E questo lo dedico ad una delle mie migliori amiche... Ad una ragazza che c'è sempre, sia nel bene sia nel male. Ed io non smetterò mai di ringraziarla, per questo.
Questo è per te, Tesò. Anche se è leggermente in ritardo xD
Il tuo tanto agognato regalo di San Valentino :P
Agli altri lettori e lettrici, grazie di seguirmi ed avermi seguito fino ad ora ^^
Buona lettura!
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Julia.
<
ET…ET…EEEEET…ET-CHUM! >
Alzai gli occhi al cielo, stremata.
Da quando eravamo entrati in quel Bar mi sentivo un po’ meglio, ma continuare ad indossare quei vestiti a dir poco fradici non era una cosa che giovasse alla mia salute.
Avevo starnutito sì e no una ventina di volte…
Si mise a ridere. DI NUOVO.
Sbuffai.
< La vuoi smettere? > domandai, alquanto seccata.
< Di fare che? > chiese con uno sguardo innocente lui, sbattendo le palpebre meravigliato.
< “Di fare che?” > gli feci il verso io, stridendo la voce < di ridere, imbecille! Non sai fare altro? >
Sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
< Certo che potresti essere un po’ più gentile, con il ragazzo che ti ha salvato da una caduta certa e che ti sta offrendo da bere… >
< Senti, Buon Samaritano Dei Miei Stivali… > sbottai in tutta risposta io, incrociando le braccia al petto, a mò di bambina “ho sempre ragione io” < …punto primo non te l’ho chiesto io di prendermi al volo. Punto secondo è logico che avresti pagato tu, l’idea è stata tua. >
< Ma come siamo precisine… > mi provocò lui, giocherellando con il cucchiaino della sua cioccolata calda.
Gli lanciai un’occhiataccia da “ti spiezzo in due se lo ridici un’altra volta”, scocciata, per poi tornare ad interessarmi del mio the caldo, soffiando sopra la tazza per evitare di ustionarmi il palato.
Eravamo seduti ad il tavolino sotto alla finestra chiusa, vicino al termosifone. Era il punto più caldo del locale.
Un lampo attirò la mia attenzione. Automaticamente incominciai a contare.
< uno…due…tre… >
< Che fai? > chiese lui, guadandomi perplesso.
< Shh! > lo zittii io < …cinque… >
BRROOUMM!
Al rumore del tuono sorrisi, spostando il mio sguardo da fuori la finestra a Bill.
< cinque secondi e mezzo! > esordii contenta.
< Ma… che stavi facendo? > chiese ancora più perplesso lui, allungandosi verso di me fino a poggiarmi una mano sulla fronte < sicura di stare bene? >
scostai la sua mano, ridacchiando tra me.
< Scemo! Stavo contando quanto tempo passa tra un lampo e il suo tuono. > ribattei decisa io, sorridendo a mezza bocca.
Mi guardò, alzando il sopracciglio destro.
< contavi…COSA? >
Ridacchiai piano.
Era…buffo…
< Vedi, dopo che vedi un lampo, sicuramente ci sarà un tuono, no? > cominciai allora, sorseggiando un po’ di the.
Annuì convinto.
< Bene. Da quando sono piccola io conto sempre quanti secondi ci sono tra il lampo e il suo tuono… >
< Ah… e… perché? > domandò curioso lui.
Tornai a fissarlo, sorridendo un poco.
< Ah boh… me l’avevano spiegato ma… me lo sono dimenticata… > ammisi ridacchiando e tornando ad occuparmi del mio the.
Lo sentii ridere sottovoce.
< Sai? Sei… strana… > disse poi lui, guardandomi.
Alzai gli occhi dalla mia tazza fumante, guardandolo a mia volta, un’espressione interrogativa dipinta sul volto.
< Ah! Ovviamente in senso positivo… > si corresse subito lui, precisando.
Sogghignai.
< Oh beh, se lo dici tu… > risposi soltanto, tornando a guardare fuori dalla finestra.
Pioveva ancora. Ancora più forte.
Un brivido di freddo mi percorse la schiena.
Alla radio del Bar stavano trasmettendo “Escape to the stars”, dei Cinema Bizarre. Adoravo quella canzone. Quasi involontariamente, mi misi a canticchiarla sotto voce, lo sguardo perso fuori dal vetro.
< …What are you waiting for… What are you waiting for… Escape to the stars… Feeling so free… >
< just you and me… > qualcuno si mise a cantare con me.
Mi girai, incrociando lo sguardo di Bill, che mi fronteggiava.
<
…Escape to the stars
… Chasing
a dream … All that we need is to believe … Escape to the stars >
continuammo, a bassa voce.
A proposito di voce… però, mica male il ragazzo.
< …Overcome gravity …Holding you down …On the ground …Free from insanity …No one else is around … > mi sorrise. un sorriso sincero, un sorriso caldo.
Smisi di cantare, non distogliendo però il mio sguardo dal suo.
Continuò da solo.
Più lento. Più
dolce.
< …Escape to the stars …Feeling so free …Just you and me …Escape to the stars …Chasing a dream …All that we need is to believe … >
smise anche lui di cantare. Rimanemmo in silenzio.
Sorrise.
Che bel
sorriso…
Sobbalzai sul posto.
Che bel
sorriso? Ma
che bel sorriso che?!
Mi alzai, sotto lo sguardo stupito di lui.
< Io… io devo andare. > asserii, guardandolo velocemente per poi dirigermi verso l’uscita del Bar.
< Che? Cosa? > domandò solo lui, come svegliatosi appena adesso da un coma < Aspetta! Non puoi andartene! Piove! > mi ricordò poi, mentre lasciava qualche euro sul bancone e mi seguiva fuori.
Il centro commerciale non era più tanto affollato. La gente stava man mano tornando a casa.
Mi guardai intorno.
Aveva ragione. Fuori diluviava e io ero ancora bagnata.
Stare vicino al termosifone mi aveva giovato un poco, facendomi asciugare i vestiti. Ma non del tutto. Non abbastanza.
