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Autore: Jailer    04/10/2015    3 recensioni
Il passato di Manigoldo, dalla prima volta in cui vide un'anima al suo incontro con Sage, da Messina ad Atene, passando per la solitudine, i sogni, il fato, la morte, l'amore.
La giovinezza del discolo destinato a diventare l'uomo che incatenò Thanatos è un valzer tra piccoli e grandi drammi, vissuti sempre con la leggerezza e l'ironia che lo contraddistinguono.
E anche l'incredulità per ciò che il fato scelse di riservargli.
"Ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo atto.
A volte prendo in giro la mia armatura: mi ci siedo davanti a gambe incrociate, e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluta?”
Penso che lei mi sorrida in qualche modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le sorrido anche io, di gratitudine o imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare quanto cara mi sia costata."
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer Manigoldo, Cancer Sage, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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VI

FIESTA
(Storia su due benedizioni: una perduta e una negata per decenza)


VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS
Così mi salutò la Madonnina dal torrione di San Salvatore, come salutava da secoli tutti quelli che partivano per mare.
Lei sa che è sempre meglio dire addio ad un uomo che parte per mare, perché non si sa mai se tornerà.
Non che questi debba necessariamente essere fagocitato dalle onde, semplicemente perché il mare apre mille strade, dimostra che si può correre verso l'orizzonte senza lasciarsi alcuna radice dietro.
Quando si è sul mare, ad un certo la costa scompare: restano un pugno di stelle sulla testa e la promessa di un porto al di là di un orizzonte irraggiungibile.
Un uomo che parte per mare e capisce questo, non torna più.


*

Io la benedizione della Madonnina non potei riceverla perché, quando la costa scomparve, ero ancora svenuto sul pavimento dello scafo della Palinuro con dei sacchi pieni di grano addosso.
Blanca mi svegliò a suon di schiaffi e lacrime.
Mi si era seduta addosso a cavalcioni e piangeva come una disperata, colpendomi sul petto.
“Svegliati, svegliati, maledizione!”

Aveva sentito i marinai attendere il capitano per ritirare la passerella, non aveva avuto il coraggio di lasciarmi lì sopra. Era salita un attimo prima che egli arrivasse, non era riuscita a svegliarmi e a spostare i sacchi in tempo.
Aveva sentito le vele spalancarsi e visto dagli oblò la costa allontanarsi. E piano piano scomparire.

Quando mi ridestai provai un indicibile senso di nausea, aggravato dal suo peso e dai suoi pugni.
Appena notò che avevo riaperto gli occhi, mi tirò un altro schiaffo e scoppiò a piangere più forte sul mio petto. Singhiozzava rumorosamente, come se ogni momento le fosse negato il fiato, e, per ripicca, il suo dolce peso negava anche a me di respirare.
“Che diamine hai fatto!” e i suoi singulti disperati fecero riaffiorare in me la coscienza della situazione attuale.
La spinsi indietro e mi misi seduto: “Aspetta, aspetta, cosa...”
“La nave è partita.”, disse.
“La nave è partita.”, dissi.

Io non so se vi sia mai capitata la disgrazia di leggere per caso su un giornale il necrologio di una persona che conoscevate.
Vi sentirete molto stupidi e molto increduli.
Leggerete “incidente mortale” e analizzerete tutte le possibili accezioni di “incidente mortale”, per concludere che il giornalista stia in realtà intendendo “incidente quasi mortale”, che quella persona stia quasi per morire, o che sia morta ma non morta.
Concluderete che quello non è un necrologio, o che quel tale, che aveva lo stesso nome, lo stesso cognome, i medesimi documenti e tratti somatici del vostro conoscente, probabilmente non è chi dite voi. Solo un sosia fisico e burocratico.
Sai, i casi della vita, direte con il tono di chi la sa lunga. Tuttavia andrete comunque al funerale di questo omonimo sconosciuto, chi sa perché, e lì piangere come vitelli, sbattendo il muso contro la realtà.
Questo è uno dei lati che ho sempre ritenuto sinceramente interessante della morte: l'incredulità – la morte ci perseguita, vive sempre un passo avanti e uno dietro di noi, ma cadremo sempre dal pero quando ci busserà sulla spalla.
Amen.

