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Autore: Black Mariah    07/10/2015    3 recensioni
-Michael è un ragazzo dell'alta borghesia di New York, erede di uno dei più ricchi banchieri d'America. Sarah lavora in un supermercato per pagarsi i materiali per i suoi dipinti e aspira a diventare un'artista. Perfetti sconosciuti, conducono stili di vita diversi, vivono in contesti sociali diversi, ma c'è qualcosa che li accomuna: un letto di ospedale.
Il destino ha deciso di farli incontrare in un momento sbagliato: non possono parlarsi, non possono toccarsi, non possono vedersi.
Sarah passa il tempo facendo volontariato al General Hospital di NY e si troverà inaspettatamente a provare dei sentimenti per quell'estraneo in coma: Michael.-
Dal primo capitolo:
"I suoi tratti somatici erano dolci, molto belli e delicati per un ragazzo. Aveva i capelli castano chiaro tendente al biondo e il mento ricoperto da una leggera barba dello stesso colore. Il suo viso in svariati punti era segnato da escoriazioni, mentre le braccia nude, presentavano fasciature, lividi e tagli.
Se non si fosse trovata in quella situazione, e se non ci fossero stati quegli evidenti segnali di incedente, avrebbe scommesso che il ragazzo stesse dormendo beatamente"
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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22 ottobre 2013

Amanda Trisher era appena scesa dal grande Suv nero, e si stava accingendo con molta grazia a varcare le porte mobili del New York General Hospital.
Ogni passo che faceva, suscitava la curiosità di ogni individuo presente nella grande sala di smistamento dell’ospedale e probabilmente anche l’invidia di tutte le donne e inservienti che in quel momento stavano lavorando.
Che la moglie di uno dei più grandi bancari d’America fosse bellissima e di gran classe era risaputo ormai, e Amanda aveva quasi così fatto l’abitudine a tutte quelle occhiate di ammirazione e anche di sdegno, che non ci faceva più caso.
Frettolosa scese le scale della hall e si ritrovò di fronte la sala degli ascensori. Spinse il pulsante che la portava nella terapia intensiva e si mise silenziosa ad aspettare. Le porte dell’ascensore si aprirono e la donna si ritrovò davanti il bancone della sala di accettazione e due inservienti che stavano svolgendo il loro lavoro. Senza battere ciglio, Amanda andò spedita verso la stanza di suo figlio, lasciando dietro di sé solo una forte scia di profumo.
Più si avvicinava alla camera, più si sentiva spaventata, vuota, ferita.
Quelle settimane avevano messo a dura prova la sua tempra in qualità di madre, e tra tutti i pensieri che le offuscavano la mente, uno su tutti si faceva spazio soffocando gli altri e aumentando il suo senso di colpa.
Abbassò lentamente la maniglia della porta, quasi come volesse fare il minimo rumore possibile per non svegliare suo figlio, ma sapeva che era inutile.
La prima cosa che percepì fu l’acre odore dei disinfettanti e il suono metallico dell’elettrocardiogramma attaccato al cuore di Michael.
Procedette lentamente e lasciò il cappotto marrone assieme alla borsa in pelle avana su una poltroncina e si avvicinò al letto del figlio.
Il rumore dei tacchi rimbombava nella stanza bianca e asettica del ragazzo e contribuiva ad aumentare quella sensazione di profonda angoscia che Amanda stava provando in quel momento. Si sedette composta, così come le avevano da sempre insegnato, con la schiena dritta e le gambe accavallate sulla scomoda poltroncina posta di fronte al letto, e con molta grazia, avvolse le mani attorno al ginocchio.
Alzò lentamente lo sguardo e finalmente incontrò il profilo di Michael: una sensazione di malessere le pervase lo stomaco, creandole addirittura fatica nel respirare.
Era insopportabile da guardare: suo figlio, il suo ragazzo, costretto lì in quel letto, immobile, inerme, attaccato a tutti quei tubicini, fili e flebo varie che quasi lo rendevano irriconoscibile.
Il petto di Michael si alzava e si abbassava lentamente, andando a ritmo dell’elettrocardiogramma, le braccia erano distese e correvano lungo i fianchi, mentre le gambe erano coperte da una coperta più spessa avana, che prendeva quasi mezza superfice del letto.
