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Autore: Sheep01    06/10/2015    2 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 28

 

“Errando col pensiero per l'Universo, vidi il poco che è Buono procedere con moto costante verso l'immortalità, e il vasto tutto che è Male correre a fondersi, perdersi, dileguare.”

(Walt Whitman) 

 

*

 

Il professor Selvig era sempre stato un grande estimatore dei sigari.

Quelli buoni, cubani, in foglie, dal sapore forte e deciso.

Amava definirli la sua sofisticata droga settimanale. Alla fine di una giornata particolarmente intensa, fra le quattro mura del suo appartamento a Manhattan, si concedeva un’intensa serata in compagnia del fidato amico Montecristo e un bicchiere di whisky, quello buono. Irlandese, non quella dozzinale merda americana.

Ma da quando era iniziata quella fastidiosa epidemia, sigari e whisky erano diventati un lusso che non era più riuscito a concedersi. Nemmeno per celebrare la fortuna di un giorno in più concessogli su quella terra dimenticata da Dio.

Per quel motivo, quando aveva trovato delle piantine dall’aria piuttosto famigliare sul retro della fattoria, si era animato di una certa letizia nel constatare che forse non sarebbe riuscito a farsi un Habanos come si deve, ma se fosse riuscito a nasconderle da occhi indiscreti e metterne da parte una certa dose, gli sarebbero tornate utili in futuro.

E quel giorno pensò che fosse esattamente dell’umore adatto per utilizzare quella sua scorta personale.

Era dagli anni settanta che non fumava marijuana.

 “Che stai facendo zio?”

La voce della nipote lo fece trasalire appena. Le dita strette attorno a una cartina che non ne voleva sapere di chiudersi come si deve, le stanche membra a riposo sulla panchina del porticato della fattoria.

“Qualcosa per rilassarmi.”

Sorrise all’idea che solo qualche mese prima probabilmente sarebbe inorridito nel farsi sorprendere dalla nipote, che praticamente aveva cresciuto come un padre, a rollarsi un glorioso spinello.

“Dimmi che non stai tentando di fumarti della cicoria.”

“Per chi mi hai preso, Jane? Sono figlio del sessantotto. Delle rivolte studentesche, della protesta contro la guerra in Vietnam…”

“Dei pantaloni a zampa d’elefante e di Woodstock?” lo avvicinò, divertita da tutti quei cliché, prima di sederglisi di fianco, “di certo non un esperto di sigarette fatte in casa.”

Gli sottrasse lo spinello dalle mani e lo osservò con una certa curiosità.

“Dove hai trovato delle foglie di marijuana?” si sorprese, lanciandogli uno sguardo assurdo.

“Sul retro della fattoria. Prima dell’uragano. Ho pensato di spostare le piantine, prima che qualcuno come Stark potesse trovarle e diventare ancora più eccentrico di quanto già non sia.”

“Che uomo egoista…” disse solo, vedendola armeggiare con la cartina con mani esperte, fino a restituire una sorta di dignità a quella che adesso sì, che si poteva definire canna.

Gliela mise sotto al naso a sbandierargli in faccia che no, non era una figlia del sessantotto ma qualcosa doveva averla imparata anche lei, durante gli anni dell’università.

Si rese conto solo in quel momento che Jane aveva l’espressione tesa di chi non dorme da giorni. In effetti non c’era altro che potessero fare se non tormentarsi per le sorti del gruppo in spedizione ad Atlanta.

Erano partiti da ore e, per quello che gli era dato sapere, potevano essere già tutti morti. Nessuna esplosione aveva riempito l’aria, nessun segnale, nessun messaggero di ritorno dalla missione.

Odiava dover fare la parte del pessimista, ma le speranze si erano rivelate flebili nel momento in cui si erano avviati verso la città degli zombie. Più probabile che trovassero una cura al virus che trasformava gli esseri umani in Ganasce entro sera, che non vederli rientrare in tempo per cena.

Questo però si premurò di non comunicarlo a Jane, che non aveva fatto altro che sospirare per tutto il tempo, con lo sguardo rivolto alla strada che costeggiava la fattoria.