Sbuffai.
E adesso che
faccio...?
< Senti… > disse lui, quasi leggendomi nel pensiero, avvicinandosi a me < …io ero venuto qui per fare shopping… perciò… se ti va… >
lo guardai stupita.
< Mi stai invitando a venire con te a fare shopping, Kaulitz? > gli domandai retorica, abbozzando un sorriso perfido.
< Ah beh… se preferisci tornare sotto al Diluvio Universale, fa’ pure, Schulz. > si limitò a rispondere lui, ricambiando il sorrisetto.
Stavo per rispondergli a tono, quando starnutii di nuovo, provocandogli le solite risate.
Aridaje!
Con un buffetto leggero sulla testa lo calmai, ma stranamente continuai a sentire ridere.
< Oh, no… > mormorò lui, rabbuiandosi tutto d’un tratto.
Mi girai nella direzione dove provenivano le risatine.
Ma
che…
Un gruppetto di ragazze si stava avvicinando a noi.
Camminavano una a fianco dell’altra, sculettando quasi contemporaneamente.
Oh
Gott…E queste che
vogliono?
Ormai ci avevano raggiunto. Ci circondarono.
Una di queste si avvicinò a Bill, circondandogli il collo con le braccia e facendo aderire i loro bacini.
La minigonna che portava sarà stata lunga… ad occhio e croce… trenta centimetri, più o meno. Era di jeans, strappata in più punti sul sedere. Le collant a rete lasciavano intravedere le gambe toniche e slanciate. Portava un coprispalle rosa shocking con sotto un top bianco, abbastanza corto da farle vedere il piercing all’ombelico e l’addome piatto.
I capelli erano lunghi e perfettamente lisci, con la frangetta che le arrivava appena sopra le sopracciglia curate. Erano di un biondo platino acceso. Gli occhi erano contornati da matita nera e ombretto rosa. Le ciglia erano sicuramente finte, così lunghe non ne avevo mai viste.
< Ciao, amore… > gli soffiò in un orecchio, sotto il mio sguardo stupito.
Ah.
Una strana sensazione mi invase lo stomaco, lasciandomi di sasso.
Amore…
La guardai dall’alto in basso.
Certo…
una ragazza con
un corpo perfetto come lei… figurati se non poteva essere il
suo “amore”…
Mi stupii di me stessa.
Ma che ti
prende?
Tanto non ti importa, no? Potrebbe farsene anche dieci alla
volta… che ti
frega?
Abbassai lo sguardo per un attimo.
Già…
che mi
frega…proprio niente…
Tornai con lo sguardo su di lui.
La stava scostando in modo non tanto gentile con la mano. Questo suo gesto mi fece inarcare il sopracciglio destro, perplessa.
< Hallo, Änne… > la salutò, dopo che lei si fu staccata dal suo collo.
< Uuu… come siamo duri oggi… > rispose ridacchiando lei, avvicinando la sua mano sotto la cintura di lui, senza ritegno né pudore. Il doppio senso della frase era più che ovvio e fece sogghignare tutte le sue amichette, sempre in cerchio intorno a noi.
Sbattei le palpebre più volte, con il peso spostato tutto sulla gamba sinistra e le mani incrociate al petto. Il mio sguardo penso lasciasse trasparire tutto il disprezzo che provavo per quella ragazza.
No,
dico… Era una
battuta?
Una delle ochette al seguito di quella Änne si accorse del mio sguardo scettico e mi si avvicinò minacciosa. Era abbastanza alta, più o meno come me e, evidentemente, si credeva abbastanza “figa ed autoritaria” da poter sfidarmi. Indossava dei corti short di jeans, con delle calze a rete rosa e degli stivali neri, i quali le arrivavano quasi al ginocchio. Sopra indossava una felpa aperta nera che lasciava vedere perfettamente la scritta “I’m a very bad girl…” bianca su una maglia rosa. I capelli li aveva rossi, perfettamente lisci e tenuti ordinati da un cerchietto, appena sopra la frangetta. Aveva poco seno, a differenza di quell’altra che si stava strusciando contro l’addome di Bill, ma il fisico era allenato e slanciato.
< Dì un po’… e tu chi saresti? > mi chiese, arrivata a mezzo metro da me.
Mi squadrava dall’alto in basso, con quegli occhi azzurro cielo tutti contornati da uno spesso strato di matita nera. Le ciglia erano talmente finte che se si fosse avvicinata ancora di qualche passo avrebbe potuto graffiarmi.
Le ricambiai lo sguardo pieno di sdegno, senza però risponderle.
< Ehi, mi hai sentito, ragazzina? > continuò allora lei, alzando un poco la voce, iniziando ad alterarsi. Le parole le uscivano stizzite da labbra troppo rosse e troppo carnose, che contrastavano i suoi occhi azzurri d’angioletta.
Continuai a non risponderle,
limitandomi a fissarla negli
occhi cercando di trasmetterle un messaggio più che chiaro: cazzo vuoi?
Poi lei sogghignò e si girò verso quella Änne, che intanto continuava ad allungare le mani su Bill, il quale però non sembrava molto contento di quell’approccio così ravvicinato.
Era… scocciato, quasi. O almeno mi sembrava.
Figuarsi se
è
scocciato. Lei è bella, magra e a quanto vedo anche
“disponibile”. Che altro
può volere un ragazzo…?
< Amore, vieni qui! > la chiamò la ragazza avanti a me.
Con un piccolo sbuffo Änne si staccò da Bill e ci raggiunse, posizionandosi davanti a me, al fianco della sua amica.
< Sì, tesò? > chiese, lanciandomi un’occhiata stizzita.
< La conosci? > si limitò a rispondere la sua “tesò”, incrociando le braccia al petto.
La bionda mi fissò più intensamente, passando dal corpo al viso. Aveva degli occhi freddi, taglienti. Ti toglievano il respiro.
Io ricambiavo lo sguardo, il peso come al solito tutto spostato sulla gamba destra.