Amanda chiuse gli occhi lentamente, permettendo ad un’unica sola lacrima di scendere e di rigarle il viso.
Da quando Michael era in coma sembrava che tutto si fosse fermato, catapultandola in una realtà che scorreva immobile attorno a lei.
Ripensava continuamente a quel momento funesto, alla telefonata che i paramedici fecero a casa per avvisare i Trisher dell’incidente, a come lei aveva delegato la sua donna delle pulizie a rispondere perché non le andava di lasciare la sua scrivania, e di come la donna l’avesse avvisata.
Fece un sospiro distogliendo lo sguardo dal corpo inerme del ragazzo. Anche in quella tragica e assurda circostanza non riusciva a lasciarsi andare, non riusciva a prendere la mano di Michael e ad accarezzargliela come tutte le mamme fanno con i loro figli in difficoltà, come tutte le mamme fanno quando si trovano al cospetto del figlio in un letto di ospedale.
Aveva imparato a reprimere così bene tutto l’affetto che provava per i suoi figli, che alla fine aveva iniziato anche a smettere di provarlo. Non che non volesse bene a lui e a Martha, ma dal giorno esatto in cui li aveva messi alla luce, era consapevole del fatto che non le sarebbero mai appartenuti del tutto.
La situazione con Martha era stata più gestibile: era vero, lei era la figlia primogenita, la prima donna Trisher della quarta nuova generazione della tanto brillante famiglia, ma, se così si può definire, aveva avuto la fortuna di nascere donna.
La ragazza fin dalla nascita era sempre stata oggetto di attenzioni e pressioni: attenzioni per trasmetterle un’educazione consona al cognome che portava e pressioni per ogni cosa, per il futuro, per l’università, per l’impiego da scegliere e per chi frequentare.
L’infanzia e l’adolescenza di Martha erano state difficili, ma erano nulla rapportati a ciò che Michael era stato costretto a sopportare.
Lui era l’erede maschio, benché secondogenito, del più grande dei fratelli Trisher: il primo figlio diretto del secondo Michael Trisher dell’albero genealogico. Il destino del piccolo Michael era segnato già da prima che lui nascesse, dal momento esatto in cui in quella stanza di una clinica medica privata di New York, Amanda e Miles seppero il sesso del bambino.
Ricordava ancora la sensazione di felicità che provò quando il medico comunicò a lei e a suo marito che il bambino era in ottima salute, che cresceva bene, e che la gravidanza non sarebbe stata a rischio, ma ricordava anche lo stato di angoscia in cui precipitò quando il primario disse –Abbiamo un altro erede Trisher. E’ un maschietto-
Miles era felicissimo, un altro Trisher in famiglia da plasmare ad immagine e somiglianza di tutti gli altri, mentre ad Amanda venne quasi un mancamento.
All’epoca era una ragazza giovane, ancora speranzosa sulla vita e sulla sua carriera, piena di aspettative e felicità, e non era entrata del tutto nel diabolico mondo dell’alta borghesia di New York.
-Sai che lo chiameremo Michael- le disse Miles nel viaggio di ritorno.
Questa frase le sembrò più un ordine che una gentile richiesta. Amanda guardò sconsolata fuori dal finestrino: aveva già accettato di chiamare sua figlia grande come la nonna paterna e aveva sempre sperato nel suo piccolo, di poter chiamare il secondogenito, maschio o femmina che fosse, come uno dei suoi genitori. Avrebbe voluto chiamare il piccolo come il suo di padre, perso per sempre qualche anno prima, prima delle nozze organizzate in fretta e furia dalla famiglia di Miles a causa del suo stato “interessante”.
-Sì- fu tutto quello che riuscì a dire continuando a guardare fuori dal finestrino.
Da quel momento in poi iniziò a relazionarsi con il bambino in maniera diversa: capì che non sarebbe stato mai suo, non sarebbe stato mai libero come gli altri ragazzi, e semplicemente, per non soffrire, per non deludere le aspettative, iniziò a comportarsi come tutti i membri della famiglia Trisher.
