Non saprei... qualche mese? -
Empty Stare imprecò tra i denti. - Sei un completo idiota – tirò fuori dalla tasca una scatoletta trasparente, che conteneva delle boccettine di vetro piene di un liquido viola. Gliela mise in mano.
- Mi raccomando, Sherlock. Ho detto che ti voglio vivo -
- D'accordo -
E stavolta se ne andò sul serio, stringendo nel pugno il contenitore.
Tornò a Baker Street, e dalle luci rimaste accese intuì che John era già tornato. Avrebbe dovuto trovare una buona scusa, ora. O magari anche no: un uomo adulto può andare dove gli pare senza dover dire i suoi piano agli altri. Ma lui è un medico. Si preoccupa per gli altri. Vorrà sapere cosa ho fatto.
Difatti, quando rientrò, lo trovò seduto sulla poltrona, lo sguardo vigile, come fosse in attesa.
- Dove sei stato? - ecco, infatti.
- Indagini. Niente di pericoloso -
Ma la risposta non sembrò soddisfare l'ex soldato. John si alzò in piedi con lentezza, e si diresse verso di lui, con sguardo severo. Improvvisamente Sherlock si sentì intimidire da quell'espressione dura. A parte qualche criminale da lui arrestato, nessuno aveva mai avuto il coraggio di guardarlo in quel modo. In genere erano gli altri ad essere spaventati da lui, e dalle sue stranezze. Invece quel John Watson, ora, gli stava andando incontro, ed era lui ad indietreggiare di un passo.
- Non ti ho mai visto mangiare. Davanti a me hai bevuto solo una tazza di tè, da quando ci siamo conosciuti – gli disse, e mentre pronunciava quelle parole sembrava volerlo fulminare.
- Difatti. Non mangio quasi mai durante un'indagine. La digestione rallenta il mio cervello. Problemi? - rispose comunque.
John si fece ancora più torvo. - Ora inizio a capire cosa intendeva Lestrade, quando mi ha detto com'eri. Immagino di dovermi aspettare svariate altre assurdità, ma questa è la più grande stronzata che abbia mai sentito. Cosa sei, masochista o idiota? -
Sherlock rimase senza parole. Aveva avuto altri coinquilini, e tutti quanto avevano disapprovato innumerevoli aspetti del suo modo di comportarsi, ma nessuno aveva prestato tanta attenzione proprio a quella sua caratteristica.
- Nessuna delle due, dottor Watson – e calcò volutamente sulle ultime due parole – Non sento alcuno stimolo alla fame mentre indago. E tu sei il primo che sento preoccuparsi di questo -
- Allora i suoi precedenti coinquilini erano degli imbecilli! - sbuffò John.
- Indubbiamente vero –
Stettero a guardarsi in cagnesco, ma non durarono molto. Scoppiarono a ridere, per la seconda volta nella giornata.
- Sul serio tu non mangi per giorni? -
- Certamente. E non sono ancora morto -
L'idea del detective semi svenuto dalla fame, una volta risolto un caso e ritrovato lo stimolo allo stomaco, aveva un che di ridicolo. John sapeva che vivere in due in un appartamento comportava finire per preoccuparsi del proprio coinquilino, ma non aveva idea che avrebbe dovuto fargli da balia. Okay che lo stile di vita dell'altro non erano affari suoi, ma come avrebbe potuto conviverci e lasciare che si comportasse in quel modo?
Dovrò occuparmi di questa sua abitudine. Sarà la condizione per restare a vivere a Baker Street.
- Posso sapere dove eri andato, comunque? - gli chiese. Non ci riusciva a restare arrabbiato, quando gli sembrava di prendersela con un bambino. Sì, proprio questo era Sherlock Holmes: un bambino.