L’altoparlante del centro commerciale stava trasmettendo “The best damn thing” di Avril Lavigne.
La musica era forte ed aggressiva, proprio come volevano apparire quelle due davanti a me. Proprio come volevo apparire io. Proprio come lo ero in quel momento. Più carica che mai.
Ho i vestiti umidi e l’umore pessimo: Non saranno certo queste quattro galline a farmi paura, ora.
Le labbra di Änne si distesero in un sorrisetto compiaciuto.
< No, non la conosco… >
poi prese a girarmi intorno, come gli avvoltoi sugli animali feriti, scrutandomi con quegli occhi tanto suggestivi. Quando tornò davanti a me mi scorse ancora una volta con lo sguardo, per poi farlo tornare nei miei occhi.
< …ma possiamo rimediare. > esordì semplicemente, tendendomi la mano curata e dalle lunghe unghia finte.
Questo gesto parve spiazzare tutti, me compresa.
La sua “tesò” s’irrigidì sul posto, portandosi una mano affusolata davanti alla bocca spalancata a mò di pesce; le sue amichette in cerchio tra noi e Bill smisero di ricoprirlo di attenzioni come se fosse l’ultimo Dio sceso in terra e di fargli gli occhi dolci e si girarono verso di noi con gli occhi fuori dalle orbite; il Kaulitz non faceva altro che spostare lo sguardo da lei a me, uno sguardo confuso stampato in faccia.
Io me ne stavo lì, ferma come un’idiota davanti alla sua mano tesa, senza sapere che fare.
Stringerle o
non
stringerle la mano? Questo è il problema…
Poi mi decisi e le afferrai convinta l’arto, senza staccare gli occhi dai suoi.
< Julia. >
< Änne. > sorrise, mostrandomi un piccolo brillantino bianco su il canino destro.
< …Piacere. > e mollai la presa.
< Oh… piacere mio… > mi rispose suadente lei, per poi voltarsi verso la sua “tesò”, la quale non pareva molto convinta del suo gesto.
< Ora la conosco. > tagliò corto lei, con un tono autoritario.
< Ma…- > cercò di ribattere l’altra, un po’ spaesata.
< Niente “ma”, Susanne. > la interruppe la bionda, brusca < E vedi di non azzardarti ad interrompermi più per certe “frivolezze” mentre sono impegnata. >
Mi lanciò un ultimo sorrisetto languido, per poi darmi le spalle e, dopo aver incenerito quasi la cosiddetta Susanne con lo sguardo, tornò ad occuparsi di Bill.
La guardai allontanarsi, con entrambe le sopracciglia alzate; tipica posa che assumevo quando pensavo ad una cosa buffa o vedevo qualcuno in atteggiamenti strani.
Poi però, quando la vidi tornare a strusciarsi senza pudore addosso a Bill, che aveva un’espressione in volto come se volesse dire “perché a me?!”, un’emozione nuova mi invase lo stomaco e involontariamente mi ritrovai a stringere i pugni.
Sì,
basta adesso però,
eh?!
Con passo deciso irruppi nel cerchio delle “seguaci” di Änne, raggiungendoli, sotto lo sguardo atterrito e deluso di Susanne, che non aveva più spiccicato parola.
Lo sguardo di Bill raggiunse il mio. Mi guardava con due occhi pucciosi al massimo, tipo quelli che facevo io a Mitzi quando volevo qualcosa. erano grandi e supplichevoli, con un leggero tono di malizia. Ricambiai questa muta richiesta con uno sguardo di sufficienza e lievemente incazzato, poi picchiettai un paio di volte sulla spalla della sanguisuga ambulante che ridacchiava smaliziata addosso a lui.
Si girò, quasi grugnendo.
< Sus, ora mi hai verament…- > iniziò, per poi bloccarsi quando vide che al posto della sua servetta c’ero io, con una mano su un fianco e l’altra lasciata penzoloni, che la guardavo con un sopracciglio alzato. < Oh! Sei tu! …Julia, giusto? > continuò lei, abbozzando un sorriso a mezza bocca e cambiando il tono di voce, che passò da “che cazzo rompi” a “che cazzo rompi tesoro”.
Evidentemente mi aveva presa in
simpatia. ma la cosa non era reciproca.
< Giusto. > asserii io, squadrandola di nuovo da capo a piedi.
Lieve attimo di silenzio. Sguardo confuso di lei contro sguardo deciso mio.
A rompere il silenzio fu Bill, che, con nostra grande sorpresa, si staccò dalla sua presa e mi venne accanto, prendendomi a braccetto.
< Bene > disse infatti < visto che vi siete conosciute, noi andiamo! > e fece per spingermi via, quando Änne lo fermò per il braccio libero.
< Ehi, aspetta un attimo, chi cazzo è questa? > sbottò un po’ incazzata.
Stavo per risponderle a tono, ma Bill non me ne diede il tempo e, con una risatina di scherno, la fronteggiò.
< Sei dura d’orecchi, a quanto pare. Lei è Julia. > le ricordò, al mio fianco.
< E chi è per te? > chiese di nuovo lei, precisando però la domanda.
Sussultai.
‘Che
cos’è per
te?’ …ma che domanda è…?
Bill esitò nel rispondere. Evidentemente non sapeva che dire.
Vidi che con la coda
dell’occhio mi stava osservando. Il suo
sguardo mi stava… imbarazzando?
Ma che
situazione di
merda!
Decisi di prendere la parola, alterata più che mai.
< Senti, tu, non so chi cazzo ti credi di essere, ma fatti gli affari tuoi, è un consiglio. > sibilai allora, cercando di non badare a Bill che, ancora al mio fianco, mi guardava ora con tutto il viso rivolto verso di me.
Sgranò i grandi occhi truccati. Ora il suo sguardo era passato da “che cazzo vuoi tesoro” a “vaffanculo come osi parlarmi così, razza di insetto!”
< …Come osi… > mi miagolò infatti in tutta risposta lei, ancora con quell’espressione shockata stampata in volto.