Ad ogni modo, la mia sensazione fu proprio quella di chi legge un necrologio e non vuole crederci.

La nave è partita.
Partita vuol dire che sta per partire.
Che basta sbrigarsi a scendere, vero?

Mi scrollai velocemente di dosso Blanca e corsi con la testa che stava scoppiando verso un oblò a guardare fuori. E non vidi nulla: mare a destra, mare a sinistra.
Quant'acqua!, pensai istupidito e sinceramente meravigliato.
Non avevo mai visto così tanto azzurro messo insieme, né il sole così brillante e violento, eppure, guardandomi attorno dal piccolo vetro, non potei fare a meno di pensare “campo santo”.

“Quanto tempo è passato?”, chiesi senza forze.
“Cosa vuoi che ne sappia, il tempo di non avere il coraggio di lasciarti qui.”, mi rinfacciò. Aveva le labbra pallidissime e l'espressione di più puro terrore dipinta negli occhi.
Pensava al Rosso, ci avrei scommesso.
“La nave viaggia veloce”, aggiunse sussurrando, “Non possiamo nemmeno provare a tornare indietro a nuoto”.
“Messina...”, iniziai una frase senza saper dire che cosa volessi dire.
Messina.
Un saluto e una preghiera.

Volevo andarmene, ma non così, non così lontano, non portato via da una stupida sfida, non da una nave con un nome sfortunato, non verso un luogo al di là del mare.
Volevo tornare alle campagne di Sicilia, benedette da Sole Iperione, terre scelte per pascere le sue bestie. Scilla e Cariddi* prenderanno anche me, pensai – sperai.
Il tempo di non avere il coraggio di lasciarti qui.
Il destino mi condusse più profondamente nel mito, ad una città sul mare chiamata Atene, fondata e contesa dagli dei.
Non sono un fatalista, ma a certe cose bisogna dare questo nome.
Ero chiuso nella stiva di una nave che andava non sapevo dove, con una persona che non mi avrebbe più perdonato.
Se poi avessi saputo a che cosa sarei andato incontro – diventare Saint, dico -, mi sarei buttato a mare, sicuro.

Non che non mi piaccia la mia vita, ma ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo atto.
A volte prendo in giro la mia armatura.
Mi ci siedo davanti a gambe incrociate, e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluto?”
Penso che lei mi sorrida in qualche modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le do una carezza: è stata lei a volere me, solo lei avrebbe potuto volere un Cavaliere senza nome che si fa chiamare Manigoldo. Mi sento onorato.
Le sorrido anche io, non so se di gratitudine o di imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare quanto cara mi sia costata.


*Scilla e Cariddi erano collocati proprio nello Stretto di Messina


*


Decidemmo che, se il viaggio non fosse durato troppo, saremmo scesi al primo attracco senza farci scoprire dall'equipaggio. Nella stiva c'erano sicuramente delle scorte, avremmo attinto a quelle. E bastava nascondersi dietro ai sacchi, se non fosse arrivato nessuno.

Eravamo su una nave che commerciava nel Mediterraneo, non sarebbe stato un viaggio infinito. Eravamo abituati a cavarcela.

Fu con orrore che scoprimmo che le scorte di viveri per l'equipaggio non erano conservate nella stiva assieme alle merci.
Eravamo circondati da sacchi di grano e foraggio, e da bere c'erano solo botti di vino.
Adesso troverei la cosa certamente meravigliosa, ma dovete sapere che la temperatura della stiva a mezzogiorno sfiorava tranquillamente i quaranta gradi.
Provare a dissetarsi con il vino in quelle condizioni fu tremendo.
Non potei tollerare più l'odore dell'alcool per almeno una decina d'anni.