A pensare a quel Thor… Thor, come il dio del tuono di cui aveva sentito raccontare fino alla nausea  a causa dei suoi natali svedesi. Che si era portato dietro niente meno che un fardello di nome Loki.

Il dio dell’inganno, il quale si era proprio impegnato per non smentire la sua fama.

“Vedrai che tornerà.” Si sentì in dovere di dirle, di rassicurarla, mentre prendeva la prima consistente boccata di fumo. Tossì un paio di volte a quel sapore forte e deciso. Non quello di un cubano, ma abbastanza violento da non lasciar scampo a quei suoi vecchi polmoni. Decise di passare il testimone.

La vide stringersi nelle spalle e raccogliere l’offerta dello spinello già acceso che desiderava solo di essere fumato.

“L’avresti mai detto che sarei finita a sospirare sulla veranda di una fattoria, desiderando il ritorno di un uomo?”

“Bè, prima di fissarti con la scienza avevi una buona collezione di romanzi della Austen.”

“La Austen celebrava donne forti e indipendenti.”

“Che finivano più o meno tutte con l’ingabbiarsi in un matrimonio.”

“Per scelta, per amore, non per obbligo o convenienza.”

“Dovrei rileggermene qualcuno…”

“Invece di fumarti le canne.” Gliela ripassò però, sicura che non avrebbe rifiutato.

“Allora non è così disonorevole aspettare che ritorni”, constatò guardandola, “di questi tempi… aspettare il ritorno di qualcuno è un lusso ben più prezioso di un sigaro cubano.”

Le sorrise e sebbene l’apprensione non si fosse ancora estinta dagli occhi della nipote fu certo di vederle brillare qualcosa di positivo nello sguardo.

Decise che annebbiare un po’ la mente avrebbe fatto bene a entrambi. Dimenticarsi degli studi sulle Ganasce, delle condizioni precarie della povera Virginia al piano di sopra, della spedizione suicida della squadra, dell’impossibilità di essere d’aiuto sul campo, dell’idea che la razza umana non sarebbe sopravvissuta per vedere un altro Halloween, giorno del Ringraziamento, Natale, Capodanno.

Prese un’altra boccata, felice di non dover sputare i polmoni questa volta.

“Zio, questa roba finirà con l’ucciderci.” Sentì sbottare la nipote, rilassandosi sulla panca.

“Se non lo faranno prima le Ganasce…”

Risero entrambi, sentendo che il fumo benefico di quell’innocente intrattenimento cominciava a fare lentamente effetto.

Una sonnolenza pacifica cominciò a pervaderlo nel momento stesso in cui un grosso polverone si sollevava sulla statale che affiancava i campi di grano antistanti la fattoria.

“Che diavolo è?” esclamò Jane che sembrava reagire decisamente meglio all’effetto della droga.

Cercò di rimettersi seduto per bene, di recuperare una sorta di dignità, prima che un numero indefinito di camionette si riversasse sulla strada polverosa della fattoria e poi nel cortile, disperdendo i pochi volatili rimasti nel circondario.

“Sono tornati?” esalò rimettendosi faticosamente in piedi, mentre Bess e gli altri ospiti della fattoria accorrevano per sbirciare che stava succedendo.

Nessuno degli uomini che stavano lentamente affollando lo spazio, però, sembrava assomigliare anche solo vagamente ai loro amici partiti in martirio verso Atlanta. Armati fino ai denti, come un esercito di Rambo moderni.

E la donna che stava venendo verso di loro a passo deciso a tutto sembrava assomigliare fuorché a Sif, Maria o alla giovane Natasha.

A uno sguardo più attento gli sembrò di riconoscerle cucita addosso l’uniforme dell’esercito americano.

“Per tutte le regine d’Inghilterra…”

Esclamò.

La donna si fermò a pochi passi da loro, guardando i dintorni con una certa curiosità.

“Finalmente vi abbiamo trovati. Non eravamo sicuri che il segnale arrivasse da queste parti. Tenente Margaret Carter”, gli allungò una mano, “piacere di conoscervi.”

Erik Selvig fu più che convinto che conservare le droghe per quel giorno fosse stata la decisione più saggia che avesse mai preso in vita sua.