Sbuffai, portando gli occhi al cielo.
< Oh, povera stella, non ti sarai mica offesa, vero? > le sbattei tranquillamente in faccia io, le mani sui fianchi < Sai, mi dispiacerebbe taaaanto se ci rimassi male per ciò che dico o ciò che penso. Dopotutto è brutto sentirsi dire che la prima impressione che ha la gente su di te è che tu sia una troia, giusto? >
La vidi spalancare la bocca, incredula.
Dalle ragazze intorno a noi si levò un coro di “Oh!”, come nei film.
Mi portai una mano davanti alla bocca, spalancandola a mò di pesce, per poi ridacchiare sottovoce. < Oh, no! Non dirmi che l’ho detto ad alta voce! >
A quella scena Bill scoppiò in una fragorosa risata, facendo imbarazzare ancora di più quella Änne, che aveva assunto uno sguardo non tanto amichevole nei miei confronti.
Evidentemente la simpatia per me, se ce n’era mai stata, era scomparsa del tutto in quel preciso istante.
< Scommetto che ora stai pensando ‘Gliela farò pagare’, vero? > le dissi allora io, per poi avvicinarmi al suo viso. < Beh, ragazzina, che vuoi che ti dica… mettiti in fila. > le sussurrai in faccia, per poi oltrepassarla, trascinandomi dietro Bill, che ancora rideva.
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Gustav.
Sorrisi, guardando la pioggia scorrere repentina sul vetro. Sicuramente Julia era uscita, con un tempo del genere. Scossi la testa, stravaccandomi sul piccolo letto azzurro nella mia camera, lo sguardo perso nel soffitto bianco.
Quel giorno non sapevo che fare. Avevo finito i miei esercizi quotidiani con la batteria e mi ero fatto una doccia rilassante. Ma ora…
Forse sarei dovuto uscire lo stesso, malgrado il tempo. Dopotutto lei lo faceva sempre e le piaceva… magari la pioggia non era poi così male.
Ma
sì dai… proviamo.
Mi tirai su a sedere, passandomi una mano sul viso. Poi afferrai il cellulare e composi velocemente un numero, che ormai sapevo a memoria, viste le infinite consulenze reciproche.
Dopo una serie di squilli a vuoto ecco il suono della sua voce, leggermente occultato dal metallo del telefonino.
< Gusty! Ciao! >
sorrisi.
< Ciao Ju, come stai? > chiesi, avviandomi intanto verso l’armadio per scegliere cosa indossare.
< Tutto bene, te? > rispose subito lei.
< Bene bene… scommetto che con ‘sto tempo sei uscita, vero? > ridacchiai io, sapendo già la risposta.
< Certo! Che domande! E tu che fai invece? > disse infatti lei. Sicuramente stava sorridendo.
< Stavo pensando di uscire anche io… tu dove sei? Se vuoi ti raggiungo > proposi allora io, continuando a frugare nell’armadio.
< che bell’idea! Io sono al centro commerciale con… > e si fermò, esitante.
Io continuai tranquillo a rovistare dentro il mobile, ignorando ciò che stava per dirmi.
< …allora? Con chi sei? Con Mitzi? > la spronai io, sorridendo.
< Gusty scusa, ora non posso parlare… facciamo che ci sentiamo poi, ok? > disse in tutta risposta lei, facendomi fermare sul posto, perplesso.
< è successo qualcosa? > chiesi allora
< Nono non preoccuparti… ciao Gu, ti voglio bene. >
*CLICK*
il suono metallico della fine della conversazione mi stupì non poco. Che le era preso? Mi fermai sul posto, reggendo con una mano una felpa a maniche lunghe bianca con il cappuccio e nell’altra un paio di jeans semplici. Il cellulare era ancora ben tenuto nell’incavo tra la spalla e il collo.
La mia immagine riflessa nello specchio posto al fianco dell’armadio in legno di quercia era talmente buffa che scoppiai a ridere, facendo cadere l’apparecchio telefonico sulla moquette.
< Cazzo! > imprecai, per poi raccoglierlo subito e posarlo sul letto, rischiando di cadere rovinosamente a causa delle mani occupate dai vestiti che m’impicciavano.
Riacquistato il controllo di me stesso mi finii di vestire, mi diedi una pettinata ai capelli biondi e presi le chiavi di casa.
< Mà, io vado! > urlai, arrivato sulla porta.
< Dove vai? > mi domandò una voce dalla cucina.
< Esco, mamma… > risposi semplicemente io, in procinto di uscire.
< Va bene tesoro, stai attento! > mi sentii replicare dall’altra stanza.
Sorrisi, mentre con la mano libera afferravo un ombrello blu abbandonato sulla porta.
< Certo mamy… a dopo! > e uscii.
Mamma,
mamma… quando
lo capirai che non sono più un bambino?
Il rumore della pioggia che colpiva il tessuto impermeabile dell’ombrello non era tanto forte, stava andando man mano scemando. Continuai la mia passeggiata tranquillo, ben sicuro di dove volessi andare.
I marciapiedi erano quasi tutti deserti, a parte quelle due o tre persone munite d’ombrello che camminavano qua e là frettolosamente, per poi entrare in qualche negozio aperto. Sulla strada invece sfrecciavano automobili di ogni tipo, approfittando del momento di quiete.
Improvvisamente mi sentii chiamare.
< Gustav! >
mi voltai.
Kyra mi sorrideva radiosa dall’altro lato della strada. Le feci un cenno con la mano, contraccambiando il sorriso. Mi venne incontro, tenendo ben saldo nella mano destra un ombrellino bianco latte.
Gli shorts di jeans erano sovrastati da una maglietta nera con le spalline, coperta da una felpa fucsia.
< Che ci fai in giro con questo tempo? > mi chiese baciandomi la guancia in segno di saluto.
< Nulla… pensavo di andare un po’ al centro commerciale. E tu? > le domandai a mia volta io.
< Devo andare al negozio… sai com’è, non c’è pace per noi povere commesse. > la buttò sul tragico lei, fingendosi sofferente.