Sherlock scrollò le spalle. - A parlare con un mio informatore. Gli ho chiesto se sapeva qualcosa riguardo i finti suicidi -
- E...? -
- Il consiglio che mi ha dato ha confermato che l'idea di scrivere un messaggio all'assassino era piuttosto azzeccata. Se è il tipo di persona che penso io, non vedrà l'ora di confrontarsi con me -
John si accigliò. - Perché, che tipo di persona credete che sia? -
- Scaltro, intelligente, ma dall'aspetto insignificante. Uccide per uno scopo ben preciso e in modo poco vistoso, se paragonato ad altri omicidi, ma in fondo lui vuole che la sua furbizia gli venga riconosciuta. È la debolezza dei geni... -
- Come te, insomma. A parte l'apparenza insignificante – fu con una certa soddisfazione vedere lo stupore ed una leggera indignazione dipingersi sul volto dell'investigatore.
- Che cosa si fa, quindi? - continuò. Era sinceramente curioso di vedere se Sherlock sarebbe riuscito a prendere l'assassino così poco tempo dopo l'inizio della sua indagine.
- Ora si aspetta. Buonanotte, dottor Watson -
 
 
 
Gli aveva detto buonanotte, ma quella che lo aspettava non lo sarebbe stata affatto. E lo capì quando guardò il cellulare, e vide tutti i messaggi che gli aveva spedito suo fratello Mycroft. Ovvio che sapeva del suo ritorno a Baker Street. Se era andato all'ambulatorio dove lavorava John Watson, doveva essergli bastato uno sguardo per capire che avrebbero finito per diventare coinquilini, almeno per un po'.
Sherlock aveva già fatto diversi tentativi di convivenza con altre persone, ma erano falliti tutti miseramente. La prima cosa di lui a farli impazzire era il suo carattere, seguito dalle ore passate nel suo Palazzo Mentale, durante le quali no si accorgeva di niente o nessuno, e i suoi infiniti silenzi non erano graditi dalle persone comuni. Chi superava questo, doveva avere a che fare con i suoi esperimenti. Ben poche persone avrebbero potuto sopportare i pezzi di cadavere sparsi per la casa.
E per finire, anche loro davano fastidio a lui. O erano incommensurabilmente stupidi, oppure irritanti di natura. I pochi che erano sopravvissuti a tutte queste cose, se ne erano andati o erano stati abbandonati per svariati altri motivi.
Quell'uomo, invece, sembrava avere buone possibilità. Per prima cosa, per quanto non fosse tra le persone più intelligenti che conoscesse, non aveva un carattere che gli dava sui nervi. Poi sembrava più che disposto non solo a non provare ad impedirgli di ficcarsi nei guai, ma addirittura ad andare con lui.
E poi c'era quell'ultimo requisito, il più difficile da trovare. Perché c'erano persone che sapevano evitare di rallentare il suo cervello con le loro opinioni idiote, c'erano persone in grado di sopportarlo, e anche persone che amavano l'azione. Ma ben pochi sarebbero stati così aperti e pronti ad adattarsi a cose irreali. Quando si rendeva conto che non avrebbero potuto accettare la realtà, aveva trovato delle scuse per allontanarsi anche dai quei pochi accettabili che aveva trovato. Che comunque non erano un granché, ma paragonati agli altri...
Invece questa volta aveva l'impressione che John Watson avrebbe potuto capire. Se non l'avesse fatto, avrebbe dovuto andarsene di nuovo. Sempre sperando che non lo scoprisse per conto suo, e andasse a raccontare tutto alla polizia, o chissà chi altro.
“Ho visto il tuo nuovo animale da compagnia, Sherlock. Ti piace così tanto esporti a certi rischi? M.H.”
Quello era l'ultimo SMS di Mycroft, che seguiva una lunga serie di raccomandazioni e rimproveri. Si decise a rispondergli, ma solo perché forse si sarebbe deciso a smettere di tormentarlo, anche se era solo una tenue possibilità.
“John Watson sembra promettere bene. Se ho fatto correttamente le mie osservazioni su di lui, potremmo addirittura dirgli di noi. Sai che abbiamo bisogno di persone del genere. S.H.”
Suo fratello gli scrisse ancora dopo nemmeno un minuto.
“No, Sherlock. Noi non ne abbiamo bisogno. Sei tu a non voler accettare la realtà delle cose. Noi non facciamo più parte della loro società. M.H.”
