V
Su come lo scegliere Caron Dimonio sarebbe stato meglio
Una
mattina eravamo con Rob, il Gamba e Blanca al porto, scivolavamo tra
le bancarelle rubacchiando qualcosa qui e lì.
Dai
ponti dei pescherecci vedevo sollevarsi le anime dei pesci, creavano
un buffo alone assieme alla puzza. Capitava che mi fermassi a
guardarle e O’Neill, spazientito, mi tirava calci sui garretti.
“Si
può sapere cosa guardi imbambolato? Come se non avessi mai visto il
mare, sembri diventato scemo come il Gamba.”
Si
beccò un colpo di ammonimento sul petto: “Cerco un buco per
buttarti a mare, cerco, per la prossima volta in cui ti uscirà una
stronzata del genere.”
Eccezione fatta per Blanca, non avevo parlato agli altri di quanto vedevo, e, se anche lo avessi fatto, O’Neill non era contemplato tra coloro che lo avrebbero saputo.
All’epoca
alla morte non pensavo quasi più: avevo da pensare a vivere – e
sopravvivere -, e poi, in città, anche la morte assumeva contorni
vaghi, come qualcosa di insignificante, su cui non c’era tempo di
soffermarsi.
La
morte giaceva nei vicoli strapieni di spazzatura, nell’ombra; non
più drammatica, ma solo fastidiosa – intralciava le carrozze,
rendeva le strade indecorose, doveva restare relegata in vicoli
dimenticati anche da Dio.
Gli
uomini andavano a morire in luoghi nascosti, divorati dalla fame e
dal freddo, ubriachi di vino e solitudine, accoltellati – e dai
quei luoghi mi tenevo ben lontano, perché negli occhi avevo ancora
le orbite vuote di Bucefalo e il ventre svuotato di un uomo. Mi
bastava.
Quando
vedevo il bagliore di un’anima distoglievo lo sguardo e cambiavo
strada.
Le osservavo solo sul mare, perché il mare era troppo maestoso e superbo per farmi soffermare sulla miseria di tutto quello che vi stava sopra, dentro e attorno.
***
Rob
quel giorno aveva voglia di essere bastardo.
Iniziava
la bella stagione, molte navi erano pronte a partire. I marinai, in
lunghe file come formiche, caricavano le merci nello scafo.
In
tale giornata che cosa sarebbe stato meglio – più furbo – di
fare a gara a chi riuscisse a salire sulla nave, portare via qualcosa
dalla stiva e tornare dagli altri?
“Qualsiasi
cosa: comincia tu”, mi provocò Rob. “Comincia tu che ci vedi più
lontano di tutti. Noi dopo di te.”
Quel
giorno ero irrequieto. Cominciavo a voler andare via da lì, stavo
meglio di quando ero arrivato ed ero stanco. Ormai sapevo come
campare in una città e me la sarei cavata; non c’era più ragione
di restare con il Rosso, tanto più dal momento che, ormai era
palese, non avrei mai più rivisto il cappotto.
Ero
stufo di Rob e di girare come una biglia per vicoli che ormai
conoscevo a menadito, stufo di un gruppo di cui avere sempre qualcosa
da temere in caso di errore. Avevo voglia di tornare ad essere solo e
adesso conoscevo anche il modo per tirare avanti.
Credo
che stessimo semplicemente crescendo, eravamo in quel periodo un po'
doloroso in cui si allungano le ossa. Da un giorno all'altro ci era
calato uno strano nervosismo addosso.
Chissà
dove pensavo di andare, quel giorno. Sicuramente i miei passi si
volsero nella direzione opposta – in direzione del sole che sorge,
al di sopra del mare, in favore di Maestrale.
Quanto
a Blanca, non avevo dubbi sul fatto che, se le avessi chiaramente
detto che me ne andavo senza possibilità di ritorno, mi avrebbe
seguito (sciocco, lei sarebbe rimasta là con il Rosso tutta
un’eternità, perché era lui il vero centro dell’universo).
