Sono sveglio. Sono qui. Sono
vivo.
Sento qualcosa dietro la mia
schiena,
qualcosa di pesante, qualcosa di grosso. Ma non mi interessa. Sono
vivo.
È buio, qui dentro. È stretto,
voglio
uscire, la sensazione di costrizione mi sta dando alla testa, detesto
il buio.
Espando il mio corpo, ecco
cos’era a
gravare sulla mia schiena. Delle ali, ho due ali, due enormi e
meravigliose
ali. Dio, come sono felice di essere vivo!
Apro le ali.
Sento che la mia gabbia si
spalanca, il
mio fardello si spezza, sto evadendo dalla mia prigione. Vedo nel buio
aprirsi
uno squarcio luminoso. Sembra un sole, un sole splendente.
Il sole... ricordo ancora che
colore
abbia? Non so neanche quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho
visto il
sole...
Prima potevo osservarlo da
lontano,
nascondendomi qui dentro. Spiavo il mondo esterno. Ma ricordo poco di
quei
giorni, quasi nulla. Non ero io quello, non ero io quello nascosto al
buio che
scrutava il mondo esterno da quel piccolo forellino.
Non ero io. Io sono vivo.
Lo squarcio si fa più ampio.
Sempre di
più.
L’ultimo sforzo, sento le ali
fare
resistenza, sento il mio corpo liberarsi dalle costrizioni, distrutto,
stanco,
devastato. Ma non mi fermo, non intendo fermarmi per restare qui
dentro.
Tirò fuori la mia anima, evoco
le mie
ultime energie e spingo, sorgo da questa posizione sottomessa a me
stesso, le
mie ali non trovano più ostacoli. Lo squarcio diventa tutt’uno col
cielo e
attorno a me, il sole comincia a brillare, anche per me.
Sento la vertigine, mi sento
cadere,
non voglio cadere.
Mi rendo conto di avere delle
forti
zampe, riesco a rimanere sospeso, aggrappandomi. Sento le ali
annichilite,
infiaccate. Il sangue deve fluire dentro le loro venature, perché
queste
diventino utilizzabili. Le sento sempre più pesanti, si stanno
riempiendo di
liquido, si stanno riempiendo di sangue.
Ho il primo dubbio.
Come farò a portarle? Come
potrò
trascinare queste ali così pesanti?
Il mio corpo è troppo debole
per loro.
Finalmente il loro peso smette
di
crescere e il loro volume di aumentare. Finalmente capisco. Non sono
io a
doverle trasportare, sono loro a dover trasportare me.
Sento la stanchezza del mio
corpo
svanire, il calore andarsene e la fatica allontanarsi.
Sono vivo e ho con me le mie
ali.
Le allargo, fiero. La loro
ampiezza è
maestosa e il loro colore sgargiante. Sento l’aria muoversi attorno a
me, il
mondo muoversi attorno a me. Loro non spostano me, loro muovono tutto
il resto.
Io rimango fermo, nel loro
perfetto
centro di equilibrio, mentre tutto il mondo viene spostato dalle mie
ali. Sto
volando.
Sto volando.
Mi sento così potente, così
forte, così
invincibile.
Arrivo in alto, seguo il sole,
la luce.
Do due colpi, due rapidi
movimenti e
sono più in alto di una distanza che mai avrei pensato di percorrere
in così
poco tempo. Sto volando.
Mi poso su un ramo, il primo
volo è
stato fatto, ora tocca al secondo. E so per certo che, quando avrò
spiccato il
volo per la seconda volta, difficilmente deciderò di tornare a toccare
il
terreno.
Penso a come sarebbe una vita
totalmente in volo, senza mai far riposare queste ali meravigliose,
senza mai
poterle fermare in modo da ammirarle.
Tutta la vita in volo.
Tutta la vita.
Tutta.
Una settimana.
Soltanto una settimana.
Una misera settimana. Sento
l’ansia
crescere dentro di me, le lacrime presentarsi agli occhi, lo stomaco
stretto in
una morsa di preoccupazione.