Era quello lo sbaglio più grande che aveva fatto e che l’angosciava come non mai: abbandonare Michael al suo destino già scritto, già prescelto da una famiglia che non le sarebbe mai appartenuta.
Se ne rendeva conto solo allora e malediceva se stessa per quel mancato tempismo. Era per quel motivo che in tutti quegli anni non era riuscita mai ad abbracciare suo figlio il giorno del suo compleanno, a dargli il bacio della buona notte prima di rimboccargli le coperte e a dargli consigli sulle ragazze, sulla scuola o sul suo futuro quando Michael era diventato ormai un piccolo uomo.
La donna alzò nuovamente lo sguardo e si soffermò nuovamente sulla sagoma del ragazzo. Le escoriazioni sul viso si erano quasi rimarginate, qualche altro giorno e sarebbero svanite, lasciando spazio ai bellissimi lineamenti del ragazzo. Si alzò e si sporse di più contro di lui.
Guardandolo sperò con tutta se stessa che il ragazzo aprisse gli occhi, o che facesse qualche movimento con la mano prima di risvegliarsi, ma i minuti passavano e Michael era sempre lì, immobile e con gli occhi chiusi e tutto ciò che riusciva a fare era alzare e abbassare il petto.
Nello stesso attimo in cui Amanda prese coscienza di ciò, le lacrime ritornarono a solcarle il viso e lei repentina cercò di asciugarsele per evitare che le sbavassero il trucco.
Improvvisamente l’aria nella stanza le risultò pesante e sentì il bisogno di andarsene, di scappare da quella stanza in cui le sembrava che i ricordi e il senso di colpa la stessero schiacciando.
Guardò Michael un’altra volta e quasi con timore, allungò una mano portandola sopra quella del ragazzo.
Da quando non gli stringeva la mano?
-Mi dispiace- riuscì a dire in maniera soffocata, prendendo in fretta e furia le sue cose e uscendo dalla stanza.

**

23 ottobre 2013


Sarah appese l’uniforme arancione con le scritte blu elettrico nel suo armadietto, prese il borsone con dentro le sue cose, e chiuse a chiave l’anta dello stipetto. Aveva appena finito il turno giornaliero al supermarket vicino casa e aveva solo intenzione di tornare nel suo appartamentino all’angolo della strada e farsi una bella doccia calda per rilassarsi.
Uscì salutando il proprietario e le altre ragazze e prese la traversa a destra. Guardò lo schermo del cellulare e controllò l’orario per organizzare il da farsi del pomeriggio. Erano le quattro in punto: quel giorno aveva fatto il turno continuato dalla mattina perché un’altra ragazza si era ammalata, e dalle otto quando aveva iniziato, aveva finito solo allora, senza nemmeno una pausa pranzo.
Fece mente locale su dove si trovava e quanto tempo aveva nel pomeriggio per ultimare alcuni servizi e decise di passare a ritirare le tele che aveva ordinato per i suoi quadri la settimana prima.
Arrivò alla punta della strada e poi proseguendo per una decina di minuti, si ritrovò di fronte il piccolo negozio da cui era solita rifornirsi. Fortunatamente le tele erano arrivate e già che si trovava, colse l’occasione per comprare dei nuovi colori ad olio caratterizzati da sfumature perlate visti qualche tempo prima sul sito del rivenditore. Pagò soddisfatta e salutando allegramente tornò a casa a lasciare il bottino della giornata.
Aprì la porta del suo appartamento e vi sgattaiolò, chiudendosela subito alle spalle. Lasciò a terra le tele e ripose sul ripiano delle tempere e degli acrilici i colori ad olio, si guardò attorno e notò quanto disordine ci fosse in quella stanza.
Quello non era un vero e proprio appartamento, era più un bilocale con bagno compreso. Se n’era innamorata dal primo momento in cui il proprietario gliel’aveva mostrato e da allora aveva fatto di tutto per cercare di poterselo mantenere, in attesa del suo tanto sperato posto di lavoro in qualche galleria d’arte, o in qualche studio di fotografia.