Fu orribile e dolorosissimo essere a stomaco vuoto, essere così disperati da mangiarsi anche un topo che passava di lì – chiaramente crudo – e masticare fieno (l'unica altra cosa commestibili oltre al grano).
Non so che razza di denti abbiano i cavalli, perché un uomo ci mette le mezzore a sminuzzarne un mazzetto e nel deglutire rischia perennemente di strozzarsi.
Non so nemmeno se il fatto di essere perennemente ubriachi per una settimana ci fosse stato d'aiuto o meno.
Collezionai un sacco di interrogativi.

Ricordo che Blanca passava le giornate rannicchiata sul pavimento, pallidissima, senza la forza di alzarsi o dire alcunché.
Io non so che cosa facessi oltre a sentirmi in colpa e farmi guardare con odio da lei.
Non entrò mai nessuno finché non attraccammo.
Ho contato i giorni e le notti perché numerare fu l'unica cosa che mi potesse tenere aggrappato alla vita.
Avevo già sperimentato quella sensazione sulle macerie del mio villaggio, e fu come tornare nel passato, ma ero mille volte più disperato e attaccato alla vita.


*

Il sole sorgeva, ci crepava di caldo e si rituffava nel mare. Fece così per sei giorni.
Benedetto fu il settimo, quando vidi dall'oblò il profilo frastagliato della terra di Grecia.

Non capii immediatamente: stetti a guardarla avvicinarsi per un po', come qualcosa di mai visto.
La terra, il miraggio.
La salvezza.

Sentii la vita rinascere in me con forza. Saremmo tornati al mondo dei vivi, ce l'avevamo fatta.

Corsi a scuotere Blanca, lei mi guardò voltando solo gli occhi senza alcuna energia.
“Blanca! Alzati, svegliati! La terra! La terra!”
Non aveva più la forza di credere o sperare in nulla. Sembrava un somaro azzoppato e incapace di rialzarsi, buttata così sul pavimento. Pensai a Bucefalo.
Aveva la bocca impastata, un colorito giallastro, dovuto al fegato in disordine, aveva perso peso e capelli, stringeva senza forze il suo cappello verde.
“Blanca... Adesso basta davvero saltare giù!”
Non rispose, ma capii che voleva alzarsi, la sostenni fino all'oblò per mostrarle il profilo vago e superbo della costa, “Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta”, dicevo – pregavo.

Me la strinsi al petto, lei restava immobile: quegli occhi vitrei rivolti alla costa, verso la scoscesa terra su cui sorge Atene.
Ad oggi mi chiedo ancora se possa essere quello lo sguardo di un essere umano che guarda la sua stessa tomba – lo sguardo di chi è troppo stanco per riuscire a concepire ancora una speranza.
Una lacrima di fatica le rigò una guancia, non le uscì un singhiozzo.
“La terra...”
Tante case bianche impilate una dietro all'altra come lapidi: campo santo, pensai ancora, ed oggi so perché.

Avrei voluto essere più alto e con le spalle più larghe per avvolgerla completamente, per essere più forte e poterle dire: “Scendiamo, scendiamo e torniamo indietro”, per poter ottenere il suo perdono; per poter dire: “Scendiamo, scendiamo, ché ti porto in Spagna”, per sentirmi meno colpevole e regalarci un futuro – non insieme, ma un futuro per entrambi.

La Sicilia sembrava solo alle nostre spalle.
All'epoca ne eravamo certi: sarebbe bastato scendere e voltarsi, salire su una nave che andava in direzione opposta e tornare a Messina.
Non sapevamo dove stessimo sbarcando, ma non ci importava.
Era solo uno scalo, scendere da una nave per salire su un'altra.
E a mai più rivederci.