 

*

 

Stark era pesante.

Ma non più del macigno che gli gravava sullo stomaco.

I corridoi per uscire da quella trappola di cristallo sembravano essere infiniti. Come se il tempo si fosse dilatato in uno spazio in continua espansione.

La bambina non aveva mai smesso di piangere e, per quanto fastidiosi fossero quegli strilli, si sentì di non rimproverarle quel rumoroso segnale di protesta. Se ne avesse avuto la forza o anche solo l’irrazionalità per farlo, si sarebbe anch’egli messo a urlare.

Frustrazione, rabbia, preoccupazione.

Natasha era alle prese con una bomba che avrebbe potuto polverizzarla per sempre e lui stava scappando per impedire di venirne investito.

Aveva perso Barney. L’idea di poter perdere anche lei non la trovava concepibile, possibile. Per quanto ancora avrebbe dovuto continuare quel perverso gioco di probabilità?

Vediamo quante persone Clint Barton riesce a sotterrare, prima di arrivare lui stesso alla fossa!

E tanto per dirne una, anche Stark, ignaro di aver affidato a lui gli ultimi spasmi di vita, gli stava sfuggendo dalle mani. Non era sicuro che la pezzuola, già intrisa di sangue, che gli aveva legato attorno al collo sarebbe stata sufficiente a non farlo morire dissanguato.

Un’altra tacca alla sua classifica di morte.

Quando arrivarono all’uscita, si resero conto che la porta era sbarrata con una dozzinale catena. Maria scaricò un paio di colpi alla serratura prima di riuscire a incrinarla.

Clint completò l’opera con un paio di calci ben assestati.

La stanchezza, lo stress non sembrarono aiutarlo in quell'ultima impresa: attinse a quell’ultima spinta di adrenalina, prima che finisse per perdere per sempre la voglia di fare un altro passo.

Il grido della Hill – ormai fuori, all’aria aperta – ebbe il potere di mettergli di nuovo le ali ai piedi.

La donna era stata improvvisamente circondata. Quello che nessuno si era preoccupato di ricordar loro, quando avevano messo a punto quell’improbabile piano, era che il raggruppare così tante Ganasce tutte assieme avrebbe limitato di molto le loro possibilità di fuga.

Avrebbero potuto trovarsi braccati: fatto.
Circondati: fatto.

Intrappolati: fatto.

Nessuna alternativa avrebbe regalato loro una medaglia al valore. Al massimo un viaggio per direttissima nello stomaco di qualche Ganascia o, al peggio, un soggiorno di puro piacere nel mondo di Ganasciolandia. Cervelli ebeti e mascelle cadenti.

“Dannato Stark, quanto cazzo pesi!” esclamò, decidendo di optare per una semplice pistola per liberare Maria da quell’impiccio – impossibilitata a farlo da sola per via di quell’esserino urlante che non aveva pianto a quel modo nemmeno quando era stata silurata fuori dall’utero di sua madre.

Un ricordo ancora piuttosto vivido nella sua memoria.

Ne fece fuori un paio, poi un quintetto e poi ancora un trio, ma le Ganasce sembravano moltiplicarsi ad ogni passo che compivano per avvicinarsi alla macchina e più si avvicinavano, più Erin urlava. E più Erin urlava, più le Ganasce sembravano… vacillare.

Si rese conto solo dopo averne abbattute ancora un paio che, di fatto, sembravano come incuriosite dal pianto della bambina più che attratte dalla sua carne tenera di poppante.

Abbassò l’arma solo quando si rese conto che li avevano circondati, ma nessuna Ganascia azzardava un solo attacco.

“Che diavolo significa adesso questa roba?” si trovò a chiedere, trovando risposta solo nello sguardo altrettanto confuso di Maria.

“Con tutte le cose assurde che stanno succedendo in questi giorni… direi che questa… è quella che mi fa più piacere osservare…” la sentì dire, mentre arretrava e raggiungeva la macchina.

Ne aprì la portiera, indecisa se caricare la bambina o aspettare che fossero saliti tutti in macchina, prima di liberare le Ganasce da quel grido inibitore.

