VI
FIESTA
(Storia
su due benedizioni: una perduta e una negata per decenza)
VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS
Così mi salutò la Madonnina dal
torrione di San Salvatore, come salutava da secoli tutti quelli che
partivano per mare.
Lei sa che è sempre meglio dire addio
ad un uomo che parte per mare, perché non si sa mai se tornerà.
Non che questi debba necessariamente
essere fagocitato dalle onde, semplicemente perché il mare apre
mille strade, dimostra che si può correre verso l'orizzonte senza
lasciarsi alcuna radice dietro.
Quando si è sul mare, ad un certo la
costa scompare: restano un pugno di stelle sulla testa e la promessa
di un porto al di là di un orizzonte irraggiungibile.
Un uomo che parte per mare e capisce
questo, non torna più.
*
Io la benedizione della Madonnina non
potei riceverla perché, quando la costa scomparve, ero ancora
svenuto sul pavimento dello scafo della Palinuro con dei sacchi pieni
di grano addosso.
Blanca mi svegliò a suon di schiaffi e
lacrime.
Mi si era seduta addosso a cavalcioni e
piangeva come una disperata, colpendomi sul petto.
“Svegliati, svegliati, maledizione!”
Aveva sentito i marinai attendere il
capitano per ritirare la passerella, non aveva avuto il coraggio di
lasciarmi lì sopra. Era salita un attimo prima che egli arrivasse,
non era riuscita a svegliarmi e a spostare i sacchi in tempo.
Aveva sentito le vele spalancarsi e
visto dagli oblò la costa allontanarsi. E piano piano scomparire.
Quando mi ridestai provai un indicibile
senso di nausea, aggravato dal suo peso e dai suoi pugni.
Appena notò che avevo riaperto gli
occhi, mi tirò un altro schiaffo e scoppiò a piangere più forte
sul mio petto. Singhiozzava rumorosamente, come se ogni momento le
fosse negato il fiato, e, per ripicca, il suo dolce peso negava anche
a me di respirare.
“Che diamine hai fatto!” e i suoi
singulti disperati fecero riaffiorare in me la coscienza della
situazione attuale.
La spinsi indietro e mi misi seduto:
“Aspetta, aspetta, cosa...”
“La nave è partita.”, disse.
“La nave è partita.”, dissi.
Io non so se vi sia mai capitata la
disgrazia di leggere per caso su un giornale il necrologio di una
persona che conoscevate.
Vi sentirete molto stupidi e molto
increduli.
Leggerete “incidente mortale” e
analizzerete tutte le possibili accezioni di “incidente mortale”,
per concludere che il giornalista stia in realtà intendendo
“incidente quasi mortale”, che quella persona stia quasi
per morire, o che sia morta ma non morta.
Concluderete che quello non è un
necrologio, o che quel tale, che aveva lo stesso nome, lo stesso
cognome, i medesimi documenti e tratti somatici del vostro
conoscente, probabilmente non è chi dite voi. Solo un sosia fisico e
burocratico.
Sai, i casi della vita, direte
con il tono di chi la sa lunga. Tuttavia andrete comunque al funerale
di questo omonimo sconosciuto, chi sa perché, e lì piangere
come vitelli, sbattendo il muso contro la realtà.
Questo è uno dei lati che ho sempre
ritenuto sinceramente interessante della morte: l'incredulità – la
morte ci perseguita, vive sempre un passo avanti e uno dietro di noi,
ma cadremo sempre dal pero quando ci busserà sulla spalla.
Amen.
Ad ogni modo, la mia sensazione fu proprio quella di chi legge un necrologio e non vuole crederci.
La nave è partita.
Partita vuol dire che sta per
partire.
Che basta sbrigarsi a scendere, vero?
Mi scrollai velocemente di dosso Blanca
e corsi con la testa che stava scoppiando verso un oblò a guardare
fuori. E non vidi nulla: mare a destra, mare a sinistra.