Il letto, ricavato all’interno dell’insenatura del muro su cui si trovava la grande finestra principale, era disfatto dalla mattina, sul divano al centro della stanza, di fronte la piccola televisione appoggiata su un’altra parete, vi erano vestiti, libri e cuscini accatastati, la cucina era piena di pentole e piatti usati nei giorni precedenti, e l’angolo che lei riservava ai suoi disegni e alle due fotografie era un totale disastro, pieno di quadri lasciati ad asciugare, fotografie appese nell’attesa di essere incorniciate, e qualche pennello gettato qua e là sul telo bianco usato per coprire il pavimento per evitare che si macchiasse.
-Mmm…bel casino- disse fra sé e sé quando diede un’occhiata generale alla situazione.
In quel momento le andava di fare tutto fuorché aggiustare il suo appartamento, perciò decise di ammazzare il tempo diversamente, uscendo e stando all’aria aperta.
Si sciacquò velocemente, dandosi solo una sistemata ai capelli, prese una mela dal frigorifero, unico pasto della giornata tralasciando la colazione, e si chinò sul divano a prendere la borsa.
Mentre si piegava notò, appoggiato sulla libreria, un quadro molto piccolo che fece tempo addietro in un pomeriggio libero. Lo prese e lo infilò in borsa: l’avrebbe portato a Michael e l’avrebbe appeso accanto all’orchidea.
Si era detta che non c’era nulla di male in fondo ad andarlo a trovare sistematicamente, e nemmeno a portargli un pensierino quando capitava: per come la vedeva lei quel ragazzo era già abbastanza solo, quindi dal momento che lei aveva la possibilità di andare a fargli visita, non ci trovava nulla di male, almeno fino a quando nessuno si sarebbe lamentato.
Contenta infilò il giubbotto, prese le chiavi e scese in strada, diretta all’ospedale.
Era passata una settimana dal loro primo incontro, e Sarah era andata almeno quattro volte a trovarlo nella sua stanza d’ospedale.
Tina le aveva detto che un pomeriggio gli aveva fatto visita anche un amico, ma che poi nessuno si era più accostato alla sua stanza: né famigliari né amici. Tutta quella situazione le sembrava alquanto strana. Si chiedeva in continuazione come facesse un’intera famiglia ad ignorare un suo componente in quelle condizioni, e la cosa che la sconvolgeva maggiormente era proprio il comportamento della madre e del padre che a stento andavano a trovarlo.
Era particolarmente turbata da quella cosa, sia perché credeva che Michael, per quanto giovane e ingenuo potesse essere nella vita reale, non avrebbe potuto essere una cattiva persona, e sia perché era inimmaginabile che un ragazzo di quel calibro non avesse amicizie o non fosse amato dai suoi parenti. Se quella situazione la turbava in generale, tutta quella faccenda stava diventando deleterea per lei stessa. Non faceva altro che pensare a lui, a come potesse essere davvero, a come potesse essere da sveglio. Non pensava altro alle cose che avrebbe preferito fare o alle cose lasciate in sospeso prima dell’incidente.
Il tragitto in metro da casa sua al New York General Hospital passò subito e in men che non si dica si ritrovò catapultata nella terapia intensiva.
Le porte dell’ascensore si aprirono e lei iniziò a percorrere il lungo corridoio di fronte. Passò dall’accettazione e salutò Tuck, che quel giorno faceva evidentemente il turno del pomeriggio, e dopo aver chiesto se Michael avesse ricevuto visite in quel momento, si diresse verso la sua stanza.
Si sentiva emozionata e felice di rivederlo anche quel giorno e benchè lui non potesse interagire con lei in nessun modo, Sarah si sforzava di essere il più naturale possibile e di trattarlo come un ragazzo vero, come un ragazzo vivo.
-Ciao Michael- esordì non appena entrò in stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Percepì improvvisamente del freddo e immediatamente si diresse verso di lui a rimboccargli le coperte.
-Fa freddissimo, come diavolo fai a stare qua dentro- gli fece guardandolo.
Nel momento in cui i suoi occhi incontrarono il corpo del ragazzo, quella familiare sensazione di angoscia che ormai la assaliva ogni volta che pensava a lui, la colpì di nuovo.