Non avremmo mai creduto che quella settimana sarebbe stata solo l'anticamera dell'inferno, che quello che ci aspettava sarebbe stato mille volte peggio.
Non realizzammo di essere giunti stranieri in una terra al di là del mare.
Ce ne saremmo accorti presto, e, se lo avessimo saputo, quella mattina avremmo pianto ugualmente, ma non di gioia.
Atene ci sorrideva con il sorriso bianco e tutto denti delle sue case, ma non ci accoglieva. Era il sorriso di chi ti attira a sé per scannarti.
Siamo arrivati,
pensai con sollievo.

Vidi un edificio maestoso e bianco sulla distanza, senza capire cosa fosse – ora so che è il Santuario.
Saluta tutti coloro che vengono dal mare, proprio come la Madonnina di Messina, ma senza benedirli.
E, nel negarmi una benedizione, Atene fu molto decente con se stessa.


*

La Palinuro entrò nel porto solo molte ore dopo, e attraccò nel primo pomeriggio.
Attendemmo che parte dell'equipaggio scendesse a terra e il ponte si svuotasse.
Qualcuno scese ad aprire la porta della stiva, la luce del sole brillava fortissima, e bruciava perché il sole di Grecia è feroce e noi non eravamo più abituati ad alcune fonte luminosa che non fosse la piccola lanterna.
Per quanto l'aria del Pireo potesse puzzare, nulla era paragonabile all'odore che si era creato in quella stiva. Il marinaio fece una smorfia di disgusto e bestemmiò quando quell'olezzo lo investì, scappò di sopra a prendere o riferire qualcosa, dando la colpa ai venditori di cose marce.

Ne approfittammo per sgattaiolare fuori. Eravamo terribilmente malfermi sulle gambe, ma ci sentimmo un unico nodo con la vita che si riaffacciava lì fuori.
Quando risalii all'aria aperta, scoprii che c'era di nuovo tutto: c'era il cielo e una strada da percorrere, c'era un mucchio di gente come in un formicaio, e le bestemmie dei marinai; c'era il mare, ed era alle nostre spalle, non c'era un orizzonte infinito, ed era giusto, perché nemmeno la vita è così.
Sarebbe potuto essere benissimo ancora il porto di Messina, e quella settimana solo un doloroso incubo.
Avrei voluto ridere, le strinsi la mano come se non fossimo nei guai e corressimo solo per fuggire la pioggia.

*

Sul ponte c'era di nuovo il marinaio con la faccia da bracco, fumava la sua sigaretta osservando disinteressato l'acqua verde del porto.
Quando ci vide, ci guardò sorpreso mentre correvamo via, per poi voltarsi incredulo verso la porta da cui eravamo saltati fuori, la paglietta in bilico sul labbro inferiore.
Tuttavia non si scompose più di tanto.

Un altro uomo stava salendo la passerella, fu di riflessi più pronti dell'altro e allungò un braccio per acciuffarci. Non so come lo schivammo, né come lo seminammo – dove trovammo le forze -, poiché per un certo tratto ci inseguì urlandoci dietro qualcosa che non capii.
Ci inoltrammo nei meandri del Pireo, portandoci sempre più nelle viscere della città.
La corale della vita era un ingorgo di persone e puzzava di pesce. Ve lo giuro, fu magnifico.

Il mondo fu meraviglioso quel giorno.

Durante la corsa non capivo le parole della gente, ma diedi la colpa al viaggio. Tenevo Blanca per la mano, la trascinavo dietro senza pietà.
Cercavo di guadagnare distanza, cercavo l'ossigeno e la vita che si spianava davanti a noi, in un bagno di folla, quando fui convinto che fossimo abbastanza lontani dai moli, virai in un vicolo.
Una sete tremenda mi serrò la gola, ma avevo fiducia nelle poche monete che ancora avevo in tasca dalla mattina della nostra partenza.