Ad
ogni modo, il problema non si pose mai perché non ci fu data
possibilità di scelta – niente di nuovo sotto al sole.
***
Accettai la sfida di Rob perché sentivo il bisogno di uno scossone – e perché ero terribilmente stupido e pecorone.
Ricordo
ancora tutto perfettamente: eravamo al molo 6, presso il quale
attraccavano le navi che si limitavano ai commerci nel Mediterraneo.
Era molto tranquillo, c’erano pochi marinai lì in giro.
Mi
incamminai lungo il corridoio di attracchi per scegliere la mia nave.
Ce
n’erano molte e sembravano
tutte vuote, lessi i nomi per decidere quale mi sembrasse la più
interessante.
C’erano
tre Red
Saphire, ma
non sapevo l'inglese,
una
Giovanna,
ma non suonava bene dire “Ho saccheggiato la Giovanna”, Diana,
Alba dell’ovest, Barbaria – non
mi convinsero.
Poi
il mio sguardo le vide: Caron
Dimonio* e
Palinuro**.
Portavano il nome di due nocchieri mitici: Caron occhi
di bragia,
mentre il secondo era il disgraziato timoniere della combriccola di
Enea. Quello fregato dal Sonno e finito in acqua.
Il
mito sulla lotta di un incapace: giudicai che la Palinuro
fosse
la nave adatta – l'epica dei falliti era ancora la mia preferita.
*Non credo servano presentazioni per Caronte... La Divina Commedia, Inferno, III
**Eneide,
V
La
storia di Palinuro è un po' triste: mentre naviga durante una notte
tranquilla, dopo aver affrontato una tempesta,
cade
in mare, vittima di Hypnos (Sonno). Il mattino dopo verrà ucciso dagli
indigeni dell'isola su cui si era ritrovato.
In
realtà, è la vittima richiesta da Nettuno affinché l'equipaggio
possa raggiungere indenne il Lazio.
***
L’imbarcazione
era una caracca
genovese.
La
croce rossa su sfondo bianco della bandiera ciondolava fieramente in
balia del debole vento.
Nel
Quattrocento le caracche erano state progettate per solcare l'Oceano:
erano ampie e stabili, adatte ad affrontare il mare grosso e la
tempesta. Non so che cosa ci facesse nel porto di Messina.
Sicuramente
era una nave sciagurata per qualcosa, e per questo l'avevano chiamata
Palinuro.
Dio
li fa e poi li accoppia – l'ho sempre vista come la dimensione
marinara e triste di Bucefalo.
Essa
faceva la spola tra Genova, Messina e Atene per portare granaglie dal
Sud Italia ora all’Attica, ora alla Liguria, che ne erano carenti.
Lo
scafo era già stato riempito, non sarebbe stato necessario
inoltrarsi più di tanto all’interno di quel grosso ventre per
portare via qualcosa.
Senza
ansia risalii la passerella. Un marinaio che fumava appoggiato al
parapetto, mi guardò annoiato, ma non mi chiese nulla, come se la
cosa non lo riguardasse.
C’erano
un altro paio di uomini intenti a tirare delle corde, nemmeno loro mi
prestarono particolare attenzione, probabilmente credendomi un mozzo.
Fu
quando dovetti scendere nello scafo che provai una strana angoscia.
Mi voltai indietro, e, se quell’ansia non fosse stata tutto ciò
che avevo disperatamente cercato in quei giorni, avrei girato i
tacchi senza vergogna, tanto forte mi prese l’angoscia.
Il
marinaio fumatore continuava a fissarmi con le palpebre pesanti,
sembrava uno di quei cani con le orecchie lunghe e gli occhi tristi
che non fanno male a nessuno.