Clint si affrettò a raggiungerla, senza perdere di vista i mostri puzzolenti, ma ben felice di constatare che era vero: nessuno di loro sembrava più improvvisamente interessato a far loro del male.

“Sarà opera di Loki… ? Un altro dei suoi scherzetti?”

“Loki mi sembrava piuttosto impegnato a impedire alle Ganasce di entrare nell’edificio. Sembra… sembra che sia Erin… l’autrice di questa nuova stronzata.”

“S-sempre questo l-linguaggio.” Clint per poco non si lasciò sfuggire Stark dalle braccia quando lo sentì parlare.

“Grandissimo figlio di puttana.” Esalò mentre un moto di insensata gioia gli restituì un sorriso.

“E non o-offendere mia madre…” lo caricò sul sedile posteriore della macchina, cercando di sorreggerlo fino all’ultimo.

“Se hai ancora la forza di parlare non devi stare poi così male, no?”

“P-provaci tu… ad avere una pallottola… in g… g… g…”

“Gatto?” rispose, sollevandogli le gambe e controllando che la benda legata alla gola tenesse ancora.

“Ganascia.” Si intromise Maria, salendo sul sedile del passeggero con in braccio la bambina.

“No, per me voleva dire: Guantone. Spiacente Stark, credo che al momento sia più utile a Natasha che a noi.”

Richiuse la porta e rimase ad osservare il trio in macchina, le Ganasce ancora vacillanti tutt’intorno, in un pazzesco girotondo di marciume.

E, improvvisamente rianimato dalla speranza di aver rivisto quel fortunato bastardo di Stark ancora vivo dopo essersi beccato una pallottola dritta in gola, ebbe chiaro e nitido l’obiettivo che doveva portare a termine.

“Che stai facendo Barton? Monta in macchina.” Disse Maria, sporgendosi dal finestrino, con l’aria di chi non vede l’ora di levare le tende. A un passo dalla salvezza.

“Siamo venuti qui per una missione di recupero.”

“Sì, ma adesso che cosa c’entra?”

“Recuperare due persone per rimettere insieme il gruppo, non per permettere che venisse fatto a pezzi, un membro alla volta.”

“Barton, ancora non capisco che cavolo vuoi dire…”

“Vado a riprendere Natasha.”

“I laboratori saranno già affollati di Ganasce, come pensi di raggiungerla?”

“Nello stesso modo in cui penso di portarla fuori da lì.” Strinse istintivamente a sé l’arco e la faretra.

“Non basteranno le frecce che hai con te.”

“Chi ha detto di voler usare arco e frecce?”

Il grido di Banner, nei parcheggi dalla parte opposta della struttura, sfondavano il suono dell’allarme che non aveva ancora smesso di distruggere loro i timpani. E gli venne in aiuto per suggerire a Maria quello che aveva intenzione di fare.

“Se pensi di poter chiedere un passaggio a Banner…”

“Ci è riuscita Natasha, quanto difficile potrà mai essere?”

“Con tutto il rispetto, Barton…”

Le fece cenno di tacergli il resto: “Ti preferivo quando mi aiutavi a insultare Barney.”

La vide scuotere la testa, rassegnata.

“Immagino di non avere motivazioni sufficientemente buone per impedirti di farlo?”

Clint scosse la testa, la mente già nella stanza del blocco C, le mani in quelle di Natasha, la sua voce che lo insultava per non aver rispettato la promessa.

“Riportala indietro”, la sentì cedere allora, lo sguardo carico di accalorato sostegno “e cerca di tornare tutto intero. Ho paura ci sia ancora bisogno di almeno un Barton, a questo mondo.”

“Ne sei proprio sicura?”

La vide esitare solo per un istante: “Dimostralo.”

La vide cambiare di sedile, assicurare la bambina alla cintura di sicurezza e lanciargli un ultimo sguardo, prima di mettere in moto.

“Muovi il culo, Barton!” gli disse, prima di far partire la macchina, lontano da quel luogo carico di morte.

E… a proposito di morti…

“Ah, merda…” le Ganasce avevano ripreso a muoversi nella sua direzione, adesso libere dall’influenza di Erin.