Quant'acqua!, pensai istupidito
e sinceramente meravigliato.
Non avevo mai visto così tanto azzurro
messo insieme, né il sole così brillante e violento, eppure,
guardandomi attorno dal piccolo vetro, non potei fare a meno di
pensare “campo santo”.
“Quanto tempo è passato?”, chiesi
senza forze.
“Cosa vuoi che ne sappia, il tempo di
non avere il coraggio di lasciarti qui.”, mi rinfacciò. Aveva le
labbra pallidissime e l'espressione di più puro terrore dipinta
negli occhi.
Pensava al Rosso, ci avrei scommesso.
“La nave viaggia veloce”, aggiunse
sussurrando, “Non possiamo nemmeno provare a tornare indietro a
nuoto”.
“Messina...”, iniziai una frase
senza saper dire che cosa volessi dire.
Messina.
Un saluto e una preghiera.
Volevo andarmene, ma non così, non
così lontano, non portato via da una stupida sfida, non da una nave
con un nome sfortunato, non verso un luogo al di là del mare.
Volevo tornare alle campagne
di Sicilia, benedette da Sole Iperione, terre scelte per pascere le
sue bestie. Scilla e Cariddi* prenderanno anche me, pensai –
sperai.
Il tempo di non avere il coraggio di
lasciarti qui.
Il destino mi condusse più profondamente nel mito, ad una città sul
mare chiamata Atene,
fondata e contesa dagli dei.
Non sono un fatalista, ma a certe cose
bisogna dare questo nome.
Ero chiuso nella stiva di una nave che
andava non sapevo dove, con una persona che non mi avrebbe più
perdonato.
Se poi avessi saputo a che cosa sarei
andato incontro – diventare Saint, dico -, mi sarei buttato a mare,
sicuro.
Non che non mi piaccia la mia vita, ma
ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato
alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo
atto.
A volte prendo in giro la mia armatura.
Mi ci siedo davanti a gambe incrociate,
e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluto?”
Penso che lei mi sorrida in qualche
modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le do una carezza: è stata lei a
volere me, solo lei avrebbe potuto volere un Cavaliere senza nome che
si fa chiamare Manigoldo. Mi sento onorato.
Le sorrido anche io, non so se di
gratitudine o di imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare
quanto cara mi sia costata.
*Scilla e Cariddi erano collocati proprio nello Stretto di Messina
*
Decidemmo che, se il viaggio non fosse durato troppo, saremmo scesi al primo attracco senza farci scoprire dall'equipaggio. Nella stiva c'erano sicuramente delle scorte, avremmo attinto a quelle. E bastava nascondersi dietro ai sacchi, se non fosse arrivato nessuno.
Eravamo su una nave che commerciava nel Mediterraneo, non sarebbe stato un viaggio infinito. Eravamo abituati a cavarcela.
Fu con orrore che scoprimmo che le
scorte di viveri per l'equipaggio non erano conservate nella stiva
assieme alle merci.
Eravamo circondati da sacchi di grano e
foraggio, e da bere c'erano solo botti di vino.
Adesso troverei la cosa certamente
meravigliosa, ma dovete sapere che la temperatura della stiva a
mezzogiorno sfiorava tranquillamente i quaranta gradi.
Provare a dissetarsi con il vino in
quelle condizioni fu tremendo.
Non potei tollerare più l'odore
dell'alcool per almeno una decina d'anni.
Fu orribile e dolorosissimo essere a
stomaco vuoto, essere così disperati da mangiarsi anche un topo che
passava di lì – chiaramente crudo – e masticare fieno (l'unica
altra cosa commestibili oltre al grano).
Non so che razza di denti abbiano i
cavalli, perché un uomo ci mette le mezzore a sminuzzarne un
mazzetto e nel deglutire rischia perennemente di strozzarsi.