“Si rimetterà” pensò, scrutando la sua figura immobile sul lettino e facendo un sospiro, più di rassegnazione che di speranza. “Si rimetterà” penso di nuovo, quasi come se il fatto che lei continuasse a pensarlo, lo potesse far accadere davvero.
Si guardò un attimo attorno per cercare il telecomando del condizionatore della stanza e quando lo ebbe trovato, lo indirizzò verso il bocchettone dell’aria.
-Chi è quel genio che ha portato l’aria a venticinque gradi?- pensò ad alta voce, scoprendo che qualcuno prima di lei aveva regolato la temperatura dell’aria.
Tina le aveva detto più volte che la temperatura ottimale doveva essere tra i ventisei e i ventisette gradi e perciò fece di conseguenza. Nel frattempo che l’aria si riscaldava pensò bene di coprire meglio Michael con la coperta sul letto e premurosamente la distese e gliel’adagiò sopra, quel tanto che bastava per coprirgli le braccia nude e per non farlo sudare.
Con piacere notò che le fasciature attorno le braccia erano state tolte, lasciando scoperte le ferite, che si erano quasi rimarginate.
-Beh, hai visto, queste ferite sono quasi guarite, e i lividi si stanno riassorbendo. Stai andando alla grande- disse con voce tremante, prendendo di nuovo a guardare Michael con fare speranzoso ma malinconico.
Ogni volta che incontrava il suo viso aveva un sussulto e si sentiva quasi una brutta persona a pensare che quel ragazzo le risultasse bellissimo anche in quella circostanza: intubato e attaccato all’elettrocardiogramma.
Quando pensava razionalmente a quella situazione, davvero stentava a crederci. Stava andando a trovare in ospedale, quasi ogni giorno, uno sconosciuto, un ragazzo ricco e bello, che non aveva mai incontrato prima di allora e che probabilmente nelle circostanze reali non l’avrebbe mai notata, solo perché non riusciva a capacitarsi del fatto che fosse solo, abbandonato a se stesso e al suo stato comatoso.
Ogni tanto le piaceva pensare che Michael fosse davvero come se lo immaginava lei, e questo, secondo Sarah, era molto improbabile: se lo immaginava gentile, buono, ambizioso, altruista e perché no, magari anche bravo con le ragazze.
Probabilmente il vero Michael era invece l’opposto di quello, e non per sua volontà, ma a causa del contesto in cui era stato costretto a vivere per tutti quegli anni e probabilmente avrebbe trattato le ragazze come fanno tutti i bellocci come lui. Sospirò e si sedette comoda sulla poltroncina vicino il suo letto.
Come ormai faceva da qualche giorno, iniziò a parlargli descrivendogli la sua giornata, raccontandogli della telefonata ricevuta nel bel mezzo del turno dagli organizzatori del concorso fotografico a cui aveva partecipato e gli disse di come loro l’avessero gentilmente scartata.
-Chissà, magari verrò presa a qualcosa di più grosso- disse, rivolgendosi al ragazzo.
-In fondo non era nulla di che. Il tema erano i paesaggi urbani e forse non sono riuscita a trasmettere quello che volevo- continuò, quasi cercando di giustificare i selezionatori stessi.
-Ho presentato un catalogo di foto che ritraevano alcuni punti di New York a me cari. Le foto erano a colori, e ho scattato tre foto per ogni posto scelto, tutte dalla stessa angolazione, ma in parti della giornata diverse, in modo tale da evidenziare il contrasto e la differenza di luci ed ombre che si ha durante il giorno- terminò.
Aveva spiegato il suo lavoro come se lo stesse descrivendo ad un intenditore, esattamente come la settimana prima, quando gli aveva descritto una tecnica usata per alcuni suoi quadri.
-Anzi, giacché sono stata buttata fuori dal concorso e posso pubblicare le fotografie, se vuoi un giorno posso fartele vedere- disse quasi convinta. Solo qualche istante dopo si accorse dell’assurdità di quella frase.
Chiuse lentamente gli occhi, quasi a maledirsi per quello che aveva appena detto, e colpita da una nuova ondata di tristezza, guardò il ragazzo. Michael ovviamente era immobile e il suo unico movimento, impercettibile quasi, era il sollevarsi e l’abbassarsi del suo petto.