Arco e frecce alla mano, Clint Barton cominciò a farsi strada fra quella folla di denti marci e budella al vento. A seguire la direzione del grido folle del gigante di giada alle prese con il lancio delle Ganasce.

 

*

 

“Non sono proprio sicuro… di essere sicuro, di vedere quello che sicuramente sto osservando”.

Fury ci mise un istante di troppo a capire quello che Sam stava dicendo.

Il cervello ormai era diventata una poltiglia liquida a furia di visioni e atmosfere da sogno.

Dopo aver ritrovato Betty e aver individuato Loki o la bambina, dopo essersi accertato che le visioni lo conducessero esattamente ai laboratori di Atlanta, era certo di aver esaurito tutte le sue energie per portare a termine l’operazione.

Però niente lo aveva preparato alla processione di Ganasce che sembravano scortare il carro armato in quella direzione e poi a ritrovarle tutte insieme, assiepate ai parcheggi dei laboratori scientifici come uno sciame d’api attratte dal miele… o peggio… a un ritrovo di fricchettoni durante il festival di Coachella.

Non di meno, a vederle volare una dopo l’altra all’interno della struttura dopo il lancio gentilmente offerto dal gigante verde che gridava e si dimenava al centro del piazzale.

“Ehi, quelli erano sicuramente cento punti!” di nuovo Sam, che sembrava aver trovato un candido intrattenimento a quello che avrebbe potuto essere considerato il peggior incubo di un essere umano…

“Stark e gli altri non rispondono alla ricetrasmittente.” Se non altro qualcuno come il capitano Rogers sembrava non aver perso di vista l’obiettivo, “sceriffo è sicuro che la figlia di Betty sia ai laboratori?”

Gli rivolse uno sguardo esausto. Esaurito, gli sarebbe piaciuto definirlo. Ma esausto rendeva comunque l’idea.

“Dopo questa, non sono più sicuro di niente, Rogers…” esalò, lanciando uno sguardo alla donna che dormiva lì accanto.

“Se tutto è andato come previsto… quel posto farà boom mooooooolto presto.” Aggiunse Sam, rientrando dal portellone, “che cosa vogliamo fare?”

L’impazienza nel suo tono non aiutava certo a mettere le basi per una fredda e calcolata pianificazione.

Cercò di pensare, Fury, di capire cosa fare, di arrivare a una soluzione grazie a coincidenze astrali del tutto fuori controllo; ma tutto quello che ottenne fu solo la percezione ben più concreta del suo mal di testa e quello che improvvisamente gli sembrò risuonare nel cervello come lo strombettio di un clacson.

“Credevo che le strade fossero affollate solo di Ganasce che non riescono più a capire quale sia l’utilità del pollice opponibile.” Commentò Sam, tornando a fare capolino fuori dal carro armato.

La sensazione successiva fu quella di ricevere una sberla a mano aperta sul viso.

“Erin…” pronunciarono le labbra di Betty, ancora incosciente al suo fianco.

Immediatamente dopo seguì il pianto di un bambino.

L'impressione fu quella di una doccia ghiacciata che gli attraversava tutto il corpo, a scivolargli giù per il collo, sulla schiena, nello stomaco.

“Ehi, qui fuori c’è la Hill che sta cercando di farmi capire quanto mi ami! Il suo dito medio alzato che vorrà dire?”

“Sono loro?” domandò Rogers al posto suo, mentre gli occhi dello Sceriffo lo seguivano, lo vedevano prender iniziativa e seguire il collega Wilson fuori da quella trappola di metallo e ruggine.

Improvvisamente, una sensazione di puro stordimento si impossessò di lui. Il cervello, ormai liquefatto da ore di opprimenti visioni e pensieri tutt’altro che positivi, cominciò a rilassarsi.

L'emicrania divenne solo un flebile ricordo e una sorta di serena pacificazione sembrò cominciargli a scivolare dentro come un balsamo atteso da settimane.

Non ricordò esattamente l’ultima cosa che udì, prima di chiudere il suo unico occhio sano, ma il pianto della piccola riempì l’abitacolo e allora seppe di aver portato a termine il suo ultimo importante compito su quella terra.