Non so nemmeno se il fatto di essere
perennemente ubriachi per una settimana ci fosse stato d'aiuto o
meno.
Collezionai un sacco di interrogativi.
Ricordo che Blanca passava le giornate
rannicchiata sul pavimento, pallidissima, senza la forza di alzarsi o
dire alcunché.
Io non so che cosa facessi oltre a
sentirmi in colpa e farmi guardare con odio da lei.
Non entrò mai nessuno finché non
attraccammo.
Ho contato i giorni e le notti perché
numerare fu l'unica cosa che mi potesse tenere aggrappato alla vita.
Avevo già sperimentato quella
sensazione sulle macerie del mio villaggio, e fu come tornare nel
passato, ma ero mille volte più disperato e attaccato alla vita.
*
Il sole sorgeva, ci crepava di caldo e
si rituffava nel mare. Fece così per sei giorni.
Benedetto fu il settimo, quando vidi
dall'oblò il profilo frastagliato della terra di Grecia.
Non capii immediatamente: stetti a
guardarla avvicinarsi per un po', come qualcosa di mai visto.
La terra, il miraggio.
La salvezza.
Sentii la vita rinascere in me con
forza. Saremmo tornati al mondo dei vivi, ce l'avevamo fatta.
Corsi a scuotere Blanca, lei mi guardò
voltando solo gli occhi senza alcuna energia.
“Blanca! Alzati, svegliati! La terra!
La terra!”
Non aveva più la forza di credere o
sperare in nulla. Sembrava un somaro azzoppato e incapace di
rialzarsi, buttata così sul pavimento. Pensai a Bucefalo.
Aveva la bocca impastata, un colorito
giallastro, dovuto al fegato in disordine, aveva perso peso e
capelli, stringeva senza forze il suo cappello verde.
“Blanca... Adesso basta davvero
saltare giù!”
Non rispose, ma capii che voleva
alzarsi, la sostenni fino all'oblò per mostrarle il profilo vago e
superbo della costa, “Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta”,
dicevo – pregavo.
Me la strinsi al petto, lei restava
immobile: quegli occhi vitrei rivolti alla costa, verso la scoscesa
terra su cui sorge Atene.
Ad oggi mi chiedo ancora se possa
essere quello lo sguardo di un essere umano che guarda la sua stessa
tomba – lo sguardo di chi è troppo stanco per riuscire a concepire
ancora una speranza.
Una lacrima di fatica le rigò una
guancia, non le uscì un singhiozzo.
“La terra...”
Tante case bianche impilate una dietro
all'altra come lapidi: campo santo, pensai
ancora, ed oggi so perché.
Avrei voluto essere più alto e con le spalle più larghe per avvolgerla completamente, per essere più forte e poterle dire: “Scendiamo, scendiamo e torniamo indietro”, per poter ottenere il suo perdono; per poter dire: “Scendiamo, scendiamo, ché ti porto in Spagna”, per sentirmi meno colpevole e regalarci un futuro – non insieme, ma un futuro per entrambi.
La Sicilia sembrava solo alle nostre
spalle.
All'epoca ne eravamo certi: sarebbe
bastato scendere e voltarsi, salire su una nave che andava in
direzione opposta e tornare a Messina.
Non sapevamo dove stessimo sbarcando,
ma non ci importava.
Era solo uno scalo, scendere da una
nave per salire su un'altra.
E a mai più rivederci.
Non avremmo mai creduto che quella
settimana sarebbe stata solo l'anticamera dell'inferno, che quello
che ci aspettava sarebbe stato mille volte peggio.
Non realizzammo di essere giunti
stranieri in una terra al di là del mare.
Ce ne saremmo accorti presto, e, se lo
avessimo saputo, quella mattina avremmo pianto ugualmente, ma non di
gioia.
Atene ci sorrideva con il sorriso
bianco e tutto denti delle sue case, ma non ci accoglieva. Era il
sorriso di chi ti attira a sé per scannarti.