Ho solo una settimana da
vivere...
Piango, ma poi qualcos’altro
si
presenta in cima alla lista delle priorità, ho fame, devo mangiare
qualcosa,
devo sopravvivere, ho bisogno di energie perché il mio corpo riesca a
sopportare ancora fatica. Sento di dover inserire cibo nel mio corpo.
Con la
mia lunga bocca nera dalla forma di una cannuccia.
Ho fame, significa che sono
vivo.
Mi muovo, sento gli istanti
correre e
lasciare un segno indelebile sul mio corpo. Un marchio permanente.
Mi avvicino ad un fiore,
decido di
affrontare gli schemi, non voglio passare tutta la mia vita in volo,
atterro su
uno dei petali del fiore. Bianco, candido, lucido. Il petalo è morbido e
soffice, ma non abbastanza da lasciarmi cadere.
Allungo la mia bocca, la cui
punta si
inserisce nel cuore del fiore. Inizio a cibarmi, sento il polline che
viene
attratto all’interno della mia bocca. Che mi sfama, che mi delizia.
Dio, è buonissimo, ha un
sapore divino.
Allargo di nuovo le ali, sono
sazio,
voglio volare.
Ritorna il dubbio.
Una settimana, sette giorni,
centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti,
seicentoquattromilaottocento
secondi. Potrei contarli, da ora fino alla mia morte, ammesso che
avvenga con
precisione. No, avrei già perso il conto, sono vivo da qualche minuto.
Sono vivo.
Volo e penso a quanto
dev’essere stato
stupido e cinico colui che mi ha creato, dandomi delle ali, questo corpo
meraviglioso, questo cibo e l’opportunità di andare dove voglio ma
concedendomi
solo una settimana di vita.
Viaggio ancora. Incontro sulla
mia
strada foreste su foreste, natura, verde. Dove sono gli umani? Comincia
a
scendere la notte.
Un giorno.
Giungo sopra una città, le
luci si
accendono, la notte scompare. Decido di scendere.
Le persone mi guardano strano,
si
chiedono che cosa ci faccia io qui. Perché non capiscono che voglio
passare i
miei pochi giorni di vita dove voglio stare?
Gironzolo ancora per le strade
svolazzando. Ad un certo punto le luci iniziano a darmi fastidio, i
rumori
della macchine cominciano a torturarmi e le voci delle persone a
martellare il
mio cervello.
Me ne vado, ma quando riprendo
quota,
mi rendo conto che si sta facendo giorno. La luminosità della città mi
aveva
ingannato, il sole sta sorgendo all’orizzonte, quanto tempo è passato?
Secondo giorno.
Voglio continuare a volare.
Sono vivo.
Sono
ancora
vivo.
Sto
ancora
nuotando.
Ancora,
nello
stesso mare, nelle stesse acque.
Giro
l’angolo,
il fondale è abitato da dei Clamperl. Almeno così li chiamano gli umani,
strani
esseri che vivono chiusi nelle loro case, in attesa di qualcosa che li
sconvolga, che li uccida o che li trasformi in esseri migliori.
I
Clamperl,
intendo, non gli umani.
No,
anche gli
umani, ora che ci penso... ne ho visti tanti, ho vissuto abbastanza, ho
assistito alla nascita di molte persone e alla loro morte, una dietro
l’altra.
Ricordo Michael, lui mi prese con sé da bambino, era felicissimo, diceva
che
ero una specie rara. Passarono gli anni, e ora ho in testa l’immagine di
lui
che mi saluta, mi augura il meglio, mi rigetta in mare... vecchio,
stanco,
prossimo alla morte.
E
così tutti
gli altri. Mi invidiavano. Non con cattiveria, ma con una punta di
malinconia.
Da giovani dicevano che ero fortunato, io, che non ero in continua lotta
col
tempo. Che su di me i giorni non gravavano. Poi, una volta divenuti
vecchi, si
ricredevano, mi chiedevano scusa affermando che non potevano capirmi,
che la
noia e la monotonia distruggono ogni cosa... persino la vita stessa.