 

*

 

Era sicura di aver già avvertito quella sensazione.

Da bambina.

Durante una lezione di equitazione: era caduta da cavallo e si era incrinata due costole.

Niente intervento per lei. Solo un busto che la teneva saldamente immobile e la raccomandazione di  assoluto riposo.

Non si era mai annoiata tanto in vita sua. Però il dolore che aveva provato le ricordava ogni minuto che sarebbe stato meglio per lei non muoversi e lasciare che la guarigione facesse il suo lento corso.

Però adesso non c’era tempo di guarire. In quel particolare momento – nonostante le ossa incrinate del costato e probabilmente più ematomi di quanti ne avesse mai sperimentati cadendo dalla sua motocicletta – non c’era tempo per pensare al dolore o a come fare ad evitarlo.

Per assurdo quegli spasmi erano riusciti a ridarle lucidità. A mantenerla slegata dall’influenza malefica di Loki, a tenerla focalizzata sull’obiettivo.

Sif adesso sapeva dove trovarlo.

Quello che sicuramente Loki non aveva preventivato, nel momento in cui aveva usato il suo sangue per applicarle il suo sortilegio da medioevo, era che il legame non era certo univoco, ma avrebbe permesso anche a lei di avere una certa influenza su di lui. E sulle Ganasce, che sembravano non prestarle attenzione adesso che avanzava in mezzo alla folla che scorreva verso i laboratori.

Non fece caso al gigante verde che stava lanciando Ganasce a manciate, verso la loro ultima meta, non fece caso all’allarme che ora sembrava risuonare stanco ed esaurito nei dintorni – ma solo all’obiettivo. All’idea che fermare Loki, al momento, avesse la priorità su qualsiasi altra cosa.

Non era sempre stato quello lo scopo che si era prefissata sin dall’inizio?

Non era forse sempre stato suo il compito di tenerlo d’occhio? Gli insuccessi dei passati tentativi sembravano convergere nella spinta finale a portare a termine il compito che – ne era sicura – le era stato affidato dall’inizio di quella stupida storia. La sensazione che ogni uomo si muovesse come una pedina su una scacchiera, con un ruolo ben preciso.

Per quel motivo non volle frenare la collera che cominciò a montarle addosso non appena si rese conto che una massa informe di Ganasce si stavano tenacemente affannando attorno a una testa bionda, in prossimità del parco in cui l’istinto l’aveva appena condotta.

Alzò la pistola e cominciò a far fuoco, ad atterrarle una dopo l’altra, mentre Thor riemergeva da quell’ammasso di mostri, sventolando un martello di dimensioni un po’ fuori dalla norma.

“Sif!” lo sentì gridare, se di stupore o terrore non seppe dirlo. Non si sarebbe sorpresa di avergli suscitato del sincero ribrezzo. Non sapeva affatto come Banner l'avesse conciata – e a ragione – dopo aver tentato di usare la sua bambina come ostaggio.

Se mai ne avesse avuta la possibilità, gli avrebbe chiesto scusa. Avrebbe chiesto scusa a tutti.

A Thor per averlo accusato di aver dimenticato troppo in fretta tutti gli amici persi per strada, a Jane per aver peccato di gelosia nei suoi confronti, a Natasha per non essere riuscita a seguire la sua raccomandazione a non premere il grilletto su un altro essere umano.

Però adesso la priorità seguiva altri sentieri.

E Loki se ne stava lì, inerme e spento come una di quelle Ganasce dalle quali si era sempre preoccupata di fuggire.

A mantenere chissà che diavolo di contatto mentale, a ordinare a quei mostri distruttori di demolire tutto ciò che erano riusciti a ricostruire dalle macerie di un mondo al limite dell'estinzione.

Non glielo avrebbe permesso. Non glielo avrebbe concesso.

Spinta dall'odio che aveva provato nei suoi confronti il giorno stesso in cui era inciampato nel loro percorso, sulla loro strada, gli si avventò addosso.

Gli fu sopra ancora prima che questi potesse anche solo realizzare cosa stesse succedendo. Lo colpì con tutta la forza che le era rimasta in corpo: sul viso, nello stomaco.

Lo vide puntarle addosso il suo sguardo vitreo e assillante.