Ridacchiai. Sorrise contenta.
< Senti, Gustav… > cominciò però lei tornando sul ‘serio’ < …ti andrebbe di venire a prenderti una cioccolata con me, quando finisco il turno? > Mi piantò i suoi grandi occhi scuri nei miei, ma non resse molto lo sguardo, che andò a posarsi sulle sue All Stars a stelline fucsia e bianche.
Le sorrisi dolce. Non le risposi.
Mi dispiace,
Kyra…
Sembrò leggermi nel pensiero, perché alzò nuovamente lo sguardo nel mio e, imbarazzata ma anche sicura di sé, mi sorrise a sua volta.
< Sei… sei una ragazza fantastica Kyra, ma- >
< No. > mi interruppe lei, con un gesto secco della mano, chiudendo un attimo gli occhi < Ti prego, no… >
le presi la mano.
Tornò a guardarmi, ora un po’ più triste. Mi si straziava il cuore a vederla così. le volevo bene.
Ma…
< Va bene, non fa nulla... > sorrise poi lei, tristemente. < Scusa devo andare… >
e mi voltò le spalle.
< Ah, un’ultima cosa > riprese però voltandosi di nuovo verso di me. Ci tenevamo ancora per mano. < …come al solito non ti dirò di fare come se non ti avessi detto nulla. Non sono così vigliacca. Sappi solo… > e lì si fermò un attimo, per poi piantarmi decisa lo sguardo addosso e riprendere < beh, se cambi idea io sono qua. >
Sorrise.
Sorrisi.
< Ti voglio bene. > riuscii solo a rispondere, lasciandole la mano.
< …non abbastanza… > la sentii sussurrare, per poi darmi le spalle definitivamente e correre via.
Continuai la mia passeggiata, a capo chino.
Mi dispiaceva veramente per Kyra… non era la prima volta che mi accennava ad un’uscita… e tutte le volte io le davo questa delusione.
Cazzo
però…
Tirai un calcio ad un sasso mentre camminavo. Continuai a giocarci finchè non scorsi con lo sguardo l’edificio dei grandi magazzini.
Sorrisi.
Al mio arrivo le porte automatiche si ritirarono permettendomi di entrare. Era quasi vuoto.
Probabilmente
è a
causa del brutto tempo… molta gente avrà
preferito tornarsene a casa…
Mentre girellavo qua e là lanciando occhiate veloci alle vetrine, mi chiedevo dove fosse Ju. Dopotutto era lì dentro, no?
All’improvviso una voce del tutto familiare alle mie spalle mi riscosse dai miei pensieri.
< …Gustav? >
mi girai.
< Ju! >
senza aggiungere altro mi saltò al collo, abbracciandomi felice.
Mi staccai un po’.
< sei umida! >
rise.
< Lunga storia…tu invece, Che ci fai qua? > mi sorrise.
< Te l’avevo detto che sarei passato > le risposi semplicemente io, guardandola.
I vestiti leggermente bagnati le cadevano ancora di più addosso, ma le stavano bene anche così. Le onde dei capelli invece erano più valorizzate. A lei piacevano mossi, dopotutto.
Ad un tratto però il suo viso si rabbuiò, come se si fosse ricordata di qualcosa di spiacevole. Iniziò a guardarsi intorno.
< Che c’è, Ju? > le chiesi io, seguendo il suo sguardo.
< Gu… senti, io… non sono qui da sola… > iniziò lei allora, massaggiandosi il braccio sinistro con la mano destra. Lo faceva sempre quando era agitata.
Le sorrisi cercando di tranquillizzarla.
< Ehy, tranquilla… lo so. >
si bloccò sul posto, fissandomi spaesata.
< lo sai? > chiese.
< Sì. > risposi io, e vedendo che lei non accennava a smettere di fissarmi, continuai < …Me l’hai detto al telefono, no? Con chi sei, con Mitzi? >
sospirò.
< Ah… ok… no, non sono con lei… >
la guardai interrogativo.
< vedi… sono con…- > continuò dopo un po’ lei, ma venne interrotta da una voce alle nostre spalle.
< Julia! Ecco dov’eri finita…mi hai lasciato lì come un’idiota! >
Mi bloccai sul posto.
Il ragazzo alto e moro ci si avvicinò, per poi mettersi al fianco della mia migliore amica.
Calò il silenzio. C’era tensione nell’aria.
Il mio sguardo squadrava quel tipo dall’alto in basso. Non potevo crederci.
Julia fu la prima a rompere il silenzio.
< Gu, scusa se non te l’ho detto… io…- > cercò di spiegare
< mi spieghi che cazzo ci fai con lui? > la interruppi io, carico di rabbia. La vidi sussultare.
< Non era programmata quest’uscita… davvero, Gu… > cercò di giustificarsi.
< Tzè. CERTO. > le feci ironico.
Abbassò lo sguardo. Le dispiaceva avermi ferito. Ma non mi importava. Non lo accettavo.
Non
con… lui.
< Scusa ma tu chi saresti? Perché evidentemente mi conosci, ma io non conosco TE. > quel tale Bill Kaulitz si intromise nel discorso, fissandomi.
< tu non mi DEVI conoscere. E non dovresti conoscere nemmeno lei. > gli risposi freddamente.
< Scusa ma chi sarebbe? Il tuo ragazzo? > chiese allora lui a Julia, che intanto ci stava fissando.
< Nono… è il mio migliore amico. Gustav Schäfer. >
< Ah… bene… > fece allora lui malizioso, cingendole la vita con un braccio e attirandola a sé.
Strinsi i pugni.
Lei lo staccò subito, fredda. < Fai poco l’idiota. > lo ammonì, per poi rivolgersi a me < Gustav, dai… non ti- >
< non mi dire di non incazzarmi. > la interruppi di nuovo.
Bill continuava a fissarmi. Sembrava divertito.
< Scusa ma perché dovresti incazzarti? Siete solo amici, dopotutto. > si intromise, calcando pesantemente il tono di voce su quella parola.