Siamo arrivati, pensai con
sollievo.
Vidi un edificio maestoso e bianco
sulla distanza, senza capire cosa fosse – ora so che è il
Santuario.
Saluta tutti coloro che vengono dal
mare, proprio come la Madonnina di Messina, ma senza benedirli.
E, nel negarmi una benedizione, Atene
fu molto decente con se stessa.
*
La Palinuro entrò nel porto solo molte
ore dopo, e attraccò nel primo pomeriggio.
Attendemmo che parte dell'equipaggio
scendesse a terra e il ponte si svuotasse.
Qualcuno scese ad aprire la porta della
stiva, la luce del sole brillava fortissima, e bruciava perché il
sole di Grecia è feroce e noi non eravamo più abituati ad alcune
fonte luminosa che non fosse la piccola lanterna.
Per quanto l'aria del Pireo potesse
puzzare, nulla era paragonabile all'odore che si era creato in quella
stiva. Il marinaio fece una smorfia di disgusto e bestemmiò quando
quell'olezzo lo investì, scappò di sopra a prendere o riferire
qualcosa, dando la colpa ai venditori di cose marce.
Ne approfittammo per sgattaiolare
fuori. Eravamo terribilmente malfermi sulle gambe, ma ci sentimmo un
unico nodo con la vita che si riaffacciava lì fuori.
Quando risalii all'aria aperta, scoprii
che c'era di nuovo tutto: c'era il cielo e una strada da percorrere,
c'era un mucchio di gente come in un formicaio, e le bestemmie dei
marinai; c'era il mare, ed era alle nostre spalle, non c'era un
orizzonte infinito, ed era giusto, perché nemmeno la vita è così.
Sarebbe potuto essere benissimo ancora
il porto di Messina, e quella settimana solo un doloroso incubo.
Avrei voluto ridere, le strinsi la mano
come se non fossimo nei guai e corressimo solo per fuggire la
pioggia.
*
Sul ponte c'era di nuovo il marinaio
con la faccia da bracco, fumava la sua sigaretta osservando
disinteressato l'acqua verde del porto.
Quando ci vide, ci guardò sorpreso
mentre correvamo via, per poi voltarsi incredulo verso la porta da
cui eravamo saltati fuori, la paglietta in bilico sul labbro
inferiore.
Tuttavia non si scompose più di tanto.
Un altro uomo stava salendo la
passerella, fu di riflessi più pronti dell'altro e allungò un
braccio per acciuffarci. Non so come lo schivammo, né come lo
seminammo – dove trovammo le forze -, poiché per un certo tratto
ci inseguì urlandoci dietro qualcosa che non capii.
Ci inoltrammo nei meandri del Pireo,
portandoci sempre più nelle viscere della città.
La corale della vita era un ingorgo di
persone e puzzava di pesce. Ve lo giuro, fu magnifico.
Il mondo fu meraviglioso quel giorno.
Durante la corsa non capivo le parole
della gente, ma diedi la colpa al viaggio. Tenevo Blanca per la mano,
la trascinavo dietro senza pietà.
Cercavo di guadagnare distanza, cercavo
l'ossigeno e la vita che si spianava davanti a noi, in un bagno di
folla, quando fui convinto che fossimo abbastanza lontani dai moli,
virai in un vicolo.
Una sete tremenda mi serrò la gola, ma
avevo fiducia nelle poche monete che ancora avevo in tasca dalla
mattina della nostra partenza.
Ero una gioia disperata, stremato come
un uccello migratore.
Fu Blanca a riportarmi con orrore alla
realtà, guardandomi con occhi sgranati: “Aspetta, Manigoldo, ma
dove siamo finiti?”
Decisi che non aveva importanza e lo
comunicai a Blanca, che mi guardò con disgusto.
“Ora voglio solo trovare dell'acqua”,
mi giustificai.
“Spiegami come la troviamo, l'acqua.