Cercai
di aprire la porta con la massima naturalezza possibile, anche se mi
sentivo le articolazioni di un burattino. Bastò spingere un poco
l’uscio e continuare a scendere, immergendomi nel buio.
***
La
stiva era illuminata da una sola lanterna all’entrata, ed era
stracolma di sacchi di grano impilati l’uno sull’altro, formavano
delle torri alte poco più di un uomo adulto, incastrate tra il
pavimento e il soffitto, come colonne.
Se
avessi voluto prendere qualcosa, avrei dovuto rompere un sacco.
Mi
guardai alle spalle con sospetto, ma nessuno si era degnato di venire
a controllare che cosa stessi facendo. Allora, mi inoltrai più in
profondità nel ventre di Palinuro.
C’era
una pila di merce più bassa delle altre, decisi di provare a rompere
la canapa di uno dei sacchi a metà per prendere una manciata di
chicchi.
Cominciai
a cercare di strappare il sacco con le mani, perché quella mattina
avevo dimenticato il coltello sotto il letto.
Passarono
i minuti e le mani cominciavano ad arrossarsi, continuavo a voltarmi
in direzione dell’entrata, per paura che qualcuno arrivasse e mi
scoprisse.
Sapevo
di dover aver paura dei marinai, avevo visto cosa avevano fatto ad un
altro ragazzino scoperto a rovistare nelle stive.
Quel
tipo aveva ancora le cicatrici delle bruciatore dovute allo
sfregamento delle corde sulle braccia, e gli mancava un occhio – la
cosa peggiore era che non riusciva a ricordare come lo avessero
accecato.
Mi
avrebbero fatto a fette con i loro bicipiti tatuati, e poi si
sarebbero tatuati anche l’iniziale del mio nome come trofeo, nello
spazio di pelle tra l’iniziale della mamma e quello della
fidanzata.
***
Non
so che cosa mi avesse impedito di uscire a dichiarare una ragionevole
resa – forse l’insofferenza, ormai totale, verso Rob.
Per
l’ansia mi misi a tirare verso di me un sacco intero, avrei portato
via quello – tanto, se anche mi avessero visto, non sembravano
molto devoti al loro lavoro.
Mossa
poco furba: mi cadde addosso l’intera pila di sacchi e anche quella
immediatamente dietro. Picchiai la testa contro il pavimento e
svenni.
***
Fato
volle che nel breve intervallo in cui ero privo di sensi, la nave si
fosse preparata a partire – cosa che, in effetti, era in procinto
di fare anche quando l’avevo scelta.
Rob
e gli altri si erano accorti di quel dettaglio troppo tardi per
richiamarmi, e nessuno di loro era intenzionato a lasciarci la pelle
per me.
Tutti
tranne Blanca - lei salì per portarmi giù. Ma si decise troppo
tardi per riuscire a scendere.
Nemmeno
quel giorno fu capace di negarmi la sua fedeltà - lo avrebbe voluto
con tutta la sua forza, ed in futuro ancora di più. Eppure Blanca
salì su quella nave e si lasciò chiudere dentro.
Sapeva
che non avrebbe potuto salvare nessuno, né me né lei, sapeva che
saremmo finiti nei guai insieme.
Come
ogni volta, ce la saremmo cavata.
È
la regola della giovinezza – è la fede nell'immortalità, e fu
davvero questo a tradirci: l'idealismo.
Palinuro
cominciò
il suo viaggio con due passeggeri in più e la stiva tutta in
disordine.
C'era
una città bianca al di là del mare, e ai suoi piedi un porto che
era un nodo di rabbia.
Atene,
sulla quale il vento della Storia aveva cessato di tirare, non
respirava che la polvere di un mito dimenticato e vi scopriva il
sapore del sangue – la Guerra Santa già incombeva.
Atene
mi attendeva, lì, da secoli.
Ed
io le andavo incontro sul fondo di una nave genovese, privo di sensi
– lì è il crocevia del mondo.