< Fatti i cazzi tuoi. > cercai di zittirlo.
< Altrimenti, Schäfer? > mi aizzò lui, in tono di sfida.
Eravamo così, l’uno di fronte a l’altro. Lui era più alto di me, e di gran lunga anche, ma non si poteva dire che in fatto di muscolatura fosse il più dotato.
Sorrideva a mezza bocca, un sorriso di sfida.
Julia si mise in mezzo ad una velocità strabiliante. Aveva le mani poggiate contro i nostri petti.
< Ok ragazzi, vi siete conosciuti. Adesso basta. > disse soltanto, allontanandoci.
< Andiamo via. > mi sentii dire.
Vidi la mia migliore amica esitare un attimo. Spalancai gli occhi, incredulo.
Preferisce
stare con
‘sto stronzo piuttosto che… con me?!
< Julia, Andiamo! > la incitai nuovamente. Non sapeva che fare. Glielo si leggeva negli occhi.
Ero fuori di me.
La presi per le spalle e le piantai il mio sguardo dentro al suo.
< non dirmi che vuoi stare con ‘sto qua! > le sibilai.
< Gu, lasciami. > mi rispose solo lei, cercando di divincolarsi.
Non mollai la presa. Anzi. Strinsi ancora di più le mani intorno alle sue spalle.
Una smorfia di dolore le comparve sul viso.
< Cazzo Gustav, mi fai male…! >
Fu allora che quello si intromise e con uno spintone mi staccò da lei. Arretrai di qualche passo.
< Non hai sentito che le stai facendo male? > mi ringhiò contro.
Julia lo prese per un braccio, guardandomi triste.
< Lascia stare, Kaulitz… > gli disse, per poi allontanarlo.
Mi si avvicinò, massaggiandosi le spalle.
< Scusami, Ju… > le dissi io, rendendomi conto solo allora di quello che avevo fatto.
Ma non era colpa mia… mi dava troppo fastidio.
Ero arrabbiato, non ragionavo. Non capivo il motivo per il quale lei non poteva mollarlo e venire con me.
Non mi rispose alle scuse. Né un ‘non fa nulla’, ‘figurati’. Lo capivo anche da me che era delusa.
< Scusa… > ripetei ancora, abbassando lo sguardo.
Mi sorrise. Solo quello.
Poi si voltò, dandomi le spalle.
< Vai a casa, Gu. > sospirò. < Ci sentiamo poi. > aggiunse, prima di allontanarsi.
Allontanarsi da me. Per raggiungere lui. Lui che l’aspettava qualche metro più avanti. Lui che le sorrideva. Lui che la faceva ridere.
Lo stesso lui
che
ad un certo punto si girò nella mia direzione, un sorrisetto
compiaciuto dipinto
sul volto.
Un’ondata di calore mi arrivò alle guance. Strinsi i pugni.
Li guardai allontanarsi, impotente.
No. Non glielo avrei permesso.
Credeva di aver vinto. Credeva di potersela prendere tutta per sé.
No.
Non ci sarebbe riuscito a portarmela via.
Questo era poco… ma sicuro.
Tom.
Non ero ancora tornato a casa, tanto non avrei saputo cosa fare e mi sarei annoiato. Continuavo a passeggiare sotto la pioggia, senza una meta né uno scopo preciso. Camminavo e basta.
La base dei jeans era ormai zuppa d’acqua, ma non me ne preoccupavo.
Le strade erano semi-deserte a causa del brutto tempo. Di facce conosciute o amiche nemmeno l’ombra.
Camminavo svogliatamente sul marciapiede, tirando calci ai sassi che trovavo sulla mia traiettoria.
Ad un certo punto il cellulare che avevo in tasca vibrò, facendomi sussultare.
Lo estrassi velocemente, mentre mi andavo a sedere su di una panchina riparata, a bordo strada.
Un nuovo messaggio.
“Ciccino dove sei?Un bacione rix!”
Alzai gli occhi al cielo, sbuffando.
‘Ciccino’?
Oh, per
favore…
Riposi il cellulare nella tasca destra dei jeans, senza risponderle, ma dopo neanche un minuto quello ricominciò a vibrare insistentemente, costringendomi a riprenderlo in mano.
Questa volta era una chiamata. Risposi svogliatamente.
< Hallo … >
< Ciccino! Come mai non mi rispondi? > una voce squillante per poco non mi perforò il timpano.
Allontanai l’apparecchio dall’orecchio.
< Ti ho risposto, Susanne… > le ribattei io, fingendo di non sapere di cosa stesse parlando.
< Ma non alla chiamata, sciocchino! > ridacchiò lei < al messaggio! >
< Perché, mi hai mandato un messaggio? > mentii io, sbadigliando.
< Ja! Oh povero, magari il tuo telefono non funziona bene… chiedo al papy se mi da i soldi e te ne compro uno come il mio, va bene? > rispose allora lei, quasi istericamente.
Sorrisi a mezza bocca.
Almeno a
qualcosa
serve, questa ragazza…
Poi corrugai la fronte un attimo e ci ripensai.
Beh…
a qualcos’altro,
intendo…
< Fai come ti pare… > le risposi distaccato, trovando molto interessante una mosca che aveva avuto la bellissima idea di posarsi sulla mia felpa.
< Beh tesorino dove sei? Cosa fai? C’è qualcuno con te? > mi domandò a raffica poco dopo lei, come era suo solito fare.
Sbuffai. cos’è,
mi
deve fare tutte le volte un interrogatorio?
< sono fuori. > tagliai corto io < da solo. >
< Oh… da solo… > ribattè maliziosa lei, sospirando < …sai cicci, anche io sono da sola… a casa… >
indugiai un attimo. Dopotutto non sapevo cosa fare, è vero… e quella Susanne… beh, sarà anche stata stupida, appiccicosa e oca, però a letto era una vera tigre.
Solo che quel giorno non mi andava molto di vederla… no di certo perché non ne avessi voglia, sia chiaro. È solo che… c’era qualcosa che mi bloccava.