Quando
si
decidevano a lasciarmi, provavano compassione per me. Sapevano che avrei
passato molto altro tempo sulla terra. O meglio, in acqua.
Svolto
per la
fossa delle alghe e cominciò a scendere in profondità, in mezzo alle
luminose
antenne dei Lanturn che mi guidano come muti ciceroni.
Ormai
sono
abituato, negli ultimi anni ho avuto il tempo di esplorare i mari, gli
oceani. Ma
non li ho visti tutti e mi piacerebbe avere il tempo di farlo. Tuttavia
da
molto tempo non incontro nessun umano, forse da un secolo ormai, non
pescano
più, non nuotano più, non vanno più sulle loro barche.
Sono
tornato a
riva, un paio di volte. Adesso sono come i Clamperl, vivono nel loro
guscio,
silenziosi, solitari.
Non
so più come
divertirmi.
Sono
ancora
vivo.
Sono
vivo,
ancora.
Io
mi annoio,
cerco di uccidere la snervante attesa di questo percorso che fatica ad
arrivare
al termine... la vita è troppo lunga, la noia ci uccide prima che lo
faccia il
tempo. Per questo li capisco, i Clamperl e gli umani, quando decidono di
nascere e morire soli, fermi, lontani da ognuno.
Anzi...
li
capirei, li capirei se loro fossero in vita da millenni, come me!
Un
secolo, se
sono fortunati... un secolo, se proprio la natura decide di essere
clemente con
loro.
Un
secolo per
provare tutte le emozioni del mondo, amore, gioia, rabbia, tristezza,
delusione, felicità, odio, serenità... e loro lo buttano come fosse
sabbia.
Anzi
no.
Mezzo
secolo.
Perché, passata quella linea, cominciano a vivere di ricordi, come se
avessero
raggiunto un traguardo, e parlano di nostalgia, stanchezza, ricordi,
esperienza...
Gli
umani sono
creature semplici, a loro basta poco per essere felici.
Ma
hanno
frainteso tutto.
A
loro basta
poco per essere felici, ma ciò non vuol dire che debbano accontentarsi
di quel
poco e vivere soltanto una frazione di ciò che la loro vita ha da
offrire.
Vorrei
poter
vivere per sempre per farglielo capire. Mi chiamano Relicanth e io posso
raccontare
di aver visto il mondo.
Di
aver avuto
la mia vita, di aver avuto i miei compagni di avventure. Ora sono solo
un
vecchio e burbero pesce che si lamenta del mondo da dietro il suo
teschio
ingiallito.
Certe
volte
penso di aver vissuto troppo. Ogni mattina apro gli occhi cosciente e
desideroso di ricominciare, ma dopo poco tempo quell’entusiasmo svanisce
e
lascia il posto alla malinconia, il tedio delle giornate sempre uguali,
sempre
identiche.
Sono
vivo.
Ancora.
Ho
provato
molte emozioni, negative e positive, ho visto molti posti e nuotato in
molte
acque. Una volta sono stato persino in un acquario. Quella sì che è
stata
un’esperienza particolare. I cuccioli di umano che si fermavano dietro
la
vetrata mi ricordavano me nel mio primo secolo di vita, quando ancora
lottavo
con i fili dei pescatori per non essere pescato e combattevo a testa
bassa
contro gli scafi delle navi che violavano i confini del mio territorio.
Già...
il mio
primo secolo di vita.
C’era
tanto da
fare e da vedere, e se non c’era ero io ad inventarmelo.
I
cuccioli di
umano erano come me, mi chiedevo sempre cosa trovassero di interessante
in un
vecchio pesce. Poi l’ho capito, ho capito che erano portati a stupirsi
per ogni
cosa. A curiosare in ogni anfratto della realtà.
Ogni
cosa a
loro sconosciuta, diventava subito bellissima.
Anche
io
ragionavo così, da giovane.
Siamo
fatti per
essere felici di vivere. Solo, ne perdiamo la capacità col passare del
tempo.