Sempre la solita storia. Lo sapeva, che diamine, lo sapeva! Aveva iniziato a digitare una rispostaccia a tono, quando vide un altro messaggio aggiungersi al precedente.
“Non farti coinvolgere. Soffriresti soltanto. M.H.”
Non gli rispose.
Uscì dalla stanza, per controllare che il suo nuovo coinquilino fosse già andato a dormire. Le luci erano spente, e John Watson non era più in soggiorno, né in cucina Doveva essere andato nella sua camera, quindi. Bene.
Si chiuse la porta a chiave alle spalle. Si sedette sul bordo del letto, si sfilò la giaccia, e prese a sbottonarsi la camicia. Lasciò che gli scivolasse dalle spalle, la posò sul materasso. Finì di spogliarsi lentamente, silenziosamente, e lasciò tutti gli abiti sul letto. Un brivido gli fece accapponare la pelle, ma lui non batté ciglio.
Frugò nelle tasche del cappotto alla ricerca della scatoletta di plastica datagli da Empty Stare. La tirò fuori, la aprì, e prese una delle piccole boccettine di vetro, prima di rimetterla dov'era.
Sollevò quell'oggettino all'altezza degli occhi, e lo osservò intensamente. Era necessario, si disse, non poteva farne a meno, anche se sarebbe stato doloroso.
La stappò, e mandò giù il liquido violaceo che conteneva d'un fiato. Contò mentalmente fino a dieci, aspettando che iniziasse a fare il suo effetto.
La prima fitta era leggera, appena una lieve pressione dall'interno verso l'esterno.
La seconda già iniziava a bruciare. La terza gli fece tremare la schiena. La quarta lo costrinse a stringere i pugni.
La quinta gli tolse il fiato.
Cadde sulle ginocchia, piegato in due dal dolore. Quelle che fino a poco tempo prima erano solo due cicatrici bianche sulle sue scapole, ora erano arrossate e doloranti, e già sentiva il familiare scricchiolio della pelle che si lacera.
Ormai aveva le unghie conficcate sui palmi, e le labbra, morse con forza per trattenere le urla, erano calde e bagnate di sangue.
Si chinò, si appoggiò con le braccia al pavimento, mentre le sue membra venivano scosse da un altro spasmo. Ecco, ora anche gli occhi bruciavano terribilmente, e le lacrime scorrevano copiose sui suoi zigomi.
Si lasciò sfuggire solo un singhiozzo sommesso, quando le due cicatrici si aprirono completamente, e ne fuoriuscirono quelle due cose. Rumore di carta stropicciata e poi lisciata. Una vibrazione alle spalle, che si calmò solo dopo qualche minuto.
Finalmente il dolore scemò, e riuscì a raddrizzarsi. Ancora respirando affannosamente, si portò le mani, ora ferite dalle sue unghie, ad asciugare le lacrime. Il sale di queste gli faceva anche bruciare le labbra, gonfie e doloranti a causa dei morsi.
Si alzò lentamente in piedi, e fece sgranchire le due sottili ali che aveva liberato. Erano ali simili a quelle degli insetti, perlacee e attraversate da innumerevoli venature. Meno fragili di quanto apparissero, ma comunque molto delicate. Semitrasparenti e leggere come fogli di carta.
E anche se non li poteva vedere, sapeva che pure i suoi occhi apparivano diversi. Cangianti, quasi privi di pupilla, quasi splendenti nel buio. Sempre tra l'azzurro e il verde, ma di un colore molto più intenso e innaturale.
Quello era ciò che gli era rimasto, dalla loro fuga, tanti anni prima. Tutti loro avevano quelle Estensioni, come avevano deciso di chiamarle. Alcuni le avevano quasi uguali tra loro, altri invece sfoggiavano forme insolite. Ed altri uniche.
Le code erano molto comuni, così come gli artigli e i denti affilati. Più rari erano gli occhi “cangianti”, le orecchie ipersensibili e il veleno. Suo fratello aveva fatto una classificazione lunga e dettagliata di tutte quelle caratteristiche, facendo un elenco anche di chi aveva le une o le altre.