< …e ho tanto freddo… e bisogno di coccole… e forse anche tu hai bisogno di coccole… > ridacchiò < …non è forse vero, cicci? >
stetti in silenzio ancora per qualche istante, poi scossi la testa, dandomi mentalmente dell’idiota.
No,
dico… e ci stai
anche a pensare, deficiente?!
< Arrivo piccola. > risposi sbrigativo io e, senza neanche aspettare la sua risposta, che tanto sarebbe stata solo una risatina maliziosa e un ‘ti aspetto, cicci’, chiusi la telefonata e riposi il cellulare nei pantaloni.
La casa di Sus non era poi così lontana.
Ricominciai a camminare a passo lento sotto l’ombrello, senza neanche prestare attenzione a dove svoltavo: ormai quella strada la sapevo a memoria.
Kyra era una ragazza bella, solare. Girava sempre in gruppo con Änne e le sue amichette. Sempre insieme. Erano tutte da mozzare il fiato… non c’era che l’imbarazzo della scelta. Se poi tutte insieme non arrivavano a formare un quoziente intellettivo superiore all’80… beh, quelle erano quisquilie. Dopotutto non bisognava mica giocarci a scacchi.
Mi aveva visto una sera, mentre io e Bill stavamo tornando a casa. Lei e tutto il gruppo si erano avvicinate, circondandoci quasi. Änne si era subito interessata a mio fratello mentre Susanne pareva molto ben disposta nei miei confronti.
E infatti lo
era.
Subito ci siamo… come dire… trovati in sintonia, ecco. E abbiamo iniziato a frequentarci, ma non da coppia fissa. Diciamo che… quando si poteva e si aveva voglia, si stava insieme.
Ci si divertiva. E, fidatevi, con Susanne ci si divertiva veramente.
Änne era stata più sfortunata. O forse semplicemente più stupida. Aveva scelto il fratellino, che non la cagava manco di striscio. Penso una beciata e qualche preliminari, ma niente di più. ci si divertiva quando voleva lui, ma senza darle quella soddisfazione. Mentre… beh, diciamo che io la cagherei mooolto una ragazza come lei.
Perché lei non era una semplice ragazza. era La Ragazza. Quella ragazza che è il sogno segreto di qualunque ragazzo. Quella ragazza che attira la tua attenzione quando passeggi per la strada.
Ecco, quella ragazza.
Ma lui è cocciuto, non ne
vuole sapere. Non ancora, ha detto.
Dammi
tempo, poi vedrò.
Tempo per cosa, poi, non l’ho ancora capito. ma non ci metterò molto ad intuirlo. Lo conosco troppo bene perché lui possa nascondermi qualcosa.
Camminando ero arrivato sotto al
palazzo dove abitava Susanne.
Oltrepassato il giardinetto recintato avanzai sul ghiaino e mi
avvicinai al
grosso portone in legno scuro. Premetti il pulsante vicino al cognome
“Koch” e attesi qualche
istante.
<
Chi è? > la
voce stridula di Susanne echeggiò nella scatola metallica.
<
Tom >
risposi sbrigativo io, impaziente di entrare.
<
Ti stavo
aspettando, ciccino! > fece lei ridacchiando felice, per poi
aprirmi il
portone.
Gott quanto odio quel soprannome…
Salii i
gradini a
due a due e, in men che non si dica, eccomi arrivato al terzo piano.
Ultima
porta sempre dritto.
Era
socchiusa. La
spinsi leggermente, per poi entrare e richiudermela alle spalle.
Appena
entrato, ecco
il salotto. Grande e spazioso, con al centro un lungo divano in pelle
nera su
di un tappeto persiano, credo. a destra la cucina, anche quella grande
e
moderna; a sinistra il bagno, con un idromassaggio da favola. Sempre
dritto,
ecco le stanze. La porta a destra era la stanza dei genitori, con un
matrimoniale da sballo, che io ormai conoscevo fin
troppo bene; la porta a sinistra, in quel momento socchiusa,
da
cui si scorgeva una luce rosa soffusa, la camera di Susanne. E fu proprio lì che
mi diressi, deciso.
Man mano
che mi
avvicinavo, ecco che il profumo forte e troppo dolce di lei mi entrava
dentro.
Scostai
la porta di
poco, per poter vedere l’interno.
La luce
chiara dava
alla stanza un’atmosfera sensuale. Il letto, piccolo ma
comodo, era al centro,
circondato da peluche a forma di orsi e cuori. Alcune bambole di
ceramica erano
poste in bell’ordine sulle mensole di legno sopra la
scrivania.
Susanne era
affacciata
alla finestra aperta, con indosso solo una vestaglia semi-trasparente e
sotto,
ben visibile, biancheria intima di pizzo nero. Mi dava la schiena.
Mi
avvicinai cauto,
senza far rumore. Quel profumo mi stordiva ogni volta che lo sentivo, e
vederla
lì, pronta per me, mi dava alla testa. Ero letteralmente su
di giri. I dubbi
che mi avevano assalito prima quando le stavo parlando al telefono
scomparvero
in un istante.
Le cinsi
la vita con
le braccia, baciandole il collo. La sentii rabbrividire al contatto
delle mie
labbra fredde con la sua pelle calda. Si girò, sorridendomi
maliziosa.
<
Non mi far
aspettare più tutto questo tempo… > mi
sussurrò all’orecchio, per poi
mordicchiarmelo giocosa.
Feci
aderire i
nostri bacini, stringendola a me. Non ce la facevo più.
dovevo averla, e
subito.
Le nostre
labbra si
scontrarono, mentre lei mi iniziava a togliere gli indumenti umidi di
dosso. Le
nostre lingue lottavano,
vogliose l’una
dell’altra.
la spinsi
indietro,
fino a che lei non arrivò al letto e le gambe le cedettero.