Io
sento che il
mio tempo sta per giungere, che la mia era sta per terminare, ma non so
quando
questo avverrà e sinceramente la cosa mi spaventa. Mi sentirei fuori
posto a
non essere più vivo dopo tutta questa eternità passata a non
preoccuparsi
minimamente di raggiungere l’orizzonte. Ma che importa? Io sono ancora
in vita.
Sono
vivo.
Sono
ancora
vivo.
Sesto giorno...
Sono stanco.
L’ansia grava su di me, le mie
ali si
fanno pesanti e la mia testa pure.
Sono davanti al fiore che mi
ha nutrito
ieri, credo di aver dormito su questo petalo, di esser caduto in un
sonno
profondo senza accorgermene.
Su questo petalo morbido e
soffice...
ah basta!
L’avevo già detto.
Quante cose ho scoperto si
possono
dire, tante parole che non conoscevo. Marciapiede, Pokémon, campanello,
panettiere.
Beautifly.
Ho scoperto che gli umani mi
chiamano
Beautifly. Non che una misera identità potesse farmi vivere
diversamente. Ho
volato, mi sono nutrito, ho visto il mondo dall’alto.
Credo almeno di averlo visto
tutto, non
ne sono certo ma potrei averlo fatto, sono arrivato al quinto giorno di
vita
che continuavo a tornare nello stesso punto.
E poi le cose che sentivo di
fare erano
sempre le stesse.
Nuotare,
combattere,
respirare.
Scendere sui fiori, prenderne
il
polline, portarlo ad altri.
Non so quale sia il motivo di
questa
voglia di aiutare i fiori. Ma so che voglio farlo, so che è la mia
missione. E
mi sono reso conto che non abbiamo molto altro da fare, dopo tre giorni
che
continuiamo a vantarci delle nostre ali.
Ho incontrato anche altri
Beautifly,
ora che ci penso. Tra cui una femmina, bellissima, credo abbia già
deposto le
uova dei nostri figli.
Ora non so più che fare.
Continuo ad impollinare fiori,
intanto.
E continuo a passare in mezzo agli umani.
È divertente vederli quando si
girano e
sorridono, i bambini mi corrono dietro e sono felici. Ma io vengo
inseguito da
loro e riesco sempre a scappare.
Mentre lei... la morte mi sta
dietro
dal primo giorno. Mi dice che arriverà il mio momento, che dovrò cadere
anch’io. E io non riesco a pensare ad altro.
Non
so se è ora
di arrivare alla fine.
Non riesco a pensare di dover
arrivare
alla fine.
Sono un essere...
...imperfetto.
La mia vita potrebbe essere
meravigliosa ma mi ritrovo a sguazzare nella noia, a metà tra la paura
di
morire e la gioia di liberarmi di questa fatica.
Sento
la
stanchezza degli anni su ogni squama, ma ancora continuo ad avere uno
scheletro
capace di sopportare i secoli.
Impollino fiori.
Solco
i mari.
Continuo
la mia
vita.
E
continuo a
pensare che essa sia troppo breve e troppo lunga al tempo stesso. In
certi
momenti vorrei che fosse migliore o che finisse in quell’istante.
Ma
poi mi rendo
conto che sarebbe uno schifo.
La
mia dolce
non-necessità di vivere è quanto di più indispensabile avessi mai avuto.
E
ogni fiore
che impollino, ogni umano che incontro... mi rendo conto che miliardi di
altri
esseri la hanno, proprio come me. Loro vivono, io vivo, noi viviamo.
Non
lo facciamo
per noi, non lo decidiamo. Ma viviamo. E più mi avvicino alla fine, più
mi
rendo conto di come sono stato perfettamente incastrato in questo enorme
meccanismo.
Sono
parte di
qualcosa, sono vivo.
Non
so se sia
un bene o un male, ma vivo.
E
giorni, anni,
secoli o millenni.
Siamo
parte di
qualcosa di più grande, la mia vita è tutto ed è nulla.
Ho
vissuto
giorni.
Ho
vissuto
millenni.
Ma
mi son
sembrati solo quattro secondi.
Uno...
Due...
Tre...