Non sarebbe crollata di nuovo nelle sue spire. Non si sarebbe lasciata vincere dalla sua oscura attrazione.

Chiuse semplicemente gli occhi e prese a colpirlo più forte, finché non avvertì le ossa scricchiolare in modo sinistro sotto il colpo delle sue nocche.

Una, due, tre volte. Le dita che scivolavano sul viscidume del sangue. I palmi che stringevano la carne maciullata del suo viso.

Sentì gridare Thor da qualche parte, ma ormai era crollata in un vortice dal quale non avrebbe facilmente fatto ritorno.

Smise di colpirlo solo quando fu certa che Loki aveva smesso di dimenarsi. Non lo sentiva respirare, ma si rese conto, in un attimo di insperata lucidità di essere ormai libera dal suo oscuro potere.

Loki non aveva più potere su di lei.

Loki non aveva più potere sulle Ganasce.

Riaprì gli occhi fissando quel macello di carne e sangue sotto di lei, faticando a riconoscere in quelle fattezze l'uomo che avevano salvato una sera di qualche mese prima su una buia strada del Maine. Adesso più che mai somigliante a una di quelle Ganasce che aveva sempre preteso di controllare.

Aveva chiuso il cerchio. Portato a termine il suo unico compito. Si sentì libera.

Quando cercò di rimettersi in piedi, la guardia ormai abbassata, non si rese conto di aver attirato l'attenzione di troppi di quei mostri.

Non ebbe la forza di recuperare la sua pistola per proteggersi. Non di impedire alla prima Ganascia di affondare i suoi denti nella carne della sua spalla. Né alla seconda di avventarsi sul suo fianco scoperto.

Gridò forse, non seppe dirlo.

Quando si rese conto che Thor era accorso in suo aiuto era ormai troppo tardi.

Finì fra le sue braccia un'ultima volta, mentre l'uomo invocava il suo nome.

Avrebbe voluto dirgli tante cose, ottenere la sua approvazione. Una parola di conforto, ma non le venne in mente niente di troppo lucido per un commiato.

E allora si concentrò sui ricordi.

La prima volta che lo aveva visto, il giorno in cui lo aveva conosciuto. In cui aveva conosciuto tutta la sua famiglia.

Ormai era sicura che giorni felici come quelli non sarebbero tornati mai più.

Comprese che, dopotutto, morire fra le braccia di un fratello non era la fine peggiore che potesse capitarle.

 

*

 

Erano anni che non aveva a che fare con una bomba.

Quelli che si era sempre limitata a maneggiare erano ordigni piuttosto artigianali e si rallegrò del fatto che Stark non avesse avuto modo di dedicarci più tempo.

Per quanto raffazzonato sembrasse, quel dispositivo era in ogni caso ben più complicato di quanto si sarebbe attesa.

Il display sembrava impazzito. Non un countdown ma una serie di numeri in continua mutazione su una schermata illuminata a festa.

Si chiese se ci sarebbe stato davvero modo di fermarla o quantomeno sperare di poterla sistemare per assicurare a Stark – o a chi aveva preso in consegna il telecomando – di azionarle.

Secondo i piani di Stark tutto era stato predisposto affinché l’esplosione di tutte e tre gli ordigni avesse assicurato un botto in grado di disintegrare completamente i laboratori scientifici di Atlanta.

Il fallimento di uno dei tre e, probabilmente, non avrebbero sortito l’effetto desiderato.

Per quello si era offerta. Per quello aveva deciso di dedicare le sue ultime energie a quella causa apparentemente suicida.

Perché sì, Banner si era preoccupato di dare una mano a raggruppare le Ganasce, e la piazza, così come le era dato di scorgere, sembrava essersi praticamente svuotata.

Il rumore di migliaia di mascelle sfondava persino il lamento di quell’unico allarme ancora attivato; le sentiva talmente vicine che poteva quasi percepirne il tocco sulla pelle.

Non avrebbe avuto modo di uscire da quella trappola a meno che non si fosse decisa a saltare giù da una delle finestre. O sfidare la sorte, provando ad attraversare i corridoi che conducevano a una delle altre uscite, con la caviglia ormai talmente gonfia da impedirle di appoggiare il piede con agilità, forte del guantone di Stark.