La maggior parte di loro ingeriva regolarmente quel fluido viola. Scatenava le Estensioni, riaprendo le fessure d’uscita. In quel modo, potevano utilizzarle ogni qualvolta desideravano senza che la loro uscita fosse dolorosa. Lui era uno della minoranza che si comportava diversamente. Lui non beveva quasi mai il fluido, e per questo le due cicatrici facevano sempre in tempo a richiudersi del tutto. Era un po’ come farsi i buchi alle orecchie: gli altri tenevano il primo orecchino costantemente, e disinfettavano la carne viva perché si richiudesse la pelle all’interno, lasciando l’apertura stabile. Lui invece, continuava a toglierlo e rimetterlo, ed ogni volta la ferita di chiudeva e riapriva.
L’unica ragione per cui di tanto in tanto beveva il fluido, era  per mantenere quelle Estensioni in vita. Era la fonte di nutrimento delle Estensioni, che non potevano assorbire l’energia dal cibo che mangiavano, per qualche strana ragione. Erano come parti di un altro corpo. Ed in effetti lo erano, anche se ora se le trovavano attaccate addosso. Avevano sperimentato molti modi di mantenerle sane, nel corso degli, anni, e quello per il momento era il più efficacie. O meglio, il più efficacie che non andasse contro i loro valori etici e morali.
Quelli dell’altra fazione non la pensavano allo stesso modo…
Si sedette a gambe incrociate a terra. Allungò le braccia all’indietro, e afferratane una, iniziò a lisciarla e stirarla, a rimetterla a posto per così dire. Ripeté l’operazione con le altre. Se solo fossero state ali membranose, come quelle dei pipistrelli, sarebbe stato molto più semplice. Invece l’insetto da cui prendevano la forma… perché doveva averle divise in così tante parti?
Quando ebbe terminato, le richiuse, e tornarono a sparire sotto la sua pelle. Era improprio dire che le richiudeva. Avevano osservato il modo bizzarro in cui le Estensioni sparivano senza lasciare traccia, a parte le classiche cicatrici bianche, ed erano arrivati alla conclusione che si atrofizzavano e rimpicciolivano in pochi secondi, per poi tornare alla loro forma originale quasi altrettanto rapidamente. A meno che come lui non fossero tenute nascoste per lunghi periodi.
Si gettò sul letto, prendendosi la testa fra le mani. Dio, perché?
Una vita nascosta, ecco cos’era la loro, ecco cos’era la sua. Non era possibile condurre un’esistenza normale. E anche se non avessero avuto bisogno di nascondersi fisicamente agli altri, non erano più psicologicamente in grado di essere… in mezzo alle persone. E questo ancora prima che gli umani completi si accorgessero della loro esistenza.
Le Creature. Creature, così li avevano chiamati. E neppure loro si erano mai dati un nome. Ora che erano stati classificati addirittura con un termine differente, anche se gli umani non avevano idea di cosa loro fossero, il distacco si era fatto ancora più netto.
Se però John Watson fosse stato diverso dagli altri, se lui avesse capito cos’erano le Creature, cos’erano davvero… se fosse stato disposto ad ascoltare, magari, a tempo debito…
Non farti coinvolgere, Sherlock. Soffriresti soltanto.
Le sue iridi tornarono gradualmente del loro colore originale.
Si addormentò con quelle parole che gli rimbombavano nella testa.
Rivide il giorno della fuga, in sogno, e la Creatura dagli occhi neri che l’aveva guidata. Rivide il giorno in cui aveva usato quegli occhi cangianti per la prima, volta, e in cui aveva dischiuso quelle ali che non volavano, sottili, deboli e insignificanti la prima volta.
 
 
Come te, insomma. A parte l'apparenza insignificante
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Note:
Non ho granché da dire, in realtà. Volevo solo avvertire che non posso garantire la regolarità degli aggiornamenti, per svariate ragioni. Ho molti impegni, ma farò del mio meglio per scrivere più che potrò. Quindi è possibile che ci siano aggiornamenti mediamente abbastanza rapidi, oppure più lenti. Dipende dal periodo dell’anno e dall’umore di alcuni professori.
Grazie a chiunque legga questa storia!
 
Sofyflora98
   
 
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