La costrinsi a
sdraiarcisi sopra, bloccandola con tutto il mio peso. Ormai indossavo
solo i
jeans, ma con dei movimenti rapidi ed esperti non ci mise né
uno né due a
sfilarmi pure quelli, che caddero al suolo con un tonfo. I boxer
andarono a far
loro compagnia non molto più tardi.
Lentamente
iniziai a
spogliare anche lei, che iniziò a riempirmi di baci il petto
e il collo. Quando
ebbi finito di sfilarle gli indumenti, mi riappropriai della sua bocca,
per
scendere lentamente sulle restanti parti del corpo con baci dolci e
sensuali.
Poi non
ce la feci
più e, prepotentemente quasi, mi insinuai in lei. Ebbe un
sussulto, ma era
felice.
La nostra
era una
danza arrabbiata, di dolcezza non v’era traccia. Eravamo solo
vogliosi l’uno
dell’altra, in un modo spropositato. Continuammo a muoverci,
a cambiare
posizione. Irrequieti e goduti come non mai.
All’improvviso,
un
rumore in salotto. Lei, sopra di me, con la testa piegata
all’indietro, al
culmine della felicità, ebbe un sussulto e si
staccò, agitata.
Rimanemmo
in
silenzio per qualche istante, per assicurarci di non essercelo
immaginato.
Ma i
rumori si
ripeterono, finchè…
< Sus, tesoro,
sei a casa? > una voce urlò dall’ingresso.
<
Cazzo, mio
padre! > imprecò allora Susanne, saltando giù dal letto e costringendo
anche me
a spostarmi. < Muoviti, muoviti! Non ti deve vedere! >
raccolsi
boxer e
jeans, per poi indossarli velocemente. Lei si affrettò a
rifare il letto e a
infilarsi una tuta da casa abbandonata su una sedia lì
vicino. spense la radio
e, dopo avermi lanciato la mia maglia, si raccolse i capelli in una
semplice
coda. Con dei gesti abili e veloci si spruzzò addosso un
po’ di profumo.
<
Vai via! >
mi bisbigliò isterica.
<
E come faccio? >
le sbadigliai io in tutta risposta.
Mi
guardò
terrorizzata. Sorrisi a mezza bocca.
L’idea
di
incasinarla con suo padre non mi dispiaceva. Dopotutto era una bambina
viziata,
qualche sano schiaffo morale non avrebbe che potuto migliorare la
situazione.
E forse
suo padre si
sarebbe accorto che quell’angioletto di bambina che custodiva
come una
collezione di soprammobili di cristallo non era poi
così… angelica.
<
e… e adesso?
> cominciò a girare nervosamente per la stanza, le
dita nei capelli. Ad un
tratto, il padre bussò alla porta, facendola sussultare.
Io
guardavo la scena
divertito seduto sul letto.
<
Tesoro, posso
entrare? > chiamò l’uomo, facendo per
abbassare la maniglia.
<
No! > gridò
lei, bloccando con il suo peso l’enorme blocco di legno
rettangolare < papà
aspetta un attimo… non sono presentabile ora… mi
preparo e arrivo in cucina,
aspettami lì, va bene? > si calmò poi lei,
balbettando.
Il padre
sembrò
titubante, ma alla fine lasciò la maniglia che
tornò in posizione orizzontale e
annuì. Sentimmo i passi lenti ma decisi tornare
nell’altra stanza.
<
Oddio oddio oddio…
Ok. Stiamo calmi. > Si fermò sul posto, chiudendo un
attimo gli occhi.
Quando li
riaprì, mi
fissò per lunghi istanti, prima di prendere fiato e
ricominciare a parlare,
lasciandosi scappare qualche risatina isterica ogni tanto.
<
Bene, tu ti
cali dal balcone. >
Sgranai
gli occhi,
incredulo di quello che le mie orecchie avevano appena sentito.
<
Ma dico, sei
scema?! Siamo al terzo piano! > le sbottai in tutta risposta,
incrociando le
braccia al petto.
Ebbe un
sussulto,
poi parve rifletterci su.
<
Hai ragione…
> sospirò < allora ti nascondi fino a che non
se ne va mio padre. Non
voglio casini. >
ridacchiai.
Fanculo
a lei e ai suoi casini.
<
Sai cosa me ne
frega dei tuoi casini. Io esco. >
e senza
aspettare la
sua risposta la scansai da davanti la porta, uscendo sul corridoio.
Presi la
porta il più velocemente possibile ed uscii sul
pianerottolo. Le scale le scesi
quasi correndo, facendo attenzione a non inciampare nei jeans. Anche
dal piano
terra si sentiva che qualcuno nei piani alti stava litigando.
Ghignai.
Era proprio ora che quel
‘signore’ si
accorgesse che razza di figlia si ritrova.
Fuori aveva smesso di piovere. Si respirava un’aria fredda e pungente. Mi strinsi di più nella felpa, cominciando a camminare verso casa.
_________________________________________________________________Ringraziamenti <3
Ciiiii: beh tesò, allora? ne è valsa la pena di aspettare così tanto? XD
FrancescaKaulitz: ihi sono contenta ti sia piaciuto il capitolo precedente ^^.. eh, in questo tom non è proprio l'emblema della dolcezza, ma pazienza >.< ah, per le mutande.. scusa, pensavo fosse scontato xD
tesorinely: beh, più che problemi.. c'è tanto, taaanto studio arretrato xD ma sai come si dice: meglio tardi che mai!
me stessa: beh dai.. anche lei si sta sciogliendo :P
kiku_san: ihih perdonata, capita a tutti ^^ spero ti piaccia anche questo capitolo ù.ù
V x Vendetta: adoro il tuo nick xD beh spero sia ancora interessante ^^ ho un sacco di idee in testa.. devo solo trovare le ispirazioni per buttarle giù ^^
GilliX: tesoroooo ^^ *me ti riempe di coccole* sono contenta che ti piaccia la mia fic, ti voglio tnto bene patata!
lilylemon: eeeeh lo so xD non sei l'unica che me lo dice.. ma io sono così, scrivo solo quando mi viene l'ispirazione ^^''' chiedo perdono a tutte ><