Ero una gioia disperata, stremato come un uccello migratore.
Fu Blanca a riportarmi con orrore alla realtà, guardandomi con occhi sgranati: “Aspetta, Manigoldo, ma dove siamo finiti?”
Decisi che non aveva importanza e lo comunicai a Blanca, che mi guardò con disgusto.
“Ora voglio solo trovare dell'acqua”, mi giustificai.
“Spiegami come la troviamo, l'acqua. Se non abbiamo i soldi per pagarla, e non sappiamo nemmeno come chiederla.”
“Offri sempre e solo problemi, tu. Mai soluzioni.”, non ero veramente arrabbiato, ma non sapevo cosa dire e, dopo una settimana, non avevo voglia di stare zitto.
“Devo ricordarti chi sia la causa di tutti i problemi?”, Blanca si tormentava una pellicina sul dito e mi guardava dritto negli occhi. Lei non aveva voglia di chiacchierare, il suo colorito sembrava quello di un cadavere di tre giorni.
“Rob, è Rob la causa.”, giustificai alzando le spalle, e chiusi lì.
Non mi rispose, capii che le sarebbe piaciuto se avessi avuto ragione.


In quel momento mi venne da ridere, mi sentii leggero.
Eravamo saltati fuori da un macello per finire in un macello straniero.
Un balzo qua e uno là, pensai, come fanno i gatti.
Pensai che i gatti, troppi crucci, non se ne fanno, non vedevo perché dovessimo farcene noi; che i gatti, buttando giù la sedia, inventavano la pedana per slanciarsi dritti sul tavolo.
“Alla peggio si muore”, dissi.
Lei non capì.

*


Era con la testa altrove, persa nelle sue ansie e in quello che si era lasciata indietro.
Quel giorno conobbi la differenza tra me e lei: stava tutta attaccata al passato, per questo voleva tornare in Spagna. Più indietro scappava, a costo di finire in un tempo che non era nemmeno suo, meglio era.
Io volevo vivere e, in ogni caso, non avrei potuto rintanarmi da nessuna parte.
Non avevo un posto in cui tornare – c'erano solo le macerie di un villaggio e uno scantinato da cui avevo già deciso di andare via –, né possedevo abbastanza ricordi per rimpiangere qualcosa.
La mia Spagna non esisteva.
Una sera d'estate ero partito da quelle case sventrate, mi ero incamminato verso Messina, ed ero sopravvissuto anche lì.
Avevo vissuto una settimana in una stiva mangiando topi e bevendo vino ed ero arrivato in una nuova terra.
Semplicemente, il mio viaggio era ricominciato: era solo più difficile, ma così sarebbe stato per tutta la vita e andava bene.
Ero forte, e dovevo uscirne vivo.

Afferrai Blanca per la spalla e la strattonai con violenza, facendole urtare lievemente un muro con la testa.
“Adesso prendiamo le palle e le portiamo al porto. Troviamo qualcuno che parli la nostra lingua e ci spieghi dove siamo. E troviamo il modo di tornare indietro.”
Mi guardò con diffidenza, alzando leggermente il mento. Sembrava un animale minaccioso.
“Tu vuoi tornare a Messina?”, la incalzai.
Dovette cedere: “Voglio tornare indietro.”, mi rispose, non senza una punta di astio.
“E allora andiamo!”, la liberai e le diedi le spalle, incamminandomi verso il porto.

Andiamo, andiamo. Concedetemi una risata. Andiamo, andiamo.

*

I moli degli scali commerciali sono da sempre delle piccole Babele in terra.
In un porto un uomo può trovare tutto ciò che vuole: la propria libertà o uno schiavo, la ricchezza o una taverna aperta, una moglie di ritorno da un viaggio o una prostituta.
Nei porti si esaudiscono i desideri della gente, basta saper cercare.
Io giunsi al Pireo sognando di trovare una nave per la Sicilia e una caraffa d'acqua. Non seppi mai se avessi cercato male, espresso il desiderio sbagliato, o, e questa è l'ipotesi in cui credo più fermamente, in realtà volessi qualcos'altro.
Qualcos'altro mi sarebbe stato dato -la vita, dopotutto, aveva già esaudito tutti i miei desideri.


   
 
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