Sarah si fece più vicina e si protese verso di lui iniziando a scrutarlo meglio. Percorse con gli occhi il suo profilo, così delicato e continuo, le sue labbra, carnose e rosee perfettamente chiuse.
Anche le escoriazioni sul volto erano quasi guarite, e quando Sarah lo notò, incurvò le labbra in un leggero sorriso.
Sperava con tutta se stessa che Michael si riprendesse: avrebbe voluto sentire la sua voce e avrebbe voluto vedere di che colore avesse gli occhi. Probabilmente doveva avere gli occhi come quelli di sua madre e sua sorella, quindi di quel bellissimo azzurro che era riuscita a notare la prima e l’ultima volta che le ebbe viste.
Sospirò di nuovo. La verità era che lei non avrebbe mai visto davvero il colore degli occhi di Michael, né tantomeno avrebbe sentito la sua voce. Lei era una sconosciuta, e non faceva parte della vita di Michael e non ne avrebbe fatto parte nemmeno in un ipotetico futuro.
Se solo si fosse svegliato come avrebbe giustificato quella cosa? Come avrebbe giustificato le visite, i regali, le ore di discorsi che lei gli faceva, parlando della sua vita privata, dei suoi pensieri, delle sue aspirazioni? E se davvero gli avesse parlato, come si sarebbe presentata?
“Ciao io sono Sarah, la sconosciuta che è venuta a farti visita ogni giorno, così, solo per il piacere di farti compagnia e di farsi ascoltare da qualcuno” pensò.
Alzò gli occhi al cielo. Quello non era il momento di avere quei pensieri. Avrebbe pensato a quella cosa solo quando Michael si sarebbe svegliato e avrebbe dovuto motivare quei comportamenti, se mai ce ne sarebbe stato bisogno.


 
***
Ecco il terzo capitolo! Per prima cosa mi scuso se l'aggiornamento non è arrivato puntuale come avevo promesso la scorsa settimana,
ma purtroppo sto avendo dei problemi con l'html che non mi fa più inserire il testo di word nel server, quindi ho dovuto riuscire a trovare un escamotage per pubblicare e mi ha portato via del tempo.
Ringrazio tutte le ragazze che hanno recensito, è stato molto importante per me avere un vostro parere, soprattutto perchè avete apprezzato il modo in cui ho deciso di gestire il personaggio di Michael fino a quando non si sveglia.
Secondo me  è abbastanza originale e ci dà la possibilità di conoscerlo e di farci un'idea su di lui fin da subito, quindi ringrazio davvero tutti!
Ringrazio anche chi ha inserito la storia tra le preferite e le seguite! Siete davvero tantissimi! Anche se non vi nascondo che mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensiate a riguardo!
Ritornando al capitolo: come si può vedere è un capitolo un po' lento ed introspettivo che ha come principali protagonisti Sarah e la terribile (:P) Amanda.
E' un capitolo di passaggio che mi serve per introdurre tutta l'ambientazione del prossimo capitolo, che è il mio preferito fino ad ora perchè vede Michael come protagonista indiscusso della situazione.
Mi sono voluta soffermare sul rapporto complicato che Michael ed Amanda hanno tra di loro (che era stato già in parte accennato nel primo capitolo) e spero che dopo aver letto la sua storia -che si può immaginare anche senza andare nel dettaglio- le motivazioni del suo comportamento siano un po' più chiare.
Sarah invece è combattuta se portare avanti questa cosa delle visite e dei monologhi e tenta di cercare una motivazione logica e sensata al suo comportamento e all'attaccamento che sta iniziando a provare nei confronti di Michael!
Scusatemi il sermone finale, ma volevo dirvelo xD
Poichè giovedì prossimo ho un esame e le lezioni all'università sono ricominciate, Anestesia ritorna martedì, sempre più meno allo stesso orario. D'ora in avanti potrò pubblicare solo una volta a settimana, anche perchè vorrei riprendere altre storie che ho lasciato in sospeso.

xoxo
M.

 
   
 
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