Ma la porta sbarrata della sala già tremava sotto la spinta di chissà quante Ganasce e, anche se le sarebbe piaciuto sperarlo, nessun Superman armato di mantello sarebbe venuto a soccorrerla dal cielo.

Mosse le mani più rapidamente, cercando di rimettere a posto tutti i fili che Sif sembrava aver compromesso.

Solo dopo qualche istante le riabbassò. La realizzazione che qualcosa di ben peggiore di un’imminente esplosione era appena accaduto.

Il meccanismo che avrebbe permesso il comando a distanza era stato definitivamente manomesso, distrutto. Non c’era alcun modo, per quello che le era dato sapere, di attivare la bomba se non manualmente. Affidandosi assolutamente al caso, senza avere alcuna possibilità di sapere quanto tempo avrebbe avuto per mettersi in salvo.

Le sembrò che per un istante il mondo divenisse buio, che la stanza si svuotasse di tutto l’ossigeno rimasto.

Sarebbe morta lì. Quel giorno. Probabilmente nella prossima mezz’ora.
Comprese che in fondo lo aveva sempre saputo. Dal momento in cui aveva preso la decisione di prendersi carico della responsabilità. Non capiva perché improvvisamente lo trovasse così scioccante, insopportabile.

Rialzò gli occhi sul display che adesso sembrava essersi fermato sulla sequenza, 1, 2, 1, 3, in loop.

Si prese tutto il tempo per rimettersi in sesto, per ricordarsi come si faceva a respirare e ricordare per quale motivo era sempre stata la migliore, nella sua vita passata. Era una donna fredda, calcolatrice. O così l’avevano convinta che fosse.

Sarebbe morta e dunque che importava? Tutti erano destinati a morire prima o poi.

Peccato che fosse un motto che avrebbe potuto sposarsi con il suo pensiero di una vita fa, quando non aveva niente da perdere, quando non c’era nessuno ad aspettarla.

Ma erano cambiate tante, troppe cose.

Proprio in un mondo che aveva perso la sua umanità, che l’aveva sparpagliata in giro come polvere nel vento, lei aveva ritrovato la sua.

Pensò a Clint. Senza soffermarsi null’altro che sulle piccole cose che avevano condiviso in quegli ultimi giorni. Nessun pensiero profondo, solo i gesti quotidiani carichi di silenzio ed estrema bellezza.

Si colmò di quella sensazione per racimolare le forze necessarie per compiere quell’ultimo gesto.

Alzò la ricetrasmittente e avviò la comunicazione.

“Maria? Mi senti?”

L’apparecchio gracchiò un solo istante prima che la voce della donna si facesse viva dall’altra parte.

“Natasha? Va tutto bene, dove sei?”

Socchiuse gli occhi, non del tutto sicura di sapere come rispondere a quella domanda. Se rivelarle o meno quello che aveva intenzione di fare.

Decise di tirare la leva, di innescare l'ordigno.

“Facciamo esplodere i laboratori.” Disse solo, prima che la comunicazione venisse definitivamente interrotta. Un fruscio maledetto a scandire le sue ultime battute.

Chiuse gli occhi e lasciò andare la ricetrasmittente, aggrappandosi alla bomba come sperando di contenerne la deflagrazione o esserne investita a una potenza tale da non essere in grado di sentire lo strappo.

 

Pochi minuti più tardi un’esplosione colossale illuminò il cielo serale di quella calda giornata d’inizio settembre.

 

___

 

Note:

E siamo finalmente giunti alle battute finali. E il cliffhanger era quasi d’obbligo.

Il prossimo sarà l’ultimo capitolo e potremo dire addio a tutti i protagonisti della storia (tanti, troppi, mai più scriverò una storia con così tanti personaggi! Fino a prossimo ordine).

Come sempre ringrazio fedeli lettori e non, recensori e non, e la socia e beta Sere, come sempre perché senza le vicendevoli letture sarebbe tutto molto meno divertente.

Dunque alla prossima… e ultima volta! Almeno per questa storia!

  
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