Se non abbiamo i soldi per pagarla, e non sappiamo nemmeno come
chiederla.”
“Offri sempre e solo problemi, tu.
Mai soluzioni.”, non ero veramente arrabbiato, ma non sapevo cosa
dire e, dopo una settimana, non avevo voglia di stare zitto.
“Devo ricordarti chi sia la causa di
tutti i problemi?”, Blanca si tormentava una pellicina sul dito e
mi guardava dritto negli occhi. Lei non aveva voglia di
chiacchierare, il suo colorito sembrava quello di un cadavere di tre
giorni.
“Rob, è Rob la causa.”, giustificai alzando le
spalle, e chiusi lì.
Non mi rispose, capii che le sarebbe
piaciuto se avessi avuto ragione.
In quel momento mi venne da ridere, mi
sentii leggero.
Eravamo saltati fuori da un macello per
finire in un macello straniero.
Un balzo qua e uno là, pensai,
come fanno i gatti.
Pensai che i gatti, troppi crucci, non
se ne fanno, non vedevo perché dovessimo farcene noi; che i gatti,
buttando giù la sedia, inventavano la pedana per slanciarsi dritti
sul tavolo.
“Alla peggio si muore”, dissi.
Lei non capì.
*
Era con la testa altrove, persa nelle
sue ansie e in quello che si era lasciata indietro.
Quel giorno conobbi la differenza tra
me e lei: stava tutta attaccata al passato, per questo voleva tornare
in Spagna. Più indietro scappava, a costo di finire in un tempo che
non era nemmeno suo, meglio era.
Io volevo vivere e, in ogni caso, non
avrei potuto rintanarmi da nessuna parte.
Non avevo un posto in cui tornare –
c'erano solo le macerie di un villaggio e uno scantinato da cui
avevo già deciso di andare via –, né possedevo abbastanza ricordi
per rimpiangere qualcosa.
La mia Spagna non esisteva.
Una sera d'estate ero partito da quelle
case sventrate, mi ero incamminato verso Messina, ed ero
sopravvissuto anche lì.
Avevo vissuto una settimana in una
stiva mangiando topi e bevendo vino ed ero arrivato in una nuova
terra.
Semplicemente, il mio viaggio era
ricominciato: era solo più difficile, ma così sarebbe stato per
tutta la vita e andava bene.
Ero forte, e dovevo uscirne vivo.
Afferrai Blanca per la spalla e la
strattonai con violenza, facendole urtare lievemente un muro con la
testa.
“Adesso prendiamo le palle e le
portiamo al porto. Troviamo qualcuno che parli la nostra lingua e ci
spieghi dove siamo. E troviamo il modo di tornare indietro.”
Mi guardò con diffidenza, alzando
leggermente il mento. Sembrava un animale minaccioso.
“Tu vuoi tornare a Messina?”, la
incalzai.
Dovette cedere: “Voglio tornare
indietro.”, mi rispose, non senza una punta di astio.
“E allora andiamo!”, la liberai e
le diedi le spalle, incamminandomi verso il porto.
Andiamo, andiamo. Concedetemi una risata. Andiamo, andiamo.
*
I moli degli scali commerciali sono da
sempre delle piccole Babele in terra.
In un porto un uomo può trovare tutto
ciò che vuole: la propria libertà o uno schiavo, la ricchezza o una
taverna aperta, una moglie di ritorno da un viaggio o una prostituta.
Nei porti si esaudiscono i desideri
della gente, basta saper cercare.
Io giunsi al Pireo sognando di trovare
una nave per la Sicilia e una caraffa d'acqua. Non seppi mai se
avessi cercato male, espresso il desiderio sbagliato, o, e questa è
l'ipotesi in cui credo più fermamente, in realtà volessi
qualcos'altro.
Qualcos'altro mi sarebbe stato dato -la
vita, dopotutto, aveva già esaudito tutti i miei desideri.